Per quanti lo avessero dimenticato ma non se ne facciano una colpa la questione israelo-palestinese è inquadrata ancora ufficialmente in un cosiddetto «processo di pace». Benché si tratti ormai di una formula del tutto svuotata di contenuti e persino tristemente ironica mentre cadono bombe (su Gaza) e missili (da Gaza). Si potrebbe sostenere, a voler essere davvero naïf, che il processo di pace sarebbe ancora in piedi tra Israele e la Cisgiordania, mentre sarebbe ormai in stato comatoso (e non da oggi) nei riguardi di Gaza. Questo è stato l’errore fondamentale degli ultimi anni, almeno dalle elezioni palestinesi del 2006, e cioè pensare di poter raggiungere, in questa turbolenta regione del mondo, una «pace separata». La verità è che la ricerca di una pace separata ci ha sinora, nei fatti, separato dalla pace. In Occidente ci facciamo facilmente distrarre da questioni che – comprensibilmente coinvolgono lo stato di salute delle nostre economie e dei nostri sistemi politici. Ecco perché ci hanno colto di sorpresa gli eventi bellici a Gaza. La realtà è che da molti mesi nella regione si confrontano due opinioni pubbliche esasperate, anche se per ragioni e in misura molto diversa.
Da una parte la popolazione di Gaza, «intrappolata» nella Striscia, in condizioni economiche e sociali spaventose; dall’altra, la popolazione israeliana, sempre più impaurita e scossa dai lanci di missili da Gaza. È difficile parlare il linguaggio della politica e della diplomazia dinanzi all’esasperazione; eppure, questo dovrebbe essere il compito di leader di Paesi che vogliano davvero svolgere un ruolo e non limitarsi a gestire l’esistente, con l’obiettivo minimalista di limitare i danni. Questo è sembrato l’atteggiamento della comunità internazionale in particolare degli Usa, impegnati in una difficile campagna presidenziale e della Ue, attanagliata dalla crisi del debito e dai rischi di disintegrazione. Il punto è che la situazione, oggi più che mai, può sfuggire di mano. I contenuti del «diritto all’autodifesa» di Israele si presentano con varianti notevolmente diverse. Dal punto di vista strategico, Israele ha dinanzi a sé tre possibili alternative. La prima consiste nel proseguire le operazioni di «contenimento» di Hamas con iniziative tuttavia più «robuste» sotto il profilo militare. La seconda è una versione rafforzata della cosiddetta «Operazione Piombo Fuso» messa in pratica tra il 2008 ed il 2009: colpire le installazioni «ufficiali» e le infrastrutture controllate da Hamas, con la possibilità di una limitata operazione terrestre, rischiosissima anche nel caso in cui fosse concepita solo in termini provvisori. La terza è un’offensiva su larga scala mirante alla pura e semplice eliminazione di Hamas come forza di governo a Gaza, e ciò richiederebbe l’uso combinato di diversi strumenti di intervento, compresa una occupazione più o meno prolungata della Striscia. Tuttavia, rispetto al 2008-2009, la situazione nella regione è strutturalmente cambiata. Molti si sono illusi di poter metter nel congelatore il conflitto israelo-palestinese mentre tutto intorno mutava ad una velocità imprevista ed incontrollabile. Taluni analisti menzionano il ruolo destabilizzante che potrebbero avere i Fratelli Musulmani in relazione a Gaza. Non è detto; potrebbe essere una conclusione affrettata, poiché la stabilità a Gaza è per l’Egitto anzitutto un problema di sicurezza nazionale, vista la contiguità territoriale, e solo in seconda battuta diviene una questione di affinità ideologica o religiosa. L’iniziativa militare di Israele costringe l’Egitto a riapparire sulla scena medio-orientale dopo le convulsioni interne, ma in un contesto in cui potrebbero essere riformulati (ma non certo demoliti) i due pilastri della sua politica estera, vale a dire il rapporto preferenziale con gli Usa e il Trattato di pace con Israele.
Più in generale, quasi tutti i Paesi della regione hanno a che fare, ora, con opinioni pubbliche radicalizzate. Inoltre, sono saltati alcuni equilibri fondamentali, come l’alleanza tra Turchia ed Israele e l’oggettiva diffidenza del governo Netanyahu nei riguardi del rieletto Obama. Non siamo tornati ad una situazione regionale pre-1967, ma le somiglianze sono preoccupanti. Ci sarebbero le condizioni per una forte iniziativa europea o meglio, dei suoi 27 governi… quanto meno a favore di una tregua immediata, per impedire una nuova deriva bellicista che sarebbe difficilmente controllabile. Siamo ancora in tempo.
*Segretario generale dell’Istituto Universitario Europeo
L’Unità 19.11.12
******
“L’Italia faccia di tutto per fermare le armi”, di FLAVIO LOTTI*
Pochi giorni fa sono andato a Sderot in segno di solidarietà e vicinanza con gli israeliani che dal 2001 vivono sotto il tiro dei razzi lanciati dalla Striscia di Gaza. Ci sono andato con altri duecento italiani.
E insieme abbiamo sfidato le sirene che quel giorno hanno suonato cinque volte e il silenzio mediatico calato da lungo tempo su quella tragedia. Nomika Zion, figlia di uno dei padri fondatori dello Stato di Israele, aveva provato a farci desistere ma davanti alla nostra insistenza ci accompagna per le strade della sua città fino al confine con Gaza. E parla come un fiume in piena. «Sono molto pessimista. La nostra vita passa da una guerra all’altra. C’è ancora un piccolo gruppo di israeliani che crede nella pace. Tutti gli altri
pensano solo alla prossima guerra. Qui la guerra è uno stato mentale. Ma la guerra ti distrugge la mente e ti avvelena il cuore. Così noi abbiamo perso la capacità di riconoscere i palestinesi come esseri umani. Per noi i palestinesi non hanno più una faccia, una voce personale, un nome. Hanno solo un’entità collettiva, un solo nome: terroristi. Ma quando smetti di considerare le persone come esseri umani, tu stesso smetti di essere umano. Per questo non riesco a vedere la fine del tunnel. Dobbiamo parlare con Hamas, mettere fine all’assedio di Gaza… ma il nostro governo non vuole sentir ragione. Ecco, voi, la pressione internazionale, voi siete la mia unica luce, la mia ultima speranza. Aiutateci». Nomika non ne può più della guerra, più o meno come i palestinesi che da sei giorni sono ripiombati nell’incubo del terrore. Nomika come i bambini di Gaza ci chiede aiuto. Ma noi cosa stiamo facendo?
Missili da Israele. Missili da Gaza. E la pace da dove? Dopo decenni passati inutilmente ad auspicare la pace in Medio Oriente non possiamo che ripartire da noi. È l’unica cosa seria e realistica che possiamo fare. E allora dobbiamo dire forte e chiaro: basta con le esortazioni, basta con gli inviti alla calma, basta con gli appelli alle parti! L’Italia ha il dovere di fermare la guerra a Gaza. Lo può e lo deve fare agendo con intelligenza
e determinazione nell’interesse superiore dei diritti umani, della sicurezza internazionale, della giustizia e della pace.
L’Italia, che vanta ottime relazioni sia con Israele che con i palestinesi, può fare molto.
Ma deve cambiare: smettere di essere di parte, assumere un ruolo attivo, propositivo e progettuale. Nel Mediterraneo, in Europa e all’Onu. Per quanto tempo ancora potremo resistere senza avere una politica estera all’altezza della situazione?
Fermare la guerra a Gaza è indispensabile ma questa volta non basterà. È arrivato il momento di andare alla radice del problema e risolvere il conflitto tra questi due popoli. Sono passati 45 anni dall’inizio dell’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Più di 20 da quando è iniziato il cosiddetto «processo di pace». Da allora si calcola che il mondo abbia speso 12mila miliardi di dollari e ancora oggi spendiamo per questo conflitto oltre due miliardi di dollari l’anno. Uno sforzo economico enorme accompagnato da vertici, viaggi, incontri, negoziati, piani, mediazioni e attività umanitarie che, a giudicare dai risultati, non è servito a nulla. Non ci possiamo più permettere di continuare in questo modo. Non è solo troppo costoso. È destabilizzante. Il conflitto è sulla terra. E su quella terra
deve essere riconosciuto a entrambi il diritto di vivere in pace con gli stessi diritti, la stessa dignità e la stessa sicurezza. La formula è «due Stati per due popoli». E deve essere realizzata ora. Anche a costo di una inedita e creativa «imposizione» internazionale. Probabilmente è l’ultima possibilità e non ci conviene più aspettare.
L’Italia deve fare la sua parte, consapevole dei suoi limiti ma anche delle sue risorse, della sua prossimità e delle sue responsabilità. Chiudere oggi il conflitto israelo-palestinese conviene a tutti. Anche a noi. Per questo l’inazione degli altri non può più giustificare la nostra. Ps: ma i candidati alle primarie che ne pensano?
*Coordinatore nazionale della Tavola della pace
L’Unità 19.11.12
Latest Posts
“A rischio 40mila precari pubblici”, di Luigina Venturelli
Ad oggi non abbiamo alcuna certezza, né su quante saranno le eccedenze nel pubblico impiego, né sulle tempistiche con cui si arriverà a stabilire il numero degli esuberi, né su quali saranno le alternative per gestirli» denuncia Rossana Dettori, segretaria nazionale della Fp Cgil. «Solo una cosa è certa, il panico diffuso in queste settimane tra i lavoratori in attesa di conoscere il loro destino. Non si placa la polemica tra il sindacato di Corso d’Italia e il ministro Filippo Patroni Griffi. E non potrebbe essere altrimenti, dopo il recente annuncio anche attraverso social network di oltre 4mila eccedenze nella pubblica amministrazione, subito seguito da una precisazione per correggere la cifra al rialzo di altre 2mila unità.
L’EMERGENZA PRECARI Un dato ben lontano dall’essere definitivo e che, in ogni caso, non tiene conto delle decine di migliaia di lavoratori precari con i contratti in scadenza a fine anno. «Si stima siano circa 40mila, ma il numero preciso non lo conosce nemmeno il ministero, data la variabilità delle tipologie contrattuali e la capillare diffusione dei lavoratori atipici nei diversi servizi ai cittadini, soprattutto nella sanità e nelle strutture per l’infanzia» precisa la sindacalista. Il conto annuale dei precari, infatti, parlava di 150mila persone, un terzo dei quali è già stato lasciato a casa nel corso del 2012. E quasi il 50% dei rimanenti vedrà scadere il proprio contratto a dicembre. Per discutere di quest’emergenza, mercoledì i sindacati saranno ricevuti dal ministro Patroni Griffi: «Ci auguriamo che il ministro sia pronto a fornire qualche garanzia sulla proroga di questi contratti, perchè si tratta di lavoratori che tengono in piedi servizi essenziali. Nella sanità, ad esempio, il 118 di gestione delle emergenze è retto in gran parte da personale con contratto atipico. Così come, negli enti locali, lo sono gli asili nido e le scuole materne: in molti comuni, Napoli ad esempio, già non possono garantire i servizi pomeridiani, a causa della mancanza di risorse per rinnovare i contratti in scadenza» spiega Rossana Dettori.
IL CONTO DELLE ECCEDENZE L’incontro del 21 novembre, dunque, si complica ulteriormente. Sul tavolo di Palazzo Vidoni due vertenze socialmente esplosive e potenzialmente in conflitto tra loro: quella dei precari che rischiano di restare a casa tra poche settimane, e quella delle eccedenze che potrebbero andare incontro allo stesso destino, seppur con tempi ancora da stabilire. «Eccedenze, esuberi e licenziamenti sono concetti molto diversi tra loro» aveva sottolineato il ministro, parlando di «una gradualità del ridimensionamento delle strutture con strumenti che sono, in primo luogo, i pensionamenti ordinari e, in secondo luogo, la mobilità volontaria e contratti di solidarietà con la formula del part-time». Al netto dei lavoratori che potranno andare in pensione o che sceglieranno di dare le dimissioni dalla pubblica amministrazione, però, si arriverà agli esuberi in senso tecnico. Poi scatterà la mobilità obbligatoria per due anni con riduzione dello stipendio e, dopo, i licenziamenti. Un destino che inizialmente doveva accomunare 4.028 persone, come annunciato da Patroni Griffi ai sindacati e via Twitter. Ma il conteggio continuerà a salire fino a dicembre, perchè non tutte le amministrazioni hanno ad oggi verificato il numero delle eccedenze. Mancano all’appello, tra gli altri, i ministeri della Giustizia e dell’Interno. Poi, a primavera, potrebbero iniziare i tagli.«È difficile dire esattamente quante saranno le eccedenze, a spanne potrei dire altre 2.000» aveva aggiunto il ministro attirandosi le ire della Funzione pubblica Cgil, che poco aveva apprezzato la prontezza del ministro nel «dare i numeri», invece di aspettare cifre definitive e, sulla base di quelle, aprire una seria trattativa con le organizzazioni sindacali per fronteggiare la difficile situazione che si verrà a creare. «Andiamo all’incontro senza enormi speranze. Ma pretenderemo garanzie sulla proroga dei contratti a termine in scadenza, così da avere poi il tempo di discutere degli organici in modo compiuto. Altrimenti ci mobiliteremo» conclude la segretaria Fp Cgil.
L’Unità 19.11.12
“Nel pantheon spazio alle donne”, di Roberta Agostini, Cecilia D’Elia, Titti Di Salvo, Valeria Fedeli, Pia Locatelli, Marinella Perroni
E’ difficile stabilire un pantheon una volta per tutte. soprattuto in un’epoca di fluidità e leggerezza del pensiero e dei riferimenti culturali, in un’ epoca in cui sono più i singoli a dettare le leggi dei riferimenti simbolici, piuttosto che le grandi organizzazioni collettive e i movimenti di massa. C’è un pantheon privato, di cui fanno parte i propri beniamini, uomini e donne illustri, campioni dello sport, e rock star. Ma anche persone incontrate nella vita. E ciascuno ha il proprio pantheon e se lo compone e cambia come vuole.
Il pantheon di un’area politica, sociale e culturale invece è il frutto di una ricerca, dell’ascolto della memoria, della materialità di un percorso storico e dei suoi conflitti, ma anche dell’analisi del presente e del futuro. Del guardare i propri compagni di strada e i propri avversari. Non è un lavoro facile e implica delle responsabilità.
Siamo impegnate nel centrosinistra, ognuna con la propria storia e collocazione, immaginiamo il centrosinistra come un movimento di massa, connesso da tante identità e sapori. Pensiamo che il centrosinistra debba rendere l’Italia un Paese non ostile alle donne, dunque ripensato nella sua organizzazione, nei suoi apparati formativi e nel welfare, che non è un lusso da tagliare ma la condizione per crescere. Riconosciamo di condividere un sentire e una memoria di ciò che ci ha portato qui.Il pantheon dà il nord – come ha scritto Barbara Spinelli – fornisce una bussola. Il pantheon restituisce armonia a una comunità sociale. Non regole di ingaggio da rispettare, ma opzioni di memoria e di sentimento, valori irrinunciabili e storie di vite reali, di impegno e di sacrificio. Talvolta di martirio.
Il pantheon l’emozione di riconoscersi in uno spazio pubblico e di riconoscere un debito nei confronti di qualcuno per come siamo in questo spazio pubblico. Una genealogia, insomma, e forse preferiamo questo termine che restituisce umanità e dunque anche mag- gior grandezza alle scelte e alle vite delle figure a cui pensiamo.
Una genealogia che riconosce le figure e le avanguardie che hanno reso «nostri» valori e principi come quello della laicità, dei diritti, della libertà delle scelte, dell’autodeterminazione, della conoscenza e della cultura, dell’amore per la diversità, dell’identità europea, della lotta contro ogni forma di disuguaglianza.
Per questo non è solo italiana, e soprattutto non è solo maschile. E’ tempo che l’Italia e il centrosinistra riconoscano il debito che hanno verso tante donne. Non vogliamo offrire un elenco esaustivo e completo, ma una traccia, un filo di riconoscenza che renda di uomini e donne la bussola del centrosinistra. Siamo in debito con Anna Kuliscioff,la dottora dei poveri, per la sua denuncia del monopolio dell’uomo, con Teresa Noce e Lina Merlin, donne della costituente e pioniere dei diritti delle donne lavoratrici e madri; con Maria Montessori, che ha restituito ai bambini la dignità di esseri umani; con il «no» di Franca Viola, che per prima ha rifiutato un matrimonio riparatore, e di Rosa Parks, che non si alzò per cedere il suo posto a un bianco; con Nilde Iotti ragazza della Costituente e prima donna presidente della Camera; con Giglia Tedesco e Maria Magnani Noya, che hanno lavorato al nuovo diritto di famiglia, rivoluzionando i rapporti tra i coniugi; con Tina Anselmi che ha avuto il coraggio di sfidare i poteri forti. Siamo in debito con il femminismo della fine del secolo scorso che ha liberato il destino di tutte; con Hannah Arendt, con la sua riflessione sulla politica e la sua feroce analisi del totalitarismo, male che l’Europa non deve mai dimenticare; con Elsa Morante e Natalia Ginzburg. Con l’arguzia di Miriam Mafai e la mitezza di Adriana Zarri. Con la radicalità di Simone Weil, con Simone de Beauvoir che ha dichiarato libero il secondo sesso. Sicuramente voi che leggete ne aggiungereste di altre o lascereste andare qualcuna. Non volevamo scolpire per sempre nel ma mo il nostro pantheon, ma riconoscere che i pensieri, le azioni, le intuizioni prendono origine e forma dentro genealogie fatte di uomini e di donne.
L’Unità 19.11.12
“Un centro e troppe anime”, di Luca Ricolfi
Sì, pare proprio che il centro stia tornando ad essere di moda, come lo era stato per quasi mezzo secolo, ai tempi in cui governava la Dc. Allora votare centro significava soprattutto una cosa: tenere i fascisti e i comunisti lontani dalle stanze del potere. Ma bastarono 5 anni per disfarne quasi 50. Fra il 1989 e il 1994 tutto cambiò, nel mondo e in Italia. Nel 1989 cadde il muro di Berlino, e la paura del comunismo si sciolse come neve al sole. Il resto, in Italia, lo fecero Mario Segni con i referendum sulla legge elettorale e Di Pietro con l’inchiesta Mani pulite. In un pugno di anni, fra il 1991 e il 1994, democristiani e socialisti furono affondati per sempre. Al loro posto si fecero avanti i reietti di ieri, fascisti e comunisti, che per rendersi accettabili provvidero lestamente a riverniciare le loro insegne, cambiando nome, modernizzando programmi, stabilendo alleanze con il nuovo o presunto nuovo che stava avanzando, dalla Lega alla Rete, da Forza Italia al Patto Segni.
È così che è nato il bipolarismo all’italiana, e il centro è stato emarginato dalla scena politica.
Oggi che quel bipolarismo appare fallito, si ritorna a parlare di centro. Della necessità di ricostituire qualcosa che non sia né di destra né di sinistra. Lo fanno un po’ tutti. I centristi di sempre, alla Casini. I centristi dell’ultima ora, tipo Fini e Rutelli. I sostenitori di un Monti-bis, che ultimamente spuntano come funghi. I riformisti duri e puri, delusi dal riformismo zoppo di destra e sinistra.
Ma che cosa è il centro oggi?
E’ questa, a mio parere, la domanda che non ha ancora ricevuto una risposta completa e chiara. Non dico che non abbia ricevuto nessuna risposta, perché alcuni valori dei centristi sono nitidamente riconoscibili: competenza, serietà, rispetto per le istituzioni, coesione sociale, volontà di ricostruire. Non è poco, ma solo perché ne abbiamo davvero tanto bisogno dopo esserne stati così tanto privati negli ultimi vent’anni, da tutti i governi della seconda Repubblica. Ma un minimo comun denominatore non fa ancora un programma politico. E anzi, il fatto che sia questo il nucleo, il nocciolo condiviso che unisce i centristi, è un segno di debolezza politica, una conferma – e non un superamento – dello stato di eccezione dell’Italia: solo in un paese in cui manca una vera offerta politica si può pensare che quel minimo comune denominatore di nobili principi sia già un programma, o che basti parlare di «agenda Monti» e di Monti-bis per persuadere gli elettori di possederne uno.
Perché quello del centro riuscisse a diventare un vero programma politico occorrerebbe che i suoi leader completassero la risposta. Va bene il minimo comune denominatore, ma il cuore di un programma politico sono le scelte difficili, le scelte tragiche, come già trent’anni fa ebbero a chiamarle Guido Calabresi e Philip Bobbitt in un celebre libro – Tragic choices – dedicato a «i conflitti che la società deve affrontare nella allocazione di risorse tragicamente scarse». In un’era di risorse decrescenti il punto non è chi vogliamo sostenere, ma è a spese di chi vogliamo farlo. Qui quasi tutti i protagonisti della competizione al centro sono reticenti, evasivi, o dimentichi della propria storia.
Il centro che già c’è, quello dell’Udc di Casini, è stato – almeno in passato – una colonna portante del «partito della spesa pubblica», ha le sue radici elettorali soprattutto in Sicilia e nel resto del Mezzogiorno, possiede una lunga storia di clientele e guai giudiziari. Con il suo leader Pier Ferdinando Casini ha difeso fino all’ultimo un politico come Totò Cuffaro, ora in carcere con una condanna definitiva per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra. Prima di ascoltare ogni sorta di lodevoli intenzioni per il futuro, ci piacerebbe ascoltare dall’Udc due parole chiare sul proprio passato, e magari sentir pronunciare – oltre al consueto omaggio a Monti – quelle scuse agli elettori che Casini aveva preannunciato in caso di condanna di Cuffaro (Annozero, 31 marzo 2008).
Il centro che ancora non c’è, quello che sta prendendo forma in questi mesi sotto le insegne più varie (cattolici di Todi, Italia Futura, Fermare il declino) è una creatura strana. Per alcuni dei suoi protagonisti la stella polare è il sostegno alle famiglie, per altri sono gli sgravi ai produttori. Due obiettivi che è facile conciliare in un bel discorso, ma che si mettono immediatamente a stridere appena si tratta di decidere la destinazione di qualche miliardo di euro. Ridurre l’Irpef o ridurre l’Irap? Alleggerire le tasse alle famiglie in cui la madre non lavora (il cosiddetto quoziente familiare), o aiutare quella medesima madre a trovar lavoro, riducendo il cuneo fiscale sul lavoro femminile? Usare i soldi di tutti i contribuenti per salvare le amministrazioni in default (ormai diffuse anche al centro-nord), o costringerle a salvarsi da sé, vendendo patrimonio pubblico e tassando i propri cittadini?
Sono solo esempi, ma si potrebbero moltiplicare. Su tutte queste cose il centro tace. E quando prova a rispondere non risponde alla domanda giusta, perché è affetto da «ma-anchismo», il tic per cui prendevamo in giro Veltroni qualche anno fa, ogni volta che proclamava di volere una cosa «ma anche» un’altra, diversa e spesso contraria. Il problema è che, arrivati al punto in cui siamo, le risorse sono così scarse, e lo resteranno così a lungo, che non è più assolutamente possibile sottrarsi alle domande fondamentali. Non possono sottrarsi il Pd di Bersani e il Pdl di Alfano, ma ancor meno possono farlo i leader del centro. E questo per una ragione molto semplice: quello che destra e sinistra potrebbero fare è prevedibile sulla base del passato, e spesso è stato la medesima cosa, ovvero più deficit e più spesa pubblica politicamente redditizia. Mentre quel che potrebbero fare le forze politiche di centro non solo è meno facilmente prevedibile, ma è diversissimo a seconda di chi stiamo parlando. Se per centro intendiamo quelle formazioni che rifiutano sia il (presunto) populismo anti-politico di Grillo, sia le politiche della destra e della sinistra, non possiamo non notare che – dentro quello che oggi è il calderone del centro – convivono visioni opposte, molto più polarizzate di quanto lo siano quelle della destra e della sinistra. A un estremo il moderatismo cattolico, tradizionalmente attratto dalle politiche di sostegno del reddito delle famiglie, all’altro estremo il radicalismo riformista e liberale, che ritiene di poter far dimagrire lo Stato di molti chili (punti di Pil) e in pochi anni. Provate, per credere, a organizzare un dibattito pubblico serio, con domande scomode, fra Pier Ferdinando Casini e un qualsiasi rappresentante dell’Istituto Bruno Leoni, la cittadella dei liberali oscillante fra Italia Futura (Montezemolo) e Fermare il declino (Oscar Giannino). E vedrete che è più facile mettere d’accordo un Pier Luigi Bersani e un Angelino Alfano che un vero cattolico e un vero liberale.
La Stampa 19.11.12
“Sicurezza, che fine hanno fatto i fondi Cipe per le scuole a rischio?”, di Alessandro Giuliani
Un’altra brutta “tegola” per il Miur. La denuncia stavolta è dell’Upi. La questione era stata sollevata già in estate da un quotidiano nazionale: in ballo un miliardo di euro. Giovedì 22 il presidente dell’Unione delle province italiane, Antonio Saitta, incontrerà il ministro Profumo: il tempo dell’attesa è finito. La seconda decade di novembre non sembra portare bene al ministero dell’Istruzione. Dopo lo scandalo degli sprechi denunciato da Report e l’ipotesi di appalti truccati denunciata al Fatto Quotidiano da un probabile “corvo” interno al Miur, anche le province alzano la voce lamentando la mancata assegnazione nei loro confronti dei corposi fondi stanziati dal Cipe, il Comitato interministeriale per la programmazione economica, per la messa in sicurezza dell’edilizia scolastica. La domanda è: dove possono essere andati a finire quei fondi, visto che le province sono gli unici enti locali deputati, per legge, alla manutenzione delle scuole superiori?
A farsi portavoce delle lamentele, che fanno seguito a quanto denunciato dal Sole24Ore a fine estate, secondo cui a fronte di un miliardo di euro erano stati spesi appena 73 milioni, è l’Unione delle province italiane. Da cui si ricorda di aver sollecitato il responsabile del Miur, che incontrerà già nella prossima settimana. ” Per affrontare nel dettaglio la questione dei fondi stanziati dal Cipe per l’edilizia scolastica ma mai arrivati alle Province – scrive l’Upi – giovedì si terrà un nuovo incontro tra il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo e il presidente dell’Unione delle Province italiane Antonio Saitta, questa volta negli uffici del ministero a Roma “. L’incontro avverrà, è bene ricordarlo, a quattri anni dall’anniversario, il quarto, dell’assurda morte di Vito Scafidi , il giovane liceale travolto dal controsoffitto dell’aula dell’istituto Darwin di Rivoli. Una morte che, evidentemente, non sembra aver cambiato il lento corso dell’assegnazione dei fondi e della trasformazione in atti concreti degli accordi presi sui tavoli della politica.
Il rappresentante dell’Upi spiega anche che, allargando il discorso a tutte le competenze delle province legate anche alla manutenzione ordinaria che svolge per la pubblica amministrazione, mentre lo Stato attraverso la spending review “ chiede in questi giorni 500 milioni di euro dai bilanci locali, da anni non versa il suo debito che è di poco inferiore ai 3 miliardi di euro ”.
La mancata assegnazione dei fondi non riguarderebbe quindi solo il Miur. E lo stesso Saitta sembra sostenere che le responsabilità non sono solo da ricondurre al dicastero di viale Trastevere. ” Profumo – dice Saitta – mi ha messo in contatto con i tecnici del Ministero per capire la destinazione dei fondi Cipe: gli ho proposto di stilare insieme un elenco delle priorità ragionato provincia per provincia per poter avviare lavori indifferibili sulla sicurezza scolastica. Se il ministro Profumo avrà la forza di convincere il Governo che parliamo di un’emergenza nazionale, potremo dare una prima risposta alla popolazione studentesca che si riversa nelle strade e nelle piazze di tutta Italia per reclamare giustamente il diritto a studiare in edifici sicuri. Sono domande – conclude Saitta – alle quali né i tecnici né la politica possono evitare di rispondere “.
Per ovviare al problema dei fondi emessi dal Cipe in tempi non sospetti per la sicurezza degli edifici scolastici, ma solo in minima parte giunti a destinazione, le province nelle ultime ore hanno chiesto al Governo di escludere d al patto di stabilità le spese per gli investimenti destinati alla sicurezza negli edifici scolastici.
In ogni caso, Governo a parte, a questo punto sembra necessario che dai piani alti di viale Trastevere giungano il prima possibile delle risposte. E anche convincenti. Altrimenti il rischio di essere travolti dagli scandali a catena diventerà una condizione inevitabile.
La Tecnica della Scuola 19.11.12
“Se si indebita il ceto medio”, di Chiara Saraceno
Gli individui che vivono in famiglie caratterizzate da deprivazione materiale sono aumentati di oltre 6 punti percentuali tra il 2010 e il 2011, coinvolgendo più di un quinto della popolazione (22,2%). Al loro interno, quelli che si trovano in condizione di deprivazione grave quasi raddoppiano, arrivando all’11,1%. Si tratta di persone che vivono in famiglia in cui si sperimentano rispettivamente almeno tre e più di tre limitazioni che intaccano seriamente il tenore di vita: non essere in grado di affrontare una spesa imprevista di 800 euro (una condizione che riguarda ormai il 38,4% della popolazione); non avere i mezzi per consumare un pasto adeguato almeno ogni due giorni; non potersi permettere di riscaldare adeguatamente l’abitazione; fare fatica a pagare il mutuo, le bollette o altri debiti. Di più, una quota consistente di chi nel 2011 presentava tre, ed anche più, forme di deprivazione nell’anno precedente non ne aveva sperimentata nessuna, o solo una-due. È un fenomeno che non riguarda solo chi si trova nel quintile più povero, ma anche chi si trova nel secondo o terzo quintile, quello che chiameremmo del ceto medio. Questa fotografia di forte peggioramento delle condizioni di vita materiale degli italiani emerge
dalla indagine Istat che è parte dell’indagine europea Eu-Silc sulle condizioni socio-economiche della popolazione.
Ci si era illusi che la capacità di risparmio delle famiglie, unita al fatto che la disoccupazione riguarda prevalentemente i giovani che spesso vivono ancora con i genitori, avrebbe continuato a funzionare come ammortizzatore sociale. In effetti, i dati per il periodo 2008-2010, dopo il peggioramento avvenuto all’inizio della crisi, tra il 2007 e il 2008, sembravano dare fondamento empirico a questa illusione. Il tenore di vita sembrava essersi stabilizzato e così l’incidenza della deprivazione materiale tra individui e famiglie. Ma era solo un fenomeno temporaneo. A fronte di una riduzione di reddito, per il venire meno dei redditi dei figli o per l’entrata in cassa integrazione del percettore principale di reddito, le famiglie hanno solo parzialmente ridotto il tenore di vita, riducendo invece i risparmi, quando non intaccandoli. Con il perdurare e l’aggravarsi della crisi, cui si è aggiunto anche l’aumento della imposizione fiscale, in particolare sull’abitazione, mentre venivano ridotti anche i servizi, le famiglie e gli individui con redditi più modesti si sono trovate senza cuscinetto di riserva. I dati recenti sulla riduzione della propensione al risparmio ne sono una conferma. Queste famiglie hanno dovuto incominciare ad intaccare sostanzialmente i consumi.
A fronte di questo forte peggioramento delle condizioni materiali per una parte rilevante della popolazione, sembra che l’unica cosa che tenga, che dia soddisfazione, e su cui ci si può azzardare ad avere fiducia, siano le relazioni famigliari e amicali più strette. Al di fuori di queste sembra ci sia il vuoto. La “fiducia negli altri”, già poco diffusa in Italia, è ulteriormente diminuita nel 2012. Possiamo stupirci, allora, se gli italiani sembrano ondeggiare tra le tentazioni populistiche, il ribellismo rabbioso e la ritirata nella vita privata di cui l’astensionismo è il segnale più vistoso? Perché il paese possa riprendersi non basta l’austerità, che anzi, se è cieca, rischia di rafforzare disaffezione e ribellismo. Tanto meno aiuta una politica implosa su se stessa, dove nessuno sembra capace di indicare una strada che consenta di sopravvivere senza cadere né nel baratro del debito, né in quello della distruzione di capitale umano e sociale. Pensare solo al primo senza considerare i secondi, non produce solo disperazione e aggrava le ingiustizie. Mette anche a rischio la coesione sociale.
La Repubblica 19.11.12
“Cresce il timore per pensioni”, di Marco Ventimiglia
Giovani senza prospettive, lavoratori sempre più precari ma anche, e per certi versi soprattutto, gli anziani. La crisi, infatti, colpisce e spaventa maggiormente le persone più avanti con gli anni, che nella stragrande maggioranza dei casi traggono il loro sostentamento dalla pensione e si curano attraverso il Servizio sanitario nazionale. Ebbene, entrambi questi pilastri appaiono adesso sempre più fragili. Lo ha prima certificato un’indagine del Censis relativa alle attese per l’andamento della previdenza sociale, con quasi la metà dei lavoratori italiani che prevede una vecchiaia di ristrettezze con assegni pensionistici di poco superiori alla metà dello stipendio. Poi, in occasione del Congresso Nazionale della Società Italiana di gerontologia e geriatria (Sigg) è stata illustrata la prima indagine nazionale condotta per approfondire il rapporto esistente fra gli anziani e il servizio sanitario nazionale.
SENZA ALTERNATIVE Uno studio che evidenzia i grandi timori alimentati dai recenti tagli e più in generale dalla crisi economica. In particolare, 1’80% degli over 75, 5 milioni in tutto, teme che la scure degli interventi per il risanamento dei bilanci colpisca le cure che ricevono dal servizio sanitario, anche perché solo in 300 mila possono permettersi un’assicurazione privata. L’indagine ha coinvolto 1500 cittadini con più di 75 anni, che in sei casi su dieci soffrivano di due o più malattie e si potevano perciò considerare fruitori «assidui» di prestazioni sanitarie. E c’è da sottolineare come se da una parte ci sono forti timori per il futuro, dall’altra c’è piena tuttora fiducia nei confronti della sanità: 1’80 per cento si rivolge con fiducia ai medici delle strutture pubbliche e solo tre su dieci ritengono le prestazioni del servizio sanitario nazionale sono poco o per nulla adeguate alle proprie esigenze. Ed ancora, il 65 per cento degli interpellati preferirebbe un ricovero in un ospedale pubblico all’assistenza domiciliare e solo uno su dieci sceglierebbe una residenza assistenziale privata. Del resto le scarse risorse economiche fanno sì che pochissimi possano comunque pensare concretamente a forme di assicurazione sanitaria alternative. Secondo i dati raccolti, <
