attualità, politica italiana

“Brinderanno a Carnevale Formigoni e Polverini”, di Eugenio Scalfari

I tre giorni che vanno da martedì a venerdì scorso, culminati con la riunione al Quirinale tra il Capo dello Stato, i presidenti delle Camere e il presidente del Consiglio, sono stati caratterizzati da una preoccupante confusione di interessi, intenzioni, ipotesi, sgambetti, litigi e dall’appannarsi di quel-l’interesse generale che dovrebbe essere al centro dell’attenzione di chi rappresenta le istituzioni.
Giorgio Napolitano ha cercato di recuperare la chiarezza smarrita e indicare una soluzione condivisa, ma c’è riuscito soltanto in parte lasciandosi anche lui andare a qualche dichiarazione lessicalmente inesatta, come quella che giudica “appropriata” la data del 10 marzo per le elezioni regionali.
Appropriata per evitare la crisi di governo, certo, ma non per evitare che la Polverini rimanga altri quattro mesi al suo posto con un Consiglio regionale già morto ma che continua ad esser pagato stando a casa mentre la governatrice continua a dilapidare i denari a sua disposizione elargendo contributi ad improbabili associazioni e nominando nuovi amministratori nelle aziende municipali.
A me oggi verrebbe la voglia di scrivere d’altro, ma questo è il tema che l’attualità impone e a questa attualità debbo dunque conformarmi cominciando con la posizione assunta in questa circostanza dal presidente della Repubblica, quale risulta dal comunicato del Quirinale e dalle informazioni a nostra disposizione sui vari passaggi che l’hanno preceduto.
Giorgio Napolitano si è occupato esclusivamente di due problemi che rientrano tutti e due nell’ambito delle sue prerogative o poteri che dir si voglia: evitare una crisi di governo minacciata fino all’ultimo momento dal Pdl nelle persone di Alfano in campo e Berlusconi fuoricampo; porre alcuni punti fermi all’ipotesi d’uno scioglimento anticipato della legislatura.
Per evitare la crisi di governo (che in un momento come questo sarebbe micidiale per gli interessi generali del Paese) bisognava allungare i tempi delle elezioni regionali del Lazio e della Lombardia, ma su quella materia Napolitano si è rimesso alle decisioni del governo perché si tratta di materie che non riguardano il Capo dello Stato.
Rientra invece nei suoi esclusivi poteri lo scioglimento anticipato del Parlamento. I paletti ribaditi dal Capo dello Stato sono stati da lui ancora una volta indicati: approvazione entro dicembre della legge di stabilità finanziaria e riforma della legge elettorale per le elezioni politiche.
Qualche giornale ieri ha scritto che su quest’ultimo punto Napolitano si sarebbe dimostrato più possibilista del solito. Non è vero. Certo non spetta a lui formulare quella riforma ma spetta a lui confermare che, qualora non venisse radicalmente cambiata in tempo utile la legge “porcata” tuttora vigente, egli invierà un messaggio alle Camere stigmatizzando la responsabilità delle forze politiche dinanzi all’opinione pubblica.
Napolitano non ha assunto alcun impegno sulla data delle elezioni politiche. Molto probabilmente sarà il 10 marzo in coincidenza con quelle regionali, ma potrebbe anche restare quella del 7 aprile in ottemperanza alla fine naturale della fine legislatura. È una decisione di sua pertinenza e la conosceremo soltanto a gennaio.
Per quanto lo riguarda Napolitano si è assunto le sue responsabilità, ha esercitato al meglio la sua capacità di mediazione, ha evitato la crisi di governo, ha indotto i partiti di maggioranza ad una condotta più consona agli interessi dello Stato. Se ha commesso qualche improprietà marginale che abbiamo già rilevato, ha però pienamente mantenuto il suo ruolo di coordinamento, di saggezza costituzionale e di lungimiranza politica.
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Veniamo alla magistratura amministrativa. Un’associazione di cittadini regolarmente costituita ha presentato al Tar del Lazio una richiesta di tutela nei confronti della Regione il cui presidente continua ad amministrare dopo essersi dimesso con tutto il Consiglio, dissipando le risorse delle quali dispone senza ancora aver fissato la data delle elezioni come la legge prevede. Il Tar, dopo aver ascoltato le parti, ha emesso sentenza ordinando alla Polverini di fissare la data entro cinque giorni e prescrivendo la nomina d’un commissario qualora la Polverini non abbia provveduto.
La Polverini ha fatto ricorso al Consiglio di Stato chiedendogli di cassare la sentenza del Tar e nel frattempo di congelarne gli effetti. Il Consiglio di Stato ha fissato al 27 di novembre l’udienza di merito e congelato la sentenza del Tar fino a quella data. Fin qui tutto regolare. Ma assai singolare è la motivazione dell’ordinanza di congelamento dove è scritto che «il Tar ha inflitto con la sua sentenza un gravissimo vulnus ai poteri del governatore della Regione che secondo lo statuto affida in esclusiva al presidente il potere di indire le elezioni».
Il Consiglio di Stato cioè ha disconosciuto la competenza del Tar pur essendo pacifico che l’ordinamento impone tempi molto brevi tra le dimissioni del Consiglio e le elezioni. Se così non fosse il presidente potrebbe governare all’infinito con un Consiglio morto ma egualmente retribuito.
Chi dovrebbe provvedere a indire le elezioni se il governatore non lo fa neppure in presenza d’una sentenza del tribunale amministrativo? Forse il ministro della Giustizia? O quello dell’Interno? Il Consiglio di Stato non lo dice, ma accusa il Tar d’aver gravissimamente vulnerato i poteri della Polverini.
Quando Silvio Spaventa, 130 anni fa, costituì la giurisdizione amministrativa, motivò questa decisione con la necessità di tutelare gli interessi dei cittadini contro possibili arbitrii del potere pubblico. La competenza della magistratura ammini-strativa è dunque sancita fin dalla sua creazione. Il Consiglio di Stato disconosce dunque se stesso nel momento in cui scrive che il tribunale amministrativo ha «ferito gravissimamente » i poteri della Regione. Dov’è la coerenza del massimo organo di questa giurisdizione?
Il 27 prossimo conosceremo la sentenza di merito. Nel frattempo però il governo dovrebbe astenersi dal fissare, sia pure col consenso della Polverini, la data delle elezioni. Un processo è in corso, almeno in teoria il Consiglio di Stato potrebbe dar ragione al Tar, constatare l’inadempienza della Polverini e ordinare al ministro dell’Interno la fissazione della data tecnicamente più praticabile e più ravvicinata.
Al 10 marzo di cui si parla mancano ancora quattro mesi. È questa la data più prossima? Quattro mesi? È questo il ruolo di tutela degli intessi dei cittadini per il quale è stata fondata la giustizia amministrativa? Non credo che Silvio Spaventa sarebbe contento.
Si dirà: se questo avvenisse, il Pdl provocherebbe la crisi di governo. Non credo che Alfano aprirebbe la crisi contro una sentenza della magistratura amministrativa, ma l’ipotesi chiama in causa un altro elemento fondamentale. Chiama in causa non soltanto la memoria di Spaventa ma anche quella di Montesquieu e della separazione dei poteri.
La separazione dei poteri è la premessa della democrazia. Senza quella separazione la democrazia non esiste, si trasforma in un plebiscito come ha appena ricordato tre giorni fa su questo giornale Gustavo Zagrebelsky. Il plebiscito non è democrazia, da esso nascono soltanto oligarchia o tirannide.
Perciò, se posso dare a Mario Monti un rispettoso suggerimento, non proceda ad atti avventati e attenda, prima di sostituire la volontà del governo al processo tuttora in corso, la sentenza del Consiglio di Stato il quale è già stato condizionato abbastanza dalle indicazioni del governo su questa delicatissima questione. Si dirà che si tratta di forma e non di sostanza. Errore. La forma è sostanza quando si tratta di rapporti tra poteri dello Stato. Non a caso noi siamo sempre stati convinti dell’opportunità anzi della necessità del Quirinale d’aver sollevato il conflitto d’attribuzioni nei confronti della Procura di Palermo. A parti invertite si ripropone qui un analogo conflitto. Il governo non può interferire utilizzando una sospensione di giurisdizione della durata di otto giorni da oggi. Perciò Monti attenda. Quasi certamente la sentenza del 27 novembre gli darà mano libera, ma se così non fosse?
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Nel frattempo le forze politiche si agitano sempre più. Il Centro in particolare.
Secondo le nostre informazioni il più convulsamente agitato nei tre giorni alle nostre spalle è stato Pierferdinando Casini. Contro le elezioni regionali a febbraio strillava in tutte le direzioni: con Bersani, con Monti e perfino con Napolitano. Non era pronto, non aveva ancora trovato i candidati adatti, non sapeva con chi allearsi. Quando ha visto spuntare Montezemolo l’intensità delle grida è raddoppiata. Casini vuole il Monti-bis, Montezemolo e Riccardi pure. Ma chi si intesterà quell’icona? Chi sarà al timone e chi ai remi? I remi non piacciono a nessuno, il timone piace a tutti ma ce n’è uno solo.
E Monti, cosa farà Monti?
Si presenterà a capo d’una lista? O quantomeno la benedirà pubblicamente? Una lista o coalizione che sia non può che collocarsi al centro perché Monti se deciderà di schierarsi non potrà che collocarsi al centro.
Una coalizione di centro competerà con il centrosinistra e con Grillo.
Non credo che Grillo supererà il 20 per cento dei seggi parlamentari, quale che sia la legge elettorale. Comunque, prima o dopo le elezioni, ci sarà un’alleanza tra il Centro e il Centrosinistra ma anche in quel caso si dovrà stabilire chi sta al timone e chi ai remi, ma di timone – lo ripeto – ce n’è uno solo.
Tutto questo groviglio di ipotesi, una delle quali diventerà comunque realtà, non giova a Monti. Per il ruolo che ha avuto e per la credibilità che ha acquistato in Italia e all’estero, lui deve restare super partes. Deve essere chiamato e lo sarà in ogni caso perché la realtà impone la sua presenza. Ma il voto democratico viene prima e condizionerà anche i modi di quella chiamata.
Seguendo la logica, la soluzione più appropriata sarebbe che fosse chiamato da un centrosinistra vittorioso, alleato con i liberali moderati. Se si vuole puntare seriamente sull’equità, la produttività, il lavoro, lo sviluppo e soprattutto sull’Europa, il centrosinistra ha bisogno di Monti e Monti del centrosinistra.
Ricordate che quando Moro concordò con Berlinguer l’ingresso del Pci nella maggioranza, chiamò a fare il governo Andreotti cioè la destra democristiana. La logica è sempre la logica.
La Repubblica 18.11.12