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"Un'occasione sprecata", di Juan Carlos De Martin

Ieri con l’elezione dei nuovi membri dell’Agcom e del Garante per la privacy i partiti hanno perso un’occasione perfetta per dimostrare agli italiani di aver capito. Sarebbe in teoria stato facile per loro, infatti, dare un segnale forte in merito all’insofferenza ormai bruciante che molti cittadini provano verso partiti, come quelli italiani, che lottizzano tutto il lottizzabile. Sarebbe bastato che avessero rinunciato alla solita spartizione concordata tra i capi di partito per dare invece piena autonomia al Parlamento. Muovendosi con qualche mese di anticipo (l’appuntamento era in calendario dal lontano 2005), avrebbero potuto istituire una procedura che prevedesse tempi certi per la raccolta di candidature.

Oltre al vaglio dei curriculum da parte delle commissioni competenti e pubbliche audizioni per saggiare il valore e l’indipendenza – anche dalla politica, non solo dagli interessi economici – dei candidati. Se così avessero fatto, oggi potremmo celebrare nuovi consigli Agcom e Garante privacy scelti in maniera trasparente e composti da persone in pieno possesso dei requisiti previsti dalla legge, ovvero competenze specifiche e indipendenza.

Sarebbe stato un successo per la democrazia nonché un’importante iniezione di legittimità per i partiti.

Niente di tutto questo, purtroppo. O meglio, a qualche timida apertura prodotta dalla pressione della società civile (la raccolta di curriculum decisa dal presidente della Camera Fini a maggio), è seguito il solito copione, ovvero la ratifica parlamentare di spartizioni decise dai capi dei principali partiti. L’italico «due a me, uno a te e uno a lui» applicato però ad Autorità teoricamente indipendenti e col potere di regolare aspetti cruciali della vita del Paese come la televisione, la telefonia, Internet e la gestione dei dati personali.

Se il metodo non poteva essere più deludente, come sono le specifiche persone selezionate dai partiti?

L’on. Antonello Soro del Pd è persona nota per la sua serietà, ma oltre ad essere un politico di lungo corso, non ha quella «riconosciuta competenza delle materie del diritto o dell’informatica» prevista dalla legge (Soro è un medico). Competenze che parrebbero mancare anche a Giovanna Bianchi Clerici, in quota Pdl/ Lega, laureata in lingue e civiltà orientali. Il Senato ha poi eletto Augusta Iannini, capo dell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia e moglie di Bruno Vespa, e Licia Califano, docente di diritto costituzionale a Urbino, rispettivamente in quota Pdl e Pd. A parte la questione indipendenza, nel complesso nemmeno l’ombra di competenze informatiche, che pure sarebbero obbligatorie per legge.

Lato Agcom la spartizione ha assegnato due posti al Pdl, confermando l’interesse strategico di Berlusconi per i media e le comunicazioni. Se Antonio Preto vanta una lunga esperienza a Bruxelles, anche se con ruoli chiaramente politici (è stato capo di gabinetto di Antonio Tajani), Antonio Martusciello, riconfermato nel ruolo di commissario Agcom, è ex-dirigente Publitalia e tra i fondatori, nel 1994, di Forza Italia, una contiguità tra controllore e controllato che non dovrebbe essere possibile all’interno di un’Autorità indipendente. In quota Pd (è considerato molto vicino a Massimo D’Alema) è stato eletto Maurizio Décina, noto esperto di telecomunicazioni, mentre l’Udc ha ottenuto che venisse eletto Antonio Posteraro, attuale vice-segretario della Camera, di cui è difficile capire le specifiche competenze in ambito media e telecomunicazioni.

In conclusione è plausibile ritenere che la pressione della società civile e di alcuni media abbia prodotto un livello medio delle nomine superiore a quello che altrimenti si sarebbe avuto. Ma sul metodo i partiti hanno perso un’occasione molto importante per dimostrare di essere in sintonia con gli italiani. Riusciranno a fare di meglio a breve con la Rai?

La Stampa 07.06.12

"Mettere al mondo un figlio nei giorni del terremoto", di Simona Vinci

Una scrittrice, un regista e uno scrittore raccontano com´è cambiata la vita quotidiana, tra ferite, lutti e nascite, nelle zone che sono state colpite dal sisma. Chissà se i neonati avvertono le scosse oppure le scambiano per i movimenti che hanno vissuto per nove mesi nella pancia della mamma. Il mio letto ogni tanto oscillava, e così la culla trasparente dove potevo vedere il viso sereno di Ettore che dormiva. Il mondo era lontanissimo. Sono una donna di pianura, e della pianura mi sono sempre fidata. È altrove che accadevano le catastrofi: ricordo le mappe che ci venivano mostrate a scuola, durante le lezioni di geografia, con le sfumature di colore che in genere viravano al rosso sangue là dove aumentava il rischio sismico, e di aver sospirato di sollievo. Il pericolo era altrove, lontano dal mio paese, Budrio, lontano dalla mia elegantissima scuola in stile liberty con le ninfee disegnate lungo le facciate, lontano dalla mia piazza, dalla statua di Quirico Filopanti, dal campanile antico della chiesa della Pieve, dal mio parco, dalla mia casa. Noi eravamo al sicuro, con i piedi ben piantati nei campi di patate, di barbabietole da zucchero, tra i nostri bovini e i nostri suini, protetti dalla nebbia e dal gelo degli inverni e dall´afa molle delle nostre estati, quando il cielo sopra la testa è una distesa piatta, sbrilluccicante e infinita come il mare.
La notte del venti maggio, questa fiducia si è spezzata. Non si è al sicuro da nessuna parte. Mi sono sentita impotente e beffata: io, che adesso vivo in provincia di Modena, a 900 metri di altitudine, in zona a rischio sismico nettamente superiore rispetto alla bassa, non ho sentito, da quando lo sciame è cominciato, una singola scossa. Ma la mia famiglia era giù e i miei amici pure, sparsi tra Crevalcore e la Romagna. Mi sono accarezzata la pancia. Sapevo che tra pochissimi giorni il bambino avrebbe bussato per annunciare il suo arrivo e sarei dovuta scendere a Bologna e affrontare due rischi e due paure nello stesso momento.
Mio figlio Ettore infatti, è nato nel pomeriggio del 30 maggio scorso, all´Ospedale Maggiore di Bologna, sotto le scosse, sia pur lievi, di quel giorno. Chissà se i neonati riescono ad avvertire il pericolo nelle scosse di un terremoto, oppure si sentono come se venissero spinti all´indietro nella pancia della mamma e scambiano quell´oscillazione violenta della terra per quella che hanno sperimentato durante nove mesi nel guscio caldo che li ha contenuti e cullati. Nessuna paura, al contrario di tutti gli altri, ma la nota beatitudine di un universo liquido, mobile e benigno che ti fa dondolare per favorire il ciclo del tuo sonno e del tuo risveglio.
Credo sia questa la prima cosa che un terremoto spezza, insieme agli edifici e alla crosta terrestre, in chi gli sopravvive: il ciclo del sonno e del risveglio, la fiducia nella terra madre che sostiene.
Dentro la sala parto, il bambino e io lottavamo nel dolore, con le ostetriche e i medici intorno a fare quel che doveva essere fatto perché tutto finisse più in fretta possibile e soprattutto finisse bene, visto che le cose all´improvviso si erano messe male. I volti di quelle persone che probabilmente non incontreremo mai più, oscillavano sopra di noi, e fuori da quella stanza, un papà e dei nonni tremavano sulle sedie. Non riuscivano più a capire se quel tremito e il cigolio acido degli ascensori che si scuotevano sui cardini fosse il suono della loro paura interna per l´evento – enorme per loro, ma piccolo per il mondo – che si stava consumando a pochi passi e una soglia di distanza, oppure per quell´altro evento più grande, quell´evento gigantesco, cosmico, che ormai da troppi giorni e notti aveva riempito le loro vite di una paura che non ricordano di aver mai provato prima, o almeno non così forte e così prolungata nel tempo: la terra che sistema con violenza le sue carni sopra il globo.
La prima notte che ho passato da sola con il mio bambino ho dormito a tratti, battagliavo con il dolore fisico, la spossatezza che non ti lascia riposare e il senso di inadeguatezza che coglie ogni mamma nei primi momenti in cui si ritrova sola con la propria creatura da accudire, proteggere, sollevare, calmare, nutrire. Potevo affrontare molte di queste cose, ma se fosse arrivata una scossa più violenta, che armi avrei avuto, per difendere la vita di mio figlio? Fuori dalla finestra vedevo l´altra ala dell´Ospedale Maggiore con le luci accese, il colle di San Luca e le fronde degli alberi che tremavano al vento. Il letto ogni tanto oscillava, e così la culla trasparente dove potevo vedere il viso sereno di Ettore che dormiva. Il mondo era lontanissimo, ero senza computer e senza i-phone, immersa in una bolla in penombra gonfia di tenerezza, amore e sofferenza, tutto mischiato. Tutte le polemiche umane sfumavano davanti a quelle visioni che mi arrivavano insieme a ogni scossa. Come poche ore prima, durante il travaglio, visioni altrettanto potenti si erano succedute nella mia mente a ogni violenta e dolorosissima contrazione. Il mio corpo, come il pianeta, si squassava e si apriva, e non c´era più una separazione e un confine tra me e la terra sotto di me.
Mi sono lasciata andare a quelle visioni e ho pensato alla gente della mia terra, alle persone che conosco, gente che sono anch´io, un popolo gentile e semplice, dai modi a volte un po´ spicci, che vive nelle piazze dei suoi paesi, sotto i portici, gente che conosce la storia di ogni chiesa, di ogni casa, di ogni muro, che ama le sue casette linde e ordinate, persone che non hanno paura di dire quel che pensano e di svegliarsi la mattina con le braccia pronte a farsi carico del mondo così com´è e non come vorrebbero che fosse. Per il mondo come si vuole che sia, occorre darsi da fare, e qui non abbiamo mai avuto paura che “la terra fosse troppo bassa”. Ho stretto i denti e mi sono alzata dal letto, mi sono chinata sul corpo minuscolo del mio bambino che piangeva, l´ho sollevato tra le braccia, l´ho portato al fasciatoio e per la prima volta, l´ho cambiato e lavato da sola. Da allora, Ettore, nato nei giorni del terremoto, continua a dormire tranquillo.

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“QUEL PREZZO DELLA FURBIZIA”, di GIORGIO DIRITTI

Entro nel dolore piano. Un livido mi percorre da spalla a spalla, ma non è reale. È l´Emilia ferita che come una donna torna china dai campi, zoppicando stanca. Con la fierezza nello sguardo di una partigiana, con la forza di un´”azdora” che guida la famiglia, che ama il suo uomo, a cui piace vederlo sorridere, e farlo mangiare bene. Ma zoppica, è ferita.
L´avevo osservata poco prima con la rabbia addosso per aver visto uccidere una ragazzina davanti ad una scuola, la rabbia di aver visto un´altra bomba. L´Emilia sa purtroppo bene cosa sono le bombe, ha pianto alla stazione e sui treni.
Non volevo scrivere, non volevo raccontare lo smarrimento dei suoi occhi, il senso di impotenza, di assoluto, di sospensione nell´assoluto. Non volevo entrare nella Rabbia.
Quella donna ferita, si è svegliata in un tendone, con le brandine allineate, come a L´Aquila come in tante, troppe altre, tragedie italiane.
La polvere che arriva fino al palato nel gusto di talco va a sporcare i profumi lungo gli argini di queste sere di luce, va a sporcare quel senso di forza e saggezza contadina che in questi luoghi ha voluto fare le cose a “modo”, “un quel fat ban” perché durasse nel tempo e se possibile per sempre.
Per sempre dicono gli sposi, e nello sguardo di alcune mogli ora c´è il vuoto.
Piange anche di rabbia l´Emilia, con gli occhi chiusi, sente il rumore, vede il contorcersi delle lamiere, dei capannoni…
Mentre eravamo chinati al lavoro, giorno dopo giorno, con passione e dedizione, con entusiasmo ed onestà, qualcuno tra noi è si fatto plagiare, ha modificato man mano il suo pensiero: voleva essere più furbo. Più furbo degli altri, più furbo di tutti.
La ferita più dolorosa è nel dubbio che qualcosa è stato fatto male, col sentimento marcio della furbizia, che qualche cosa prima si poteva fare, che qualcuno che doveva preoccuparsi del bene di tutti ha pensato solo al proprio. E non è solo la ferita dell´Emilia, è quella di un´Italia “furba” dove molte parole si rincorrono senza pudore, dove ci raccontano che la nostra economia è sana, che è colpa degli extracomunitari, che è colpa dei proprietari di televisioni, che è colpa dell´Europa, di qualcun altro, meno che nostra, perché in fondo la società siamo noi.
Ora di quella furbizia rimangono le carcasse di animali morti, tonnellate di cibo devastato, il paradosso amaro di vedere che tanti macchinari salvavita sono sepolti in una sensazione di lutto… Come noi in un´Italia di troppi terremoti, alluvioni, frane e lutti.
Perché l´umanità non capisce se non dopo la tragedia?
L´Emilia trema ancora, sa che ha ancora forza, molta forza, perché la vede negli occhi dei vigili del fuoco, in quella degli operai e degli imprenditori, la vede nel conforto di tanti da molte parti d´Italia, tanti uomini e donne che le sono venuti in aiuto; la ritrova nei bambini che giocano tra le tende, la sente la sera, quando vede la gente chiacchierare e pensare già a ricostruire, a come ricominciare.
L´Emilia è forte ed orgogliosa, forse per questo, con il sorriso, e la bonarietà di sempre chiede anche a tutti che non ci si trovi più a piangere in futuro, che qualche cosa cambi, che ritorni la saggezza, che ci sia la volontà di prevenire, che ci sia cura per il territorio, lo chiede ai giovani in cui crede perché non si facciano mai ingannare dal desiderio di essere furbi ma si adoperino per curare il bene loro e dei loro cari.
E la terra trema ancora.

La Repubblica 07.06.12

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“QUANDO LA TERRA é PRECARIA”, di MARCELLO FOIS

Il problema principale è superare l´ansia, costante, sottile. Resistere all´istinto animale di scappare chissà dove. Controllarsi per non spaventare i bambini. Cinque minuti fa c´è stata una scossa piuttosto forte, breve per fortuna, in casa l´abbiamo sentita con precisione: il pavimento è scivolato sotto ai nostri piedi come fosse un tapis roulant. Qualche secondo, non più di dieci. Il problema principale è che dopo la scossa si rimane in silenzio per un attimo, leggermente storditi, come ad aspettare di capire se è finita davvero o se la terra riprenderà a tremare.
Questo continuo passare dalla normalità all´eccezionalità sfinisce. Qui si capisce molto bene che, fino ad oggi, qualunque gesto della tua giornata è stato giocato su una presunzione di inviolabilità, direi quasi di invincibilità, e che smantellare tale presunzione è il primo capillare danno di questo terremoto senza fine. Come abitare con uno sconosciuto, qualcuno di cui non si possono prevedere le azioni e le reazioni, ma illudendosi di poterlo controllare. La stabilità di ieri, dell´altro ieri, di appena un mese fa, sembrano improvvisamente momenti d´ignara felicità, quando credevamo di abitare un´area non interessata a movimenti tellurici, quando funzionavano le certezze e non si sospettava che, sempre, coltivare troppe certezze è un modo per rimuovere i problemi di qualunque natura essi siano.
Il mio osservatorio su questa particolare stagione dell´Emilia Romagna, che è la mia regione di adozione, è la mailing list di un gruppo di lettori e aspiranti scrittori con i quali ho lavorato, verso la metà dell´aprile scorso, nei locali della biblioteca di Crevalcore. Meno di due mesi dopo quell´esperienza, gran parte di quei venti allievi che formavano la mia classe sono diventati dei profughi. E quella mailing list creata per scambi letterari è diventata un bollettino di guerra. Paolo e Laura, sono, come si dice nel gergo dei soccorritori, attendati, ecco cosa scrivono: «Abitiamo proprio dietro al comune di Sant´Agostino, per il momento hanno evacuato la zona e non possiamo rientrare, ma la nostra casa ha retto bene, fateci sapere di voi». Altri, come Angela, hanno dovuto sperimentare la loro prima notte in auto: «Reduce da una notte insonne, eccomi, ancora impaurita e terrorizzata. Siamo rientrati in casa, ancora con diffidenza, tenendo sempre in vista la porta d´uscita. Con la morte nel cuore, pensando alle persone morte, alle loro famiglie e a coloro che sono fuori casa, vi saluto con grande affetto». Teresa deve assistere i vicini che hanno perso tutto: «Un´azienda di ceramica è crollata proprio davanti a casa nostra portandosi via la vita di due persone e distruggendo un´impresa che andava bene. Conosco i titolari, brave persone che lavorano lì con le famiglie. Distrutti dal dolore». Come la mailing list anche la biblioteca di Crevalcore ha cambiato funzione, Monica, la bibliotecaria mi scrive: «Il municipio è a pezzi tanto che si è trasferito in toto in biblioteca. La biblioteca è stata svuotata in un paio di giorni. È stato come se avessero cancellato oltre dieci anni di lavoro. Ci vorrà un po´ a far ripartire tutto, ma ci siamo, siamo vivi, questo è l´importante». C´è come un´ostinazione di questo terremoto a cancellare la storia di questa regione; l´abbattimento delle torri, quella di Novi si è sbriciolata in seguito alla scossa di domenica notte, appare come una metafora della fragilità della nostra memoria. Quei monumenti franati sono il quadro clinico della nostra fragilità. Ecco Simonetta: «Credevo proprio che fosse la fine. Sembrava di essere in una nave con mare forza nove. Non stavo in piedi e cadevano cose da ogni parte. Quindi svegliare i ragazzi di forza, trascinarli fuori quasi in mutande, prendere il cane al guinzaglio perché non scappasse dalla paura, e tutti nel cortile della Coop. Poi il ritorno a casa ma, anche adesso, in questo momento una lieve scossa! Dio che paura! Sempre pronti a scappare». Ecco proprio questa condizione di precarietà credo sia la particolare condanna comminata a questa gente che, accogliendomi come emiliano adottivo, mi ha insegnato una concezione pratica, stabile, del mondo. Scrive Federica: «Abito a Mirabello, mio marito ha perso la sua azienda, il capannone è crollato e con lui è crollata una parte di noi, una parte importante. Ci riprenderemo, per adesso affrontiamo la vita giorno per giorno cercando di aiutarci a vicenda per superare questa catastrofe. Vi mando un abbraccio». Ecco, posso fare riferimento al mio fatalismo atavico adesso e provare a rasserenare chi mi circonda con dosi massicce di quel relativismo mediterraneo che mi porto dentro da sempre. Ma poi si capisce che tutti qui hanno bisogno di aiuto, ma nessuno ha bisogno di consolazione: «Un abbraccio fortissimo da noi che siamo fortissimi. Addirittura più del terremoto!».

La Repubblica 07.06.12

"Sulle macerie nascono i fior", di Ilvo DIamanti

Il terremoto in Emilia ha provocato danni immensi. E, soprattutto, molte vittime. Ma ha mobilitato, al tempo stesso, il sentimento altruista e solidale degli italiani. Che hanno risposto alle iniziative di sostegno alle popolazioni e ai paesi colpiti dal sisma in modo massiccio e generoso. D’altronde non c’è trasmissione in tv che non raccolga fondi, al proposito. In modo diretto, ma anche indiretto. Attraverso sms e telefonate a numeri dedicati. Mentre le manifestazioni di sostegno si moltiplicano e proseguiranno ancora a lungo. Con grande partecipazione popolare.

Gli italiani non si nascondono mai, in queste occasioni. Il dolore e l’altruismo si succedono, in stretta e sincera connessione. Le popolazioni, i paesi, i lavoratori delle aree colpite, d’altronde, hanno reagito, a loro volta. Per primi. Con prontezza. Hanno ripreso a vivere, lavorare, dopo aver scavato tra le macerie. E già ora hanno cominciato a ricostruire.

La solidarietà, in Italia, si manifesta di fronte a ogni disastro naturale. Di fronte a ogni terremoto, alluvione, inondazione, esondazione, frana, slavina, smottamento. Di fronte a ogni tragedia. In Friuli, in Irpinia, in Basilicata, nel Belice, a Firenze, a Messina, nelle Marche, in Umbria, a Sarno, nel Vicentino, a L’Aquila, a Genova, in Piemonte, nelle Cinque Terre. E poi – o prima? – il Vajont. Narrato da Marco Paolini.

Recito a memoria, ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo. Infinito. Perché siamo il Paese delle tragedie annunciate. E sempre inattese. D’altronde, il nostro territorio è instabile e precario. Ad alto rischio sismico e idrogeologico. Ma ce ne dimentichiamo spesso. Fra una tragedia e l’altra, riprendiamo le antiche abitudini. Anzi, non le smettiamo mai, visto come abbiamo ridotto questo povero paese. Cementificato. Una plaga di mostri immobiliari che si sono insinuati ovunque. Un pelago di non-luoghi anonimi.

Così ogni episodio “naturale” anomalo rischia di degenerare in tragedia. E ogni volta ci sorprendiamo, a disastro avvenuto. E ogni volta ri-scopriamo la nostra vulnerabilità. Denunciamo i nostri vizi. Per poi virare, rapidamente, sulle virtù sociali e umane.

Noi italiani. Così fragili e così generosi.

Tanto da far sorgere il dubbio che ci sia un nesso “non casuale” fra i due aspetti. La tragedia e la solidarietà. Che la nostra generosità sia, in parte, prodotta e riprodotta dalla fragilità del nostro mondo, del nostro ambiente. Che noi contribuiamo ad accentuare con i nostri comportamenti – spesso cinici, più che civici.

Varrebbe la pena, forse, di imprimere una svolta di segno inverso. Di cambiare (con)sequenza fra tragedia e solidarietà. Di esercitare, cioè, la generosità non come reazione e riparazione. Ma come pratica preventiva. Verso noi e gli altri. Verso l’ambiente e il territorio che abitiamo. Una generosità esigente e rigorosa. Intollerante verso gli usi impropri e gli abusi. Nostri e altrui. Perché c’è il rischio, altrimenti, che la generosità e la solidarietà, esercitate come riflesso dei disastri ambientali e naturali, tendano, progressivamente, a ridursi. Fino a esaurirsi. Logorate dalla routine. Insieme al non-territorio che abitiamo.

La Repubblica 06.06.12

"L’Aquila, nella città che non c’è più", di Barbara Spinelli

Mi sono detta che bisogna andare all’Aquila, per vedere attraverso questa lente speciale come l’Italia rischia d’affrontare i disastri: il disastro che colpisce oggi l’Emilia, ma tante altre sventure. Andare all’Aquila è scoprire che storia sciagurata c’è dietro l’oggi, se non schiviamo tutti assieme il baratro in cui è stata gettata la bellissima capitale dell’Abruzzo, dopo la scossa che l’ha frantumata il 6 aprile 2009 alle 3 e 32 di notte. Mi sono accinta dunque a una sorta di archeologia del presente: per giudicarlo nelle sue stratificazioni, per non scordare l’Aquila pensando l’Emilia. Perché di questo muore ogni giorno di più la capitale abruzzese, e i 56 Comuni franati con lei: di una diffusa amnesia, di un’ipnosi senza fine.

L’Operazione Aquila è stata questo, e se non vai e non vedi continuerai a credere nella favola raccontata per tre anni da Berlusconi, scortato da un’avida schiera di affatturatori: da Guido Bertolaso al Tg1. Da gennaio le cose sono in mano al ministro per la Coesione territoriale, Fabrizio Barca, ma non è chiaro se lo scempio iniziale – l’esautorazione di poteri locali e sovrintendenze da parte della Protezione civile, la verità occultata – sia davvero combattuto. Gli affatturatori hanno ottenuto che nelle teste degli italiani (ma non più in quelle abruzzesi) la menzogna attecchisse: l’Aquila rinata, la catastrofe vinta.È il più gigantesco teatro d’illusioni che l’ex premier abbia apprestato, nella sua storia politica e prima ancora.

Far vivere gli italiani nell’illusione fu sempre il dispositivo centrale della sua macchina (Milano2 nacque negli anni ‘70 con lo stesso proposito: incapsulare gli abitanti in una specie di supercondominio, non esposto agli infiniti azzardi delle metropoli) e ogni illusionismo politico secerne l’osceno. Siamo abituati a chiamare osceni i festini di Berlusconi. Ma la vera pornografia è qui, nel cratere sismico dell’Aquila. Difficile descrivere diversamente un cataclisma trasformato prima in show dell’illusionista, poi in planetario spettacolo al G8 del 2009, poi in affare e malaffare. Questo è infatti pornografia: rappresentare in maniera compiaciuta, ossessiva, soggetti e immagini ritenuti sconci per stimolare eroticamente chi guarda. Qui si trattava di stimolare la stasi dei cervelli, seducendo non solo gli abruzzesi ma tutti noi con immagini che adulterassero la rovina, la sottraessero alla vista, offrissero calmanti anziché rimedi agli abbandonati e umiliati.

La pornografia suscita all’inizio eccitazione e sfocia presto in noia, quindi oblio: questo è accaduto nel cuore d’Abruzzo. La manovra è pienamente riuscita perché proprio oggi, che in Emilia bisognerebbe far memoria dell’Aquila e salvare l’una e l’altra, quasi nessuno nomina l’Abruzzo, confermando così che l’inferno di nuovo incombe. In una rappresentazione teatrale allestita in aprile da Antonio Tucci e Tiziana Irti (Mille giorni-racconti dal disastro dell’Aquila) la protagonista prima finisce in un accampamento, poi in una delle New Town pomposamente sparse attorno al capoluogo. Dice, accovacciata nella sua tenda blu: «Noi, qua, stiamo come dentro una bolla, e ci galleggiamo… Che fine faremo? Secondo me, prima o poi… Bum! scoppia!».

È veramente scoppiata, quando Berlusconi se n’è andato ed è subentrato Monti? Di certo son cambiati gli uomini: Fabrizio Barca difficilmente accetterà l’andazzo degli affatturatori. Ma se vai all’Aquila, nei borghi ormai invasi dall’erba, nelle città satellite, ti rendi conto che tutto è fermo, che l’operazione-depistaggio non è correggibile se non la denunci a chiare lettere. Che la devastazione è lì, cadavere inalterato che s’aggiunge ai 309 morti del 6 aprile. Esattamente come la descrive nel 2010 Sabina Guzzanti, nel film Draquila. Esattamente come la raccontano Salvatore Settis (Repubblica, La Pompei del XXI secolo, 7-4-12) o Tomaso Montanari, professore di storia dell’arte a Napoli (Il Fatto, 16-3-12), o il giornalista Giustino Parisse (sul quotidiano Il Centro), da quando nella sua Onna perse il padre e due figli.

Ogni atto di seduzione si prefigge di creare mondi artificiali: nel mito, è talento demoniaco. L’Aquila che ho visto è questo artificio, che dà il capogiro. È un enorme buco nero, un luogo di non-vita dove tutto è restato allo stadio di detrito, di avanzo. Esito, come davanti a un corpo vivisezionato, a elencare quel che s’intravvede negli squarci dei muri: una moka rimasta sui fornelli, le piastrelle illese d’un bagno, una foto appesa alla parete. L’antropologo Antonello Ciccozzi, dell’Università aquilana, spiega il naufragio della sua città, nel bel documentario di Luca Cococcetta e Iginio Tironi (Radici-L’Aquila di cemento): «Mentre in una situazione normale esiste un nucleo abitativo e un anello di circolazione, all’Aquila si è prodotto un anello abitativo e un nucleo di circolazione». La città com’era prima (come dovrebbe essere ogni pòlis) è cancellata, non solo dal terremoto: la sua metamorfosi in centro commerciale è possibile. L’Operazione Aquila è stata una macchina mobilitata contro l’idea stessa di città, di democrazia cittadina.

L’invenzione seduttiva di Berlusconi aveva questa diffidenza come fondamento: la diffidenza per la città che si fa comunità, che non è un mucchio di alloggi e individui ma relazione fra cittadini, spazio pubblico, incontro ineluttabile, e fecondo, con il diverso. Quando atterrò all’Aquila l’8 aprile 2009, e incontrò il sindaco Cialente, il Premier offrì subito un rimedio rivoluzionario che conosceva bene, dai tempi di Milano2. La soluzione erano le New Town, poi le casette o i cosiddetti Map, Moduli abitativi provvisori. Le New Town avrebbero regalato quel che i terremotati, secondo Berlusconi, amavano di più: non la pòlis, ma la tana casalinga. Le tane sarebbero nate presto: entro sei mesi, sotto la guida colonizzatrice della Protezione civile.

Son dunque andata a vedere le New Town: a Bazzano, Paganica, Onna. A volte sono immensi caseggiati spalmati su piastre antisismiche, rette da pilastri. Ce ne sono 19. Qualcuna è colorata di giallo-marrone, altre sono biancastre e paiono carceri. Quasi ogni borgo distrutto ha, accanto, uno di questi abitati paralleli. Altre volte sono casette, allineate come loculi. Le ho osservate a Paganica: vedo tendine, stradine, fazzolettini d’erba davanti alle porte, e nient’altro. Ogni diminutivo ha dietro di sé una ferocia, sempre.

Nulla accomuna le tane a una città, nulla accomuna le persone spossessate che incontro a cittadini. Il primo gesto di verità dovrebbe consistere nell’abbandono di queste parole – città, cittadini – per salvarle. Perché non c’è civiltà urbana senza piazza, chiesa, servizi comuni, luoghi di ritrovo. Senza quelle che Leopardi, nella Ginestra, chiama le conquiste dell’uomo: riconoscere l’immane danno che può nascere dalla natura, e per questo confederare gli uomini, stringere «i mortali in social catena», dar vita al conversar cittadino, diffidare di chi annuncia magnifiche sorti e progressive, e stipa l’umana gente in New Town attizzando oblio e paura: paura di riprendersi la città, di non superare il trauma, di sapere.

Le New Town sono anti-città: sono dormitori, fanno pensare all’autistico rinchiudersi in casa che i giapponesi chiamano hikikomori. Sono un’insidia perversa, inoltre. In pratica sono regalate, in comodato gratuito: il comodante le consegna al comodatario perché se ne serva per un tempo determinato, con l’obbligo di restituirle intonse. Non puoi portare mobili della tua casa. «La gratuità è un disincentivo a riappropriarti della vecchia abitazione – mi dice Luisa Ciammitti, aquilana, direttore della Pinacoteca Nazionale di Ferrara – blocca ogni rapporto tra pari». Se hai paura di nuove scosse, se non vuoi spendere, vivacchi senza comunità, ma vivacchi almeno. Naturalmente se sei solo e anziano, o non hai l’automobile, sei perduto: chi farà la spesa per te, nei lontani centri commerciali?

È vero quel che disse Berlusconi, quando fece il miracolo di casette e New Town: il panorama è fantastico, a Paganica vedi il Gran Sasso, il verde, gli alberi. E se non vai in estasi guardando dalla finestra, volti le spalle ed ecco l’altro panorama, più vero ancora del vero: il fluorescente rettangolo della TV. Da 40 anni, è il fulcro delle città berlusconiane. Già nel 1977, parlando con Camilla Cederna, un Berlusconi «con faccino tondo, nemmeno una ruga, un nasetto da bambola», s’apprestava a trasmettere la sua Telemilano (futuro Canale 5) che avrebbe irrigato Milano2. (Serve una città? Chiama il Berlusconi – Espresso, 10-4-1977)

È strana, la storia delle New Town. I ministri di Monti farebbero bene a studiarla, visto che chiedono meno spese. I costi delle Città Nuove per lo Stato sono stati smisurati: ben 2800 euro il metro quadro. Le abitazioni sono perfettamente antisismiche, è vero. Ma chi sogna la ricostruzione dell’Aquila e dei borghi (una decina ridotti in polvere) ha idee ben diverse. Si poteva risparmiare molto, mi dice Mario Ciammitti, un ingegnere che ristruttura edifici distrutti nella zona. L’alternativa c’era: i container hanno dato ottime prove nell’80 in Irpinia. «Oggi ce ne sono di molto accoglienti. Costano circa quattro volte meno delle New Town (800 euro il metro quadro) ed essendo davvero provvisori spingono a ricostruire la città perduta, e non modificano il paesaggio in modo definitivo».Quanto tempo si resterà invece nelle New Town? Quanto durerà quella che tanti, qui, chiamano «deportazione»? Una signora dislocata nelle tane di Bazzano con marito e due figlie mormora che la voglia di ritorno è grande, ma lo è anche il vantaggio della rinuncia: «E poi il terremoto ci ha cambiati dentro. Di continuo ci snerviamo, ci spazientiamo». Le New Town sono sedativi potenti, e questo spiega forse l’inane spreco. Non meno inane l’aeroporto di Preturo, inaugurato da Berlusconi il 2 luglio 2009 («Sarà il punto di partenza della rinascita dell’Abruzzo e della sua economia!»). È stato usato per i viaggi del Premier, poi per una visita di Paolo Barilla nell’agosto 2009. Costo: 30 milioni di euro. Dice ancora Mario Ciammitti: «Con quei soldi si potevano rifare almeno 100 abitazioni in Aquila centro». Lo stesso si dica per le operazioni-spettacolo: il G8, e ben tre auditori tra cui quello di Renzo Piano (costo: 6 milioni). Anche qui, Eventi e Show hanno ignorato i bisogni dei cittadini-non più cittadini.E L’Aquila vera, e i borghi? Fasciati in scatole di ferro, le case se ne stanno buie, scheletriche: insensate e dispendiose scatole, visto che tanti palazzi occorre abbatterli per rifarli. Giri nel centro dell’Aquila e senti un silenzio come in un non-luogo: non utopia ma distopia, mondo indesiderabile sotto tutti i punti di vista. Dagli spiragli dei portoni escono folate di freddo, eppure è quasi estate. Si capisce che da tre anni non sono abitate da calore. Ancor peggio a Onna, ma Onna ha avuto una fortuna in mezzo alla sfortuna. È quanto confida un dirigente della Proloco: «Senza l’aiuto dei tedeschi e del comune di Trento non ce l’avremmo fatta a ottenere le casette qui accanto, dove gli onnesi son restati vicini, i nuclei familiari non sparpagliati come in genere è avvenuto». Con gratitudine si evoca una persona, in particolare: l’ex ambasciatore Michael Steiner, che adottò il borgo dissolto. Che ha vegliato, puntiglioso, sulla sopravvivenza del sentimento di comunità. Che ha insistito perché nel villaggio artificiale ci fosse una chiesa di legno dove gli onnesi resuscitano una parvenza di conversar cittadino. Un eccidio avvenuto l’11 giugno 1944 – furono fucilati 17 abitanti – è all’origine di questa solidarietà. «La strage ha creato un legame», dice un onnese. Gli occhi gli si riempiono di lacrime, non sa come continuare. La gratitudine, il ricordo di chi si spese aiutando e sorreggendo: è una stampella che tiene in piedi quasi più dei ponteggi. Ovunque, sulle mura di case e palazzi, i vigili del fuoco hanno lasciato tracce del loro passaggio. Angeli, li chiamano qui.Ma la riscossa c’è. È scattata subito dopo la lettura delle intercettazioni sulla cricca che profittò del terremoto. Ricordo quando Carlo Bonini, su Repubblica, pubblicò la famosa conversazione fra Piscitelli, direttore tecnico dell’impresa Opere pubbliche, e il cognato Gagliardi, la notte del sisma («Io stamattina ridevo alle tre e mezzo dentro al letto»). Era l’11 febbraio 2010. Il 14 febbraio, a san Valentino, centinaia di aquilani sfondano le transenne della zona rossa presidiata dai militari, si mettono a raccogliere e catalogare detriti, ricominciano la città. Nasce il popolo delle carriole. È l’equivalente delle Trümmerfrauen («donne dei ruderi») che nel dopoguerra tedesco ricostruirono le città bombardate. Dice Eugenio Carlomagno, del comitato Centro storico da salvare: «Chiusi nelle case antisismiche, nei moduli abitativi provvisori, abbiamo capito che non sapevamo dove andare: non c’è un teatro, non c’è una biblioteca, non ci sono più i bar del centro. Ci siamo accorti di essere persone che debbono solo comprare cibo al supermercato, mangiare e guardare la televisione. Abbiamo detto basta». Speriamo che la loro battaglia sia ascoltata, a Roma. Solo così rinascono le civiltà, e il conversar cittadino.

La Repubblica 06.06.12

Crescita economica al palo. Molte imprese a rischio chiusura

Crescita economica confermata al palo sul primo trimestre nell’area euro: il Pil non ha registrato variazioni positive o negative rispetto ai tre mesi precedenti, secondo un primo aggiornamento dei dati fornito da Eurostat. Nel confronto con lo stesso trimestre di un anno prima, il Pil risulta diminuito dello 0,1 per cento. I dati diffusi oggi corrispondono a quelli della stima preliminare e segnano un miglioramento del quadro rispetto al meno 0,3 per cento registrato dal Pil nell’ultimo trimestre del 2011.

La performance media di Eurolandia nasconde però andamenti molto differenziati tra paesi. La Germania ha registrato un consistente più 0,5 per cento del Pil rispetto ai tre mesi precedenti, la Francia una variazione nulla mentre l’Italia ha subito il calo più forte, un meno 0,8 per cento.

In Spagna il Pil è calato dello 0,3 per cento, secondo Eurostat. Negli ultimi due mesi le indagini sull’attività delle imprese hanno peraltro fornito finora letture che fanno temere un indebolimento del quadro nel secondo trimestre.

Guardando a tutta l’Unione europea a 27 il Pil del primo trimestre ha registrato una variazione nulla dai tre mesi precedenti e un più 0,1 per cento nel confronto su base annua.

CSC:ITALIA SOFFRE RICADUTA RECESSIONE,
FEROCE CREDIT CRUNCH
La ricaduta in recessione mette a repentaglio l’industria italiana. Il «feroce ‘credit crunch’, che potrebbe proseguire nei prossimi mesi, la »redditività ai minimi« e i »vuoti di domanda« stanno soffocando sempre più le imprese. A rischio è »la stessa sopravvivenza di alcune parti importanti dell’industria italiana«.

A lanciare l’allarme è il Centro Studi di Confindustria nel rapporto ‘Scenari Industriali’. In questo quadro così nero, ad accentuare le difficoltà si è aggiunto, secondo il Csc, il terremoto in Emilia Romagna che ha colpito »un’area ad altissima vocazione manifatturiera e cruciale per lo sviluppo industriale del Paese, rendendolo se possibile ancora più impegnativo«.

l’Unità 06.06.12

"La meritocrazia della frusta secondo Shakespeare", di Francesco Cundari

Il dibattito suscitato dalle proposte del ministro Profumo per la promozione del merito non può non risentire di un clima culturale diffuso, che è anche il frutto di una lunga campagna ideologica: quella che ha come parola d’ordine la «meritocrazia» e come modello i Paesi anglosassoni. In proposito, tra tante citazioni di Margaret Thatcher (peraltro non sempre dichiarate), vale forse la pena di citare un autore che nella cultura anglosassone ha avuto un ruolo certamente non inferiore.
Ci riferiamo all’Amleto di William Shakespeare (Atto II, scena 2), laddove il principe di Danimarca raccomanda a Polonio di trattare come si deve un gruppo di attori loro ospiti, e il ciambellano risponde che li tratterà «come meritano». Parole che suscitano l’immediata replica di Amleto: «Per il sangue di Cristo, amico, molto meglio! Trattate ogni uomo secondo il suo merito, e chi sfuggirà alle frustate? Trattateli secondo il vostro proprio onore e la vostra dignità: quanto meno essi meritano, tanto più merito c’è nella vostra generosità». Da notare che a proporre di trattare gli attori «come meritano» è Polonio, personaggio che agli occhi di Amleto rappresenta l’incarnazione stessa della mediocrità; ma una mediocrità non priva di astuzia, che all’ombra del potere si fa strada grazie agli unici veri meriti che può vantare presso il sovrano: conformismo e ipocrisia. Si potrebbe dire, pertanto, che è dai tempi di Shakespeare che a invocare «meritocrazia» sono anzitutto i cortigiani del potere. Basta pensare a come sono stati trattati, in quel modello di «meritocrazia» che sarebbero gli Stati Uniti, i manager responsabili del fallimento delle principali banche americane (nonché della più grave crisi finanziaria del dopoguerra), salvate dallo Stato a peso d’oro: tutti usciti di scena con compensi miliardari (quando ne sono usciti). Ed è lo stesso Paese in cui poi si discute se i fumatori o gli obesi poveri, a causa del loro stile di vita, abbiano diritto a essere curati a spese dei contribuenti (per non parlare di tutto il dibattito sulla riforma sanitaria di Obama). A dimostrazione di quanto diversa sia la valutazione e il riconoscimento di meriti e demeriti: severissima con chi si trova alla base della piramide sociale, assai più generosa con chi si trova ai vertici.
Quello che sta accadendo in Grecia, e più in generale in Europa, è un altro esempio di come nel nostro dibattito pubblico parole come «virtù», «disciplina», «merito», siano diventate nient’altro che l’ossequio del più debole alla legge del più forte (nel caso specifico, la Germania). Eppure i Paesi dove c’è la maggiore mobilità sociale, dove cioè i figli delle fasce più povere hanno le maggiori possibilità di migliorare la propria condizione di partenza, non sono affatto quelli portati a esempio dai cantori della «meritocrazia» (Stati Uniti e Gran Bretagna), ma proprio quelli dell’Europa continentale (dalla Germania ai Paesi scandinavi), dove sono minori le diseguaglianze e più forte il ruolo dello Stato, della politica e dei corpi intermedi.

l’Unità 06.06.12

"Noi, medici tra i terremotati", di Fabio Gilioli

«Dopo la prima scossa abbiamo evacuato i degenti da soli, portando in braccio quelli che non potevano camminare. Poi siamo tornati dentro a recuperare le cartelle cliniche di tutti. E da allora lavoriamo giorno e notte, altrove o nei punti mobili». Un internista di Carpi (Modena) ci scrive
Caro direttore,
questa è una testimonianza dall’Ospedale a Carpi che, come forse sa, non è attualmente agibile. Sono stati momenti drammatici e la paura di nuovi eventi sismici e’ ancora tanta (la città di Carpi è praticamente abitata solo nelle tende e roulotte); solo la riduzione del numero delle scosse nelle ultime 48 ore sta dando un po’ più di fiducia alle persone. I degenti degli ospedali di Carpi e Mirandola sono stati collocati in altri ospedali (io ora sto scrivendo dall’Ospedale di Baggiovara, Modena, dove abbiamo recuperato un’area di circa 30 posti letto internistici). Ora rimane da definire il preoccupante aspetto di vasta area modenese senza due ospedali il cui recupero sarà da definire nelle prossime settimane.

Ci tenevo a sottolineare una fatto finora non evidenziato da alcun organo di informazione. L’ospedale di Carpi, circa 200 posti letto, è stato evacuato il giorno del terremoto – dopo la prima scossa avvenuta alle 9 – in circa 40 minuti dal solo personale sanitario che si è letteralmente portato “in spalla per quattro piani” anche i degenti non autosufficienti ponendoli al sicuro nell’area antistante il nosocomio (in attesa dei soccorsi forniti dalla protezione civile). Nessuno è stato abbandonato e il tutto è avvento senza una precedente formazione su piani di evacuazione.

Aggiungo che, molti di noi, sono tornati pochi minuti dopo l’evacuazione, all’interno dell’ospedale (che verrà poi colpito da altri due terrificanti eventi sismici alle 10 e alle 13) per recuperare le cartelle cliniche dei pazienti affinché questi potessero essere inviati negli altri nosocomi accompagnati dalla documentazione sanitaria utile per proseguire le cure in corso. Tutto questo può sembrare banale e scontato ma credetemi in quei frangenti il panico è il padrone assoluto della tua vita e quindi riflettere e muoversi in modo organizzato è estremamente complesso (ribadisco senza alcuna specifica formazione in merito a eventi di questo tipo). Nelle ore e nei giorni successivi il lavoro del personale sia di Carpi che di Mirandola è poi proseguito senza interruzione anche in ospedali distanti o nei punti sanitari mobili, senza sosta, pur avendo ognuno di noi la propria casa interessata da questo evento sismico.

Sarebbe stato bello che gli organi di informazione si fossero accorti di tutto questo per segnalare, anche senza enfasi, che esiste anche una sistema sanitario che funziona, fatto di uomini e donne, medici, infermieri e personale ausiliario di cui si può essere orgogliosi anche nelle emergenze più estreme.

Un caro saluto

Fabio Gilioli
Medico internista dell’Ospedale di Carpi, Modena

l’Espresso 04.06.12