Pochi giorni fa il Capo dello Stato ha ricevuto al Quirinale gli scienziati italiani protagonisti della scoperta del bosone di Higgs, al CERN di Ginevra. Prima e dopo l’importante cerimonia, si sono sottoposti a una lunga sequenza di eventi pubblici: dall’inaugurazione (in diretta TV) dell’anno scolastico, all’innovativo spettacolo/seminario di divulgazione “Lo show dell’Universo”, organizzato alla Città della Scienza di Napoli dall’INFN (l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, che si occupa – appunto – di particelle e di Higgs in particolare…), ai dibattiti su scienza e religione nell’ambito della “Notte europea dei ricercatori”. Se per lo spettacolo di Napoli non più di mille spettatori hanno potuto gremire la grande Sala Newton (ma molti di più hanno potuto rivederlo in televisione, nelle due repliche su Rai Storia), in decine di migliaia si sono riversati nei principali laboratori e istituti di ricerca per conferenze, dibattiti, esposizioni, o semplicemente per una visita e per conoscere i ricercatori che ci lavorano, in praticamente tutte le regioni d’Italia, e – di nuovo – la recente scoperta di noi fisici delle particelle ha avuto un ruolo da protagonista.
Questo fenomeno non ha però destato tanta attenzione quanto le file di poche centinaia di fandell’ultimo (costosissimo) oggetto tecnologico o della pop-star americana in giro per i negozi del centro.
Eppure, tra i grandi temi che la Scienza offre, dalle galassie alla nano-tecnologia, alle frontiere della medicina, il bosone di Higgs non è esattamente il più semplice da divulgare e il più affascinante per il grande pubblico.
E non si può certo dire che la cultura scientifica sia la grande protagonista della scena intellettuale del nostro Paese, né – tantomeno – dei programmi ministeriali della scuola, e anche nei mezzi di comunicazione di massa, la risposta al bisogno di conoscere i risultati, ma anche i metodi e i problemi, della Scienza, è spesso – spiace dirlo – frettolosa e sensazionalistica (con notevoli eccezioni, naturalmente).
Non è facile spiegare ai non addetti ai lavori, soprattutto la ricerca di base, quella guidata dalla curiosità, non dall’applicazione tecnologica o dal problema pratico concreto, tuttavia il dato fondamentale, che l’investimento in ricerca, anche quella apparentemente più lontana dalla vita quotidiana, rappresenta il seme che può far germogliare l’innovazione e – magari non nell’immediato – la crescita tecnologica, produttiva e economica del Paese, è oramai entrato nella consapevolezza di molti. Invece, spesso, è il mondo della politica, ad essere disattento, in modo assolutamente bipartisane nonostante i continui richiami all’importanza strategica della ricerca del Presidente Napolitano.
Non si spiega altrimenti il continuo declino degli investimenti in ricerca, sull’arco di più di dieci anni, sotto tutte le bandiere politiche e tecniche, declino che la crisi economica non ha fatto che inasprire, portando la somma di fondi pubblici e privati appena alla soglia dell’1% del PIL.
Un disinteresse per quello che la scienza può dare alla conoscenza prima, all’innovazione e al sistema produttivo poi, che contrasta – invece – con la crescente consapevolezza dell’opinione pubblica che solo rilanciando la ricerca – e ancorandola saldamente al mondo produttivo – si può accelerare l’uscita dalla crisi. E non è un caso, infatti, che tutti gli altri grandi paesi europei facciano scelte di segno molto diverso, e che lo stesso Parlamento Europeo stia chiedendo ai 27 paesi aumentare i fondi dell’UE per il programma di ricerca 2014-2020 da 80 a 100 miliardi di euro.
E’ possibile – anzi molto probabile – che gli sforzi dei ricercatori di comunicare, all’opinione pubblica e ai decision makers, l’importanza del loro lavoro vadano moltiplicati e migliorati. E’ possibile – anzi certo – che l’Università e le istituzioni scientifiche debbano aprirsi di più al confronto con il resto della società e che partecipino allo sforzo collettivo (?) di razionalizzare le spese, ridurre gli sprechi e migliorare in generale la morale pubblica.
Tuttavia, non solo è necessario che si rafforzi, in tutti, la ferma convinzione che la scienza è – davvero – la chiave del nostro futuro, ma è indispensabile che a quest’idea seguano i fatti.
Dunque agli applausi per le glorie degli scienziati italiani (spesso cercate e trovate all’estero) dovrebbero seguire azioni di sostegno concrete, non solo in termini di finanziamento, ma anche – ad esempio – restituendo dignità ed autonomia agli Enti pubblici di ricerca e al loro personale, spesso sacrificato e schiacciato nella generalità del pubblico impiego.
O, ancora, trovando le risorse per ridare ossigeno a una stretta ormai quasi mortale sul sistema universitario, schiacciato tra l’incudine del turnover ridotto al lumicino e il martello della forte riduzione del budget.
L’Unità 05.10.12
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"Anna Politkovskaja", di Andrea Riscassi
Se Anna non fosse stata Anna Politkovskaja, cronista implacabile, animata solo dalla volontà di vedere, capire e raccontare, noi non saremmo qui a piangere la sua morte, non perderemmo tempo a ricordarla mentre gli alberi del cimitero Troekurovskij stanno facendo cadere, come da sei anni a questa parte, le ultime foglie sulla sua tomba. Se il regime russo avesse impiegato un decimo delle forze utilizzate per punire il concerto blasfemo (ma soprattutto anti-putiniano) delle Pussy Riot, oggi gli assassini e i mandanti dell’omicidio di Anna Politkovskaja sarebbero a cucire guanti in qualche sperduta colonia penale della Siberia.
Se Anna, anziché criticare il regime per le stragi di civili in Cecenia, avesse invocato la difesa della Madre Patria Russia ora dirigerebbe qualche quotidiano vicino al partito di gomma che governa l’impero.
Se Anna, dopo aver cercato di mediare (coi terroristi) per evitare la strage al teatro moscovita di Dubrovka fosse riuscita ad arrivare a Beslan, forse avrebbe impedito la morte di qualcuno dei bambini di quella maledetta scuola osseta. Ma l’hanno avvelenata in volo.
Se Anna avesse appoggiato Putin, dopo tutte le minacce ricevute, sarebbe stata scortata, avrebbe viaggiato su una di quelle migliaia di auto blu che sfrecciano per le trafficatissime strade di Mosca.
Se Anna avesse avuto la scorta non sarebbe stata ammazzata come un cane nell’ascensore di casa sua, sei anni fa, il 7 ottobre 2006.
Se Anna, prima di essere uccisa, avesse difeso la politica imperiale di Putin, il regime avrebbe certo dato la caccia ai suoi assassini. Avrebbe cercato di capire chi è perché assoldò un killer per metterla a tacere.
Se se se.
Se Anna fosse stata una pennivendola, non sarebbe stata Anna Politkovskaja, giornalista capace di non avere riguardi nei confronti di nessuno, nè del tiranno, nè dei suoi amici, russi, europei, italiani.
Se Anna non fosse stata Anna Politkovskaja, cronista implacabile, animata solo dalla volontà di vedere, capire e raccontare, noi non saremmo qui a piangere la sua morte, non perderemmo tempo a ricordarla mentre gli alberi del cimitero Troekurovskij stanno facendo cadere, come da sei anni a questa parte, le ultime foglie sulla sua tomba.
Il tempo non è passato invano, cara Anna.
A Mosca Putin non è più amato come un tempo. E tanti domenica penseranno più alla tua morte che al suo compleanno.
www.partitodemocratico.it
"Anna Politkovskaja", di Andrea Riscassi
Se Anna non fosse stata Anna Politkovskaja, cronista implacabile, animata solo dalla volontà di vedere, capire e raccontare, noi non saremmo qui a piangere la sua morte, non perderemmo tempo a ricordarla mentre gli alberi del cimitero Troekurovskij stanno facendo cadere, come da sei anni a questa parte, le ultime foglie sulla sua tomba. Se il regime russo avesse impiegato un decimo delle forze utilizzate per punire il concerto blasfemo (ma soprattutto anti-putiniano) delle Pussy Riot, oggi gli assassini e i mandanti dell’omicidio di Anna Politkovskaja sarebbero a cucire guanti in qualche sperduta colonia penale della Siberia.
Se Anna, anziché criticare il regime per le stragi di civili in Cecenia, avesse invocato la difesa della Madre Patria Russia ora dirigerebbe qualche quotidiano vicino al partito di gomma che governa l’impero.
Se Anna, dopo aver cercato di mediare (coi terroristi) per evitare la strage al teatro moscovita di Dubrovka fosse riuscita ad arrivare a Beslan, forse avrebbe impedito la morte di qualcuno dei bambini di quella maledetta scuola osseta. Ma l’hanno avvelenata in volo.
Se Anna avesse appoggiato Putin, dopo tutte le minacce ricevute, sarebbe stata scortata, avrebbe viaggiato su una di quelle migliaia di auto blu che sfrecciano per le trafficatissime strade di Mosca.
Se Anna avesse avuto la scorta non sarebbe stata ammazzata come un cane nell’ascensore di casa sua, sei anni fa, il 7 ottobre 2006.
Se Anna, prima di essere uccisa, avesse difeso la politica imperiale di Putin, il regime avrebbe certo dato la caccia ai suoi assassini. Avrebbe cercato di capire chi è perché assoldò un killer per metterla a tacere.
Se se se.
Se Anna fosse stata una pennivendola, non sarebbe stata Anna Politkovskaja, giornalista capace di non avere riguardi nei confronti di nessuno, nè del tiranno, nè dei suoi amici, russi, europei, italiani.
Se Anna non fosse stata Anna Politkovskaja, cronista implacabile, animata solo dalla volontà di vedere, capire e raccontare, noi non saremmo qui a piangere la sua morte, non perderemmo tempo a ricordarla mentre gli alberi del cimitero Troekurovskij stanno facendo cadere, come da sei anni a questa parte, le ultime foglie sulla sua tomba.
Il tempo non è passato invano, cara Anna.
A Mosca Putin non è più amato come un tempo. E tanti domenica penseranno più alla tua morte che al suo compleanno.
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"Si ferma il programma Erasmus l’Unione europea ha finito i soldi", di Cristina Nadotti
L’Unione Europea ha finito i soldi per il programma Erasmus. Segno dei tempi. Il Fondo Sociale è al lumicino e a soffrirne saranno anche programmi storici e simbolo dell’Europa. La commissione bilancio del Parlamento europeo ha approvato in extremis gli emendamenti per evitare che il programma per gli studenti sparisca nel 2013, ma intanto i soldi per finanziare gli ultimi tre mesi del 2012 non ci sono. Spetta all’Ue erogare i finanziamenti per avviare i programmi Erasmus, ma non ha fondi per farlo, perché i Paesi membri hanno tagliato i contributi al budget. Non ci sono, perciò, le risorse per pagare le richieste
avanzate per il periodo settembre-dicembre, maggiori del previsto, mentre l’accordo raggiunto in extremis ieri ha ridimensionato il progetto per la mobilità degli studenti del 2013. Le difficoltà dell’Erasmus sono le più eclatanti, vista la popo-larità del programma che, lanciato nel 1987, ha permesso a oltre due milioni di giovani europei di studiare in 33 Paesi, tra cui anche stati non membri dell’Unione come Islanda, Liechtenstein e Turchia. A soffrire del taglio di quattro miliardi nel budget sarà però, più in generale, l’intero Fondo sociale europeo, uno dei più importanti strumenti finanziari dell’Unione Europea, indispensabile per finanziare i progetti per lo sviluppo e la promozione della coesione tra i diversi stati membri. La ricaduta per i singoli Stati è disastrosa, perché i progetti non finanziati corrispondono a 900 milioni di euro per la Spagna, 600 per l’Italia e la Grecia, 400 per la Francia e circa 150 milioni per la Gran Bretagna.
Ad azionare la scure dei tagli, oltre alle difficoltà economiche, anche la diffidenza di alcuni stati membri a proposito della regolarità dei rimborsi chiesti dalle singole nazioni, ritenuti esosi o immotivati. A questo proposito, l’eurodeputato francese Alain Lamassoure ha chiesto che siano rese pubbliche le cifre spese da ciascuno stato e si stabilisca che l’Unione Europea paghi soltanto le fatture certificate. I cordoni della borsa si chiudono, insomma, anche per stimolare comportamenti più virtuosi e una gestione più oculata, che eviti in futuro la situazione attuale di un Fondo sociale europeo senza più un euro.
“L’allarme Erasmus”, lanciato tre giorni fa da alcuni eurodepu-tati, ha messo in luce anche l’incoerenza, come spiega Patrizio Fiorilli, portavoce del Commissario europeo al bilancio, Janusz Lewandowski, dei capi di governo che «negli ultimi consigli hanno tutti e 27 dichiarato unanimemente che per uscire dalla crisi bisogna investire sui giovani e sulla ricerca» salvo poi tagliare proprio le risorse ai progetti per finanziare innovazione e studio. Nell’immaginario europeo i giovani che hanno usufruito in questi 25 anni dell’Erasmus sono gli spensierati goliardi di film come “L’appartamento spagnolo”, ma in realtà gli scambi tra università sono stati una promozione formidabile del modello europeo e hanno contribuito più di ogni altra cosa a far crescere cittadini che si sentono a casa a Siviglia come a Roma e a Parigi.
La Repubblica 05.10.12
"Si ferma il programma Erasmus l’Unione europea ha finito i soldi", di Cristina Nadotti
L’Unione Europea ha finito i soldi per il programma Erasmus. Segno dei tempi. Il Fondo Sociale è al lumicino e a soffrirne saranno anche programmi storici e simbolo dell’Europa. La commissione bilancio del Parlamento europeo ha approvato in extremis gli emendamenti per evitare che il programma per gli studenti sparisca nel 2013, ma intanto i soldi per finanziare gli ultimi tre mesi del 2012 non ci sono. Spetta all’Ue erogare i finanziamenti per avviare i programmi Erasmus, ma non ha fondi per farlo, perché i Paesi membri hanno tagliato i contributi al budget. Non ci sono, perciò, le risorse per pagare le richieste
avanzate per il periodo settembre-dicembre, maggiori del previsto, mentre l’accordo raggiunto in extremis ieri ha ridimensionato il progetto per la mobilità degli studenti del 2013. Le difficoltà dell’Erasmus sono le più eclatanti, vista la popo-larità del programma che, lanciato nel 1987, ha permesso a oltre due milioni di giovani europei di studiare in 33 Paesi, tra cui anche stati non membri dell’Unione come Islanda, Liechtenstein e Turchia. A soffrire del taglio di quattro miliardi nel budget sarà però, più in generale, l’intero Fondo sociale europeo, uno dei più importanti strumenti finanziari dell’Unione Europea, indispensabile per finanziare i progetti per lo sviluppo e la promozione della coesione tra i diversi stati membri. La ricaduta per i singoli Stati è disastrosa, perché i progetti non finanziati corrispondono a 900 milioni di euro per la Spagna, 600 per l’Italia e la Grecia, 400 per la Francia e circa 150 milioni per la Gran Bretagna.
Ad azionare la scure dei tagli, oltre alle difficoltà economiche, anche la diffidenza di alcuni stati membri a proposito della regolarità dei rimborsi chiesti dalle singole nazioni, ritenuti esosi o immotivati. A questo proposito, l’eurodeputato francese Alain Lamassoure ha chiesto che siano rese pubbliche le cifre spese da ciascuno stato e si stabilisca che l’Unione Europea paghi soltanto le fatture certificate. I cordoni della borsa si chiudono, insomma, anche per stimolare comportamenti più virtuosi e una gestione più oculata, che eviti in futuro la situazione attuale di un Fondo sociale europeo senza più un euro.
“L’allarme Erasmus”, lanciato tre giorni fa da alcuni eurodepu-tati, ha messo in luce anche l’incoerenza, come spiega Patrizio Fiorilli, portavoce del Commissario europeo al bilancio, Janusz Lewandowski, dei capi di governo che «negli ultimi consigli hanno tutti e 27 dichiarato unanimemente che per uscire dalla crisi bisogna investire sui giovani e sulla ricerca» salvo poi tagliare proprio le risorse ai progetti per finanziare innovazione e studio. Nell’immaginario europeo i giovani che hanno usufruito in questi 25 anni dell’Erasmus sono gli spensierati goliardi di film come “L’appartamento spagnolo”, ma in realtà gli scambi tra università sono stati una promozione formidabile del modello europeo e hanno contribuito più di ogni altra cosa a far crescere cittadini che si sentono a casa a Siviglia come a Roma e a Parigi.
La Repubblica 05.10.12
"Istruzione per adulti: approvato il Regolamento definitivo", di R.P. da La Tecnica della Scuola
Lo schema iniziale risaliva al giugno 2009. Coperto finalmente un vuoto che durava da troppo tempo. I centri potranno accogliere anche i sedicenni che non hanno assolto l’obbligo. Nella seduta del 4 ottobre il Consiglio dei Ministri ha aggiunto uno degli ultimi tasselli mancanti al complesso mosaico della riforma del sistema scolastico previsto dall’articolo 64 della legge 138.
E’ stato infatti approvato in via definitiva il Regolamento per la ridefinizione dell’organizzazione didattica dei Centri d’istruzione per gli adulti che era stato adottato in prima lettura il 12 giugno 2009.
Il provvedimento offre una risposta importante, attesa da anni, per superare il preoccupante “deficit formativo” della popolazione, che ancora permane in Italia, dove oltre 28 milioni di cittadini adulti sono in possesso, al massimo, di un titolo di studio conclusivo del primo ciclo e oltre l’80% della popolazione adulta non raggiunge il livello 3, ovvero “il livello necessario per garantire il pieno inserimento nella società della conoscenza”.
La ridefinizione dell’organizzazione didattica – spiega il Governo in un ampio comunicato – è giustificata anche da alcuni importanti cambiamenti demografici.
Il primo riguarda la radicale trasformazione della popolazione italiana: l’attuale indice di vecchiaia è già il più alto in Europa. Secondo l’ISTAT la popolazione italiana nel 2050 sarà composta per il 34,4 % da over 65enni (oggi al 19%, mentre all’inizio degli anni ’80 era al 13,1%). Aumenta anche la presenza degli stranieri. Secondo l’ultimo rapporto della Caritas gli stranieri regolari in Italia rappresentano il 7,5% e nei prossimi dieci anni si prevede che raggiungeranno il 10% fino ad arrivare, nel 2050, al 20%. Infine, un ulteriore elemento di criticità è rappresentato dalla mobilità sociale che nel nostro Paese è tra le più basse in Europa: più della metà di quanti hanno un genitore con, al massimo, la licenza media tende a riprodurre questa situazione e solo il 5% di questi raggiunge la laurea.
Con le nuove norme contenute nel regolamento potrà emergere progressivamente e messo in valore il grande capitale umano, rappresentato dai “saperi sommersi”, di cui sono dotati gli Italiani e coloro che vivono e lavorano nel nostro Paese.
Questi gli strumenti previsti:
1. l’organizzazione per classi è superata dall’organizzazione in due livelli: il primo per il conseguimento della “licenza media” e delle competenze per l’assolvimento dell’obbligo di istruzione; il secondo, per il conseguimento di un diploma di istruzione tecnica, di istruzione professionale e di liceo artistico;
2. il riconoscimento dei crediti, comunque acquisiti dalle persone, anche nel tempo libero, con la definizione del “Patto formativo individuale”. Ciascun adulto potrà sapere a quale livello si inserisce e quale percorso didattico dovrà seguire. Rispetto ai percorsi per i ragazzi, l’orario è ridotto del 30%. E’ previsto anche l’insegnamento a distanza per il 20% del percorso. Non si dovrà ricominciare dunque nelle materie per le quali l’adulto ha ottenuto riconoscimento di quello che sa;
3. ai Centri d’istruzione per gli adulti possono iscriversi anche i giovani di sedici anni che non hanno assolto all’obbligo di istruzione e gli adulti stranieri per seguire percorsi di alfabetizzazione e di apprendimento della lingua italiana, con il rilascio della relativa certificazione necessaria per l’ingresso nel mondo del lavoro.
La Tecnica della Scuola 05.10.12
"Istruzione per adulti: approvato il Regolamento definitivo", di R.P. da La Tecnica della Scuola
Lo schema iniziale risaliva al giugno 2009. Coperto finalmente un vuoto che durava da troppo tempo. I centri potranno accogliere anche i sedicenni che non hanno assolto l’obbligo. Nella seduta del 4 ottobre il Consiglio dei Ministri ha aggiunto uno degli ultimi tasselli mancanti al complesso mosaico della riforma del sistema scolastico previsto dall’articolo 64 della legge 138.
E’ stato infatti approvato in via definitiva il Regolamento per la ridefinizione dell’organizzazione didattica dei Centri d’istruzione per gli adulti che era stato adottato in prima lettura il 12 giugno 2009.
Il provvedimento offre una risposta importante, attesa da anni, per superare il preoccupante “deficit formativo” della popolazione, che ancora permane in Italia, dove oltre 28 milioni di cittadini adulti sono in possesso, al massimo, di un titolo di studio conclusivo del primo ciclo e oltre l’80% della popolazione adulta non raggiunge il livello 3, ovvero “il livello necessario per garantire il pieno inserimento nella società della conoscenza”.
La ridefinizione dell’organizzazione didattica – spiega il Governo in un ampio comunicato – è giustificata anche da alcuni importanti cambiamenti demografici.
Il primo riguarda la radicale trasformazione della popolazione italiana: l’attuale indice di vecchiaia è già il più alto in Europa. Secondo l’ISTAT la popolazione italiana nel 2050 sarà composta per il 34,4 % da over 65enni (oggi al 19%, mentre all’inizio degli anni ’80 era al 13,1%). Aumenta anche la presenza degli stranieri. Secondo l’ultimo rapporto della Caritas gli stranieri regolari in Italia rappresentano il 7,5% e nei prossimi dieci anni si prevede che raggiungeranno il 10% fino ad arrivare, nel 2050, al 20%. Infine, un ulteriore elemento di criticità è rappresentato dalla mobilità sociale che nel nostro Paese è tra le più basse in Europa: più della metà di quanti hanno un genitore con, al massimo, la licenza media tende a riprodurre questa situazione e solo il 5% di questi raggiunge la laurea.
Con le nuove norme contenute nel regolamento potrà emergere progressivamente e messo in valore il grande capitale umano, rappresentato dai “saperi sommersi”, di cui sono dotati gli Italiani e coloro che vivono e lavorano nel nostro Paese.
Questi gli strumenti previsti:
1. l’organizzazione per classi è superata dall’organizzazione in due livelli: il primo per il conseguimento della “licenza media” e delle competenze per l’assolvimento dell’obbligo di istruzione; il secondo, per il conseguimento di un diploma di istruzione tecnica, di istruzione professionale e di liceo artistico;
2. il riconoscimento dei crediti, comunque acquisiti dalle persone, anche nel tempo libero, con la definizione del “Patto formativo individuale”. Ciascun adulto potrà sapere a quale livello si inserisce e quale percorso didattico dovrà seguire. Rispetto ai percorsi per i ragazzi, l’orario è ridotto del 30%. E’ previsto anche l’insegnamento a distanza per il 20% del percorso. Non si dovrà ricominciare dunque nelle materie per le quali l’adulto ha ottenuto riconoscimento di quello che sa;
3. ai Centri d’istruzione per gli adulti possono iscriversi anche i giovani di sedici anni che non hanno assolto all’obbligo di istruzione e gli adulti stranieri per seguire percorsi di alfabetizzazione e di apprendimento della lingua italiana, con il rilascio della relativa certificazione necessaria per l’ingresso nel mondo del lavoro.
La Tecnica della Scuola 05.10.12