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Sindaci e governatori uniti: «I tagli sono da rivedere», di Massimo Franchi

Pressing bipartisan di Comuni e Regioni sul governo per ottenere una correzione al decreto sulla revisione della spesa pubblica. Martedì 24 i primi cittadini sfileranno davanti al Senato contro la scure. La Toscana scende in campo e chiede all’esecutivo di rinunciare agli F35, mentre il Lazio minaccia: dovremo tagliare le aziende «miste». De Magistris denuncia: a Napoli a rischio l’apertura di scuole e asili. Continua a mietere consensi e adesioni la manifestazione che i sindaci di tutta la penisola terranno a Roma martedì 24 luglio. Dopo l’adesione del primo cittadino di Bologna, Virginio Merola, ieri hanno usato parole forti i sindaci di Torino e Napoli. Per Piero Fassino serve «un’azione molto attenta in Parlamento nell’esame della spending review», occorrono «correzioni» perché se è condivisibile l’obiettivo di fondo, il rigore di bilancio, «non tutti i provvedimenti sono coerenti con questa finalità e alcuni rischiano di incrinare rapporto tra amministratori e cittadini».

Per il suo collega di Napoli Luigi de Magistris la spending review avrà un «contraccolpo drammatico» che mette a rischio fin da settembre l’apertura delle scuole. «Con il provvedimento del governo – spiega De Magistris – non si aprono asili nido e scuole materne, ma noi lo impediremo facendo una delibera per l’apertura delle scuole materne e degli asili nido nella nostra città. Non me la sento di comprimere i diritti primari della Costituzione repubblicana, di fronte a scelte in contrasto con questi principi. Se la spending review viene intesa come tagli agli sprechi ha l’appoggio incondizionato di questa amministrazione, ma – conclude – se significa tagliare diritti costituzionali ci opporremo nelle sedi competenti».

La manifestazione si terrà davanti al Senato perché è quello il ramo del Par- lamento che per primo sta affrontando la conversione del decreto sulla “Revisione di spesa”. La commissione Bilancio ha avviato la discussione esaminando il programma di approfondimenti fatti con l’acquisizione di memorie scritte. Il termine per gli emendamenti è fissato per giovedì 19. Il governo spera di approvare il provvedimen- to al Senato prima della pausa estiva.

Anche il sindaco di Lamezia Terme, Gianni Speranza, ieri ha attaccato le conseguenze della spending review, prima fra tutte la chiusura del tribunale della sua città. Speranza ieri ha scritto al ministro di Giustizia Paola Severi- no, ai presidenti ed ai membri delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato e ha chiesto ai parlamentari calabresi «di incontrarsi lunedì (domani, ndr) prima dell’avvio dei lavori parlamentari per concordare le iniziative da portare avanti», spiegando la ragione «non campanilistica ma oggettiva» di mantenere in città gli attuali uffici giudiziari: «Lamezia è la seconda città per estensione della Calabria e la terza per popolazione. L’applicazione di criteri molto astratti, contenuti nella delega, in Calabria produrrebbe quindi – secondo il sindaco – la soppressione dei nostri uffici giudiziari ed il loro mantenimento in sei città più piccole per estensione, rispetto a Lamezia ed in cinque di loro inferiori per numero di abitanti».

PROPOSTE ALTERNATIVE

Oltre ai Comuni, anche le Regioni, in modo bipartisan, sono sul piede di guerra. E la Toscana è in prima fila. Ieri un documento della maggioranza che guida la Regione ha chiesto una modifica della manovra governativa avanzando tre proposte: «Si acquistino meno caccia F-35, si recuperino alcuni miliardi tassando adeguatamente i detentori dei capitali scudati e si imponga una patrimoniale sulle grandi ricchezze». Nessuna decisione è stata quindi presa sui provvedimenti da assumere per far fronte ai tagli. L’impegno è quello di concentrare l’azione per scongiurare interventi che avrebbero un impatto sociale pesante sui servizi, sulla sanità e sui trasporti. L’idea è quella di sviluppare iniziative con le forze sociali, e i cittadini, coinvolgendo anche i parlamentari eletti in regione, per far modificare la manovra nel cammino parlamentare. «I tagli del governo alla sanità e al sociale – ha spiegato il presidente Enrico Rossi – sono davvero pesanti. Prima la cura di Tremonti e poi quella di Monti rischiano di ridurre all’osso i servizi sanitari anche in Toscana. Noi non vogliamo mettere i ticket, vogliamo che il governo modifichi la manovra: si comprino meno caccia F35, si chieda qualche miliardo ai detentori dei capitali scudati e si metta una minipatrimoniale sulle grandi ricchezze».

Sempre sul fronte Regioni si registra la presa di posizione del presidente del Consiglio regionale del Lazio, Mario Abbruzzese. «Senza modifiche al testo della legge sulla spending review, la Regione Lazio sarà costretta a sopprimere le sue aziende in house entro il 31 dicembre: Lite, Lazio Service, Sviluppo Lazio. In più sono società indebitate e non possono essere collocate sul mercato e quindi per il personale si prospetta la mobilità», ha spiegato.

L’Unità 15.07.12

Cgil: 500 milioni di ore di Cassa integrazione dei primi mesi dell'anno, coinvolte 500mila persone

Nei primi sei mesi del 2012 la richiesta di ore di cassa integrazione supera il mezzo miliardo, in deciso aumento sullo stesso periodo dello scorso anno, collocando in cassa a zero ore oltre500 mila lavoratori con un taglio del reddito per oltre 2 miliardi, quasi 4mila euro per ogni singolo lavoratore. È quanto emerge dalle elaborazioni delle rilevazioni Inps da parte dell’Osservatorio Cig del dipartimento Settori produttivi della Cgil nel rapporto di giugno. La meccanica è il settore in cui si riscontra ancora una volta il ricorso più alto a questo strumento: sul totale delle ore registrate da inizio anno, la meccanica pesa per 165.407.469, coinvolgendo 159.046 lavoratori (prendendo come riferimento le posizioni di lavoro a zero ore). Segue il settore del commercio con 76.471.086 ore di cig autorizzate per 73.530 lavoratori coinvolti e l’edilizia con 56.914.826 ore e 54.726 persone.

Ore richieste: oltre il 3% in più rispetto ai primi sei mesi del 2011
Da inizio anno a giugno, il totale di ore di cassa integrazione è stato pari a 523.761.036, con un incremento sui primi sei mesi del 2011 pari a +3,16%, e con un impennata della cassa integrazione ordinaria (+41%). «Segnale inequivocabile – commenta il segretario confederale della Cgil Elena Lattuada – di come il sistema produttivo non si attenda a breve una ripresa produttiva».

Vola la cassa ordinaria sul primo semestre 2011, cala la straordinaria
Con 95.389.166 ore, giugno è il terzo mese con il ricorso più alto alla cassa tra gli ultimi dodici. La cassa integrazione ordinaria (cigo) totalizza un monte ore pari a 30.947.664 per un -10,63% sul mese precedente. Da inizio anno la cigo registra invece 166.635.792 di ore per un deciso +40,77% sul primo semestre del 2011. La richiesta di ore per la cassa integrazione straordinaria (cigs), sempre a giugno, è stata di 37.307.261, in aumento sul mese precedente del +1,04%, mentre il dato dei primi sei mesi del 2012, pari a 185.061.859 ore autorizzate, segna un -16,38% sullo stesso periodo dello scorso anno. Infine la cassa integrazione in deroga (cigd) registra a giugno una flessione sul mese precedente del -20,11% per un totale pari a 27.134.241. Da inizio anno sono state richieste 172.063.385 ore di cigd, in aumento del +2,38% sul periodo gennaio-giugno del 2011.

In calo il ricorso per crisi aziendale e fallimento
Prosegue a giugno la riduzione del numero di aziende che fanno ricorso ai decreti di cigs. Da gennaio sono state 2.886 per un -24,57% sullo stesso periodo del 2011 e riguardano 5.075 unità aziendali (-11,18%). Diminuisce il ricorso per crisi aziendale (1.595 decreti per un -32,21%) ma rappresenta il 55,27% del totale dei decreti, così come frena il ricorso al fallimento (165 domande per un -31,54%). Aumentano le domande di ristrutturazione aziendale (135 per un +14,53%), pari al 4,64% del totale, mentre le domande di riorganizzazione aziendale sono 146, ovvero il 5,06% del totale.

Lombardia prima, seguono Piemonte e Lazio
La Lombardia è la regione che registra il ricorso più alto alla cassa integrazione: sono 120.625.807 le ore registrate da inizio anno, che corrispondono a 115.986 lavoratori (prendendo in considerazione le posizioni di lavoro a zero ore). Segue il Piemonte con 67.100.884 ore di cig autorizzate per 64.520 lavoratori. Terzo il Lazio con 45.736.701 ore che coinvolgono 43.978 lavoratori. Infine per il Mezzogiorno è la Campania la regione dove si segna il maggiore ricorso alla cig con 30.203.130 ore per 29.041 lavoratori.

Il Sole 24 Ore 15.07.12

"Non lavoriamo per l'industria bellica" il gran rifiuto dell'azienda in crisi, di Maurizio Bologni

A maggioranza hanno deliberato di non accettare la commessa della Waas (Whitehead Alenia Sistemi Subacquei), gruppo Finmeccanica, che offriva alla piccola impresa artigiana toscana di realizzare un impianto per refrigerare la grande vasca dove testare i siluri militari. Un lavoro da 30.000 euro, ossigeno ad azienda e lavoratori in difficoltà, ma il «no pacifista» alla fornitura ha un costo sociale che i lavoratori accettano di pagare a testa alta. «Ho 39 anni, moglie, un mutuo sulla testa, però a 18 anni ho fatto obiezione di coscienza al servizio militare e figuriamoci se vent’anni dopo mi metto a contribuire alla costruzione di strumenti bellici», dice per esempio uno dei cassintegrati in riduzione di orario, Stefano Mammini, schierato accanto al suo datore di lavoro, Valerio Morellato, nel votare contro la commessa. «Troveremo altre strade per uscire dalla crisi, devono esserci altre strade» aggiunge.
La Morellato Termotecnica — che si occupa di idraulica, climatizzazione e, da fine anni Ottanta, ha precorso l’impiantistica solare — è una storica azienda artigiana del Pisano, fondata nel 1965. Valerio Morellato, laureato in ingegneria dell’automazione all’università di Pisa e già borsista del Cnr, 32 anni, padre di una bambina di 22 mesi, ne ha ereditato la guida dal babbo, un anno fa, ma già nel 2004 aveva fondato la Morellato Energia Etica e
Ambiente, che si occupa si installazione di pannelli fotovoltaici e nella ragione sociale indica i valori che ispirano l’imprenditore. Che naviga col vento in poppa fino al 2010, quando fatturati e occupazione delle sue imprese artigiane raggiungono il top superando i due milioni di giro d’affari e i venti addetti. Poi, però, arriva la crisi e gli ultimi due conti energia del governo spezzano le gambe all’industria del fotovoltaico, dimezzando il fatturato delle ditte di Morellato e costringendolo a “tagliare” personale e ad attuare la cassa integrazione con riduzione di orario. È in questo contesto che l’imprenditore riceve l’invito di Waas a fare un’offerta per fornire l’impianto di refrigerazione della vasca. Una proposta che pone il giovane ingegnere di fronte al dilemma: tenere fede ai propri principi, o pensare agli operai cassintegrati e alle loro famiglie?
«In realtà — spiega Morellato — grazie a un nostro ingegnere, Valentina Bonetti, solo dopo un sopralluogo nella località in provincia di Massa dove il serbatoio verrà istallato ci
siamo resi conto che avremmo realizzato un impianto al servizio della fabbricazione di siluri ». E allora Morellato riunisce i lavoratori in assemblea. Ma non tutti la pensano come lui. «Sono di un’altra generazione — spiega l’installatore Flavio Battistini — ho 50 anni, moglie e due figli a carico: a me hanno insegnato a pensare prima di ogni altra cosa a lavorare e a portare i soldi a casa, ma sono democratico, rispetto le maggioranza e il coraggio di Morellato ».
Perché la maggioranza, in azienda, decide di rifiutare la commessa. C’è anche il sostegno di Officina e Distretto di economia solidale AltroTirreno, rete di imprese etiche e solidali che è in espansione nel Pisano e a cui Morellato aderisce.
«Quando ancora ero studente — spiega l’imprenditore — ho scoperto che il consumo etico e sostenibile può influenzare le scelte delle multinazionali, e ora, da imprenditore, penso di dover fare molto di più per dare un piccolo contributo a cambiare le cose nel mondo». Così Morellato ha fatto partire la mail del gran rifiuto, diretta a un dirigente di Waas. «Le scrivo
per comunicarle una decisione che è maturata in questi giorni all’interno dell’azienda Morellato — vi si legge — La richiesta che ci avete rivolto ha dato vita a un complesso e sentito confronto tra noi, particolarmente difficile in questo periodo di crisi economica diffusa. Alla fine abbiamo deciso che non presenteremo la nostra offerta per l’impianto da installare. Siamo consapevoli che il nostro contributo alla realizzazione della struttura militare sarebbe stato marginale e certamente ci sarà un’altra azienda che ci sostituirà, ma non ce la sentiamo di mettere le nostre competenze al servizio di un’opera che potrà sviluppare tecnologia bellica».

La Repubblica 15.07.12

"Non ci sarà una manovra-bis gli economisti fiduciosi la recessione pesa poco sul deficit", di Roberto Petrini

L’Italia è sotto scacco. Ma, dicono gli economisti, ancora non è scatto matto e il nostro Paese può uscire dall’angolo in cui si è cacciato. Moody’s, il Fondo monetario e i mercati ci hanno messo sotto osservazione per verificare se e in che misura riusciremo a raggiungere quattro obiettivi fondamentali: l’attuazione delle riforme, il contenimento del debito e del deficit, il rilancio della crescita e la stabilità politica del dopo-Monti.
Il primo problema che il duo Monti-Grilli ha di fronte è quello di scongiurare o limitare i danni del circolo vizioso austeritàrecessione- austerità: l’effetto depressivo delle manovre fin qui realizzate si sta già traducendo, secondo il Fondo monetario internazionale, in un calo del Pil di un punto e mezzo. Ma un’economia in recessione significa anche allontanamento dal doppio obiettivo di un più basso rapporto tra debito e Pil e di un deficit a zero. E questo ci potrebbe portare, secondo la logica, a una nuova manovra di austerità, in un vortice senza fine che ci ricorda molto la sindrome greca.
LA FRENATA DEL 2012
Ma sarà veramente così? Gli economisti della Voce.info, a questo proposito, sono cautamente ottimisti e ritengono che per adesso gli italiani potranno evitare nuovi sacrifici. Secondo l’analisi di Francesco Daveri, la previsione più realistica di calo del Pil quest’anno si situerà a metà strada tra la vecchia previsione del governo (meno 1,2 per cento), decisamente troppo ottimistica e ormai spazzata via dall’andamento acquisito degli ultimi trimestri, e quella catastrofica della Confindustria (meno 2,4 per cento nella migliore delle ipotesi). E coinciderà invece con la stima recentemente anticipata dal governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco: meno 2 per cento. «Si tratta del dato più coerente con l’evoluzione della produzione industriale ». Ma quale impatto avrà questo due per cento in meno
di prodotto interno lordo sui conti pubblici? Significherà alla fine mezzo punto in più di deficit nel 2012 rispetto all’obiettivo governativo dell’1,7 per cento. Ma siccome quell’obiettivo era stato, secondo la Voce, prudentemente sovrastimato, alla fine l’aumento del deficit nel 2012 dovrebbe essere di pochi decimi di punto e quindi tale da non rendere necessaria una manovra bis, come del resto è stato fin qui sostenuto e ribadito da Mario Monti e da Vittorio Grilli.
Tuttavia, se da una parte riusciremo probabilmente a evitare nuovi tagli di spesa e nuove tasse, dall’altra questo deleterio
circolo vizioso austerità-recessione continuerà ad angustiarci fino a che non riusciremo a rilanciare la crescita. E davanti a
noi continuerà a pesare come un incubo lo scenario peggiore dell’Fmi per l’Italia: debito al 140% con un Pil giù di un altro punto e spread in rialzo.
Ecco dunque la nostra vera zavorra, ritenuta oggi un punto di debolezza anche dall’Fmi e dalle agenzie di rating: la recessione. Una recessione che sembra ormai cronica. «Il Pil italiano è in calo già da tre trimestri – ricorda dati alla mano l’analisi della Voce – siamo in recessione dal terzo trimestre 2011 e durante questo periodo il Prodotto interno lordo è già diminuito di circa 1,7 punti: un calo maggiore di quello che si è verificato in Spagna, l’altro grande paese europeo duramente colpito dalla crisi dei debiti sovrani». E penalizzato insieme all’Italia dai
mercati sul terreno dei tassi di interesse e del loro divario con quelli tedeschi.
Ma chi può dare il calcio di
avvio alla pedivella dell’economia? Chi può farci ripartire? Alla fine ci si scontra sempre con lo stesso problema: quello delle risorse. Tanto per fare un
esempio, abolire la tassazione sulla tredicesima costerebbe 11 miliardi. E i soldi, allo stato, non ci sono.
DUE SOLUZIONI
Difficile trovarli subito con misure quali la vendita del patrimonio immobiliare o come la spending review (destinata in gran parte a evitare l’aumento dell’Iva) Ci sono però altre due soluzioni possibili, seppure anch’esse disseminate di ostacoli. Una è la carta che Monti si sta giocando in Europa: accelerare, oltre al piano di investimenti, lo scudo antispread e la parziale condivisione
del debito. Questo ci salverebbe dagli artigli della speculazione e libererebbe risorse ora gettate al vento come spesa per interessi. La seconda soluzione, questa volta interna, punta invece a risolvere il problema del debito alla radice, proponendo sottoscrizioni più o meno forzose di titoli di Stato a basso rendimento presso le famiglie italiane. Proposta difficile da far digerire, ma che potrebbe essere legata a una operazione di decisa riduzione delle tasse, come sostiene l’ex Ragioniere generale dello Stato, Andrea Monorchio.

La repubblica 15.07.12

Bersani: "dalla parte dell'Italia con responsabilità e fiducia"

Siamo davanti al Paese e ad un Paese molto, molto turbato. Oggi parleremo dunque di Italia, parleremo di politica e parleremo di Partito Democratico in quanto utile ad una buona politica per l’Italia.

Stiamo vivendo il tempo della grande crisi, la più grande dal dopoguerra, che ci accompagnerà per un tempo non breve e secondo un percorso che nessuno oggi, in verità, è in grado di descrivere o prevedere. Un tempo non ordinario, un tempo di grande responsabilità. Abbiamo recentemente tenuto una Direzione nazionale molto importante. L’abbiamo tenuta dopo il risultato non scontato e davvero straordinario delle elezioni amministrative. Unanimemente, abbiamo detto in quella Direzione: tocca a noi. “Tocca a noi” non è una pretesa. E’ una assunzione di responsabilità. E’ un impegno a portare la nostra forza, a investire la nostra forza sul punto principale della questione italiana: il governo della lunga crisi e quindi il rapporto fra politica e società, essendo evidente che non può esserci governo della crisi in presenza di un generale discredito della politica. Qui siamo già di fronte a un dilemma europeo.

Nella lunga crisi si vanno formando e riassestando in tutta Europa i grandi orientamenti della pubblica opinione e i movimenti della politica. Non c’è dubbio che l’Europa, dopo la cura decennale della destra, sta affrontando la crisi senza la materia prima fondamentale, quella cioè della solidarietà e della cooperazione. Ci accorgiamo che non è solo questione di interessi, ma è questione di senso comune, di ideologia. Senza quella materia prima (la reciprocità, la cooperazione, il destino comune) le ricette non possono essere generose. Le ricette sono quelle di una ortodossia imposta da chi è più al riparo, e quindi seccamente difensive, con il primato affidato a politiche restrittive che danno via libera sia alla recessione sia a fenomeni di radicalizzazione e di distacco dalla politica. In altre parole e in ultima analisi: si sta uccidendo la fiducia, l’idea stessa che si possa uscire dai problemi.

Chi scommette contro l’Euro e vuol guadagnarci, alza la posta tutti i giorni e sceglie i punti di leva più favorevoli per ribaltare il carro. E uno dei punti di leva siamo noi, è l’Italia. Come ci ha ricordato il Governatore di Banca d’Italia più della metà del nostro spread è in realtà giocato contro l’Euro. E perché mai dovrebbe finire il gioco, se dopo un vertice europeo pur positivo, dal giorno dopo la tela di Penelope ricomincia a disfarsi? E intanto 100 punti di spread ci costano 3 miliardi all’anno e quei miliardi li inseguiamo con manovre e le manovre incoraggiano una recessione che sarà quest’anno fra il 2 e il 3 per cento. Una cosa mai vista.

Chi scommette sulla disarticolazione dell’Euro ricava di riflesso un aiuto enorme dall’estendersi di aree di scetticismo e di rifiuto all’interno della zona Euro e più largamente nei paesi dell’Unione. Nella crisi infatti si affaccia in Europa una questione democratica. Se ne parla troppo poco, davvero troppo poco. Non vado qui nel dettaglio, ma se consideriamo paesi come Gran Bretagna, Francia, Irlanda, Olanda, Danimarca, Grecia, Polonia, Finlandia, Ungheria, Norvegia, Belgio, Austria e guardiamo i più recenti dati elettorali o le più recenti rilevazioni noi vediamo ovunque, per tacere dell’Italia, formazioni politiche che, pur in diverso grado, sono antieuropee, antieuro, antislam, spesso xenofobe e quasi sempre a impronta populista. In alcuni casi si tratta dichiaratamente di formazioni neofasciste o neonaziste. Siamo a pochi giorni dall’anniversario di Utoya e non possiamo toglierci dalla mente quelle ragazze e quei ragazzi sterminati da una ideologia sanguinaria. Queste formazioni si muovono in dimensioni che valgono o il 7, o il 12 o il 20, o il 25 per cento dei consensi e sono in grado, ecco il punto, di condizionare fortemente e di paralizzare le posizioni delle destre liberali ed europeiste. Ad esempio il progressivo coagulo di posizioni euroscettiche in Germania (già ieri nei liberali tedeschi e oggi nei cristianosociali bavaresi e nella destra CDU) la dice lunga sulle dinamiche in corso.

Ecco allora il punto politico di fondo: se crescono fenomeni di grave sbandamento e regressione, se si alzano messaggi populisti che possono nascere in luoghi diversi ma finiscono sempre a destra; se questi fenomeni hanno a che fare con una crisi che sarà ancora lunga e incerta e se conveniamo che è assurdo e distruttivo affidarsi sempre a una doppia verità, per cui ciò che va verso l’Europa lo si fa in segreto per poi raccontarlo al ribasso ad una opinione pubblica sempre più scettica, allora è necessario concludere che bisogna finalmente andare in campo aperto, alzare le bandiere e combattere davvero. I Progressisti in Europa e in Italia hanno il dovere di unirsi credibilmente; hanno il dovere di impugnare, oltreché la questione sociale, la questione democratica e di rivolgersi a tutte le forze che credono ad una prospettiva europea, ai grandi valori delle Carte Costituzionali e ai fondamenti stessi della civilizzazione europea; hanno il dovere di proporre alle forze europeiste una vera e propria costituente europea.

Tutto questo, anche in Italia e forse in Italia più che in ogni altro Paese, è il senso di fondo del progetto e della proposta politica. Il resto è cronaca, una cronaca che spesso purtroppo finisce nel chiacchiericcio e nel pettegolezzo politico. Ma quel che sta passando stavolta non è la cronaca, è la storia! Succedono cose che non si sono mai viste. La società le percepisce. Un piccolo imprenditore le percepisce. Un esodato le percepisce. Bisogna dare prova che lo percepiamo fino in fondo anche noi e che non ci stiamo guardando la punta delle scarpe.

Nei prossimi mesi dovremo parlare all’Italia e risvegliare non un sogno ma una ragionevole fiducia, una speranza fondata. Mettendoci all’attacco. Perché mai, non dico uno speculatore, ma un onesto risparmiatore del modo dovrebbe prestarci soldi se in Italia prendesse voti chi dice (un giorno sì e l’altro no) che bisogna uscire dall’Euro, scherzando con la prospettiva di un drammatico impoverimento di milioni e milioni di persone; o se prendesse voti chi dice che non dobbiamo pagare i debiti. Perché mai quel risparmiatore dovrebbe aver fiducia nell’Italia se l’Italia di nuovo scegliesse la strada dell’eccezionalismo, di soluzioni sconosciute alle democrazie del mondo? Liste di fantasia, partiti per procura, leadership invisibili e senza controllo o (sono notizie di questi giorni) agghiaccianti ritorni? Perché se gli italiani scelgono soluzioni avventurose o disperate gli altri dovrebbero scommettere su di noi? Tocca noi. Tocca a noi risvegliare una riscossa democratica e civica, il senso di una responsabilità comune, l’orgoglio di essere italiani ed europei, l’idea di una politica fatta di gente seria, sobria e perbene; di una politica che conosce la vita comune, la frequenta, la sa interpretare. Dunque, una risposta democratica, civica, riformatrice. E una risposta di governo.

Con questa ispirazione e con questa tensione noi dobbiamo nei prossimi mesi sorreggere la transizione e accendere la prospettiva.

Non ci è facile sorreggere la transizione. E guai se, nel riaffermare la nostra lealtà, noi perdessimo il contatto con il disagio forte che c’è nel Paese e lo abbandonassimo a pericolose derive. Questo non deve significare mai mettersi in coda al disagio. Deve significare parlare al disagio e offrirgli una possibilità, una prospettiva. E ricordare innanzitutto chi ci ha portati fin qui, a questo punto della crisi economica e sociale e del rapporto fra politica e società: dieci anni disastrosi del Governo berlusconiano e leghista, dieci anni di favole e di svago, dieci anni conclusi con un patto di emergenza stretto con l’Unione Europea, non da Monti, ma da Berlusconi e Tremonti, un patto di cui mese dopo mese sentiamo il peso drammatico. L’ho già detto: il pompiere può anche fare degli errori ma non è lui che ha appiccato il fuoco e sarebbe curioso che colui che ha appiccato il fuoco si permettesse adesso di fare le pulci al pompiere che comunque ha impedito che il fuoco dilagasse. Noi, che ci stiamo caricando di responsabilità non nostre in nome della salvezza del Paese, noi che siamo ancora minoranza in questo Parlamento, noi abbiamo non solo il diritto ma anche il dovere di dire sempre quel che faremmo e quel che faremo davanti a misure, provvedimenti o riforme che non corrispondono o corrispondono solo in parte al nostro pensiero. Questo vale oggi per la cosiddetta spending review.

La formula contiene una sfida che raccogliamo e che raccoglieremo. Noi non siamo il partito delle tasse. Nel provvedimento ci sono contenuti che condividiamo, che sono anche nostri e che vogliamo anzi rafforzare e che riguardano la semplificazione istituzionale e il peso della pubblica amministrazione. Ma per quello che riguarda i servizi reali alle persone, sanità, servizi locali, istruzione e cultura noi siamo per correggere e alleggerire per non aggravare una situazione già molto deteriorata. E continuo a dire che qualcosa bisogna pur fare per muovere l’economia e contrastare la recessione. I pagamenti alle imprese, un po’ di investimenti da affidare ai Comuni, qualche misura più forte per sollecitare la mobilitazione del risparmio privato sulla casa, sul risparmio energetico, sull’agenda digitale. Vedo che, in mezzo a tutti questi problemi, si sta aprendo una discussione singolare sul tasso di continuità o di discontinuità auspicabili rispetto a questa transizione. Non capisco il dilemma. Si intende, ad esempio, che si dovrà tenere l’asse di una ferma presenza dell’Italia nella prospettiva Europea, che bisognerà tenere i conti a posto, prendersi delle responsabilità, mettere competenza, rigore, autorevolezza nell’azione di Governo? Sì, è così, non c’è dubbio! Tutto questo dal ’94 ad oggi sta nel DNA della nostra cultura di governo ben conosciuta e sperimentata in Europa.

Significa invece che noi avremmo fatto le pensioni proprio così, l’IMU proprio così, il mercato del lavoro proprio così, le liberalizzazioni proprio così, la spending review proprio così? Significa che dovremmo rinunciare a ribaltare la vergognosa situazione della RAI, ad avere una legge contro la corruzione, a regolare civilmente la cittadinanza, ad avere un rapporto ben diverso con gli Enti locali, e così via? Penso proprio di no. Inviterei a non cadere sempre nella ricerca di punti di distinzione, a volte, lasciatelo dire al Segretario, un po’ metafisici, stucchevoli e fastidiosissimi per la nostra gente. E’ evidente che la questione centrale non è certo Monti. La questione centrale è la base politica e parlamentare di un Governo. Questo è il problema. E qui siamo al punto sul quale dobbiamo intenderci e farci intendere. Il nostro Paese ha il diritto o no di respirare con i polmoni con cui respirano tutte le democrazie? Lo so bene. Nella vita si fa quel che si può, e questa fase lo dimostra; ma è importante sapere ciò che si vuole e dove si vuole andare. L’Italia ha il diritto o no di costruire un bipolarismo saldamente costituzionale, temperato, flessibile che metta a confronto comunque progetti alternativi per il Paese? E aggiungo a questo una considerazione attuale più dirimente e più cogente ancora. Con il prossimo appuntamento elettorale o si descriverà una scelta fra progetti, forze politiche e campi di forze, aperti fin che si vuole ma alternativi, o l’alternativa si rischia di farla fra populismi e resto del mondo. Chi sottovaluta questo rischio, secondo me, non coglie il profondo sommovimento che c’è nel Paese e non legge correttamente l’evoluzione della crisi.

E qui siamo alla legge elettorale. Se ne discuterà in Parlamento, anche se la strada è intralciata dalla beffa costituzionale di PDL e Lega che stanno mettendo la riforma costituzionale in un vicolo cieco. Buttano la palla in tribuna per pure ragioni propagandistiche col rischio evidente di bloccare ogni elemento possibile e sensato di riforma. Dichiaro qui a questo proposito che noi siamo pronti a stralciare almeno la norma sulla riduzione del numero dei parlamentari. Il ogni caso, di legge elettorale si discuterà e l’oggetto del contendere non è affatto oscuro. Abbiamo da parte della destra una preclusione verso il doppio turno di collegio. Per noi resta la proposta migliore. L’abbiamo da mesi depositata in Parlamento. Noi partiamo da lì. Davanti alle preclusioni della destra non ci arrendiamo all’idea di tenerci il porcellum che, lo abbiamo ripetuto mille volte, è una causa principe del discredito della politica. Siamo pronti a ragionare su soluzioni di compromesso ma non a rinunciare a due principi. Primo: i cittadini, e non solo quelli italiani, la sera delle elezioni devono sapere chi è in grado di organizzare e garantire credibilmente la governabilità e quindi chiediamo un credibile premio di governabilità.

Questo è il principio. Un premio che a nostro avviso deve essere attribuito a chi arriva primo sia nella forma di una lista singola sia nella forma di liste collegate. Secondo: il cittadino deve poter decidere sul suo Parlamentare. Questo è il principio. Per noi ciò si attua nella forma del collegio, una forma nella quale i Partiti si mettono in gioco anche attraverso una persona e che consente nel tempo quel rapporto fra eletti e territorio che rinsalda una democrazia parlamentare. Questa è la posizione che noi affidiamo ai Gruppi Parlamentari nella ricerca di una soluzione. Quanto al resto, abbiamo ribadito mille volte che nella denegata ipotesi (come direbbe un avvocato) che rimanga il porcellum noi attiveremo meccanismi di partecipazione per le candidature che in ragione della legge elettorale che avremo siamo comunque intenzionati a promuovere. Propongo di fermarci qui, per non dare l’impressione sbagliata di essere quelli che a parole vogliono cancellare il porcellum e nei fatti si stanno acconciando a tenerselo. Perché non è così! Noi al porcellum non ci arrendiamo!

In ragione della legge elettorale ci sarà più chiaro come prospettare agli elettori quel patto di legislatura fra Progressisti e Moderati che resta la mostra proposta. Una proposta, come dicevo poc’anzi, che non ha nulla di tattico o di politicista ma che ubbidisce invece ad una tendenza di fondo europea, a fronte di destre compromesse e cedevoli verso il condizionamento di pulsioni populiste e regressive.

E’ da queste ragioni di fondo che derivano i punti di avanzamento visibili di questa nostra proposta, una proposta che solo un anno fa veniva descritta dai più come illusoria. Detto questo, a noi tocca prima di tutto organizzare il campo dei democratici e progressisti. Così come si è deciso in Direzione, lo faremo partendo da fondamentali contenuti di cui adesso parlerò e lo faremo non restringendo l’appello alle forze politiche ma allargandolo invece alle cittadinanze attive, ad associazioni e movimenti, agli amministratori, a personalità che si ritengono parte dell’area progressista. Toccherà necessariamente al PD attivare questo confronto. Lo farò a nome vostro attorno a pochi ed essenziali concetti, figli dei nostri valori e tali da esprimere coerenza con lo sforzo programmatico che abbiamo largamente svolto in questa stessa Assemblea Nazionale. In partenza, non ci perderemo in dettagli programmatici ma apriremo la discussione su quei cardini del progetto che possono delineare il campo dei democratici e progressisti e che lo fanno riconoscibile rispetto ad altre ispirazioni.

Diremo cose che si dovranno capire.

Diremo prima di tutto che l’Italia ce la farà, che ritroverà il suo posto nel mondo, che riconquisterà il suo futuro.

Diremo che per noi è la buona politica che deve accompagnare la riscossa del Paese; che abbiamo idee per legare il necessario rigore al cambiamento, all’equità, al riavvio della crescita; che non immaginiamo il destino dell’Italia fuori dall’Europa da costruire, fuori dai capisaldi della civilizzazione europea, fuori da una solidarietà attiva con chi nel mondo cerca la libertà, la dignità, i diritti, a cominciare dai popoli che vivono alla porta di casa nostra.

Diremo che siamo per una democrazia che rifiuta ogni scorciatoia e ogni primato del consenso sulle regole. Una democrazia saldamente costituzionale e che si allarga al civismo e alla partecipazione popolare, perché per noi il contrario di “populista” è “popolare”. Una politica che rivendica il suo ruolo ma riduce i suoi confini e conosce i suoi limiti. Una politica più sobria, meno invasiva e che costi meno, e che faccia vedere che se gli italiani devono tirare la cinghia la politica deve tirarla di più. Una politica che possa riformarsi anche attraverso una legge seria sui partiti.

E una riforma delle istituzioni e della seconda parte della Costituzione nella logica di un sistema parlamentare efficiente e meno ridondante e pletorico; di un federalismo ben fondato; di un ruolo incisivo del Governo, di una funzione di equilibrio del Presidente della Repubblica. Apriremo la strada ad un meccanismo che, prendendo lezione dai fallimenti di trent’anni, consenta davvero di venirne a capo e di dare concreto valore costituente alla prossima legislatura. Tutto questo in ossequio ai fondamenti della nostra Costituzione, che è la più bella del mondo.

Diremo dell’Europa, che è casa nostra. Non c’è destino per l’Italia se non c’è destino per l’Europa e l’Italia deve essere protagonista del destino europeo. Questo destino si gioca nella lunga crisi. Se l’Europa si salva, si salva solo con risposte cooperative e comuni; quelle risposte inevitabilmente portano con sé convergenze economiche e fiscali ; quelle convergenze inevitabilmente portano con sé l’esigenza di rispondere al tema democratico. Dunque, Istituzioni europee rappresentative, un Parlamento pienamente responsabile, un Governo legittimato, formazioni politiche europee.

Affermiamo la primaria responsabilità dell’eurozona nel costruire il nuovo processo mantenendo le promesse inevase della moneta unica; perché se non si va avanti, si va indietro e indietro c’è un precipizio storico. Legislatura costituente dunque per l’Italia e per l’Europa e la chiamata a raccolta in Italia e in Europa di tutte le forze disponibili. Qui c’è il punto di discrimine fra noi e le destre. Le destre hanno messo sull’altare l’infallibilità e la libertà assoluta del liberismo finanziario promettendo poi una egoistica difesa dai suoi effetti alle nazioni, ai territori, alle corporazioni, e perfino alle etnie. E’ questa la radice dei populismi che ci disarticolano e che attaccano al cuore non solo l’economia ma i capisaldi della civiltà europea. Noi siamo contro sia al liberismo finanziario sia al populismo.

Diremo del lavoro. Il lavoro come cuore del progetto. Il lavoro dei produttori, delle persone che creano, pensano, operano, fanno impresa. Il lavoro che oltre all’antagonismo classico fra operai e impresa sta subendo una nuova forma di sfruttamento per garantire i guadagni e i lussi vergognosi della rendita finanziaria. E allora l’alleggerimento fiscale a carico di rendite di gradi patrimoni finanziari e immobiliari. E allora il contrasto alla precarietà ed alla competizione al ribasso. E allora la rottura della spirale perversa fra bassa produttività e compressione dei salari e dei diritti e la promozione di una migliore democrazia del lavoro. E l’occupazione femminile e giovanile, in particolare nel Sud, come misuratore dell’efficacia di tutte le politiche. Arriveremo a tutto questo recuperando competitività, lavorando su tutti i fattori di innovazione e modernizzazione favorendo una ripresa degli investimenti delle imprese.

Diremo del sapere e del primato delle politiche dell’istruzione e della ricerca e del contrasto alla drammatica caduta della domanda d’istruzione: l’abbandono scolastico, la riduzione delle iscrizioni all’Università, la dilagante sfiducia dei ricercatori; e la graduale riscossa della organizzazione e dei livelli di qualità dell’offerta formativa.

Diremo dello sviluppo sostenibile, dell’economia reale e della sua centralità, e di come giocare al concreto l’unica carta che abbiamo per rimettere in movimento nella globalizzazione il saper fare italiano: collegare cioè in ogni campo consumi, produzione e servizi alle frontiere della qualità, delle tecnologie digitali, dell’efficienza energetica, dell’ambiente.

Diremo dell’uguaglianza, in un Paese che è diventato fra i più disuguali del mondo. Anche qui prima di tutto un tema di regolazione europea e mondiale: afferrare cioè la ricchezza mobiliare e immobiliare che fugge nel mondo e rifiuta il vincolo della solidarietà. E poi la ridistribuzione per via fiscale e attraverso la garanzia dei fondamentali presidi del welfare, il diritto d’accesso dei giovani ai mestieri e alle professioni, un servizio-giustizia che funzioni per i diritti e la dignità di tutti i cittadini. I divari territoriali, finalmente in una logica di reciprocità fra il nord e il sud del paese. E sopra ogni cosa il dovere, politico e morale, di guardare sempre la società con gli occhi degli ultimi.
Diremo dei beni comuni e innanzitutto della sanità, dell’istruzione, della sicurezza, campi nei quali, per noi, in via di principio, non ci può essere né povero né ricco; e poi dell’energia, dell’acqua, dei beni culturali e ambientali, beni che non lasceremo in balia del mercato ma che dovranno avere responsabilità pubblica negli obiettivi, nella padronanza dei cicli e vivere quindi in un quadro di programmazione, di regolazione, di controllo.

Diremo della libertà d’informazione, dei conflitti d’interesse, delle legislazioni antitrust in ogni area del mercato contro posizioni dominanti, rendite di posizione, disprezzo del consumatore.
Diremo dei diritti, dei diritti negati a cominciare da quello fondamentale e che li muove tutti e cioè della parità di genere; della democrazia paritaria, degli stereotipi della presenza delle donne nel lavoro e nell’impresa, dell’alleggerimento e della distribuzione del carico del lavoro di cura, della violenza infame contro le donne in ambiti familiari e amicali. Da lì cominceremo, senza fermarci lì, ma allargando lo sguardo e dicendo finalmente, come ho già detto, che un ragazzo figlio di immigrati che studia qui è un italiano. E dicendo finalmente, come ho già detto, che una coppia omosessuale ha diritto ad una dignità sociale e ad un presidio giuridico e che l’omofobia è una vergogna che va contrastata con la forza della legge.

Diremo queste ed altre cose. Non promettendo l’impossibile, non raccontando favole e senza cioè che mai possa esser messa in discussione la capacità nostra di tenere in tempi difficili la barra del rigore e di rispettare i vincoli europei che fino a quando non si modificano vanno rispettati; e di operare per alleggerire quel fardello del debito che ci zavorra.

Diremo tutto questo ma in particolare e non per ultimo, inviteremo tutti i progressisti a ragionare sulla loro responsabilità e sulla oro affidabilità. Non viviamo e non vivremo tempi ordinari. Il Governo dell’Unione ha lasciato una traccia profonda nella memoria degli italiani. Adesso c’è il PD. Dobbiamo saper mostrare che l’Italia potrà contare su un Governo e una maggioranza stabili e coesi. Ci sono dunque impegni che proporremo di sottoscrivere. Ad esempio quello di affidare alla responsabilità del candidato Premier una composizione del Governo snella, rinnovata, competente e credibile internazionalmente; quello di consentire una cessione di sovranità e cioè di sciogliere controversie su atti rilevanti attraverso votazioni a maggioranza dei gruppi parlamentari in seduta congiunta; quello di rispettare gli obblighi internazionali che valgono sempre finché non si modificano; quello di sostenere l’azione del Governo per la difesa della moneta unica e per la costruzione europea; quello di avanzare una proposta comune verso tutte le forze democratiche ed europeiste disposte a contrastare la deriva berlusconiana e leghista ed ogni forma di regressione populista; quello di mostrare nel campo progressista una civiltà di rapporti che renda davvero credibile agli occhi degli italiani la promessa di governabilità.

Voglio dirlo subito: non tutti questi elementi sono acquisiti, ma io propongo di tenerli ben fermi.
Attorno a questi fondamentali elementi chiedo all’Assemblea il mandato a promuovere una discussione larga e aperta nel Partito e con i protagonisti politici, sociali e civici del campo progressista.

Sulla base di questo confronto è nostra intenzione determinare un grande appuntamento di partecipazione per la scelta del candidato dei progressisti alla guida del Governo. Le primarie non le faremo da soli e dunque i tempi e i modi non li possiamo decidere da soli. Lasciatemelo dire con chiarezza: non si parlerà del PD, non sarà il congresso del PD. Si parlerà di Italia e di governo del Paese. Tuttavia possiamo certamente dire quali criteri proporrà il PD per delle primarie da tenersi, come è logico, in una ragionevole distanza dalle elezioni e cioè entro la fine dell’anno. A questo proposito dalla Direzione è venuto un criterio di apertura, un criterio che suggerisce di privilegiare l’allargamento della partecipazione piuttosto che l’allestimento di barriere. Sono personalmente molto convinto di questo criterio che corrisponde all’idea di investire, anche rischiando qualcosa, sul rapporto fra politica e società che oggi è largamente in crisi. In nome di questa stessa logica, mentre ho ritenuto giusto dichiarare da subito la candidatura del Segretario del Partito Democratico, anche in ossequio alle nostre regole statutarie, ho chiesto e chiedo tuttavia che questa non sia in via di principio una candidatura esclusiva. Avremo dunque modo, nel tempo giusto, subito dopo la ripresa, di investire l’Assemblea dei temi regolamentari e statutari e di prendere assieme le decisioni conseguenti.

Chiarito tutto questo, chiarito il percorso e a conclusione di questa relazione io invito con molta forza il gruppo dirigente a non disperdere in queste settimane la chiave giusta del nostro rapporto con il Paese. Qui noi non stiamo aprendo le primarie. Stiamo decidendo un percorso. Credo di aver chiarito quale sia il compito immediato che abbiamo: reggere e interpretare la transizione e cominciare ad illuminare una prospettiva di nuovo governo del Paese. La vita comune degli italiani sta subendo dei colpi e devo dire francamente che non arrivano buone notizie per l’immediato futuro. La preoccupazione di tanti scivola spesso verso l’ansia e la paura. La sfiducia diventa sempre più spesso vera tensione. Non possiamo stare in superficie. Non dobbiamo dare l’idea che siamo persi nel mucchio anche noi, in un teatrino che si agita a distanze stellari dal senso comune. Dobbiamo farci vedere sui problemi. Dove c’è un problema dobbiamo esserci.

Chiarire e chiarire sempre chi ci ha portato fin qui, qual è il senso della nostra posizione oggi e che cosa abbiamo in mente noi per costruire un percorso nuovo. Mentre chiedo di non sottrarci, in nessun luogo, al confronto con le realtà più difficili e scomode, chiedo anche che si apra in ogni luogo una fase di contatti e di dialogo con i protagonisti sociali e civili e con le autorità morali. Se tocca a noi, è tempo di incontrare anche chi non abbiamo incontrato fin qui! Mettiamoci infine un po’ di sicurezza, di solidità e di fiducia. Ce lo dice la tragica realtà del terremoto che è anche una, seppur terribile, metafora. Non è detto che la buona politica debba restare sotto le macerie dei problemi. Assieme ad un luogo, ad una città, ad una fabbrica che rinasce può rinascere anche il rapporto fra una buona politica e i cittadini. Fuor di metafora, ecco dunque, la nostra fiducia, la nostra certezza: l’Italia e la buona politica riprenderanno la loro strada assieme, dandosi la mano.

www.partitodemocratico.it

"Il festival degli sprechi", di Gian Antonio Stella

Fanno davvero male, di questi tempi, bastonate come quella che Bruxelles ha appena dato alla Regione Siciliana. Dove sono stati bloccati 600 milioni di fondi Ue, una boccata di ossigeno, perché l’Unione non si fida più di come vengono spesi nell’isola i soldi comunitari.
«C’è stata una difficoltà di comprensione…», ha detto un funzionario al Giornale di Sicilia. Testuale. Purché non si levino ritornelli contro la «perfida Europa» nella scia di quelli lanciati dal regime mussoliniano contro le sanzioni: «Sanzionami questo / amica rapace…». Prima che dai vertici europei, l’andazzo era già stato denunciato infatti dalla Corte dei conti.
In una dura relazione di poche settimane fa i magistrati contabili avevano scritto di «eccessiva frammentazione degli interventi programmati» (troppi soldi distribuiti a pioggia anziché investiti su pochi obiettivi-chiave), di «scarsa affidabilità» dei controlli, di «notevolissima presenza di progetti non conclusi», di «tassi d’errore molto elevati» tra «la spesa irregolare e quella controllata», di «irregolarità sistemiche relative agli appalti». Una per tutte, quella rilevata nella scandalizzata relazione che accompagna il blocco dei fondi: l’appalto dato a un signore con «procedimenti giudiziari a carico». Come poteva l’Europa non avere «difficoltà di comprensione»?
Dice Raffaele Lombardo, il quale ieri ha fatto un nuovo assessore alla cultura destinato a restar lì un battito di ciglia fino alle dimissioni annunciate il 31 luglio, che si tratta solo di questioni «tecniche» di cui chiederà conto «ai dirigenti che se ne sono occupati». Mah…
Sono anni che la Sicilia, cui la Ue aveva inutilmente già dato un ultimatum a gennaio, è ultima nella classifica di chi riesce a spendere i fondi Ue. E la disastrosa performance, insieme con quella della Puglia e delle altre tre regioni già «diffidate» (Campania, Calabria e Sardegna) ci ha trascinato al penultimo posto, davanti solo alla Romania, nell’Europa a 27.
I numeri diffusi mesi fa dal ministro Fabrizio Barca sono raggelanti. Tra il 2000 e il 2006 l’isola ha ricevuto 16,88 miliardi di fondi europei pari a cinque volte quelli assegnati a tutte le regioni del Nord messe insieme. Eppure su 2.177 progetti finanziati quelli che un anno fa, il 30 giugno 2011, risultavano conclusi erano 186: cioè l’8,6%. La metà della media delle regioni meridionali. Uno spreco insensato negli anni discreti, inaccettabile oggi.
Dice il centro studi di Svimez che il Pil pro capite delle regioni del Sud dal 1951 al 2009, anziché crescere, ha subito rispetto al Nord un netto arretramento. Calando in valuta costante dal 65,3% al 58,8%. Quanto alle aree povere del cosiddetto «Obiettivo uno», quelle più aiutate da Bruxelles perché il Pil pro capite non arriva al 75% della media europea, la risacca è stata altrettanto vistosa.
In queste condizioni, buttare via quelle preziose risorse europee che non piovono da una magica nuvoletta ma sono accumulate con i contributi di tutti i cittadini Ue, italiani compresi, grida vendetta. Buttarle per incapacità politica, per ammiccamenti ai vecchi vizi clientelari, per cedimenti alla criminalità organizzata o per i favori fatti a questa o quella cricca di amici e amici degli amici, è una pugnalata. Non solo ai siciliani, non solo ai meridionali ma a tutti gli italiani. Quelli che giorno dopo giorno, Moody’s o non Moodys’, cercano di spiegare all’Europa d’avere imboccato davvero una strada diversa.

Il Corriere della Sera 14.07.12

Sentenza tedesca: «Per i profughi l’Italia è un inferno», di Roberto Brunelli

Per i profughi stranieri l’Italia è un inferno. Ai richiedenti asilo viene riservato un «trattamento inumano e umiliante». I migranti rischiano di condurre una vita «al di sotto della soglia di povertà», e quasi sempre sono costretti a vivere senza un tetto sulla testa. Giudizi impietosi, scolpiti nel marmo. Come si parlasse della Siria, o della Libia. Invece è il Bel Paese a essere nel mirino. Stiamo parlando di una sentenza del tribunale civile di Stoccarda, che con quelle argomentazioni vieta alle autorità tedesche il trasferimento di una famiglia di rifugiati palestinesi in Italia.
La notizia campeggiava ieri con grande evidenza sul sito on line dello Spiegel. Che non mancava di ricordare che «l’Italia è uno degli Stati fondatori dell’Unione europea, è un Paese che si vanta della sua ospitalità e nonostante la crisi attuale è ancora la terza economia dell’Eurozona». È dall’Italia che la famiglia palestinese era giunta in Germania. È vero, ammette lo Spiegel, che il Paese è letteralmente travolto dai richiedenti d’asilo. Però non è la prima volta che un tribunale stabilisce che dei profughi non debbano essere rispediti in Italia. Come riportato il mese scorso da l’Unità, una sentenza emessa il 25 aprile dal tribunale di Darmstadt «aveva dato ragione a una donna somala che, approdata in Germania non voleva essere rinviata in Italia, il Paese che per primo le aveva dato asilo. La giustizia tedesca, a cui si era rivolta, le ha dato ragione». Il motivo: il nostro Paese non garantisce ai richiedenti asilo i diritti fondamentali.
Non a caso, la deputata della Linke Ulla Jelpke ha chiesto al governo federale di impedire d’ora in poi qualsivoglia trasferimento di profughi verso l’Italia. «La situazione è davvero così grave?», si chiede lo Spiegel. La risposta che si dà l’autorevole testata è affermativa: si ricordano le condizioni indegne con cui vengono accolti i migranti che arrivano via mare spesso dopo odissee dall’esito tragico, come la vicenda dei 55 eritrei morti disidratati nel Mediterraneo e viene citata ovviamente l’emergenza continua di Lampedusa. Ma lo Spiegel riporta anche altri dati: secondo le organizzazioni umanitarie, la grande maggioranza dei richiedenti asilo, dopo il passaggio nei vari Cpa, vive nel migliore dei casi da baraccati o da homeless oltre le estreme periferie delle grandi città. Solo a Roma, su 6000 rifugiati al massimo 2200 hanno posti letti degni di questo nome.
E ancora: il commissario per i diritti umani del Consiglio europeo, Nils Muiznieks, la settimana scorsa è venuto in Italia per vedere con i propri occhi quale trattamento venga riservato ai profughi stranieri, molti dei quali in arrivo da situazioni belliche o di povertà estrema. Il suo rapporto è implacabile. «I profughi vengono obbligati a vivere in condizioni orrende», e lui stesso ha potuto constatare di persona «le condizioni intollerabili in cui 800 rifugiati sono costretti a vivere in un edificio abbandonato nella città di Roma: inaccettabile per un Paese come l’Italia». Secondo l’avvocato Dominik Bender, che ha realizzato un’indagine per conto dell’associazione «Pro Asyl», «le autorità italiane non fanno altro che spingere le persone verso altri Paesi europei attraverso una strategia di immiserimento».
Scrive lo Spiegel che il governo di Berlino, di fronte a questa situazione, preferisca fare orecchie da mercante. L’Italia, per conto suo, tace. Ragion di Stato: sulla pelle dei migranti.

l’Unità 14.07.12