Latest Posts

Una caccia durata mezzo secolo “La particella di Dio esiste ora l’universo ha meno segreti”, di Elena Dusi

La scoperta del bosone di Higgs, ufficializzata ieri al Cern di Ginevra, racconta la storia dell’universo, ma anche la storia di un uomo. Racconta la storia dell’universo perché un istante dopo il Big Bang, grazie a questa particella, i frammenti di materia hanno frenato la loro corsa verso l’infinito e hanno iniziato a interagire, formando con il tempo atomi, molecole, stelle, pianeti e infine la vita. Racconta la storia di un uomo perché proprio in quel Cern in cui oggi viene celebrato e salutato come il prossimo premio Nobel per la fisica, nel 1964 il 35enne Peter Higgs ricevette una delle più cocenti delusioni della sua storia di scienziato.
In tre settimane di luglio, esattamente 48 anni fa, il giovane fisico inglese scrisse in due pagine di equazioni una teoria che prevedeva l’esistenza di una particella misteriosa. Spedì l’articolo al numero uno degli editor della rivista
Physics Letters al Cern, ma il suo testo venne cestinato. Fu la rivista rivale pubblicata in America, Physical Review Letters, ad accettare quello studio dando il via alla storia del bosone di Higgs.
Per passare dalla teoria all’osservazione sperimentale c’è voluto quasi mezzo secolo. E ieri, fra gli applausi dei colleghi, Peter Higgs si è commosso sentendo da scienziati molto più giovani di lui che uno strumento immenso come l’acceleratore di particelle Lhc, costato alla scienza europea 10 miliardi di euro, è riuscito a osservare la particella che Higgs aveva descritto in un pugno di equazioni tracciate su un foglio di carta. «Grazie, siete stati bravissimi », ha detto lo scienziato dal sorriso dolce, che dopo il successo della sua teoria, in un’intervista alla rivista
Asimmetriedell’Istituto nazionale di fisica nucleare, aveva ammesso: «Una tale reputazione esagerata ha quasi soffocato la mia attività di ricerca».
Ma la scoperta del bosone di Higgs è anche la storia di migliaia di fisici che da mezzo secolo hanno lavorato in vista di questa giornata. Solo per costruire Lhc sono serviti vent’anni di lavoro. L’acceleratore di particelle più potente del mondo ha sancito la superiorità della ricerca europea su quella statunitense in questo campo della fisica, innescando una “migrazione dei cervelli” dall’America verso il vecchio continente. Oggi a capo di tre dei quattro grandi rivelatori che “fotografano” le collisioni fra i protoni all’interno dell’acceleratore ci sono tre scienziati italiani. Il nostro paese partecipa alla ricerca del Cern tramite l’Istituto nazionale di fisica nucleare. Ed è stata proprio Fabiola Gianotti, che guida i 3mila ricercatori del rivelatore Atlas, ieri a presentare la scoperta del bosone di Higgs con il collega americano Joe Incandela del rivelatore Cms.
«I dati vanno raffinati, gli esperimenti devono proseguire. Ma da qui siamo pronti a lanciarci a 360 gradi verso nuove ricerche. Studieremo l’eventualità di dimensioni extra dell’universo o della supersimmetria. Cercheremo di capire la natura della materia oscura. Il futuro sarà una nuova avventura», ha detto Gianotti. A questa storia, ricorda anche il direttore della ricerca del Cern Sergio Bertolucci, «partecipa una nuova generazione di fisici. Molti vengono dall’Italia e sono bravissimi. Il nostro paese li forma per poi vederli partire per l’estero.
La scienza è una maratona, non una corsa dei cento metri, e il terreno che stiamo perdendo oggi sarà difficile da recuperare in futuro».
La scoperta del bosone di Higgs da domani tornerà a essere la storia dell’universo.
Ora che gli “investigatori” del Cern hanno tracciato il suo identikit, lo interrogheranno per capire come mai i suoi connotati non siano esattamente quelli previsti e come mai le sue risposte non siano del tutto convincenti. «Per ora abbiamo scoperto un bosone di Higgs», ha detto ieri il direttore del Cern. «Ma siamo proprio sicuri che non ne esistano altri? Le domande più appassionanti iniziano proprio ora».

La Repubblica 05.07.12

*******

“Questa scoperta ci lascia sbigottiti si apre un nuovo capitolo della fisica”, di Brian Greene

La scoperta della particella di Higgs completerebbe un capitolo fondamentale nei nostri sforzi per comprendere gli elementi di base che compongono dell’universo.
La storia cominciò negli anni ‘60, quando i fisici svilupparono quello che sarebbe diventato noto come “modello standard della fisica delle particelle”, uno schema matematico che si rivelò in grado di prevedere i risultati di qualsiasi esperimento in qualsiasi acceleratore di particelle in qualsiasi parte del mondo. Le equazioni imprigionavano quark ed elettroni, muoni e neutrini e una moltitudine di altre particelle fondamentali in una matrice matematica i cui schemi intrinseci, come la forma di un fiocco di neve perfetto, esibivano una rigorosa simmetria.
Ma anche se le previsioni della teoria venivano avvalorate da quasi mezzo secolo di dati sperimentali, c’era una parte fondamentale che restava irraggiungibile.
La teoria includeva un’ipotesi, associata al fisico inglese Peter Higgs, sul modo in cui le particelle fondamentali acquisiscono massa. Semplificando, la massa di una particella è la resistenza che incontri se spingi contro di essa. La domanda è: da dove viene questa resistenza? La risposta, secondo la teoria di Higgs, è che
lo spazio è pieno di una sostanza invisibile — il campo di Higgs — che agisce come una sorta di melassa che esercita una resistenza fluidodinamica quando le particelle cercano di accelerare attraverso di essa. Più una particella è “appiccicosa”, più è influenzata da questo campo di Higgs e più pesante appare.
Il vuoto interstellare, ripulito di qualsiasi traccia di materia e radiazione, sarebbe comunque permeato dal campo di Higgs. Higgs ha proposto di riscrivere la definizione stessa di nulla, riempiendo lo spazio vuoto con una sostanza capace di conferire alle particelle la loro massa.
Era un’ipotesi strana ed esotica: il primo studio proposto da Higgs sull’argomento fu rigettato. Ma studiando più a fondo la sua idea, i fisici si resero conto che la sua semplicità matematica e le sue intuizioni erano ammirevoli. Altri tentativi teorici per individuare l’origine della massa delle particelle incappavano sempre in qualche incoerenza matematica, mentre l’ipotesi di Higgs teneva duro. Quando cominciai la specializzazione, negli anni ‘80, si parlava del campo di Higgs con tanta disinvoltura che ci misi un po’ a rendermi conto che quella teoria non era ancora stata confermata sperimentalmente.
Ma per qualunque teoria, per quanto intrigante dal punto di vista matematico, la conferma sperimentale è irrinunciabile. E questa è una delle ragioni principali per cui è stato costruito il Large Hadron Collider, un percorso tubolare lungo 27 chilometri situato qualche centinaio di metri sotto terra in prossimità di Ginevra, che si snoda oltre il confine tra Francia e Svizzera e torna indietro. Il collisore accelera protoni in direzioni opposte a una velocità quasi pari a quella della luce, e ogni secondo ne scaglia milioni uno contro l’altro. Secondo i calcoli queste collisioni possono essere sufficientemente violente da “raschiare” via un pezzettino minuscolo del campo di Higgs, che apparirebbe come una particella infinitesimale: lo Higgs.
Ma i calcoli mostrano anche che trovare questa particella non è un compito facile. La particella avrebbe vita breve, disintegrandosi rapidamente in altre particelle più familiari (come i fotoni, particelle di luce) e solo esaminando i prodotti della disintegrazione i ricercatori potrebbero accumulare prove dell’esistenza degli Higgs. Come se non bastasse, le imponenti collisioni fra protoni producono un vortice di altri residui di particelle, rendendo difficilissimo localizzare con esattezza gli Higgs.
È un lavoro a cui migliaia di scienziati hanno dedicato decenni. Per me che sono un teorico e non prendo parte a questi sforzi sperimentali, il risultato è altrettanto eccitante. Anni fa, quando andavo al liceo, il mio professore di fisica ci diede un compito: calcolare la traiettoria di una palla appesa al soffitto con un pezzo di chewing-gum. Quella sera, quando terminai i calcoli, corsi in corridoio per farli vedere a mio padre; il fatto che dei simboli matematici scarabocchiati a matita su un pezzo di carta potessero descrivere cose che accadevano effettivamente nel mondo reale era qualcosa che mi lasciava profondamente ammirato. Per questo ho sviluppato la passione per la fisica. Con questo annuncio, per quanto incerto e prematuro, ho provato di nuovo quel senso di sbigottimento.
(Copyright New York Times-La Repubblica. Traduzione di Fabio Galimberti)

La Repubblica 05.07.12

"Il Presidente maggiordomo", di Curzio Maltese

NO, non è la Bbc. Questa è la Rai, la Rai tribù. Ogni volta che un nuovo vertice di viale Mazzini addita il modello della più prestigiosa tv pubblica del mondo, come hanno fatto per ultimi il presidente e il direttore generale nominati dal governo, Tarantola e Gubitosi, subito gli stakanovisti della lottizzazione s’incaricano di smentire. Ieri è stata un’altra giornata campale per le nomine Rai. Il Pdl e la Lega, caduti in letargo da mesi se non da anni su tutte le grandi questioni nazionali, dall’economia alle riforme istituzionali, si sono risvegliati di colpo e hanno lanciato una battaglia alla morte per non mollare le poltrone di viale Mazzini. Si sono contati feriti e morti, soprattutto dal ridere, ma alla fine gli eroici guardiani della mangiatoia televisiva ce l’hanno fatta, rimandando di un altro giorno l’avvento alla Rai di un vertice di persone serie. Un’ipotesi intollerabile per loro e per la vasta comitiva di imbucati, raccomandati, fidanzate e servi piazzati in ogni angolo della tv di stato a spese del gentile abbonato.
Sono passati sei mesi da quando Mario Monti, intervistato da Fazio, aveva giurato di rinnovare la Rai in una settimana. In questi sei mesi il premier ha trattato, spesso con successo, con sindacati e industriali, banche centrali e vertici europei, Cina e America. Ma sulla Rai non è riuscito a fare mezzo passo in avanti. Da mesi il centrodestra boicotta il rinnovamento, arrivando infine a far mancare per tre volte il numero legale nella commissione addetta alla lottizzazione, detta non si sa (più) perché «commissione di vigilanza». Vigilanza di che? L’ultimo atto della guerriglia è stato la rimozione da parte del presidente del Senato Schifani, di un membro di commissione del Pdl, il senatore Paolo Amato, colpevole di aver disobbedito agli ordini di partito e rimpiazzato al volo con il collega Viespoli. Il blitz di Schifani non ha precedenti nella storia delle istituzioni. Peccato perché nel disperato tentativo di rimuovere il ventennio berlusconiano, c’eravamo ormai quasi dimenticati, fra le tante nefandezze imposte dal Cavaliere, anche la nomina di un maggiordomo alla seconda carica dello Stato. Schifani, col suo gesto, ha voluto ricordarcelo a ogni costo.
Portata a termine l’ultima pagliacciata di una lunga serie, il Pdl oggi dovrebbe finalmente presentarsi in commissione per votare il nuovo cda di viale Mazzini. Nel caso in cui non lo facesse, Bersani e Casini propongono che il governo nomini un commissario in viale Mazzini. Secondo noi, sbagliano. Non a invocare il commissario governativo, ma a dare un’altra possibilità al centrodestra. Basta, finiamola qui. La politica faccia un passo indietro subito, dopo aver condotto la Rai, come del resto tutto il Paese, sull’orlo del fallimento. I partiti lascino a Monti il compito di nominare un salvatore della patria a viale Mazzini che rimetta in ordine i conti e prepari un piano di privatizzazione, come gli italiani hanno chiesto con il voto referendario. Tutti si riempiono la bocca con le riforme del lavoro, tema sul quale l’Italia sarebbe in ritardo di un decennio sulla Germania. Bene, qualcuno forse dovrebbe ricordare che sulla riforma e la privatizzazione del servizio pubblico televisivo il ritardo italiano su Germania, Francia e Gran Bretagna è di trent’anni. Un ritardo che ha un nome, un cognome e una ragione sociale, Silvio Berlusconi e il conflitto d’interessi. Fra l’altro, liberati dalla loro principale occupazione, la lottizzazione Rai, i partiti forse troveranno il tempo nei prossimi mesi di fare le riforme o almeno una decente legge elettorale. Il tempo, se non la voglia, di occuparsi insomma di tutti i compiti che hanno trascurato per discutere appassionatamente di direttori dei telegiornali e di rete, vallette e casting di sceneggiati, presentatori in livrea e appalti agli amici.

La Repubblica 05.07.12

Sisma, ripartiti i fondi «A settembre il bando per gli istituti inagibili», di Giulia Gentile

«Pubblicheremo il bando per le scuole» che a settembre non potranno riaprire i battenti. Una gara pubblica attraverso cui comprare «prefabbricati o moduli provvisori per assicurare l’avvio regolare del prossimo anno scolastico, cosa per noi fondamentale». È soprattutto grazie al decreto sulla ripartizione dei fondi per la ricostruzione post-sisma, firmato ieri, che il governatore dell’Emilia-Romagna e commissario straordinario Vasco Errani potrà, già oggi, metter mano alle soluzioni temporanee per gli istituti gravemente danneggiati dal sisma. Ieri il governo ha stabilito che, dei due miliardi e mezzo già annunciati per i lavori di ripristino in Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, ben il 95% – circa due miliardi e 300milioni – sarà destinato alla ricostruzione in Emilia, la regione maggiormente colpita. Cosa che ha fatto infuriare Formigoni: «inaccettabile solo il 4% alla Lombardia». E se, due giorni fa, i deputati della commissione Cultura avevano raccolto l’appello dei sindaci ad avere più fondi per le scuole, proprio alle scuole ieri è andato il primo pensiero di viale Aldo Moro. «Sono già convinto che serviranno altri soldi – sorride il governatore – ma l’importante è partire». Via, allora, ai bandi per acquistare strutture temporanee da destinare ai centri che dovranno farsi carico di lavori molto lunghi, o peggio dell’abbattimento, di 86 fra elementari, medie e superiori. Su 238 istituti danneggiati nelle province di Bologna, Modena e Ferrara, la Regione conta di farne riaprire a settembre 152 grazie ad interventi di ripristino-lampo: indispensabile, dunque, organizzare per le altre degli spazi dove garantire agli scolari la possibilità di continuare regolarmente gli studi. «I 74 milioni destinati inizialmente a questo – sottolinea l’assessore regionale alla Scuola, Patrizio Bianchi – sono serviti solo ad avviare i primi restauri. Occorre ancora fare le verifiche sugli immobi- li che hanno riportato danni più gravi, e per i quali quindi sono previsti cantieri più lunghi. Per non parlare di quegli stabili che andranno infine completamente demoliti: per gli studenti di queste scuole bisognerà pensare a prefabbricati più “pesanti”».
Se, allora, da Roma arriveranno soldi da destinare all’istruzione, anche quei fondi ripartiti in tre anni potrebbero non essere sufficienti a far fronte all’emergenza. Per questo, dice la presi- dente Pd della commisisone Cultura al- la Camera, Manuela Ghizzoni, «chiederemo, attraverso un emendamento al decreto 74 sul terremoto, che almeno la metà dei 200 milioni che si trovano nel decreto semplificazione e in un capitolo del Cipe possano essere “girati” al- le scuole». Intanto, i cittadini si organizzano “dal basso” per sventare il rischio della mancata riapertura degli istituti, o semplicemente per dare una mano al- le magrissime casse dei Comuni. A San Felice sul Panaro, nel Modenese, fra i centri più colpiti dalle scosse, un comitato di insegnanti e genitori della scuola primaria “Ludovico Antonio Muratori” ha lanciato il progetto «Adotta un pezzo di futuro». Per contattare il Comitato Genitori: genitorisanfelice@yahoo. it. Per contribuire: IBAN IT23 J056 5266 980C C001 0155 696. Il conto cor- rente è intestato a: Comitato Genitori Scuola Elementare di SanFelice s/P.

L’Unità 04.07.12

******

Terremoto, Errani: “Il Governo ha firmato il decreto per la ripartizione dei 2,5 miliardi”

“Oggi il Governo ha firmato Dpcm che riparte i 2,5 miliardi alle Regioni colpite dal sisma: il 95% all’Emilia-Romagna, il 4% alla Lombardia e l’1% al Veneto. E stabilisce inoltrecontributi fino all’80% per i danni subiti e per il miglioramento sismico delle abitazioni dei cittadini, e la stessa cosa accadra’ per le imprese nei prossimi giorni’’. Il presidente della Regione Emilia-Romagna e commissario alla ricostruzione Vasco Errani l’ha annunciato dopo aver incontrato i sindaci delle zone colpite.

In un incontro stampa tenuto a Bologna con il capo della Protezione civile nazionale, Franco Gabrielli, Errani ha precisato che il riparto alle tre Regioni e’ cosi’ stabilito ‘’salvo conguaglio’’ dopo aver appurato tutti i danni. I 2,5 miliardi sono quelli gia’ stabiliti per la ricostruzione: 500 milioni per il 2012, un miliardo nel 2013 e uno nel 2014. ‘’Questo Dpcm – ha commentato Errani – e’ un elemento fondamentale per avviare la ricostruzione. Ci permette di pubblicare domani il bando per i moduli prefabbricati per le scuole, che permetteranno a 16.000 studenti di tornare in classe con la riapertura dell’anno scolastico, e questo e’ importantissimo’’.
Entro una decina di giorni, sara’ stilato il ‘piano casa’, in accordo con i sindaci. Il presidente Vasco Errani ha precisato che “nelle prossime settimane definiremo le modalita’ e i meccanismi, una volta acquisiti i dati definitivi dei danni, per realizzare una distribuzione equa delle risorse. Al contempo stiamo lavorando per dare una soluzione abitativa a tutti coloro che hanno perso la casa: il nostro principale obiettivo e’ quello di tenere coesa la comunita’”. Ultimata la definizione dei danni e il censimento degli appartamenti sfitti, sara’ possibile programmare prima l’emergenza attraverso l’utilizzo di casette e moduli temporanei, poi gli interventi alle abitazioni danneggiate. Per quanto riguarda l’utilizzo di appartamenti sfitti, la Regione sta perfezionando accordi con le associazioni dei proprietari immobiliari. Garantira’, inoltre, i costi dell’affitto e fornira’ le garanzie per il rilascio degli immobili.

Gabrielli: “Entro il 20 luglio saranno concluse le verifiche sull’agibilita’”
“Per meta’ luglio, al massimo il 20, avremo terminato le verifiche di agibilita’’’ sulle abitazioni nelle zone colpite dal sisma. Lo annuncia il prefetto Franco Gabrielli, capo della Protezione civile nazionale.
Gabrielli stima la conclusione delle verifiche al massimo per il 20 luglio calcolando che ‘’il 7 – ha detto – e’ il termine ultimo per chiedere la verifica’’ sull’agibilita’ della propria abitazione nelle zone colpite. ‘’Al 7 luglio – ha aggiunto – avremo ancora circa 8.000 verifiche da fare (oggi siamo arrivati a 22.786 e circa il 36% di queste sono inagibili per gravi danni, in classe E)’’. Per quantificare la reale esigenza di abitazioni provvisorie, si e’ cominciato a incrociare le verifiche compiute con i dati a disposizione dei Comuni: ‘’tanto prima l’esito di questa operazione arrivera’ al commissario Errani – ha rilevato Gabrielli – tanto prima si potra’ procedere alle assegnazioni’’.

Il Resto del Carlino 04.07.12

"Bersani: il mio governo farà cose nuove e diverse", di Simone Collini

«Il governo prossimo sarà in continuità con il meglio del governo Monti, ma dovrà anche fare delle cose nuove, avendo una maggioranza solida politicamente». Pier Luigi Bersani sorride di fronte alla «capacità di metterci in dibattiti metafisici eccezionali». Tipo quello sulla auspicabile (vedi Enrico Letta) o impensabile (vedi Stefano Fassina) continuità tra questo esecutivo e un eventuale governo Bersani. Il leader del Pd però, rispondendo a un gruppo di blogger che lo intervista on-line a Web Talk (trasmesso su Youdem), approfitta della domanda per lanciare un paio di messaggi: alcuni rassicuranti, all’indirizzo di un elettorato che alle volte fatica ad orientarsi nella selva di dichiarazioni su come dovrà essere il post-Monti, altri utili a mo’ di sollecito per un governo che deve tener conto delle posizioni delle parti sociali, e altri ancora ad uso e consumo di chi sostiene che con la sinistra al governo non si potranno approvare le riforme utili al Paese.
«Il prossimo sarà un governo in continuità con il meglio del governo Monti,ma dovrà fare anche cose nuove e diverse, avendo una maggioranza solida e univoca dal punto di vista politico», dice allora prima di tutto Bersani ricordando la compagine anomala che oggi sostiene l’esecutivo e il fatto che il Pd non abbia la maggioranza in questo Parlamento: «Siamo lì che tutti i momenti, essendo leali verso un governo di transizione, cerchiamo di portare a casa qualcosa come lo vogliamo noi. Ma quel che pensiamo noi non è esattamente quel che vediamo adesso, anche se vedo qualcosa di quel che faremmo anche noi».
Il discorso riguarda i contenuti, perché Bersani ha già avuto modo di dire che se non si farà ora, per esempio, sarà il prossimo governo ad abbassare l’Imu e a inserire un’imposta sui grandi patrimoni immobiliari. Ma riguarda anche le modalità con cui si deve arrivare alla definizione delle misure da approvare per affrontare le questioni economiche e sociali.
«Il dialogo sociale non impedisce le decisioni», dice Bersani giusto nelle stesse ore in cui a Palazzo Chigi si svolge un difficile confronto tra governo e sindacati e enti locali sulla spending review. Un messaggio all’esecutivo ma anche a chi, dentro e fuori i nostri confini, inizia a sostenere la tesi che il centrosinistra potrà anche vincere le prossime elezioni ma non avrà la capacità di approvare le riforme necessarie al Paese.
DIALOGO SOCIALE E DECISIONI
Lo ha fatto il “Financial Times”, e la cosa non è affatto piaciuta a Bersani. «Io rispondo coi fatti. Se oggi ci sono dei privati sui binari, se noi abbiamo fatto lo spezzatino dell’Enel, se abbiamo liberalizzato le licenze del piccolo commercio, si è fatto con uno che si chiama Bersani e che parlava ogni giorno con i sindacati», dice il leader del Pd ricordando le misure adottate quando era ministro di un governo di centrosinistra. «Contrapporre il dialogo sociale alle decisioni è un errore tecnico perché senza dialogo sociale le decisioni possono paralizzarsi, anche perché senza il confronto con i grandi soggetti sociali le piccole lobby possono prevalere». Insomma, «i fatti» per rispondere alle perplessità dei commentatori italiani e stranieri e l’assi-
curazione alle parti sociali che se dovesse toccare a lui guidare il prossimo esecutivo il dilalogo con i sindacati non si chiuderebbe. Anche se, precisa Bersani, questo «naturalmente non significa essere in coda di un processo, e significa invece essere in testa e sapere dove si vuole andare. Tutto il resto sono luoghi comuni».
LEGGE SULLE UNIONI DI FATTO
Tra le «cose nuove» che Bersani è convinto di poter approvare nel dopo-Monti, con il sostegno di un «centrosinistra di governo» (di cui difficilmente può far parte chi, come Antonio Di Pietro, «tutti i giorni ci azzanna o ci insulta») c’è una normativa per regolare le unioni di fatto, comprese quelle tra persone dello stesso sesso. «Le convivenze stabili tra omossessuali bisogna che trovino una risposta scegliendo al meglio nella legislazione europea», dice facendo riferimento alle normative esistenti in Inghilterra, Francia e Germania. «Bisogna che lo risolviamo questo problema, senza ambiguità e con una certa decisione». Bersani è convinto che si possa trovare una soluzione anche nel confronto tra progressisti e moderati, su questi temi come su altre questioni eticamente sensibili come il fine vita o la fecondazione assistita: «Sui temi di frontiera penso che si debba ragionare con una chiave umanistica, a partire dalla dignità e dalla libertà della persona. Attorno a questa logica anche le diverse sensibilità, laiche e cattoliche, possono incontrarsi attorno alla dignità dell’uomo».

l’Unità 04.07.12

""Generazione senza", viaggio tra i giovani del lavoro perduto", di Paolo Griseri e Sara Strippoli

Salteranno un giro. Al loro arrivo in stazione, il treno del lavoro non passa più: banchina deserta, sterpaglie tra i binari. Saranno giovani assistiti, ex precari, una generazione non arruolata, jobless, come dicono gli inglesi. Una generazione senza. Costretti a galleggiare tra una sovvenzione e l’aiuto di amici, genitori, parenti. I più fortunati a sperare nell’eredità. Con le mani in mano. Travolti da una catena. Qualche volta, per fortuna, salvati da un’imprevista rete di solidarietà. Perché le loro storie sono uno scandalo, gridano vendetta. Antonia, per esempio, si è salvata. Ma per miracolo. Trentenne, licenziata dal panificio industriale dove lavorava come operaia generica perché era rimasta a casa a curare la bambina malata di leucemia: quando il lavoro scarseggia sono lussi che nessuno si può permettere. A salvarla sono state le donne di Volvera, zona industriale di Torino, una della capitali della disoccupazione giovanile nell’ex ricco Nord. Hanno bloccato i carabinieri che stavano per sfrattarla.
Quante Antonia ci sono nell’hinterland di Torino? Tante perché, dicono le cifre, Torino è la provincia del Nord dove il tasso di disoccupazione giovanile è più alto, quasi il 30 per cento. In Italia, fra i 15 e i 24 anni, si è sfiorato ormai il record del 36,2 per cento, 635mila ragazzi a casa senza prospettive. «L’occupazione — spiega Giorgio Vernoni dell’Ufficio provinciale del lavoro di Torino — si sta ritirando dalle periferie verso la città». Si ritira come i ghiacciai lasciando scoperte le valli e i paesi della seconda cintura. Volvera è al centro, al punto di incontro tra le crisi della Indesit e della Fiat, travolta dal gelo di commesse dell’indotto.
Oggi la figlia di Antonia è guarita e la colletta di solidarietà le pagherà l’affitto per un anno, in attesa che si trovi per lei la casa popolare. Ma in questo piccolo comune di settemila abitanti, il sindaco, Attilio Beltramino, allarga le braccia: «Sono contento per la signora Antonia, ma ho altri dodici casi di persone nelle sue condizioni. E non ho soldi per gli alloggi popolari».
La nipote di Antonia si chiama Valentina. Ha 30 anni, è sposata con Toni che è più vecchio di tre. Hanno due figli e tutti e due hanno perso il posto. Lei era lavapiatti nella cooperativa della mensa Fiat, lui operaio a Bruino, cinque chilometri da casa a produrre parabrezza fino a quando la fabbrica ha chiuso lasciando tutti per la strada: «Quel che è peggio — dice Valentina — è che non possiamo nemmeno fare molto affidamento sui grandi ». La madre di Valentina, Giovanna, ha lavorato in Fiat. Poi è entrata in cassa integrazione: «Meno di 800 euro al mese, come posso chiederle un soldo?». Il padre, Luciano, lavora in un’azienda così piccola che non ha nemmeno la possibilità di andare in cassa integrazione: «Gli riducono l’orario per far quadrare i conti e non perdere i dipendenti», racconta Giovanna.
Toni, Antonia e Valentina sono i figli della crisi e dell’impossibilità di superarla: «Sono i nati negli anni Ottanta e Novanta quelli che soffriranno di più non solo nei prossimi mesi ma nei prossimi anni», prevede l’assessore al lavoro della Provincia di Torino, Carlo Chiama. La ragione è drammaticamente semplice: «Abbiamo scelto tutti di affrontare la crisi salvaguardando il più possibile i posti di lavoro — dice Vernoni — ma questo ha avuto come conseguenza quella di alzare un muro per le generazioni più giovani». Perché la cassa integrazione blocca posti, tutela gli esistenti ma non ne crea di nuovi. E se il salvagente della cassa viene utilizzato a lungo, per molti anni, la porta girevole del lavoro si inceppa, intere generazioni rischiano di rimanere bloccate nel meccanismo. Questo spiega anche perché le storie di Toni, Antonia e Valentina si trovano nella provincia italiana con il massimo utilizzo degli ammortizzatori sociali, legati alla crisi della Fiat. Paradossalmente non è così nel Nordest: il crollo dell’economia ha distrutto più posti nelle piccole imprese del Veneto ma i dati sulla disoccupazione giovanile sono più incoraggianti.
Torino è la provincia italiana del Nord dove la disoccupazione complessiva è più alta, il 9,2 per cento. Quasi il doppio delle provincie del Veneto, un terzo in più di quelle lombarde. Manca il lavoro per i giovani, scarseggia per i meno giovani. Nasce così una zona depressa. Nel suo nuovo alloggio di Volvera, al primo piano di una casetta di via Scalenghe, sulla strada verso la zona del campo sportivo (perché anche Volvera, incredibilmente, ha un hinterland) Antonia sistema le sue cose estraendole dagli scatoloni dell’ultimo trasloco:
«Mi hanno trovato questo alloggio a 350 euro al mese. Per fortuna la mia storia ha commosso molti e sono riuscita a trovare un lavoro a Candiolo, in una cooperativa di pulizie, cinque ore al giorno per 500 euro». Meglio che niente: si sommano ai 150 euro che manda il padre della piccola Melissa, ora guarita dalla leucemia. La bambina gioca nella sua camera lilla, l’unica arredata nella nuova casa. Gioca con il cuginetto, Matteo. La zia Giovanna aiuta a sistemare quel che esce dagli scatoloni.
È proprio Giovanna a raccontare la storia del triste ciclo dei vinti iniziato quasi trent’anni fa in Sicilia: «Siamo venuti via da Palermo nel 1986. Non c’era lavoro, non riuscivamo a mangiare. Siamo venuti fin qui al Nord perché pensavamo che così ci saremmo sistemati, avremmo avuto uno stipendio, sarebbero nati dei figli». E così, per un certo periodo, è stato. La zona di Volvera è l’area di prima industrializzazione dell’hinterland torinese. Vive sulle molte aziende dell’indotto ma anche su grandi gruppi come la Indesit di None (ora in chiusura), la Skf di Airasca, la Fiat ricambi e la Fiat di Rivalta (oggi chiusa). Un buon posto per trovare lavoro. Negli anni Ottanta i contadini del Sud sono arrivati da queste parti per imparare un mestiere e per rispondere a un desiderio di riscatto sociale. Alla fine del turno affollavano le aule della scuola media del paese, seguivano i corsi delle 150 ore per poter prendere la licenzia media.
Era un ascensore faticoso ma un ascensore che lentamente saliva la scala sociale.
Mai Giovanna e le sue sorelle avrebbero immaginato che un giorno i loro figli e i figli dei loro figli avrebbero dovuto ricominciare da zero come se la crisi di questi due anni avesse abbattuto di colpo un castello tirato su mattone per mattone a costo di grandi sacrifici. Mai avrebbero immaginato che Valentina, Antonia e Toni sarebbero
rimasti un giorno fermi, senza possibilità di salire sul treno del lavoro, con i figli piccoli da allevare. E allora Giovanna rivede l’incubo di quando era giovane lei e il mondo si chiamava Palermo, Sicilia: «Un anno fa, quando anche mia figlia Valentina e suo marito, quasi nello stesso periodo, sono rimasti senza lavoro, mi è sembrato di rivivere l’angoscia di allora, dei giorni senza soldi. Dopo un periodo tranquillo in cui pensavamo di avercela fatta, le figlie erano sposate e autonome nei soldi, ecco che questa crisi si è portata di nuovo via le nostre speranze. Ma per le nostre passi. Si è portata via, si sta portando via le speranze di questi ragazzi che credevano nel futuro, che avevano provato a costruirlo e ora devono ricominciare tutto da capo».
Dice proprio così Giovanna, «tutto da capo». Per lei la crisi non sono gli impiegati di Lehman Brothers che escono con gli scatoloni in mano per le strade di Manhattan. È la povertà e l’angoscia di Palermo che sale al Nord, che ti insegue come una maledizione, che scarica sui figli senza lavoro le paure dalle quali erano fuggiti i padri e le madri. Valentina, Antonia e Toni, sono lì, sulla banchina piena di erbacce ad aspettare un treno che forse non passerà mai: «Hanno le stesse preoccupazioni che avevamo noi trent’anni fa. Quando abbiamo deciso di emigrare » .

La Repubblica 04.07.12

"Il dubbio del Pd: è una manovra bis?", di Andrea Tognotti

«Massima disponibilità» ma Bersani è fermo: la spesa sociale non si tocca. Incontri, al momento, non sono stati fissati: Pier Luigi Bersani non sa ancora se e quando vedrà il presidente del consiglio per discutere insieme a lui di spending review. Le cose di cui parlare ci sarebbero, perché il paletto fissato dal segretario dem (d’accordo sulla lotta agli sprechi, ma niente tagli alla spesa sociale) confligge oggettivamente con quello che si sa dell’impostazione del governo, ovvero i tagli alla spesa sanitaria e lo sfoltimento dei dipendenti pubblicità temi la cui portata sociale è evidente, tanto che un sindacato tradizionalmente radicato nel pubblico impiego come la Cisl ha già dato l’altolà al governo.Negli ambienti del segretario si parla di «massima disponibilità» di Bersani a discutere della razionalizzazione della spesa pubblica (ad esempio dando un giudizio positivo sull’obbligo di passare per la Consip per gli acquisti), ma il paletto sulla spesa sociale viene piantato con una certa fermezza. L’occasione per stabilire i limiti della disponibilità dei democrats a sostenere l’esecutivo anche su questa nuova operazione (Monti ha affermato che «non sarà una manovra»», ma l’entità e l’impatto rischiano di rendere la spending review qualcosa di molto simile al tipico strumento di correzione dei conti pubblici) è stato il “web talk” condotto dalla direttrice di Youdem Chiara Geloni: qualcosa di un po’ diverso rispetto alla classica conferenza stampa per la platea dei giornalisti invitati, che dovevano essere anche dei blogger. «Una bella esperienza », ha detto poi il segretario.Sulla tradizionalissima carta stampata il responsabile economia del partito, Stefano Fassina, si incaricava di proporre un’altra indicazione, più che altro di metodo: intanto lamentando l’assenza di «qualsiasi interlocuzione» preventiva sui provvedimenti da prendere; poi sullo strumento legislativo che, secondo Fassina, sarebbe stato meglio non fosse un decreto, magari accompagnato dall’«ennesima fiducia». Ci si muove dunque con decisione ma anche con molta attenzione, per tenere alta la guardia senza tuttavia chiudere la porta, dato che poi le norme proposte dal governo passano in parlamento con i voti del Pd. Di certo si tiene conto di posizioni come quella espressa da Carla Cantone, segretario dello Spi-Cgil, secondo la quale «con ulteriori tagli al welfare e alla sanità si andrebbe incontro alla “Caporetto” dello stato sociale del nostro paese, e un numero spropositato di anziani si ritroverebbe senza alcuna forma di assistenza socio-sanitaria».
I sindacati tengono ancora aperto uno spiraglio, dicendo di voler aspettare le decisioni di venerdì prima di proclamare lo sciopero, ma dalle prime dichiarazioni dei tre segretari traspare una certa irritazione. E un presidente di regione come Enrico Rossi parla di «mazzata inaccettabile » sui servizi sanitari. Sindacati, amministratori (durissimo anche il presidente dell’Anci Graziano Delrio): un quadro che i dem tengono in considerazione e corrobora i forti timori che, al di là della denominazione, si tratti di una manovra correttiva di quelle toste, difficile da far digerire dal proprio elettorato.
Anche l’esecutivo sembra rendersi conto che il percorso parlamentare potrebbe essere accidentato, visto che ieri sera ha incontrato i capigruppo di maggioranza.

da Europa Quotidiano 04.07.12

"Il tradimento del federalismo", di Michele Prospero

Questa spending review somiglia sempre di più a una ennesima manovra economica correttiva. Il nome solo di manovra ci viene risparmiato, forse per incutere meno spavento dinanzi allo spettro di ennesimi sacrifici improduttivi richiesti da sua maestà il rigore. La sostanza purtroppo non cambia. Ed è la prosecuzione di tagli (lineari?) che paiono destinati a incidere sulla qualità dei servizi e quindi sulla vita delle persone.
Le forbici sono ancora una volta lo strumento principale brandito dal governo per affrontare il riordino dei conti pubblici rimasti fuori controllo. Dopo vent’anni di retorica federalista, che innalzava il mito della periferia come l’antidoto più efficace agli sprechi annidati nella grande macchina statale centralista, si scopre che proprio la devoluzione di poteri ai territori rigonfiava la spesa spingendola al di là di ogni possibile contenimento.

Allo Stato nazionale che con politiche pubbliche dà forma inclusiva al territorio, l’asse del nord ha opposto l’immagine del territorio che de-forma lo Stato e sconquassa la cittadinanza. Il risultato perverso non si è fatto attendere: meno diritti, con più spese e più tasse.
Eppure, ben altre erano le promesse del ventennio, la cui ideologia era condita con delle dosi massicce di retorica aziendalista. La ricetta era molto semplice: immettere i codici dorati del mercato nella città, i canoni di comando propri dell’azienda nell’amministrazione, gli stampini della sacra proprietà privata nella sfera pubblica e tutto funzionerà alla perfezione, con costi ridotti e rendimento assicurato. La chiacchiera aziendalista sull’efficienza e l’efficacia degli obiettivi gestionali verificabili, il lessico economicistico che irrompeva nel cuore dell’amministrazione trasferendovi pratiche negoziali o la forma privatistica del contratto, ha prodotto però solo incertezze, irrazionalità, sprechi ulteriori. Il liberismo, promosso come paradigma unico di una governance multilivello situata oltre lo Stato, ha registrato un clamoroso fiasco, di cui poco si parla.
Al di sotto del credo aziendalista, riverito come una nuova divinità, rimaneva in questi anni la realtà frammentata e diversificata che ha accompagnato lo Stato unitario sin dalle origini. E cioè regioni (soprattutto quelle centrali, eredi del grande riformismo sorto all’ombra della subcultura rossa) con una spiccata capacità di governo e di innovazione, malgrado le restrizioni e i tagli, e altre esperienze territoriali invece contrassegnate da sprechi, inefficienze, parassitismi. Il fallimento del miscuglio perverso di federalismo e aziendalismo, che si è rivelato un fattore di irrazionalità e di decrescita, non viene affatto sfiorato dalla spending review, che anzi s’abbatte alla cieca su tutto il comparto pubblico, senza nessuna apprezzabile lettura delle segmentate situazioni concrete.
C’è un odio del pubblico che inquieta. Anche la consueta demonizzazione delle società partecipate dai Comuni, denunciate in quanto tali come la spia di chissà quale devianza criminogena, da curare con le nuove ondate di privatizzazioni, appare del tutto incomprensibile. Spesso proprio dalla partecipazione a enti e servizi, i Comuni traggono le risorse minimali oggi necessarie per conservare nei territori le tracce di una antica civiltà di buon governo, preservata miracolosamente da bravi amministratori malgrado la drastica strozzatura delle entrate.
Che grazie a una raffica di tagli più o meno lineari nell’intera macchina pubblica si possano risanare i conti e favorire la crescita è soltanto un atto di fede preteso dall’ortodossia liberista ancora imperante.
Oggi domina uno strano statalismo liberista che, in spregio a politiche pubbliche capaci di coesione sociale, conquista il centro del potere e impone con decisioni dall’alto ulteriori dismissioni, tagli, semplificazioni, chiusure, privatizzazioni, dirottamenti di risorse per le grandi banche. Costruire un deserto di diritti di cittadinanza, favorire una eutanasia delle politiche pubbliche e poi confidare nel miracolo della crescita spontanea degli spiriti animali è però una credenza veteroliberista del tutto assurda in tempi di cruda recessione che mostrano come la crisi del mercato non sia meno profonda della crisi dello Stato.
La ripresa economica non può in alcun modo prescindere da una rinnovata stagione del pubblico (inteso alla maniera di oggi: non solo Stato, ma enti territoriali molteplici, settori di società civile). Essa non può quindi che partire dai livelli più vicini alle inquietudini e ai bisogni dei cittadini, cioè dalle autonomie locali che devono partecipare alla gestione di grandi obiettivi pubblici condivisi.
E se, per la crescita, invece delle cieche forbici alla Tremonti, che in realtà ci vedono bene perché spostano la domanda sociale dai beni pubblici ai beni privati, si usasse per una volta un po’ di sana cultura delle istituzioni democratiche?

l’Unità 04.07.12