Se si dovesse verificare quanto in queste ora risulta assai probabile, anzi pressochè certo, vale a dire la stipulazione di un accordo interconfederale sulla produttività siglato con il metodo della firma digitale senza l’adesione della Cgil, ci ritroveremmo davanti una ennesima pagina negativa delle relazioni industriali in Italia. Che è proprio quello di cui questo Paese non ha davvero bisogno. Se si dovesse compiere questa scelta si aggiungerebbe infatti un ulteriore elemento di crisi, disordine e conflittualità nei rapporti sindacali mentre in Italia sta crescendo un sempre più forte disagio sociale, di cui sono state buona testimonianza le manifestazioni dello scorso 14 novembre. Non si riesce infatti a comprendere quale interesse reale vi sia a stipulare un accordo che divide e non unisce. Quando è evidente che questo Paese avrebbe invece bisogno di un grande e nuovo patto sociale, di un patto di sistema, paragonabile a quello sulla politica dei redditi stipulato nel luglio 1993 che consentì all’Italia – è sempre bene ricordarlo – di entrare nell’aerea dell’euro e di non andare allo sbando per il Mediterraneo. Un patto di sistema, appunto, in cui si dovrebbero risolvere, una volta per tutte, almeno tre questioni cruciali: l’accertamento della rappresentatività dei sindacati, i procedimenti di validazione della efficacia dei contratti collettivi, il diritto di ogni sindacato rappresentativo di partecipare alle trattative e di costituire proprie rappresentanze nei luoghi di lavoro a prescindere dall’avere o meno sottoscritto precedenti contratti. Per fare questo basterebbe generalizzare a tutti i settori quanto previsto dall’accordo tra Cgil, Cisl, Uil e imprese del 28 giugno 2011 e renderne cogente l’applicazione. Di questo dovrebbe in primo luogo farsi responsabile Confindustria, se questa associazione di imprenditori vuole tornare ad esercitare un ruolo significativo. Un ruolo che sia di guida del sistema industriale e imprenditoriale italiano, evitando di farsi umiliare di nuovo, come è accaduto nella vicenda Fiat quando quella impresa, a dispetto di tutti i favori ad essa concessi, ha finito con l’uscire da Confindustria, farsi un contratto collettivo per sé, salvo poi commettere una serie di comportamenti discriminatori puntualmente censurati dai giudici del lavoro. C’è un modo per cercare di riaggiustare una tendenza che inclina al peggio. Confindustria dovrebbe indurre Federmeccanica, sua associata, a convocare formalmente la Fiom-Cgil al tavolo delle trattative per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici: la stessa Federmeccanica poi potrebbe chiudere il confronto se la Fiom-Cgil si dichiarasse indisponibile ad ogni negoziato. Escludere ex ante dal negoziato la più importante federazione di categoria della Cgil è una scelta pessima: ha un sapore autoritario, e non porta bene alle stesse associazioni di imprese, come si è verificato alla Fiat. Anche il governo, però, dovrebbe fare qualcosa. Dovrebbe far capire a tutti i soggetti coinvolti nella vicenda che un accordo interconfederale sulla produttività senza l’adesione della Cgil non serve a nulla, non è utile al Paese, perché poi nelle aziende si dovranno fare i conti comunque con la Cgil. Crediamo che anche il Pd dovrebbe fare qualcosa. In particolare dovrebbe dire qualcosa il segretario del Pd che, per quando candidato alle primarie, è pur sempre il segretario di un partito che sostiene questo governo, e senza il cui sostegno il governo cadrebbe, anzi, non si sarebbe mai formato. So bene che la sfida è difficile e cercare di evitare quel che oggi appare inevitabile (cioè un altro accordo separato) non è impresa semplice. Come si dice, raddrizzare le gambe ai cani è difficile. Ma questa volta bisogna provarci fino all’ultimo.
L’Unità 18.11.12
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“Brinderanno a Carnevale Formigoni e Polverini”, di Eugenio Scalfari
I tre giorni che vanno da martedì a venerdì scorso, culminati con la riunione al Quirinale tra il Capo dello Stato, i presidenti delle Camere e il presidente del Consiglio, sono stati caratterizzati da una preoccupante confusione di interessi, intenzioni, ipotesi, sgambetti, litigi e dall’appannarsi di quel-l’interesse generale che dovrebbe essere al centro dell’attenzione di chi rappresenta le istituzioni.
Giorgio Napolitano ha cercato di recuperare la chiarezza smarrita e indicare una soluzione condivisa, ma c’è riuscito soltanto in parte lasciandosi anche lui andare a qualche dichiarazione lessicalmente inesatta, come quella che giudica “appropriata” la data del 10 marzo per le elezioni regionali.
Appropriata per evitare la crisi di governo, certo, ma non per evitare che la Polverini rimanga altri quattro mesi al suo posto con un Consiglio regionale già morto ma che continua ad esser pagato stando a casa mentre la governatrice continua a dilapidare i denari a sua disposizione elargendo contributi ad improbabili associazioni e nominando nuovi amministratori nelle aziende municipali.
A me oggi verrebbe la voglia di scrivere d’altro, ma questo è il tema che l’attualità impone e a questa attualità debbo dunque conformarmi cominciando con la posizione assunta in questa circostanza dal presidente della Repubblica, quale risulta dal comunicato del Quirinale e dalle informazioni a nostra disposizione sui vari passaggi che l’hanno preceduto.
Giorgio Napolitano si è occupato esclusivamente di due problemi che rientrano tutti e due nell’ambito delle sue prerogative o poteri che dir si voglia: evitare una crisi di governo minacciata fino all’ultimo momento dal Pdl nelle persone di Alfano in campo e Berlusconi fuoricampo; porre alcuni punti fermi all’ipotesi d’uno scioglimento anticipato della legislatura.
Per evitare la crisi di governo (che in un momento come questo sarebbe micidiale per gli interessi generali del Paese) bisognava allungare i tempi delle elezioni regionali del Lazio e della Lombardia, ma su quella materia Napolitano si è rimesso alle decisioni del governo perché si tratta di materie che non riguardano il Capo dello Stato.
Rientra invece nei suoi esclusivi poteri lo scioglimento anticipato del Parlamento. I paletti ribaditi dal Capo dello Stato sono stati da lui ancora una volta indicati: approvazione entro dicembre della legge di stabilità finanziaria e riforma della legge elettorale per le elezioni politiche.
Qualche giornale ieri ha scritto che su quest’ultimo punto Napolitano si sarebbe dimostrato più possibilista del solito. Non è vero. Certo non spetta a lui formulare quella riforma ma spetta a lui confermare che, qualora non venisse radicalmente cambiata in tempo utile la legge “porcata” tuttora vigente, egli invierà un messaggio alle Camere stigmatizzando la responsabilità delle forze politiche dinanzi all’opinione pubblica.
Napolitano non ha assunto alcun impegno sulla data delle elezioni politiche. Molto probabilmente sarà il 10 marzo in coincidenza con quelle regionali, ma potrebbe anche restare quella del 7 aprile in ottemperanza alla fine naturale della fine legislatura. È una decisione di sua pertinenza e la conosceremo soltanto a gennaio.
Per quanto lo riguarda Napolitano si è assunto le sue responsabilità, ha esercitato al meglio la sua capacità di mediazione, ha evitato la crisi di governo, ha indotto i partiti di maggioranza ad una condotta più consona agli interessi dello Stato. Se ha commesso qualche improprietà marginale che abbiamo già rilevato, ha però pienamente mantenuto il suo ruolo di coordinamento, di saggezza costituzionale e di lungimiranza politica.
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Veniamo alla magistratura amministrativa. Un’associazione di cittadini regolarmente costituita ha presentato al Tar del Lazio una richiesta di tutela nei confronti della Regione il cui presidente continua ad amministrare dopo essersi dimesso con tutto il Consiglio, dissipando le risorse delle quali dispone senza ancora aver fissato la data delle elezioni come la legge prevede. Il Tar, dopo aver ascoltato le parti, ha emesso sentenza ordinando alla Polverini di fissare la data entro cinque giorni e prescrivendo la nomina d’un commissario qualora la Polverini non abbia provveduto.
La Polverini ha fatto ricorso al Consiglio di Stato chiedendogli di cassare la sentenza del Tar e nel frattempo di congelarne gli effetti. Il Consiglio di Stato ha fissato al 27 di novembre l’udienza di merito e congelato la sentenza del Tar fino a quella data. Fin qui tutto regolare. Ma assai singolare è la motivazione dell’ordinanza di congelamento dove è scritto che «il Tar ha inflitto con la sua sentenza un gravissimo vulnus ai poteri del governatore della Regione che secondo lo statuto affida in esclusiva al presidente il potere di indire le elezioni».
Il Consiglio di Stato cioè ha disconosciuto la competenza del Tar pur essendo pacifico che l’ordinamento impone tempi molto brevi tra le dimissioni del Consiglio e le elezioni. Se così non fosse il presidente potrebbe governare all’infinito con un Consiglio morto ma egualmente retribuito.
Chi dovrebbe provvedere a indire le elezioni se il governatore non lo fa neppure in presenza d’una sentenza del tribunale amministrativo? Forse il ministro della Giustizia? O quello dell’Interno? Il Consiglio di Stato non lo dice, ma accusa il Tar d’aver gravissimamente vulnerato i poteri della Polverini.
Quando Silvio Spaventa, 130 anni fa, costituì la giurisdizione amministrativa, motivò questa decisione con la necessità di tutelare gli interessi dei cittadini contro possibili arbitrii del potere pubblico. La competenza della magistratura ammini-strativa è dunque sancita fin dalla sua creazione. Il Consiglio di Stato disconosce dunque se stesso nel momento in cui scrive che il tribunale amministrativo ha «ferito gravissimamente » i poteri della Regione. Dov’è la coerenza del massimo organo di questa giurisdizione?
Il 27 prossimo conosceremo la sentenza di merito. Nel frattempo però il governo dovrebbe astenersi dal fissare, sia pure col consenso della Polverini, la data delle elezioni. Un processo è in corso, almeno in teoria il Consiglio di Stato potrebbe dar ragione al Tar, constatare l’inadempienza della Polverini e ordinare al ministro dell’Interno la fissazione della data tecnicamente più praticabile e più ravvicinata.
Al 10 marzo di cui si parla mancano ancora quattro mesi. È questa la data più prossima? Quattro mesi? È questo il ruolo di tutela degli intessi dei cittadini per il quale è stata fondata la giustizia amministrativa? Non credo che Silvio Spaventa sarebbe contento.
Si dirà: se questo avvenisse, il Pdl provocherebbe la crisi di governo. Non credo che Alfano aprirebbe la crisi contro una sentenza della magistratura amministrativa, ma l’ipotesi chiama in causa un altro elemento fondamentale. Chiama in causa non soltanto la memoria di Spaventa ma anche quella di Montesquieu e della separazione dei poteri.
La separazione dei poteri è la premessa della democrazia. Senza quella separazione la democrazia non esiste, si trasforma in un plebiscito come ha appena ricordato tre giorni fa su questo giornale Gustavo Zagrebelsky. Il plebiscito non è democrazia, da esso nascono soltanto oligarchia o tirannide.
Perciò, se posso dare a Mario Monti un rispettoso suggerimento, non proceda ad atti avventati e attenda, prima di sostituire la volontà del governo al processo tuttora in corso, la sentenza del Consiglio di Stato il quale è già stato condizionato abbastanza dalle indicazioni del governo su questa delicatissima questione. Si dirà che si tratta di forma e non di sostanza. Errore. La forma è sostanza quando si tratta di rapporti tra poteri dello Stato. Non a caso noi siamo sempre stati convinti dell’opportunità anzi della necessità del Quirinale d’aver sollevato il conflitto d’attribuzioni nei confronti della Procura di Palermo. A parti invertite si ripropone qui un analogo conflitto. Il governo non può interferire utilizzando una sospensione di giurisdizione della durata di otto giorni da oggi. Perciò Monti attenda. Quasi certamente la sentenza del 27 novembre gli darà mano libera, ma se così non fosse?
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Nel frattempo le forze politiche si agitano sempre più. Il Centro in particolare.
Secondo le nostre informazioni il più convulsamente agitato nei tre giorni alle nostre spalle è stato Pierferdinando Casini. Contro le elezioni regionali a febbraio strillava in tutte le direzioni: con Bersani, con Monti e perfino con Napolitano. Non era pronto, non aveva ancora trovato i candidati adatti, non sapeva con chi allearsi. Quando ha visto spuntare Montezemolo l’intensità delle grida è raddoppiata. Casini vuole il Monti-bis, Montezemolo e Riccardi pure. Ma chi si intesterà quell’icona? Chi sarà al timone e chi ai remi? I remi non piacciono a nessuno, il timone piace a tutti ma ce n’è uno solo.
E Monti, cosa farà Monti?
Si presenterà a capo d’una lista? O quantomeno la benedirà pubblicamente? Una lista o coalizione che sia non può che collocarsi al centro perché Monti se deciderà di schierarsi non potrà che collocarsi al centro.
Una coalizione di centro competerà con il centrosinistra e con Grillo.
Non credo che Grillo supererà il 20 per cento dei seggi parlamentari, quale che sia la legge elettorale. Comunque, prima o dopo le elezioni, ci sarà un’alleanza tra il Centro e il Centrosinistra ma anche in quel caso si dovrà stabilire chi sta al timone e chi ai remi, ma di timone – lo ripeto – ce n’è uno solo.
Tutto questo groviglio di ipotesi, una delle quali diventerà comunque realtà, non giova a Monti. Per il ruolo che ha avuto e per la credibilità che ha acquistato in Italia e all’estero, lui deve restare super partes. Deve essere chiamato e lo sarà in ogni caso perché la realtà impone la sua presenza. Ma il voto democratico viene prima e condizionerà anche i modi di quella chiamata.
Seguendo la logica, la soluzione più appropriata sarebbe che fosse chiamato da un centrosinistra vittorioso, alleato con i liberali moderati. Se si vuole puntare seriamente sull’equità, la produttività, il lavoro, lo sviluppo e soprattutto sull’Europa, il centrosinistra ha bisogno di Monti e Monti del centrosinistra.
Ricordate che quando Moro concordò con Berlinguer l’ingresso del Pci nella maggioranza, chiamò a fare il governo Andreotti cioè la destra democristiana. La logica è sempre la logica.
La Repubblica 18.11.12
“Non nascondersi dietro i tecnici”, di Claudio Sardo
Mario Monti ha buone ragioni nel sostenere che il suo governo ha salvato il paese dal baratro finanziario e gli ha restituito una credibilità internazionale, dopo l’umiliante fallimento di Berlusconi. Ma non sono ragioni sufficienti per sostenere un secondo governo Monti oltre le elezioni di marzo. Anzi, le condizioni dell’emergenza appaiono in conflitto con quelle di un programma di ricostruzione.
Monti ha goduto di un sostegno parlamentare irripetibile da parte di una «strana maggioranza», che non potrebbe ripetersi, a meno di una volontà suicida delle sue componenti e di una dissipazione della residua credibilità politica.
Ma soprattutto l’impedimento ad un Monti-bis sta nei numeri sempre più gravi di questa crisi, nel deficit di fiducia del Paese, nei costi sociali pagati anche durante quest’anno di risanamento, nella solitudine e nell’individualismo che aumentano mentre diminuiscono il lavoro, il reddito, i diritti, le opportunità. Non si tratta di attribuire a Monti colpe che non ha. Gli abbiamo sempre riconosciuto i meriti per ciò che ha dato all’Italia, quando l’Italia era diventata un problema per sé e per gli altri. L’allineamento agli standard di bilancio richiesti dall’Europa e dalle tecnocrazie sovranazionali ha, però, prodotto ulteriore recessione e impoverimento. Al di là dei freddi numeri pesano, eccome, i costi umani dei posti di lavoro persi, delle speranze negate ai giovani, delle paure crescenti nelle famiglie a basso reddito. Pesano sulle stesse istituzioni democratiche perché sono il moltiplicatore della sfiducia verso la rappresentanza politica.
Monti talvolta dà l’impressione di volersi salvare da solo. Di scaricare sulla politica la responsabilità della crisi (economica, sociale, morale), riservando alla «tecnica» la titolarità di un’azione oggettiva di risanamento che, comunque, dovrà proseguire. E ancor più del premier, alcuni dei sostenitori del Monti-bis cercano di elevare questa proposizione a programma politico di un nuovo Centro. Può darsi che si tratti solo di propaganda e che l’obiettivo, minimale, sia quello di raccogliere un po’ di voti utilizzando la scia del governo. Ma, se questo diventasse l’asse della politica centrista, allora rischierebbe grosso l’Italia del dopo Berlusconi. La speranza di una svolta politica verrebbe stretta nella tenaglia tra la contestazione assoluta di Grillo e l’ipocrisia di una verità tecnica da imporre agli italiani a nome di oligarchie interne ed esterne. Qualcuno l’ha chiamato il «grillo-montismo». Ma non c’era bisogno di tanta fantasia per comprendere il gioco di sponda tra chi – Grillo – dice che i partiti sono tutti uguali nelle loro nefandezze e chi – sostenitore del Monti-bis – dice che i tecnici devono fare ciò che va inibito ai politici.
Invece l’Italia ha bisogno di politica. Di buona politica. Ha bisogno di più democrazia e di più partecipazione. Proprio mentre la crisi morde di più. Proprio quando i più deboli e i più poveri pagano il prezzo più elevato. E non si tratta di un generico auspicio. C’è una forte domanda di politica e di partecipazione in questo Paese. Lo si è visto nelle piazze di mercoledì scorso, con tanti giovanissimi accanto ai loro professori e al sindacato. Lo si è visto in Sicilia dove ha vinto un uomo-simbolo dell’antimafia e dove, nonostante la demagogia e il populismo di Grillo, tanti voti al Movimento 5 stelle contenevano una domanda di cambiamento e di moralità, a cui le forze del centrosinistra dovranno seriamente rispondere. Lo si vede in questi giorni di preparazione delle primarie: centinaia di migliaia di persone che discutono, che si organizzano, che competono cercando un bene comune. Lo si vede infine nel desiderio di partecipare di chi non è di centrosinistra e vorrebbe che anche la sua parte gli offrisse la possibilità di contare, di votare, di decidere.
C’è un intreccio tra crisi sociale e crisi democratica. C’è un robusto filo rosso che lega la paura di questa lunga crisi alla sfiducia verso le forme attuali della politica. C’è un nesso necessario tra la risposta sociale e quella democratica: più equità e più uguaglianza vanno a braccetto con una politica più partecipata, più trasparente, più efficace. Insieme possono diventare vettori di un nuovo sviluppo: il contrario del dogma liberista che proclamava la diseguaglianza come fattore di competizione e di crescita.
Per questo, dopo Monti è necessario un governo politico. Non perché i partiti devono tornare a comandare. Ma perché si deve aprire una stagione nuova. Peraltro, solo così non si disperderà l’azione di risanamento di Monti. L’Italia è un grande Paese. Non potrà risollevarsi se non si percepisce come una democrazia compiuta. È una sfida non scontata per il Pd. Le primarie sono una grande prova di coraggio e di umiltà. Ma bisognerà andare avanti. Allargando il fronte degli attori del rinnovamento democratico. Il Pd è anche un ponte verso un nuovo sistema politico. Un sistema capace di ricostruire partiti grandi e di non premiare più il ricatto dei piccoli e dei trasformisti.
Magari il popolo delle primarie potesse votare già alle prossime elezioni un Pd più grande, con Tabacci e Vendola nella stessa lista. Magari le primarie si estendessero anche al Pdl. Magari il Centro smettesse di nascondersi dietro il governo tecnico e annunciasse al Paese il proprio programma politico, verificando nel concreto differenze e convergenze con il centrosinistra. Magari la democrazia entrasse pure nel fortino blindato di Grillo. Nessuno può salvarsi da solo. Nessuno salverà da solo l’Italia. Ma di certo bisogna cambiare rotta. E cambiando rotta insieme all’Europa si valorizzeranno meglio anche le cose buone fatte da Monti.
L’Unità 18.11.12
“Un conflitto senza soluzioni”, di Lucio Caracciolo
Chiedete a un arabo palestinese di disegnare la Palestina. Poi chiedete a un ebreo israeliano di disegnare Israele. Confrontate i due schizzi: quasi sicuramente avranno la stessa forma. Perché nelle carte mentali dei due popoli le rispettive patrie occupano il medesimo spazio, tra Fiume (Giordano, ormai un rigagnolo) e Mare (Mediterraneo). Solo, quel territorio cambia nome a seconda dell’identità di chi lo evoca. Per il diritto di nominare il “proprio” spazio, da oltre sessant’anni in Terra Santa si vive e si muore, si uccide e ci si uccide. Il conflitto israelo-palestinese appartiene dunque alla vasta categoria dei problemi senza soluzione.
In termini logici, un problema senza soluzione non è un problema. Ma in politica, specie in geopolitica – ossia nelle dispute territoriali – non vige la logica formale. Se poi lo scontro investe la dimensione simbolico- identitaria, financo religiosa, come nel caso israelo-palestinese, la ricerca del compromesso diventa chimera. È su questo sfondo che conviene leggere l’ennesima crisi di Gaza. In apparenza, è lo stesso copione del dicembre 2008 (Operazione Piombo Fuso). Dopo che Hamas, filiale palestinese della Fratellanza musulmana, ha preso in mano la Striscia di Gaza, da quel territorio (365 chilometri quadrati, oltre un milione e mezzo di anime) partono a intervalli irregolari salve di razzi che colpiscono Sderot, Ashkelon, Ashdod e altri insediamenti israeliani, seminandovi il panico. Gerusalemme reagisce con raid aerei mirati. Finché, di fronte all’intensificarsi degli attacchi missilistici, il governo non decide che è il caso di dare una severa lezione a Hamas, in genere in vista di un’elezione alla Knesset. La deterrenza strategica sposa la tattica politica.
In questo caso, l’appuntamento elettorale di fine gennaio 2013 ha spinto Netanyahu a giocare la carta militare per compattare il fronte interno e cogliere alle urne una vittoria schiacciante. L’assassinio del capo militare (dunque il capo dei capi) di Hamas, Ahmad Jabari, ha inaugurato mercoledì scorso l’Operazione Pilastro di Difesa. Per ora aerea, forse presto terrestre. Come Piombo Fuso. Scadute le poche settimane che le Forze armate israeliane possono dedicare a un conflitto su terra, ognuno tornerebbe alle basi di partenza. In attesa delle prossime (e) lezioni.
Tuttavia l’apparenza inganna. Il copione delle provocazioni palestinesi e delle rappresaglie israeliane sarà pure lo stesso, ma nei quattro anni che separano Piombo Fuso da Pilastro di Difesa il mondo e il Medio Oriente sono cambiati. E continuano a mutare, a ritmo convulsivo.
Anzitutto, gli Stati Uniti hanno perso il Grande Medio Oriente. Dopo undici anni di guerra al terrorismo e due disastrose campagne in Afghanistan e in Iraq, l’influenza di Washington in quella che ci ostiniamo a definire una regione, mentre è uno spazio in rapida frammentazione, è ai minimi storici. Sorpreso dalle “primavere arabe”, Obama si è adattato a cavalcare un’onda rivoluzionaria che prometteva di aprire una stagione di libertà, progresso e democrazia, scoprendo di doversi accomodare, in Egitto e non solo, con i Fratelli musulmani, storica espressione dell’islam politico.
Allo stesso tempo, Obama si è costruito la fama di avversario di Netanyahu, irritando il premier israeliano ma poi finendo per accettarne l’intransigenza sul dossier palestinese e non solo pur di evitarne (ritardarne?) l’attacco all’Iran. Tanti equilibrismi si traducono in schizofrenia a stelle e strisce: i Fratelli musulmani che comandano al Cairo sono okay per assenza di alternative, i loro affiliati a Gaza sono terroristi perché così ha stabilito Gerusalemme. Ancora, dopo aver benedetto la rivoluzione contro Gheddafi, Obama scopre che gli arcinemici del Colonnello uccidono il suo ambasciatore in Libia e così contribuiscono a scatenare la faida fra le agenzie di intelligence americane.
In secondo luogo, attorno a Gerusalemme non vi sono quasi più Stati, solo territori in ebollizione, sui quali jihadisti e altri nemici di Israele si muovono con agilità. La Siria non esiste più, è un campo di mattanza in cui gli islamisti radicali guadagnano spazio e legittimazione. Il Libano è scosso dall’onda d’urto della guerra civile siriana e Hezbollah continua a minacciare con i suoi missili il Nord d’Israele. In Giordania il regime amico trema. L’Egitto, governato dalla casa madre di Hamas, cerca di destreggiarsi fra solidarietà ideologica ai fratelli di Gaza e interesse nazionale, che sconsiglia lo scontro con Israele. Intanto il Sinai, penisola teoricamente egiziana dove passa il confine con lo Stato ebraico e da cui si accede a Gaza, è più che mai terra di nessuno – ossia di beduini e jihadisti.
Infine, l’Iran. Il nemico numero uno dello Stato ebraico. Per Netanyahu, l’Operazione Pilastro di Difesa è un capitolo nel confronto decisivo con Teheran. Hamas è considerato da Gerusalemme il braccio armato dell’Iran in campo palestinese (definizione spicciativa, ma che continua a orientare l’élite strategica e soprattutto il pubblico israeliano). I razzi che hanno sfiorato Tel Aviv e le colonie ebraiche presso Gerusalemme sono Fajr-5 di produzione persiana. Se Israele attaccasse l’Iran, sarebbero usati per martellare lo Stato ebraico da sud, mentre i missili di Hezbollah colpirebbero da nord.
Di qui l’obiettivo dichiarato dell’attacco a Gaza: annientare il potenziale missilistico annidato nella Striscia, peraltro in buona parte affidato a milizie più radicali e assai più filo-iraniane dello stesso Hamas. Queste ultime, in particolare la Jihad islamica e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina, sono responsabili dell’intensificarsi degli attacchi anti-israeliani ai primi di novembre, che hanno offerto a Netanyahu l’occasione per scatenare la sua aviazione contro Gaza. Quasi Teheran avesse deciso di provocare Gerusalemme, in vista di una guerra che alcuni dirigenti della Repubblica Islamica considerano vantaggiosa per la sopravvivenza del regime.
Per ora, la guerra a Gaza è limitata. Israele non intende rioccupare la Striscia e Hamas non vuole suicidarsi nello scontro frontale con l’entità sionista.
Ma troppi focolai sono accesi attorno a Gerusalemme. Basta poco per incendiare l’intero Vicino Oriente e il Golfo. Nessuno potrebbe prevedere l’esito di una guerra totale. L’unica certezza è che non risolverebbe il dilemma arabo-israeliano, o peggio islamico-ebraico. In Terra Santa resta vero il postulato dell’antropologo americano Clifford Geertz: “Qui la sconfitta non è mai totale, la vittoria sempre incompleta, la tensione infinita. Tutte le conquiste e le perdite sono solo marginali e temporanee, mentre i vincitori cadono e gli sconfitti si rialzano”.
La Repubblica 18.11.12
“Platea più ampia per i finanziamenti”, di Giorgio Costa
Sisma Emilia. Il Dl varato dal Cdm. Possono chiedere gli aiuti anche imprese commerciali, agricole, professionisti e lavoratori dipendenti
Finanziamenti più rapidi a popolazioni e imprese colpite dal terremoto. Di fatto con il decreto varato ieri dal Consiglio dei ministri si chiarisce che possono accedere ai finanziamenti, oltre le imprese industriali, le imprese commerciali, agricole, i liberi professionisti e i lavoratori dipendenti, se hanno titolo ad accedere ai contributi avendo subito danni. Con questa definizione della platea dei beneficiari si esaurisce definitivamente il quadro agevolativo, in caso di calamità naturali, ammissibile in base alle norme comunitarie. E questo perché i tempi di definitiva conversione in legge (9 dicembre 2012), si osserva nella nota di palazzo Chigi (che ieri ha approvato anche un Ddl per contenere il consumo del suolo che il ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali Mario Catania ritiene sia varabile definitivamente entro la fine della legislatura) «mettono a rischio per gli aventi diritto la possibilità di accedere tempestivamente alle procedure bancarie di finanziamento. È stato quindi necessario anticipare l’effettività delle disposizioni emerse dal dibattito parlamentare.
Positive, ma con qualche cautela, le reazioni, sia dal mondo politico, sia da quello istituzionale. «Il decreto approvato ieri dal Governo – commenta Vasco Errani, presidente della Regione Emilia-Romagna e commissario alla ricostruzione post-sismica – è un passo in avanti positivo. Rimangono però punti che debbono e possono essere risolti, sui quali continuiamo a lavorare, nella direzione indicata con chiarezza nel documento che abbiamo approvato nell’ambito del Tavolo regionale dell’economia, assieme alle forze sociali ed economiche». «Uno dei tre obiettivi posti dal nostro ordine del giorno, che impegnava il governo a introdurre normative atte a risolvere i principali problemi ancora aperti sul versante fiscale, è stato raggiunto». Lo dichiarano i deputati modenesi del Pd Manuela Ghizzoni, Giulio Santagata e Ivano Miglioli, dopo il varo del Dl di completamento della disciplina di accesso ai finanziamenti per le popolazioni colpite dal sisma del maggio scorso. «A quanto si apprende – dicono – il Governo, con il decreto che estende l’accesso anche ai liberi professionisti finora rimasti esclusi da ogni intervento di sostegno, rimedia al vuoto normativo. Restano in campo ancora gli altri nodi da sciogliere. Al Senato, durante i lavori di conversione in legge del decreto 174, si potrà provvedere – spiegano i deputati – all’estensione delle misure di agevolazione per le aziende e gli esercenti di attività commerciali o agricole che hanno avuto un danno al reddito della propria impresa, oltre che all’introduzione per i lavoratori del meccanismo della cessione del quinto dello stipendio per i contributi previdenziali e assistenziali e dei premi per l’assicurazione, al fine – concludono Ghizzoni, Miglioli e Santagata – di favorire la ripresa economica dell’area». Sempre ieri, da Bologna, arriva il monito del procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso sulle infiltrazioni mafiose nella ricostruzione. «Occorre diffidare degli interventi di ricostruzione “chiavi in mano” e delle aziende che promettono tempi rapidi nei lavori. E il settore più a rischio – ha spiegato Grasso a margine di un incontro con gli studenti di un liceo cittadino – non è tanto quello dell’edilizia pubblica, ma quello dell’edilizia privata. Quando ti offrono chiavi in mano qualcosa di molto rapido nella ricostruzione bisogna diffidare e stare attenti che siano aziende affidabili, che facciano i lavori a regola d’arte». Del resto, che i tentativi di infiltrazioni ci siano, ha concluso Grasso, «non c’è dubbio».
“Troppi errori. Chi ha deciso di cambiare strategia?” di Massimo Soliani
Dilettantismo o irresponsabilità, e in ogni caso poco cambia». Gli incidenti di Roma, le cariche al corteo degli studenti sul Lungotevere e infine quelle immagini, assurde, dei lacrimogeni lanciati dalle finestre e dal tetto del ministero di Giustizia in via Arenula su una folla di ragazzini in fuga. Nelle parole di dirigenti e funzionari di polizia, a quarantotto ore dalla guerriglia, l’aggettivo che ricorre più spesso è «incredibile». Incredibile che qualcuno abbia deciso di disperdere il corteo in quel modo, incredibile la scelta di infrangere la testuggine che apriva il serpentone con quella carica a freddo, incredibile il volume di forza usato contro la testa del corteo e la caccia all’uomo scatenatasi poi per i vicoli del Ghetto e di Trastevere. Una bocciatura senza appello che agenti esperti, con anni di manifestazioni alle spalle, rivolgono alla gestione dell’ordine pubblico solo quando i taccuini sono chiusi e i registratori al sicuro dentro gli zaini. Per arrivare alla fine però, alle immagini dei lacrimogeni a via Arenula, occorre ripartire dall’inizio, dalla concatenazione di eventi che ha portato poi ad una situazione in cui evidentemente, ripetono quasi tutti gli interlocutori, «qualcuno ha perso la testa, e non soltanto gli agenti in strada».
Il primo errore, si fa notare, è di tipo strettamente strategico: dopo anni di prassi consolidata basata sulla scelta di «essere invisibili», di chiudere le vie d’accesso ai palazzi istituzionali e contenere le intemperanze dei cortei cercando di evitare per quanto possibile il contatto fisico, mercoledì si è scelto invece di intervenire energicamente dopo le prime sassate da parte di alcuni gruppi di mani- festanti. «Se veniamo aggrediti militarmente è chiaro che dobbiamo reagire», spiegava ieri il questore di Roma Fulvio Della Rocca, alla sua prima grande prova di gestione dell’ordine pubblico dopo l’arrivo nella Capitale a giugno. Parole che non convincono chi invece le strade della Capitale, dietro uno scudo di plexi- glass, le batte da anni. «In passato ci hanno spiegato in tutti i modi che non bisognava reagire a meno che non fosse assolutamente necessario – dice uno di loro – adesso abbiamo cambiato linea? Basta saperlo. Ci sono state volte in cui ci è piovuto addosso di tutto e il responsabile continuava a ripeterci di restare fermi, immobili. È successo persino il 15 feb- braio del 2011 a San Giovanni. Mercoledì, invece, appena sono volate due pietre è partito l’ordine di caricare. E a quel punto è scattato il caos». Perché questo cambio di strategia? Chi ha deciso la linea dell’interventismo? L’ordine è partito dalla Questura di Roma o è stato deciso al Viminale? «Questo non lo so – spiega un funzionario del Dipartimento – quello di cui sono sicuro, però, è che un peso devono averlo avuto per forza gli incidenti che erano già scoppiati a Torino e in altre parti d’Italia. Come se si fosse deciso che a Roma non si sarebbero tollerate altre provocazioni. Forse però il messaggio che è passato in alcuni operatori me- no esperti o più esagitati è che era arrivato il momento di chiudere i conti».
L’effetto è quello visto attraverso decine di filmati. Le manganellate su alcuni studenti inermi, la caccia all’uomo nei vicoli e la decisione di disperdere, in ogni modo, il corteo. Anche lanciando lacrimogeni dal ministero della Giustizia contro centinaia di ragazzi, per lo più giovanissimi e nessuno a volto coperto, che stavano solo cercando di scappare. «Nessuno di coloro che fanno controllo al ministero ha in dotazione quei lacrimogeni – dicono – significa allora che qualcuno deve essere entrato appositamente. E chi ha dato l’ordine? Difficile pensare ad un agente non preparato o semplicemente inadatto». E questa è un’altra questione che sta molto a cuore ai sindacati di polizia, che da anni denunciano l’effetto dei tagli sulla selezione e la formazione del personale. «Per fare ordine pubblico – dicono – occorre essere preparati, ma il bilancio del Dipartimento non permette più di fare corsi di formazione appositi. E il risultato è che si va in piazza senza una formazione adeguata. Inoltre non si fanno più concorsi e il nuovo personale è tutto di provenienza “esterna” e non sufficien- temente valutato. Si capisce allora che se queste sono le condizioni le cose non possono andare altrimenti. E andranno sempre peggio».
L’Unità 17.11.12
Domani l’iniziativa ANPI «No al fascismo in cento piazze diverse», di Carlo Smuraglia
In Italia, quelli che apparivano semplici rigurgiti di nostalgismo fascista, si stanno manifestando con rinnovato impegno, con rinnovata ampiezza e con crescente diffusione. Si aprono nuove sedi di movimenti neofascisti, si assumono iniziative, spesso ardite, da parte di Forza Nuova, di «Fiamma Tricolore», di «Casa Pound», con un vero e proprio crescendo e spesso con la protezione e l’incoraggiamento anche da parte di pubblici amministratori.
Aumenta la violenza delle manifestazioni, anche da parte di coloro che storicamente risorgono in occasione delle crisi cercando di approfittarne e finiscono sempre per porre in essere vere e proprie spinte verso destra, i cui sbocchi sotto il profilo storico sono sempre stati nefasti. Si aggiungono anche i tentativi di collegamento, addirittura a livello europeo, di cui è inequivocabile dimostrazione la recente manifestazione dell’Mse a Roma. In questa situazione complessiva, la linea di difesa di coloro che credono nei valori della democrazia e dell’antifascismo è ancora troppo debole e spesso incerta tra la reazione immediata e la riflessione più ampia e il tentativo di coinvolgere nella resistenza e nel contrattacco, molti cittadini e le stesse istituzioni.
Colpisce il fatto che l’esposizione di simboli fascisti e le manifestazioni aperte di fascismo (vedi le vergognose esibizioni durante il funerale di Pino Rauti) e nazismo lascino indifferente tanta parte dei cittadini, che non ne considera la gravità e la pericolosità, e trovino un clima troppo tiepido anche nelle istituzioni che dovrebbero garantire il rispetto della Costituzione. Istituzioni che, al più, possono prendere in considerazione il problema sotto il profilo dell’ordine pubblico, senza avvedersi che il problema è molto più serio e coinvolge princìpi e tematiche riferibili ai valori costituzionali.
Tutto questo trova le sue radici nel fatto che il nostro Paese non ha mai fatto seriamente i conti con il proprio passato, non ha mai analizzato e fatto conoscere a fondo il fascismo, ha trascurato non di rado le pagine più belle della nostra storia, come la Liberazione dai tedeschi e dai fascisti, ed infine è stato troppo tiepido di fronte ai continui attacchi di negazionismo e di revisionismo. Si è diffusa la falsa idea di un fascismo «buono» e «mite», contro la verità e la realtà, a fronte dei tremila morti del primo periodo del fascismo, delle leggi razziali, delle persecuzioni di chi non era fascista e della guerra in cui sono stati mandate al massacro decine di migliaia di giovani e si è rovinato e distrutto il Paese. Revisionismo e negazionismo favoriscono la sottovalutazione dei fenomeni, producono diseducazione e disinformazione, non aiutano la diffusione di un antifascismo di fondo, che dovrebbe essere il connotato comune di tutte le generazioni. Ancora più grave che le stesse istituzioni, mai liberate del tutto dalle incrostazioni fasciste, facciano così poco per trasformarsi in quegli organismi democratici che disegna la Costituzione, con fondamentali disposizioni come l’art. 54 e l’art. 97, ma poi con tutto il quadro dei princìpi che ne costituiscono l’ossatura, il fondamento e la base.
Che dei Comuni possano mostrare aperta simpatia verso i movimenti neofascisti, così come il fatto che troppi prefetti e questori restino inerti (oppure si attestino, come si è detto, sull’ordine pubblico) a fronte di manifestazioni che dovrebbero ripugnare alla coscienza civile di tutti, sono rivelatori di una permeabilità assai pericolosa per istituzioni che per definizione dovrebbero essere democratiche.
Ma c’è di più: un governo che ad una interrogazione parlamentare inerente la vicenda Graziani risponde di non essere competente perché si tratta di un fatto locale (!). E ancora. Noi siamo convinti che gran parte degli appartenenti alle forze dell’ordine sia rispettosa delle norme costituzionali e dei doveri connessi alla loro funzione; ma non possiamo non constatare che ancora troppi sono gli episodi di violenza ingiustificata e arbitraria, da quelli collettivi (vanno ricordati i casi anche recenti vedi lo sciopero del 14 novembre in cui le forze dell’ordine hanno spesso «calcato la mano», anche se continuo a deprecare l’uso della violenza da parte di alcuni manifestanti) a quelli individuali (episodi anche recenti, di cui si è diffusamente occupata la stampa, come i pestaggi di cittadini inermi, gli «anomali» trattamenti riservati ad alcuni arrestati). Questo dimostra che è ancora insufficiente il livello di democratizzazione e di formazione all’interno di corpi che dovrebbero essere sempre e concretamente impegnati nella difesa della democrazia e della convivenza civile, nel profondo rispetto dei diritti del cittadino.
Insomma, un quadro insoddisfacente e preoccupante, contro il quale occorre reagire non solo episodicamente, ma in modo coordinato e diffuso, che riguardi i cittadini, le associazioni, i partiti, i movimenti, ma si riferisca anche alle istituzioni. Uno studioso ha scritto di recente un libro con un titolo significativo: «Italia: una nazione senza Stato», osservando che se si è ormai costruita l’anima (la Nazione) manca, tuttavia, un «corpo» che a quella corrisponda (cioè una Costituzione non solo fatta di intangibili principi ma applicata concretamente e rispettata, governi duraturi, Parlamento che funziona, leggi comprensibili e ispirate a interessi generali, strutture organizzative efficienti e imparziali, burocrazia non arcigna ma fatta per il cittadino, e così via).
Noi siamo d’accordo, in linea di principio, ma pensiamo che in materia di democrazia e di antifascismo ci sia bisogno di uno slancio salutare e innovativo sia per l’anima che per il corpo; ed a questo vogliamo contribuire con una grande campagna di massa per creare una vera cultura dell’antifascismo e della democrazia, per disperdere ogni vocazione autoritaria e populistica, per ricreare la fiducia reciproca fra cittadini e istituzioni.
Di tutto questo parleremo in più di 100 piazze del Paese domani 18 novembre, Giornata Nazionale del tesseramento all’Anpi. Un momento per noi prezioso e importante per portare ossigeno e forza alla democrazia e all’antifascismo e per confrontarci con i cittadini su temi fondamentali per la stessa convivenza civile, individuando i modi e le vie per uscire da una crisi che non è solo economica ma anche politica e morale.
L’Unità 17.11.12
