Con la legge di stabilità abbiamo ottenuto alcuni risultati che vanno nella direzione di una maggiore equità sociale. Le correzioni apportate all’iniziale testo del governo sono state, nel complesso, significative. Anche per quanto riguarda il tema dei lavoratori rimasti senza reddito a seguito della riforma delle pensioni del ministro Fornero abbiamo com- piuto un passo avanti, anche se il problema non è stato definitivamente risolto.
L’enfasi posta inizialmente dai media sul carattere definitivo della soluzione ha creato molte aspettative che non potevano trovare riscontro nei margini di manovra ristretti consentiti da una legge di Stabilità subordinata all’invarianza dei saldi. Tuttavia, occorre valutare nella loro giusta dimensione i risultati raggiunti, che non erano scontati. In primo luogo è necessario sottolineare il fatto che i tre interventi di correzione alla riforma, finora realizzati, prevedono uno stanziamento di circa 10 miliardi di euro (l’ultimo di 554 milioni) per salvaguardare una platea di 130.000 lavoratori. Semmai stupiscono alcuni fatti: il primo, è che la Ragioneria di Stato abbia valutato in 13 miliardi e 750 milioni fino al 2019 il risparmio che è derivato dalla cancellazione delle quote di anzianità. Viene spontaneo un commento: se avessimo mantenuto la precedente gradualità nell’innalzamento dell’età pensionabile (elevando ad esempio a 100 la quota 97 della riforma del 2007), avremmo ottenuto gli stessi risultati sen- za provocare il dramma sociale che è sotto ai nostri occhi. Il secondo, è che il ministro del Lavoro ha ancora di recente dichiarato che : «…la prima cifra che mi è stata fornita (dei cosiddetti esodati) era oggettivamente errata… il numero non lo conosciamo neanche oggi…».
Nonostante questo la Ragioneria continua ad esercitarsi su platee non quantificabili per ammissione stessa del governo e a subordinare il riconoscimento delle coperture finanziarie a norme vincolanti e restrittive che acquistano il sapore dell’arbitrio. Quando con la proposta di legge 5103, che aveva l’obiettivo di risolvere il problema degli «esodati» e che aveva ottenuto il consenso unitario di tutti i partiti nella commissione Lavoro della Camera, avevamo proposto la copertura attraverso la tassazione dei giochi d’azzardo on line, il governo aveva risposto che quella soluzione non avrebbe fornito risorse. Ci ha fatto piacere sentire il sottosegretario Polillo, nei giorni scorsi alla commissione Bilancio, affermare esattamente il contrario. Così come non abbiamo compreso l’accanimento contro la copertura finanziaria che avevamo individuato per l’emendamento presentato dalla commissione Lavoro alla legge di Stabilità, quella relativa al contributo di solidarietà del 3% sulla parte eccedente i redditi da 150.000 euro annui. In questo caso siamo stati successivamente confortati dalle dichiarazioni del neo Presidente Obama. Parlare di far contribuire i ricchi ai sacrifici per poter uscire dalla crisi, oggi lo si può fare negli Stati Uniti, ma non in Italia. Questi esempi dimostrano le difficoltà con le quali siamo costretti a fare i conti. Facciamo notare che il primo emendamento dei relatori alla legge di Stabilità sul tema dei lavoratori da salvaguardare, stava per essere anch’esso giudicato inammissibile per mancanza di copertura: si è dovuta accettare la formulazione della Ragioneria, sicuramente più restrittiva, per avere la «bollinatura» del provvedimento che salvaguarda altre platee di lavoratori, 10.130 se- condo le stime.
Vorremmo a questo punto riepilogare sinteticamente i miglioramenti che abbiamo introdotto: vengono inclusi gli accordi di mobilità «non governativi» e compresa nella salvaguardia, oltre all’ordinaria, anche la mobilità in deroga; la data della stipula di questi accordi viene spostata dal 4 al 31 dicembre 2011; viene ampliata la platea dei lavoratori autorizzati alla prosecuzione volontaria entro il 4 dicembre 2011 e collocati in mobilità; viene ampliata la platea dei prosecutori volontari che abbiano almeno un contributo volontario accreditato entro il 4 dicembre 2011, anche se hanno svolto dopo quella stessa data una attività non riconducibile al lavoro a tempo indeterminato, nei limiti di 7.500 euro annui; viene ampliata la platea dei lavoratori che abbiano sottoscritto ac- cordi individuali o collettivi entro il 31 dicembre 2011, anche se hanno risolto il rapporto di lavoro entro il 30 giugno 2012; viene istituito un Fondo, di natura non assistenziale, per salvaguardare i lavoratori. Viene alimentato dai 100 milioni di euro già stanziati dal governo, dagli eventuali risparmi dei 9 miliardi precedentemente stanziati per i primi 120.000 lavoratori. Nel caso in cui detti risparmi non ci fossero o non fossero sufficienti, è prevista una clausola di raffreddamento per il 2014 della indicizzazione delle pensioni di fascia superiore a sei volte il minimo, fermo restando dall’inizio dello stesso anno il ripristino per tutti delle indicizzazioni sempre fino a sei volte il minimo (circa 3.000 euro lordi mensili). Per ottener questo risultato, non definitivo, abbiamo condotto una lunga e complicata battaglia, soprattutto a causa della scarsità delle risorse. Siamo consapevoli del fatto che molti lavoratori saranno ancora esclusi: ci sembra grave la cancellazione voluta dal governo della clausola che si riferiva ai lavoratori licenziati unilateralmente, così come avvertiamo il rischio di escludere lavoratori per problemi di date di decorrenza, che difficilmente possono cogliere le varie posizioni individuali. Siamo però convinti che la commissione Lavoro abbia compiuto tutto lo sforzo possibile in termini unitari. La battaglia deve continuare: si possono prevedere ulteriori correzioni al Senato e dovremo affrontare per via politica ed amministrativa argomenti ormai non più rinviabili come quelli di chi ha versato 15 anni di contributi entro il 31 dicembre del 1992 e delle ricongiunzioni onerose. Il Fondo che è stato costituito potrà essere alimentato negli anni successivi con nuove risorse: ci auguriamo che il prossimo governo completi l’opera di correzione che abbiamo intrapreso. I prossimi mesi saranno molto difficili da gestire: se al calo del Pil e all’ aumento della disoccupazione e della cassa integrazione si sommeranno i molti lavoratori che non potranno andare in pensione a causa di una riforma sbagliata, potremo dire di non avere una buona eredità da gestire ed una situazione sociale che richiederà risposte adeguate ed immediate.
L’Unità 20.11.12
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“Tesoreria unica, alle scuole costa oltre 25 milioni di euro”, di Alessandra Ricciardi
La Tesoreria unica? «Non penalizzerà le pubbliche amministrazioni». Ne era certo il ministro dei rapporti con il parlamento, Piero Giarda, che l’aveva introdotta nel primo decreto di Spending review per le pubbliche amministrazioni: obiettivo, ridurre l’impatto del debito pubblico grazie alla centralizzazione della liquidità di spettanza degli enti, sottratta alla parcellizzazione delle gestioni sui singoli conti corretti.
E la relazione tecnica aveva stimato anche di quanto: il beneficio per le casse dello stato è di 320 milioni di euro per il 2012, 150 milioni di euro a partire dal 2013 e 130 dal 2014. Peccato che né Giarda né altri avessero stimato l’effetto che l’estensione della misura alle scuole avrebbe prodotto in termini di maggiori costi. Già, perché le scuole devono, per continuare a movimentare i soldi (riscossione e pagamenti), essere comunque dotate di proprio conto corrente. E gli istituti bancari, non potendo più contare sulla giacenza della liquidità, si parla di oltre un miliardo di euro, hanno alzato le spese: un conto è arrivato a costare fino a 3 mila euro l’anno. Il che significa che alle scuole, 8.500, l’operazione di tesoreria unica costerà all’incirca 25,5 milioni di euro. La denuncia è dei sindacati di settore: Cgil, Cisl e Uil scuola, Snals-Confsal e Gilda, che hanno chiesto ai vertici del ministero un intervento per evitare che le scuole siano lasciate a loro stesse sul mercato. Dove è difficile spuntare buone condizioni visto che gli istituti si presentano singolarmente. Curioso, in tempi di spending review e dunque di ottimizzazione ed efficienza della spesa pubblica, a viale Trastevere nessuno ha pensato se non a gare di appalto, che richiederebbero tempi più lunghi di realizzazione, neanche a un protocollo d’intesa con l’Abi per fissare condizioni di maggior vantaggio per la tenuta dei cc.
A disporre il ritorno all’antico sistema della Tesoreria unica per le scuole è stato il decreto legge 95/2012: da novembre tutte le liquidità sono state trasferite a Palazzo Koch. A definire le procedure per il passaggio e per la successiva gestione, il dipartimento della Ragioneria generale dello stato con la circolare n. 32 del 31 ottobre 2012 (prot. n. 0088259): i finanziamenti statali, regionali e degli enti locali saranno addebitati su sottoconti infruttiferi così come i finanziamenti comunitari, i mutui e i prestiti con garanzia statale, mentre quelli senza garanzia e i contributi da privati e da gestioni economiche (convitti, aziende agrarie) dovranno essere versati nei sottoconti fruttiferi. Cambiano le procedure anche di pagamento, con in alcuni casi girofondi e non bonifici. Ma la di là del diverso sistema di accredito e pagamento, che le scuole lamentano comunque essere più laborioso, i conti correnti ora costano. Si legge nella lettera inviata dai sindacati a Luigi Fiorentino, capo di gabinetto del ministro Francesco Profumo: «Mentre con la Tesoreria unica si realizza l’obiettivo di risparmio per il bilancio dello stato, al contrario sulle scuole scarica un maggior onere di spesa in quanto la tenuta dei conti presso gli istituti cassieri non sarà più a titolo gratuito, come fino ad oggi avvenuto, ma oneroso.
A seguito dei bandi già attivati dalle scuole secondo le indicazioni contenute nel nuovo modello di convenzione di cassa, le banche o non hanno risposto o hanno presentato le loro offerte applicando i costi correnti che mediamente superano i 3000 euro annui.
Sono spese spesso insostenibili per le scuole, le quali per farvi fronte dovrebbero dare fondo al contributo statale per il funzionamento amministrativo e didattico che in media è di circa 8.000 euro su base annua». Al momento, nessuna risposta.
da ItaliaOggi 20.11.12
“Non si può sbagliare”, di Guglielmo Epifani
Il declino dell’Italia si riflette nel calo della produttività che ne è causa ma anche conseguenza. A partire dall’euro questa tendenza è andata via via consolidandosi, allargando sempre più le distanze tra noi e la Germania. La causa di fondo va trovata in un passaggio che non è mai stato valutato a pieno. Un Paese come il nostro, da decenni costruito attorno ad una moneta debole e perennemente svalutabile e svalutata come la lira, con l’ingresso nell’euro, una moneta fortissima, avrebbe dovuto cambiare in profondità la qualità dei propri prodotti, la capacità di innovazione e la dimensione degli investimenti, la composizione e l’efficacia della propria spesa pubblica, la composizione e le fonti del prelievo fiscale. Insieme avrebbe dovuto consolidare un sistema politico rinnovato ed un assetto istituzionale definito. Quando nel 2003 la Cgil avvertì i rischi che si profilavano senza i cambiamenti necessari e parlò del pericolo del declino del Paese, fu lasciata sola e le classi dirigenti preferirono seguire altre previsioni e altre illusioni. Il presidente di Confindustria del tempo spiegò che l’Italia stava vivendo una fase di turbosviluppo, e lo stesso termine venne usato dal ministro Tremonti. Entrambi scambiarono una realtà parziale, quella della filiera del made in Italy, con il tutto. E così facendo aprirono la strada non alle riforme necessarie, ma ad una logica di riduzione di diritti del lavoro e contenimento dei salari. La riscoperta del tema della produttività oggi è dunque la conferma della miopia con cui il Paese non volle capire quello che si andava profilando e che è stato poi aggravato dalla crisi dei mercati finanziari e dalla recessione. Proprio per questo non possiamo più sbagliare, considerando prioritaria sempre e soltanto la produttività del lavoro e mai la produttività dei fattori e quella di sistema, da cui fondamentalmente deriva la produttività reale di un Paese. Qui risiede il primo limite del confronto tra le parti sociali e anche la dubbia efficacia dei suoi esiti in materia di crescita della produttività. La scelta del governo di non aprire un tavolo sull’insieme dei fattori – dalle infrastrutture alla formazione, dalle politiche fiscali a quelle dell’innovazione – finisce per fare della produttività del lavoro il centro della questione, determinando due rischi evidenti: quello di non intervenire dove invece bisogna cambiare e quello di avere effetti non previsti e contraddittori con l’obiettivo. Se ad esempio la soluzione trovata in tema di salario dovesse determinare un abbassamento della massa salariale, tenendo conto di tutti i livelli contrattuali, l’effetto per tutti i settori della domanda di consumo sarebbe negativo, con le ricadute inevitabili sulla loro produttività. L’accordo porta a questa conseguenza di abbassamento delle retribuzioni. Non si prevede più un salario nazionale ed uno aziendale o territoriale. Il salario diventa uno solo, e tutto entro i limiti dell’adeguamento all’indice dei prezzi al consumo. Quello che si sposta in basso e parzialmente detassato si toglie dal tutto. I minimi salariali diventano mobili e diversi a seconda delle scelte aziendali. Nei fatti si rischia di non avere più minimi uguali per tutti, e quindi anche basi di calcolo per tutte le maggiorazioni esistenti. Quello che i meno guadagneranno per effetto della detassazione si accompagna ad una riduzione della copertura retributiva per tutti. I salari in Italia, già oggi tra i più bassi in Europa, sono destinati così a crescere ancora meno. L’incentivo al salario di produttività non viene da nuovo salario ma da salario derivato e detassato solo per una parte dei lavoratori. L’accordo prevede altri aspetti molto critici, come giustamente ha avvertito la Cgil. Demansionare l’aspetto lavorativo, ora per accordo poi per legge, apre troppi varchi per il valore del lavoro e la sua dignità. Durante la crisi questo problema trova sempre una sua soluzione nella contrattazione. Ma una norma generale oggi parla soprattutto ai lavoratori più maturi, di fronte all’allungamento dell’età pensionabile: per restare si devono dequalificare compiti e abbassare retribuzioni. L’Italia sceglie così un’idea tutta sua di seniority, e i lavoratori pagano tre volte. Perché si lavora di più, si lavora peggio, si avrà meno pensione. Infine l’intesa non risolve il problema della rappresentatività e democrazia sindacale. Il testo contiene il principio ma non vi è certezza della sua realizzazione. Il ritardo dell’attuazione dell’accordo del 28 giugno non si è determinato per caso, e ci sono troppe spinte a rimandare e dilazionare gli impegni. E quello che prima era indispensabile diventa obbligatorio quando si parla di contenuti contrattuali di questa delicatezza, e di settori e tipologie di azienda così vari e differenti. Le osservazioni della Cgil sono fondate, serie, responsabili e anche coerenti. Già tre anni fa un accordo separato provò a riformare il sistema contrattuale. Si parlò di accordo storico ma è stato nei fatti archiviato prima della sua verifica. Quando si affrontano problemi che riguardano la condizione del lavoro e dell’impresa è bene trovare un accordo largo. In caso contrario le cose si fanno più difficili e gli obiettivi si allontanano.
L’Unità 20.11.12
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“PRODUTTIVITÀ, LA PARTITA È APERTA”, di Laura Matteucci
La Uil ha firmato (ma con riserva), il governo ha convocato le parti sociali (tutte) per domani, e la Cgil ha chiarito una volta di più la sua posizione in una lettera firmata dalla segretaria Susanna Camusso, con cui spiega quali siano gli «elementi non condivisibili», mentre il confronto viene considerato «non esaurito, in particolare sul salario, sulla democrazia e sulle normative contrattuali», e «merita la prosecuzione». In zona Cesarini, sulla produttività si tratta e si tenta di ricucire lo strappo che potrebbe portare ad un accordo separato, Cgil da un lato, Cisl, Uil e associazioni datoriali dall’altro. «Il mio sogno è sempre quello di avere la firma di tutti dice il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi Ci abbiamo lavorato tanto, erano tutti d’accordo poi ci sono stati dei cambiamenti di idea, ma speriamo che alla fine prevalga il buon senso». Però: «Ci crediamo in questo accordo e andiamo avanti. Chi c’è c’è, chi non c’è non c’è», aggiunge. La Uil lega la propria presenza ad una clausola: «La portata di questa intesa si legge nella nota diffusa dalla segreteria dipende dalla decisione del governo di rendere strutturale la detassazione dei premi di produttività applicando un’imposta, sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali, al 10% sui redditi da lavoro dipendente fino a 40mila euro lordi annui». Si tratta, ancora una volta, della richiesta di soldi, che difficilmente il governo potrà soddisfare. Eppure, per il sindacato di Luigi Angeletti «solo a questa condizione l’accordo avrà un senso e sarà in grado di contribuire all’avvio della crescita della produttività e della competitività in Italia. Tali provvedimenti continua la nota sono considerati dalla segreteria della Uil indispensabili a rendere esigibile l’accordo stesso». Il più convinto resta il segretario Cisl Raffaele Bonanni, che ha firmato per primo e che, riferendosi alla Cgil, sostiene «tutti sono utili, ma nessuno è indispensabile», aggiungendo poi «spero si maturino intendimenti diversi».
PASSI AVANTI La Cgil, intanto, non chiude la porta alla trattativa, anche se il suo giudizio «resta negativo su alcune parti sostanziali del testo». Camusso rileva che nel corso del confronto ci sono stati «elementi d’avanzamento nella difesa della condizione delle persone e sottolinea proprio per questo il negoziato merita la prosecuzione». Ma il giudizio è negativo anche perché «la scelta del governo e delle controparti di considerare le condizioni di lavoro l’unica variabile della produttività su cui agire, ha fin dall’inizio segnato negativamente il negoziato, rendendo così la produttività da scelta strategica per lo sviluppo a riduzione del reddito dei lavoratori». Nel merito dei punti non condivisi, la lettera di Susanna Camusso si sofferma su aspetti come lo strumento del contratto nazionale per tutelare il potere di acquisto dei salari, sul tema «della democrazia e della rappresentanza» in piena applicazione dell’accordo del 28 giugno 2011, sulla «forte preoccupazione che vi sia la volontà di intervenire peggiorando le condizioni dei lavoratori» come sui temi del demansionamento, del controllo a distanza, degli istituti di bilateralità. La Cgil, con la lettera inviata venerdì scorso ai presidenti delle associazioni datoriali, «ha provato ad evidenziare le ragioni del dissenso, auspicando di poter proseguire il confronto ed evitando così di far precipitare la situazione in un accordo sindacale separato, che continuiamo anche oggi dice sempre Camusso a ritenere non sia positivo per nessuno». La decisione di inviare un testo conclusivo del negoziato viene ritenuta «un errore», e per quel che riguarda la Cgil «si ribadisce la volontà di proseguire tenacemente la ricerca e si sottolinea che tutte le materie lì indicate debbono tradursi in accordi nei singoli settori delle categorie. Ulteriore ragione per determinare regole democratiche, perché tutto ciò non infici i rinnovi contrattuali aperti e perché non si determini una nuova stagione di divisione». Sul tema interviene anche Cesare Damiano, capogruppo Pd in commissione Lavoro: «Bisogna scongiurare un accordo separato dice anche perché risulta molto difficile gestire gli accordi nelle aziende se non c’è il massimo di convergenza». Meglio «una pausa di riflessione per ricomporre un quadro unitario, piuttosto che ripercorrere la strada che nel passato ha dato pochi frutti: quella del “chi non c’è, non c’è».
L’Unità 20.11.12
“Un brutto copione e due domande”, di Michele Brambilla
Probabilmente non c’è italiano che non sia rimasto interdetto, ieri, nel seguire le notizie sul sequestro lampo ai danni del cassiere di fiducia di Silvio Berlusconi. Quello che si è scoperto, con un mese di ritardo, è un episodio di cronaca nera: ma lo scenario nel quale si sono svolti i fatti, e mossi i suoi interpreti, sembra da commedia, o peggio da farsa. Una via di mezzo tra «Romanzo criminale» e un film di Totò. L’ex premier entra in scena come parte lesa: ma forse il danno più rilevante che subisce non è il tentativo di estorsione, quanto la ricaduta d’immagine che gliene deriva.
Un fido ragioniere venuto alla ribalta per la puntualità con cui versa lo stipendio a ragazze chiamate «Olgettine». Sei balordi, tre italiani e tre albanesi, che vanno a casa sua con la pistola in pugno. Una chiavetta usb che conterrebbe le prove di un complotto del presidente della Camera e dei magistrati ai danni di Berlusconi e che nessuno riesce a collegare a un computer. Una richiesta di 35 milioni di euro; tre cassette di sicurezza, una Ferrari prenotata, una telefonata in cui si parla di otto milioni già in Svizzera e forse non è vero, ma è vero che il tutto viene denunciato con oltre un giorno di ritardo.
E infine un pranzo con il presidente del Consiglio Monti e un convegno europeo del Ppe che vengono rinviati, fatti saltare per stare dietro a tutta questa sporca e grottesca faccenda.
Credo non si sia mai visto un grande imprenditore e leader politico coinvolto in questo modo – sia pure, lo ripetiamo, come vittima – in una tragicommedia di così basso livello. Eppure i fatti e i personaggi sopra descritti fanno parte dell’inquietante mondo dell’ultimo Silvio Berlusconi. C’è ahimè un filo rosso, che poi è una medesima antropologia, che lega attori e comparse del «pasticciaccio brutto del ragionier Spinelli» con gli attori e le comparse di altri fatti di cronaca che hanno contrassegnato gli ultimi tre anni – quelli del declino – del Cavaliere. La festa a Casoria per la diciottenne Noemi; quel Tarantini di Bari e Patrizia D’Addario che a letto fa i filmini con il cellulare; i bunga bunga ad Arcore con Lele Mora e le sue ragazze; il compagno di un’Olgettina pescato con chili di cocaina; l’igienista dentale e la finta nipote di Mubarak; il caso Lavitola. E via di questo livello.
C’è chi dice che cattive frequentazioni Berlusconi le abbia sempre avute. Non sappiamo se è vero, e comunque prove in questo senso non ce ne sono. Sicuro è però che le amicizie del Berlusconi degli ultimi anni sono tali da suscitare due domande. La prima è: ma che bisogno ha, un uomo così ricco e potente, di frequentare certa gente per divertirsi? La seconda, decisiva: quale affidabilità può dare un leader politico che senza alcuno scrupolo, anzi con ostentazione, bazzica ambienti simili? Fino al punto da venire ricattato da balordi di quart’ordine?
Quando scoppiarono i vari casi Noemi, D’Addario, Ruby eccetera, il Cavaliere (allora premier) venne difeso da tutta una serie di intellettuali e giornalisti che gridarono al «moralismo». La parola d’ordine era: ciascuno a letto fa ciò che vuole, separiamo la politica dalla vita privata. Fu un modo abile e imbroglione per distogliere l’attenzione dal vero problema, che non è la moralità ma l’affidabilità: dell’uomo e soprattutto del politico. Se molti leader mondiali non vollero più avere a che fare con l’Italia, è perché non volevano più rapporti con Berlusconi. Il danno per il nostro Paese è stato quel che sappiamo, non fosse altro per il tempo perso.
Oggi Berlusconi appare come prigioniero di quella rete di rapporti e di interessi che ha intessuto da troppo tempo. Processi, casi Ruby e lodi Mondadori, tentativi di ricatto e tentativi di estorsione. Eppure, dopo un anno di panchina anzi di tribuna, sta meditando se tornare in campo. Non è neanche il caso di immaginare a quale film assisteremmo se dovesse decidere per il «sì».
La Stampa 20.11.12
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“Quel buco di 31ore prima della denuncia”, di PIERO COLAPRICO
Hanno condotto indagini segretissime sul sequestro lampo di uno degli uomini più legati da un rapporto di fiducia all’ex presidente del Consiglio. E si sono chiesti spesso: «Ma sarà così? O c’è sotto qualcosa che non sappiamo? ». SULL’AGGRESSIONE subita dal ragionier Giuseppe Spinelli e dalla moglie Anna agli investigatori qualche conto non torna. E anche se l’inchiesta coordinata da Ilda Boccassini s’è chiusa in un mese appena, e ha avuto successo, è stata fatta partire (va detto subito) con trentuno ore di ritardo. E con un fax, spedito dall’avvocato Niccolò Ghedini.
Perché i pubblici ministeri non sono stati informati subito della violenza subita dal ragioniere e sua moglie? E perché non l’ha fatto lo stesso Spinelli che ha invece scelto di correre in auto ad Arcore?
LA TALPA
Siamo nella notte di lunedì 15 ottobre, all’ottavo e ultimo piano abitato di un palazzo a Bresso, ai confini di Milano. L’appartamento consiste in uno studio, una lavanderia, una camera matrimoniale e l’ex camera della figlia, una sala, una cucina semi abitabile e due bagni. Ci abitano i coniugi Spinelli. Lei casalinga, lui il cassiere di Berlusconi, già delegato ai pagamenti a Ruby Rubacuori, a Nicole Minetti, alle «olgettine». È anche l’uomo che ritirava il denaro
in contanti, anche a colpi di 300mila euro, dalla banca di Milano2 per consegnarlo al datore di lavoro. L’assalto scatta proprio nel giorno in cui Spinelli abitualmente rincasa più tardi: perché vede a quattr’occhi «il Dottore», e cioè Berlusconi. Qualcuno dall’interno ha avvisato questa banda che forse da giugno «vuole» prendere Spinelli?
I LEGAMI CON I CLAN
Francesco Leone viene per ora ritenuto il capobanda, del mix di sei uomini, italiani e albanesi, catturati ieri. È sua la «mano affusolata, con le unghie ben curate» (testimonianza di Spinelli) che tocca un tappo di bottiglia. I poliziotti, dopo l’allarme tardivo, ne sequestrano ben cinquanta. Uno solo ha impronte non compatibili con quelle dei coniugi. Leone viene individuato, pedinato, intercettato. È un pugliese, rapinatore. È un “pentito”. Era legato al clan barese dei Parisi. E qui bisogna aprire una parentesi non sfuggita agli investigatori. Barbara Montereale è una ragazza invitata da Giampiero Tarantini, accusato di sfruttamento della prostituzione, nella casa romana di Berlusconi. Lei è molto amica del rampollo di mala Radames Parisi. In una telefonata, intercettata, parlano di «anelli, bracciali, collane» in regalo, e lei dice al boss: «Dobbiamo ritornare al palazzo Ducale, al palazzo Berlusconi, ci vuole rivedere».
C’è forse un nesso tra le storie di prostituzione sull’asse Bari-Roma- Villa Certosa e questo ex pentito che irrompe a casa Spinelli? Se li ha davvero, quali documenti può avere uno come Leone?
L’IRRUZIONE
Sinora esiste solo la versione di Spinelli e moglie. Questa: il capobanda Leone viene fatto entrare nella casa degli Spinelli alle 2 di notte e «mi ha fatto vedere — dice Spinelli, nel verbale d’interrogatorio — un foglio A4, un po’ ingiallito e sgualcito, e c’era scritto quanto segue: in alto Lodo Mondadori, De Benedetti», poi c’è scritto di «una cena di Fini con magistrati». Leone mette sul divano «una chiavetta e un dvd, dicendomi che in quei supporti informatici c’erano sette ore e 41 minuti di registrazione di cose — racconta sempre Spinelli — che avrebbero danneggiato De Benedetti sempre in relazione al lodo Mondadori».
Questi supporti funzionano? No, in nessuno degli apparecchi degli Spinelli. Ma se uno ha un materiale così importante, quale bisogno ha di entrare armi in pugno a casa di due anziani? E non si porta un pc, un tablet?
IL PRESUNTO DOSSIER
Due sono oggi gli elementi a confortare la polizia sulla soluzione totale del giallo. Durante gli arresti, è stata sequestrata una montagna di materiale informatico: dvd, chiavette, pc. Non viene aperto, bisogna fare le «copie legali », rendere cioè questo materiale utilizzabile con ogni garanzia. «Se c’è qualche cosa di concreto, si saprà», spiegano. E mercoledì cominciano gli interrogatori. Le possibili confessioni dei protagonisti non sono affatto escluse, anzi: «Non potremo non sapere com’è andata», affermano gli inquirenti.
Perché una domanda s’impone: che tipo di materiale pensavano di avere in mano questi banditi da permettersi di chiedere a Berlusconi ben 35 milioni di euro? O la loro era una millanteria? E a quale fine?
IL SETTIMO UOMO
Marito e moglie, dopo dodici lunghe ore di tensione, dopo le telefonate in viva voce a Berlusconi e Ghedini, dopo le tante menzogne che Spinelli deve dire («Ho visto il filmato, è autentico») alle 9 del mattino di martedì 16 vengono abbandonati a loro stessi. Senza nulla in mano, i rapitori mollano. Spinelli corre ad Arcore, parla con Berlusconi e con Ghedini, riferisce tutto e, quando torna a casa, suona il telefono: «Giuseppe, che hai deciso?», chiede una voce maschile. Lui dice che «in quei termini non era accettabile (…), che Berlusconi voleva vedere i filmati, fare una cosa poi trasparente». Il bandito, allora, «ha interrotto la telefonata con aria un po’ brusca».
Tutto qui? Cioè, un gruppo organizza un sequestro lampo, rischia, e quando emerge una difficoltà prevedibile chiude il telefono? Questa domanda si somma a un’altra: il capobanda barese a volte è andato in una stanza più appartata e secondo Spinelli «si consulta con qualcuno». Può esistere un mandante? E se c’è, a quale mondo appartiene?
I DUBBI SUL RISCATTO
A Ilda Boccassini e al sostituto Paolo Storari i poliziotti hanno riferito che, ancora nei giorni scorsi, alcuni uomini della gang hanno aperto due cassette di sicurezza in zona. Hanno avuto contatti con una banca svizzera per un’altra cassetta di sicurezza. E parlavano, nelle conversazioni intercettate, e poco comprensibili, di «otto milioni ». I pubblici ministeri, ipotizzando il pagamento del riscatto, hanno chiesto e ottenuto il blitz. Ma nelle varie cassette di sicurezza ieri sono state trovate solo banconote fac-simili. Di quelle usate spesso nelle truffe.
Dunque, torna ancora la domanda cruciale: che cosa volevano i banditi da Berlusconi? Cercavano, come altri, di sfruttare la vulnerabilità di un miliardario che già si è sobbarcato i pagamenti o le richieste di denaro dei Lavitola, Tarantini, delle 42 ragazze-testimoni del processo? E come mai, quando la mattina di martedì Berlusconi apprende che Spinelli e sua moglie sono stati aggrediti in casa, un politico di primo piano ed ex premier non sente la necessità di avvisare la polizia? Ha chiamato per Ruby da Parigi, non chiama per un’aggressione da Arcore? Perché?
La Repubblica 20.11.12
Scuola: Ghizzoni, Ministro Profumo in Commissione su inchiesta Report
“Ho chiesto di audire urgentemente il Ministro Profumo in Commissione Cultura per riferire su quanto emerso nel servizio andato in onda ieri sera durante la trasmissione Report. – lo dichiara Manuela Ghizzoni, presidente della commissione Cultura, Scienze e Istruzione della Camera dei Deputati – La decisione è stata presa con l’assenso della maggioranza dei Gruppi parlamentari. La Commissione – conclude Ghizzoni – non intende sostituirsi alla magistratura, ma è necessario che sia fatta chiarezza a favore della massima trasparenza amministrativa anche nella sede Parlamentare referente per il Miinistero dell’Istruzione.”
“Fondi alle ‘paritarie’? La bufala corre sul web”, di Giovanni Belfiori
Influencers, giornalisti e blogger volutamente ‘disattenti’ stanno scrivendo che il Pd avrebbe finanziato con 223 milioni le scuole private per i figli delle famiglie ricche. Eppure è vero il contrario: quei soldi non riguardano il percorso dell’obbligo scolastico, ma finanziano i Comuni per tenere aperti asili nido e scuole dell’infanzia. Questo che sto per raccontare è un esempio da manuale. In rete gira una notizia il cui senso può essere riassunto così: il Partito Democratico, in piena crisi economica e con le casse delle scuole vuote, finanzia le scuole private per i figli delle famiglie più ricche.
Provate a leggere questo testo: è uno dei tanti articoli, che ci hanno segnalato, pescati nel web:
Titolo: 223 milioni alle scuole private: l’emendamento del PD
Testo: “Scuole occupate, migliaia di studenti in corteo in tutt’Italia, docenti in mobilitazione. Il mondo della scuola è in movimento, chiede risorse, rilancio della propria funzione sociale e del proprio carattere pubblico, il consenso popolare attorno a queste misure è altissimo. Nonostante ciò il parlamento ha approvato nella notte un emendamento alla legge di stabilità che stanzia 223 milioni di euro per le scuole paritarie: una beffa, che va nella direzione opposta alle proteste di questi giorni.
Il governo aveva dato parere contrario all’emendamento, che è stato presentato dall’onorevole Simonetta Rubinato del Partito Democratico.
Entusiasta la parlamentare democratica ha dichiarato: “i relatori hanno accolto il mio suggerimento di far escludere questa somma dal patto di stabilità, trovando copertura nel fondo per la compensazione degli effetti finanziari, rendendola così effettivamente erogabile. E il governo è stato battuto. Una battaglia vinta a favore delle famiglie e in particolare della rete delle scuole paritarie che fa risparmiare allo Stato ogni anno, solo in Veneto, 500 milioni di euro”.
Nel frattempo a Roma continua l’occupazione dello studentato di via De Lollis, dato che nel Lazio come nel resto d’Italia mancano le risorse per le borse di studio e gli alloggi per chi ne ha bisogno”.
Chi legge, ha la conferma definitiva: il Pd finanzia le scuole private. Ma è vero? Come si manipola l’informazione in rete? A volte basta poco, perché se è vero che il web-journalism è democratico e permette a tutti di essere partecipi del dibattito, di condurre un giornalismo d’inchiesta a volte molto più ficcante del giornalismo professionista, è anche vero che la manipolazione e la falsificazione dell’informazione è molto più facile. Controlli inesistenti, verifica delle fonti inesistente, conoscenza della deontologia professionale inesistente, e al tempo stesso sicurezza di farla franca qualsiasi notizia falsa o diffamante si scriva.
Quel testo è un falso, perché omette consapevolmente di scrivere una frase che spiegherebbe tutto: “scuole 0-6 anni”. Eppure non scrive falsità, perché usa i giusti termini. Ad esempio scrive “scuole”, ma omette di spiegare che non sono le scuole 6-16 anni anni, ma scuole 0-6 anni. Scrive “paritarie”, ma omette di spiegare cosa si intenda per scuole paritarie. E alla fine l’informazione è fuorviante.
Infatti, il finanziamento votato non riguarda il percorso dell’obbligo scolastico, bensì gli asili nido 0-3 anni e le scuole dell’infanzia 3-6 anni. Perché per la legge italiana sono ‘scuole’ anche quelle e sono definite ‘paritarie’ tutte le scuole non statali, e quindi anche le scuole comunali; ma questo l’assai poco onesto articolista non lo scrive, non lo spiega, generando così il dubbio, anzi la certezza che quei soldi saranno destinati alle scuole private.
Invece, la realtà è che quel finanziamento consentirà ai Comuni italiani di tenere aperti servizi educativi indispensabili. Senza quell’emendamento, senza quella restituzioni di soldi agli enti locali, il 40% dei bambini dai 3 ai 6 anni il prossimo anno sarebbe rimasto a casa.
Spiega Francesca Puglisi, responsabile Scuola della segreteria nazionale PD:“La legge di parità è stata votata da tutto il centrosinistra di governo, dai Comunisti italiani all’Udeur. E’ stata emanata perché in precedenza i fondi alle scuole private venivano erogati senza alcun criterio preordinato.
Ora possono ricevere fondi dallo Stato solo le scuole che svolgono una funzione di pubblica utilità .
La gran parte di quei 223 milioni di euro (quasi il 90%) sono utilizzati dal sistema integrato delle scuole dell’infanzia, per garantire a tutti i bambini e le bambine di età compresa tra 3 e 6 anni un posto a scuola. Per la legge di parità, sono paritarie anche le scuole comunali dell’infanzia. Senza quei fondi, dopo i drammatici tagli ai bilanci degli enti locali, dovremmo chiudere le scuole dell’infanzia, lasciando a casa migliaia di bambini e bambine”.
Del resto basta aprire il sito di Simoetta Rubinato per accorgersi che nel testo giornalistico manca la cosa fondamentale: la spiegazione che quei soldi serviranno ai Comuni per tenere aperti asili e scuole materne.
“Nei giorni scorsi – spiega Simonetta Rubinato sul suo sito- avevo denunciato con forza in Commissione che per come era scritto il comma 17 dell’art. 8 le somme stanziate non erano utilizzabili mettendo a rischio la continuità del servizio pubblico erogato dalle scuole paritarie. Supportata dal parere del Servizio Studi della Camera e dal sostegno bipartisan dei colleghi che si sono uniti alla mia battaglia, avevo ottenuto l’impegno del sottosegretario Gianfranco Polillo a trovare una soluzione alternativa”.
Ma la soluzione prospettata nella notte dal Governo non ha convinto l’on. Rubinato: “Iscrivere i 223 milioni nel capitolo del Miur coprendoli con un ulteriore inasprimento del patto di stabilità alle Regioni, che già subiscono nel 2013 un taglio di 2 miliardi di euro, era inaccettabile. Per questo i relatori hanno accolto il mio suggerimento di far escludere questa somma dal Patto di stabilità delle Regioni, trovando copertura nel Fondo per la compensazione degli effetti finanziari, rendendola così effettivamente erogabile. E il Governo è stato battuto”.
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“Meno divieti per le coppie. La legge 40 riscritta dai giudici”, di Luigi Ripamonti
Giovedì scorso il tribunale di Cagliari ha disposto che una struttura pubblica assicurasse diagnosi preimpianto e analisi genetica a una coppia fertile che ne aveva fatto richiesta, perché portatrice di una malattia genetica trasmissibile.
Si tratta dell’ennesimo intervento di un tribunale sulla legge 40, che regola la procreazione medicalmente assistita in Italia. Proviamo a ripercorrere la storia delle sentenze (in tutto 19) e delle disposizioni più importanti successive alla promulgazione della legge. La legge 40 entra in vigore il 10 marzo 2004 e nel luglio 2004 vengono emanate le sue prime linee-guida.
Pochi mesi dopo Radicali Italiani e Associazione Luca Coscioni avviano una raccolta di firme per un referendum abrogativo totale, poi trasformato in quattro quesiti referendari, confluiti nella consultazione del giugno 2005, con esito negativo per mancato raggiungimento del quorum.
La prima sentenza che chiama in causa la legge 40 è del giugno 2004, e arriva proprio dal tribunale di Cagliari. Il giudice consente una «riduzione embrionaria» per possibili rischi, in caso di gravidanza plurima, per la donna che ne aveva fatto richiesta, nonostante la legge 40 prevedesse fossero sempre impiantati in utero tutti gli embrioni prodotti con la fecondazione assistita (comunque non più di 3).
Il tribunale di Cagliari, nel settembre 2007, interviene di nuovo, stavolta sulle linee-guida della legge 40, che prevedevano che l’unica indagine possibile sull’embrione fosse di tipo osservazionale, cioè senza biopsia sull’embrione. Il giudice «disapplica» le linee guida in quanto atto di rango inferiore rispetto alla legge, e permette la diagnosi preimpianto come richiesta, rifacendosi al fatto che la legge 40 prevede che la coppia possa chiedere di conoscere lo stato di salute dell’embrione (articolo 14, comma 5) e che possano essere effettuate indagini diagnostiche senza finalità eugenetica.
La decisione del tribunale di Cagliari viene seguita da una analoga del tribunale di Firenze e nel gennaio 2008 il Tar del Lazio annulla la parte delle linee guida che prevedeva come unica indagine quella osservazionale (cioè senza biopsia). In recepimento a questa decisione del Tar del Lazio vengono emanate, sempre nel 2008, nuove linee-guida, a firma del ministro Livia Turco.
In via incidentale, il Tar del Lazio, con la medesima sentenza, solleva anche una questione di legittimità costituzionale della legge 40 nella parte in cui prevede il limite di fecondazione con tre ovociti e l’obbligo di contemporaneo impianto degli embrioni prodotti per contrasto con gli articoli 3 e 32 della Costituzione. Questo incidente di costituzionalità, seguito da altri due, sollevati dal tribunale di Firenze, porta la legge 40 davanti alla Corte Costituzionale, la quale, il 1° aprile 2009, la dichiara incostituzionale nelle parti in questione, cancellando il limite dei tre ovociti e l’obbligo di unico e contemporaneo impianto in utero di tutti gli embrioni prodotti.
La sentenza è anche «additiva» e «interpretativa» della legge 40, perché i giudici, consapevoli che si potranno creare più embrioni rispetto a quelli che verranno impiantati, di fatto, sanciscono la possibilità che gli embrioni in sovrannumero possano essere crioconservati.
Mentre i tribunali avevano solo stabilito la liceità della diagnosi preimpianto per le coppie che avevano fatto ricorso, con l’intervento della Corte Costituzionale la diagnosi preimpianto è diventata possibile in tutte le strutture abilitate alla procreazione medicalmente assistita.
Sulla diagnosi preimpianto insistono poi nuove sentenze (Bologna nel 2009 e Salerno nel 2010), aprendone la possibilità anche alla coppie fertili. Infatti la legge 40 esclude dalla fecondazione assistita le coppie fertili, anche se portatrici di difetti genetici trasmissibili. I giudici, in sostanza, decidono di equiparare la diagnosi preimpianto alla diagnosi prenatale, anticipando di fatto, la diagnosi che sarebbe stata eventualmente eseguita durante la gravidanza (con amniocentesi o esame dei villi coriali).
Anche in questo caso, però, le decisioni dei tribunali valgono solo per le coppie che avevano presentato ricorso. Il panorama cambia il 28 agosto 2012, quando la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per violazione dell’articolo 8 della Carta europea dei diritti dell’uomo sullo stesso tema, in quanto l’esclusione delle coppie fertili dalla diagnosi preimpianto si configurerebbe come discriminazione. Provenendo da questa Corte, la sentenza obbliga lo Stato al rispetto degli Organi comunitari e quindi ha valore per tutti. La decisione, tuttavia, non è ancora definitiva, perché il governo può proporre ricorso entro fine novembre.
La diagnosi preimpianto, dopo questi interventi, può essere eseguita in tutti i centri italiani autorizzati alla fecondazione assistita. I centri pubblici di fatto però, spesso, non la eseguono. L’ultima sentenza del tribunale di Cagliari cui si faceva cenno all’inizio, ribadisce invece che tutti gli ospedali pubblici debbono attrezzarsi per eseguirla.
In sintesi, rispetto all’emanazione della legge 40 ora è lecita la diagnosi preimpianto, che, su richiesta, deve essere eseguita anche nelle strutture pubbliche, anche a coppie fertili che abbiano malattie genetiche trasmissibili, inoltre è possibile produrre più di tre embrioni e non impiantarli tutti contemporaneamente in utero, crioconservando quelli non impiantati.
Rimane invece il divieto di fecondazione eterologa.
Il Corriere della Sera 19.11.12
