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Una caccia durata mezzo secolo “La particella di Dio esiste ora l’universo ha meno segreti”, di Elena Dusi

La scoperta del bosone di Higgs, ufficializzata ieri al Cern di Ginevra, racconta la storia dell’universo, ma anche la storia di un uomo. Racconta la storia dell’universo perché un istante dopo il Big Bang, grazie a questa particella, i frammenti di materia hanno frenato la loro corsa verso l’infinito e hanno iniziato a interagire, formando con il tempo atomi, molecole, stelle, pianeti e infine la vita. Racconta la storia di un uomo perché proprio in quel Cern in cui oggi viene celebrato e salutato come il prossimo premio Nobel per la fisica, nel 1964 il 35enne Peter Higgs ricevette una delle più cocenti delusioni della sua storia di scienziato.
In tre settimane di luglio, esattamente 48 anni fa, il giovane fisico inglese scrisse in due pagine di equazioni una teoria che prevedeva l’esistenza di una particella misteriosa. Spedì l’articolo al numero uno degli editor della rivista
Physics Letters al Cern, ma il suo testo venne cestinato. Fu la rivista rivale pubblicata in America, Physical Review Letters, ad accettare quello studio dando il via alla storia del bosone di Higgs.
Per passare dalla teoria all’osservazione sperimentale c’è voluto quasi mezzo secolo. E ieri, fra gli applausi dei colleghi, Peter Higgs si è commosso sentendo da scienziati molto più giovani di lui che uno strumento immenso come l’acceleratore di particelle Lhc, costato alla scienza europea 10 miliardi di euro, è riuscito a osservare la particella che Higgs aveva descritto in un pugno di equazioni tracciate su un foglio di carta. «Grazie, siete stati bravissimi », ha detto lo scienziato dal sorriso dolce, che dopo il successo della sua teoria, in un’intervista alla rivista
Asimmetriedell’Istituto nazionale di fisica nucleare, aveva ammesso: «Una tale reputazione esagerata ha quasi soffocato la mia attività di ricerca».
Ma la scoperta del bosone di Higgs è anche la storia di migliaia di fisici che da mezzo secolo hanno lavorato in vista di questa giornata. Solo per costruire Lhc sono serviti vent’anni di lavoro. L’acceleratore di particelle più potente del mondo ha sancito la superiorità della ricerca europea su quella statunitense in questo campo della fisica, innescando una “migrazione dei cervelli” dall’America verso il vecchio continente. Oggi a capo di tre dei quattro grandi rivelatori che “fotografano” le collisioni fra i protoni all’interno dell’acceleratore ci sono tre scienziati italiani. Il nostro paese partecipa alla ricerca del Cern tramite l’Istituto nazionale di fisica nucleare. Ed è stata proprio Fabiola Gianotti, che guida i 3mila ricercatori del rivelatore Atlas, ieri a presentare la scoperta del bosone di Higgs con il collega americano Joe Incandela del rivelatore Cms.
«I dati vanno raffinati, gli esperimenti devono proseguire. Ma da qui siamo pronti a lanciarci a 360 gradi verso nuove ricerche. Studieremo l’eventualità di dimensioni extra dell’universo o della supersimmetria. Cercheremo di capire la natura della materia oscura. Il futuro sarà una nuova avventura», ha detto Gianotti. A questa storia, ricorda anche il direttore della ricerca del Cern Sergio Bertolucci, «partecipa una nuova generazione di fisici. Molti vengono dall’Italia e sono bravissimi. Il nostro paese li forma per poi vederli partire per l’estero.
La scienza è una maratona, non una corsa dei cento metri, e il terreno che stiamo perdendo oggi sarà difficile da recuperare in futuro».
La scoperta del bosone di Higgs da domani tornerà a essere la storia dell’universo.
Ora che gli “investigatori” del Cern hanno tracciato il suo identikit, lo interrogheranno per capire come mai i suoi connotati non siano esattamente quelli previsti e come mai le sue risposte non siano del tutto convincenti. «Per ora abbiamo scoperto un bosone di Higgs», ha detto ieri il direttore del Cern. «Ma siamo proprio sicuri che non ne esistano altri? Le domande più appassionanti iniziano proprio ora».

La Repubblica 05.07.12

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“Questa scoperta ci lascia sbigottiti si apre un nuovo capitolo della fisica”, di Brian Greene

La scoperta della particella di Higgs completerebbe un capitolo fondamentale nei nostri sforzi per comprendere gli elementi di base che compongono dell’universo.
La storia cominciò negli anni ‘60, quando i fisici svilupparono quello che sarebbe diventato noto come “modello standard della fisica delle particelle”, uno schema matematico che si rivelò in grado di prevedere i risultati di qualsiasi esperimento in qualsiasi acceleratore di particelle in qualsiasi parte del mondo. Le equazioni imprigionavano quark ed elettroni, muoni e neutrini e una moltitudine di altre particelle fondamentali in una matrice matematica i cui schemi intrinseci, come la forma di un fiocco di neve perfetto, esibivano una rigorosa simmetria.
Ma anche se le previsioni della teoria venivano avvalorate da quasi mezzo secolo di dati sperimentali, c’era una parte fondamentale che restava irraggiungibile.
La teoria includeva un’ipotesi, associata al fisico inglese Peter Higgs, sul modo in cui le particelle fondamentali acquisiscono massa. Semplificando, la massa di una particella è la resistenza che incontri se spingi contro di essa. La domanda è: da dove viene questa resistenza? La risposta, secondo la teoria di Higgs, è che
lo spazio è pieno di una sostanza invisibile — il campo di Higgs — che agisce come una sorta di melassa che esercita una resistenza fluidodinamica quando le particelle cercano di accelerare attraverso di essa. Più una particella è “appiccicosa”, più è influenzata da questo campo di Higgs e più pesante appare.
Il vuoto interstellare, ripulito di qualsiasi traccia di materia e radiazione, sarebbe comunque permeato dal campo di Higgs. Higgs ha proposto di riscrivere la definizione stessa di nulla, riempiendo lo spazio vuoto con una sostanza capace di conferire alle particelle la loro massa.
Era un’ipotesi strana ed esotica: il primo studio proposto da Higgs sull’argomento fu rigettato. Ma studiando più a fondo la sua idea, i fisici si resero conto che la sua semplicità matematica e le sue intuizioni erano ammirevoli. Altri tentativi teorici per individuare l’origine della massa delle particelle incappavano sempre in qualche incoerenza matematica, mentre l’ipotesi di Higgs teneva duro. Quando cominciai la specializzazione, negli anni ‘80, si parlava del campo di Higgs con tanta disinvoltura che ci misi un po’ a rendermi conto che quella teoria non era ancora stata confermata sperimentalmente.
Ma per qualunque teoria, per quanto intrigante dal punto di vista matematico, la conferma sperimentale è irrinunciabile. E questa è una delle ragioni principali per cui è stato costruito il Large Hadron Collider, un percorso tubolare lungo 27 chilometri situato qualche centinaio di metri sotto terra in prossimità di Ginevra, che si snoda oltre il confine tra Francia e Svizzera e torna indietro. Il collisore accelera protoni in direzioni opposte a una velocità quasi pari a quella della luce, e ogni secondo ne scaglia milioni uno contro l’altro. Secondo i calcoli queste collisioni possono essere sufficientemente violente da “raschiare” via un pezzettino minuscolo del campo di Higgs, che apparirebbe come una particella infinitesimale: lo Higgs.
Ma i calcoli mostrano anche che trovare questa particella non è un compito facile. La particella avrebbe vita breve, disintegrandosi rapidamente in altre particelle più familiari (come i fotoni, particelle di luce) e solo esaminando i prodotti della disintegrazione i ricercatori potrebbero accumulare prove dell’esistenza degli Higgs. Come se non bastasse, le imponenti collisioni fra protoni producono un vortice di altri residui di particelle, rendendo difficilissimo localizzare con esattezza gli Higgs.
È un lavoro a cui migliaia di scienziati hanno dedicato decenni. Per me che sono un teorico e non prendo parte a questi sforzi sperimentali, il risultato è altrettanto eccitante. Anni fa, quando andavo al liceo, il mio professore di fisica ci diede un compito: calcolare la traiettoria di una palla appesa al soffitto con un pezzo di chewing-gum. Quella sera, quando terminai i calcoli, corsi in corridoio per farli vedere a mio padre; il fatto che dei simboli matematici scarabocchiati a matita su un pezzo di carta potessero descrivere cose che accadevano effettivamente nel mondo reale era qualcosa che mi lasciava profondamente ammirato. Per questo ho sviluppato la passione per la fisica. Con questo annuncio, per quanto incerto e prematuro, ho provato di nuovo quel senso di sbigottimento.
(Copyright New York Times-La Repubblica. Traduzione di Fabio Galimberti)

La Repubblica 05.07.12