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"Mettere al mondo un figlio nei giorni del terremoto", di Simona Vinci

Una scrittrice, un regista e uno scrittore raccontano com´è cambiata la vita quotidiana, tra ferite, lutti e nascite, nelle zone che sono state colpite dal sisma. Chissà se i neonati avvertono le scosse oppure le scambiano per i movimenti che hanno vissuto per nove mesi nella pancia della mamma. Il mio letto ogni tanto oscillava, e così la culla trasparente dove potevo vedere il viso sereno di Ettore che dormiva. Il mondo era lontanissimo. Sono una donna di pianura, e della pianura mi sono sempre fidata. È altrove che accadevano le catastrofi: ricordo le mappe che ci venivano mostrate a scuola, durante le lezioni di geografia, con le sfumature di colore che in genere viravano al rosso sangue là dove aumentava il rischio sismico, e di aver sospirato di sollievo. Il pericolo era altrove, lontano dal mio paese, Budrio, lontano dalla mia elegantissima scuola in stile liberty con le ninfee disegnate lungo le facciate, lontano dalla mia piazza, dalla statua di Quirico Filopanti, dal campanile antico della chiesa della Pieve, dal mio parco, dalla mia casa. Noi eravamo al sicuro, con i piedi ben piantati nei campi di patate, di barbabietole da zucchero, tra i nostri bovini e i nostri suini, protetti dalla nebbia e dal gelo degli inverni e dall´afa molle delle nostre estati, quando il cielo sopra la testa è una distesa piatta, sbrilluccicante e infinita come il mare.
La notte del venti maggio, questa fiducia si è spezzata. Non si è al sicuro da nessuna parte. Mi sono sentita impotente e beffata: io, che adesso vivo in provincia di Modena, a 900 metri di altitudine, in zona a rischio sismico nettamente superiore rispetto alla bassa, non ho sentito, da quando lo sciame è cominciato, una singola scossa. Ma la mia famiglia era giù e i miei amici pure, sparsi tra Crevalcore e la Romagna. Mi sono accarezzata la pancia. Sapevo che tra pochissimi giorni il bambino avrebbe bussato per annunciare il suo arrivo e sarei dovuta scendere a Bologna e affrontare due rischi e due paure nello stesso momento.
Mio figlio Ettore infatti, è nato nel pomeriggio del 30 maggio scorso, all´Ospedale Maggiore di Bologna, sotto le scosse, sia pur lievi, di quel giorno. Chissà se i neonati riescono ad avvertire il pericolo nelle scosse di un terremoto, oppure si sentono come se venissero spinti all´indietro nella pancia della mamma e scambiano quell´oscillazione violenta della terra per quella che hanno sperimentato durante nove mesi nel guscio caldo che li ha contenuti e cullati. Nessuna paura, al contrario di tutti gli altri, ma la nota beatitudine di un universo liquido, mobile e benigno che ti fa dondolare per favorire il ciclo del tuo sonno e del tuo risveglio.
Credo sia questa la prima cosa che un terremoto spezza, insieme agli edifici e alla crosta terrestre, in chi gli sopravvive: il ciclo del sonno e del risveglio, la fiducia nella terra madre che sostiene.
Dentro la sala parto, il bambino e io lottavamo nel dolore, con le ostetriche e i medici intorno a fare quel che doveva essere fatto perché tutto finisse più in fretta possibile e soprattutto finisse bene, visto che le cose all´improvviso si erano messe male. I volti di quelle persone che probabilmente non incontreremo mai più, oscillavano sopra di noi, e fuori da quella stanza, un papà e dei nonni tremavano sulle sedie. Non riuscivano più a capire se quel tremito e il cigolio acido degli ascensori che si scuotevano sui cardini fosse il suono della loro paura interna per l´evento – enorme per loro, ma piccolo per il mondo – che si stava consumando a pochi passi e una soglia di distanza, oppure per quell´altro evento più grande, quell´evento gigantesco, cosmico, che ormai da troppi giorni e notti aveva riempito le loro vite di una paura che non ricordano di aver mai provato prima, o almeno non così forte e così prolungata nel tempo: la terra che sistema con violenza le sue carni sopra il globo.
La prima notte che ho passato da sola con il mio bambino ho dormito a tratti, battagliavo con il dolore fisico, la spossatezza che non ti lascia riposare e il senso di inadeguatezza che coglie ogni mamma nei primi momenti in cui si ritrova sola con la propria creatura da accudire, proteggere, sollevare, calmare, nutrire. Potevo affrontare molte di queste cose, ma se fosse arrivata una scossa più violenta, che armi avrei avuto, per difendere la vita di mio figlio? Fuori dalla finestra vedevo l´altra ala dell´Ospedale Maggiore con le luci accese, il colle di San Luca e le fronde degli alberi che tremavano al vento. Il letto ogni tanto oscillava, e così la culla trasparente dove potevo vedere il viso sereno di Ettore che dormiva. Il mondo era lontanissimo, ero senza computer e senza i-phone, immersa in una bolla in penombra gonfia di tenerezza, amore e sofferenza, tutto mischiato. Tutte le polemiche umane sfumavano davanti a quelle visioni che mi arrivavano insieme a ogni scossa. Come poche ore prima, durante il travaglio, visioni altrettanto potenti si erano succedute nella mia mente a ogni violenta e dolorosissima contrazione. Il mio corpo, come il pianeta, si squassava e si apriva, e non c´era più una separazione e un confine tra me e la terra sotto di me.
Mi sono lasciata andare a quelle visioni e ho pensato alla gente della mia terra, alle persone che conosco, gente che sono anch´io, un popolo gentile e semplice, dai modi a volte un po´ spicci, che vive nelle piazze dei suoi paesi, sotto i portici, gente che conosce la storia di ogni chiesa, di ogni casa, di ogni muro, che ama le sue casette linde e ordinate, persone che non hanno paura di dire quel che pensano e di svegliarsi la mattina con le braccia pronte a farsi carico del mondo così com´è e non come vorrebbero che fosse. Per il mondo come si vuole che sia, occorre darsi da fare, e qui non abbiamo mai avuto paura che “la terra fosse troppo bassa”. Ho stretto i denti e mi sono alzata dal letto, mi sono chinata sul corpo minuscolo del mio bambino che piangeva, l´ho sollevato tra le braccia, l´ho portato al fasciatoio e per la prima volta, l´ho cambiato e lavato da sola. Da allora, Ettore, nato nei giorni del terremoto, continua a dormire tranquillo.

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“QUEL PREZZO DELLA FURBIZIA”, di GIORGIO DIRITTI

Entro nel dolore piano. Un livido mi percorre da spalla a spalla, ma non è reale. È l´Emilia ferita che come una donna torna china dai campi, zoppicando stanca. Con la fierezza nello sguardo di una partigiana, con la forza di un´”azdora” che guida la famiglia, che ama il suo uomo, a cui piace vederlo sorridere, e farlo mangiare bene. Ma zoppica, è ferita.
L´avevo osservata poco prima con la rabbia addosso per aver visto uccidere una ragazzina davanti ad una scuola, la rabbia di aver visto un´altra bomba. L´Emilia sa purtroppo bene cosa sono le bombe, ha pianto alla stazione e sui treni.
Non volevo scrivere, non volevo raccontare lo smarrimento dei suoi occhi, il senso di impotenza, di assoluto, di sospensione nell´assoluto. Non volevo entrare nella Rabbia.
Quella donna ferita, si è svegliata in un tendone, con le brandine allineate, come a L´Aquila come in tante, troppe altre, tragedie italiane.
La polvere che arriva fino al palato nel gusto di talco va a sporcare i profumi lungo gli argini di queste sere di luce, va a sporcare quel senso di forza e saggezza contadina che in questi luoghi ha voluto fare le cose a “modo”, “un quel fat ban” perché durasse nel tempo e se possibile per sempre.
Per sempre dicono gli sposi, e nello sguardo di alcune mogli ora c´è il vuoto.
Piange anche di rabbia l´Emilia, con gli occhi chiusi, sente il rumore, vede il contorcersi delle lamiere, dei capannoni…
Mentre eravamo chinati al lavoro, giorno dopo giorno, con passione e dedizione, con entusiasmo ed onestà, qualcuno tra noi è si fatto plagiare, ha modificato man mano il suo pensiero: voleva essere più furbo. Più furbo degli altri, più furbo di tutti.
La ferita più dolorosa è nel dubbio che qualcosa è stato fatto male, col sentimento marcio della furbizia, che qualche cosa prima si poteva fare, che qualcuno che doveva preoccuparsi del bene di tutti ha pensato solo al proprio. E non è solo la ferita dell´Emilia, è quella di un´Italia “furba” dove molte parole si rincorrono senza pudore, dove ci raccontano che la nostra economia è sana, che è colpa degli extracomunitari, che è colpa dei proprietari di televisioni, che è colpa dell´Europa, di qualcun altro, meno che nostra, perché in fondo la società siamo noi.
Ora di quella furbizia rimangono le carcasse di animali morti, tonnellate di cibo devastato, il paradosso amaro di vedere che tanti macchinari salvavita sono sepolti in una sensazione di lutto… Come noi in un´Italia di troppi terremoti, alluvioni, frane e lutti.
Perché l´umanità non capisce se non dopo la tragedia?
L´Emilia trema ancora, sa che ha ancora forza, molta forza, perché la vede negli occhi dei vigili del fuoco, in quella degli operai e degli imprenditori, la vede nel conforto di tanti da molte parti d´Italia, tanti uomini e donne che le sono venuti in aiuto; la ritrova nei bambini che giocano tra le tende, la sente la sera, quando vede la gente chiacchierare e pensare già a ricostruire, a come ricominciare.
L´Emilia è forte ed orgogliosa, forse per questo, con il sorriso, e la bonarietà di sempre chiede anche a tutti che non ci si trovi più a piangere in futuro, che qualche cosa cambi, che ritorni la saggezza, che ci sia la volontà di prevenire, che ci sia cura per il territorio, lo chiede ai giovani in cui crede perché non si facciano mai ingannare dal desiderio di essere furbi ma si adoperino per curare il bene loro e dei loro cari.
E la terra trema ancora.

La Repubblica 07.06.12

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“QUANDO LA TERRA é PRECARIA”, di MARCELLO FOIS

Il problema principale è superare l´ansia, costante, sottile. Resistere all´istinto animale di scappare chissà dove. Controllarsi per non spaventare i bambini. Cinque minuti fa c´è stata una scossa piuttosto forte, breve per fortuna, in casa l´abbiamo sentita con precisione: il pavimento è scivolato sotto ai nostri piedi come fosse un tapis roulant. Qualche secondo, non più di dieci. Il problema principale è che dopo la scossa si rimane in silenzio per un attimo, leggermente storditi, come ad aspettare di capire se è finita davvero o se la terra riprenderà a tremare.
Questo continuo passare dalla normalità all´eccezionalità sfinisce. Qui si capisce molto bene che, fino ad oggi, qualunque gesto della tua giornata è stato giocato su una presunzione di inviolabilità, direi quasi di invincibilità, e che smantellare tale presunzione è il primo capillare danno di questo terremoto senza fine. Come abitare con uno sconosciuto, qualcuno di cui non si possono prevedere le azioni e le reazioni, ma illudendosi di poterlo controllare. La stabilità di ieri, dell´altro ieri, di appena un mese fa, sembrano improvvisamente momenti d´ignara felicità, quando credevamo di abitare un´area non interessata a movimenti tellurici, quando funzionavano le certezze e non si sospettava che, sempre, coltivare troppe certezze è un modo per rimuovere i problemi di qualunque natura essi siano.
Il mio osservatorio su questa particolare stagione dell´Emilia Romagna, che è la mia regione di adozione, è la mailing list di un gruppo di lettori e aspiranti scrittori con i quali ho lavorato, verso la metà dell´aprile scorso, nei locali della biblioteca di Crevalcore. Meno di due mesi dopo quell´esperienza, gran parte di quei venti allievi che formavano la mia classe sono diventati dei profughi. E quella mailing list creata per scambi letterari è diventata un bollettino di guerra. Paolo e Laura, sono, come si dice nel gergo dei soccorritori, attendati, ecco cosa scrivono: «Abitiamo proprio dietro al comune di Sant´Agostino, per il momento hanno evacuato la zona e non possiamo rientrare, ma la nostra casa ha retto bene, fateci sapere di voi». Altri, come Angela, hanno dovuto sperimentare la loro prima notte in auto: «Reduce da una notte insonne, eccomi, ancora impaurita e terrorizzata. Siamo rientrati in casa, ancora con diffidenza, tenendo sempre in vista la porta d´uscita. Con la morte nel cuore, pensando alle persone morte, alle loro famiglie e a coloro che sono fuori casa, vi saluto con grande affetto». Teresa deve assistere i vicini che hanno perso tutto: «Un´azienda di ceramica è crollata proprio davanti a casa nostra portandosi via la vita di due persone e distruggendo un´impresa che andava bene. Conosco i titolari, brave persone che lavorano lì con le famiglie. Distrutti dal dolore». Come la mailing list anche la biblioteca di Crevalcore ha cambiato funzione, Monica, la bibliotecaria mi scrive: «Il municipio è a pezzi tanto che si è trasferito in toto in biblioteca. La biblioteca è stata svuotata in un paio di giorni. È stato come se avessero cancellato oltre dieci anni di lavoro. Ci vorrà un po´ a far ripartire tutto, ma ci siamo, siamo vivi, questo è l´importante». C´è come un´ostinazione di questo terremoto a cancellare la storia di questa regione; l´abbattimento delle torri, quella di Novi si è sbriciolata in seguito alla scossa di domenica notte, appare come una metafora della fragilità della nostra memoria. Quei monumenti franati sono il quadro clinico della nostra fragilità. Ecco Simonetta: «Credevo proprio che fosse la fine. Sembrava di essere in una nave con mare forza nove. Non stavo in piedi e cadevano cose da ogni parte. Quindi svegliare i ragazzi di forza, trascinarli fuori quasi in mutande, prendere il cane al guinzaglio perché non scappasse dalla paura, e tutti nel cortile della Coop. Poi il ritorno a casa ma, anche adesso, in questo momento una lieve scossa! Dio che paura! Sempre pronti a scappare». Ecco proprio questa condizione di precarietà credo sia la particolare condanna comminata a questa gente che, accogliendomi come emiliano adottivo, mi ha insegnato una concezione pratica, stabile, del mondo. Scrive Federica: «Abito a Mirabello, mio marito ha perso la sua azienda, il capannone è crollato e con lui è crollata una parte di noi, una parte importante. Ci riprenderemo, per adesso affrontiamo la vita giorno per giorno cercando di aiutarci a vicenda per superare questa catastrofe. Vi mando un abbraccio». Ecco, posso fare riferimento al mio fatalismo atavico adesso e provare a rasserenare chi mi circonda con dosi massicce di quel relativismo mediterraneo che mi porto dentro da sempre. Ma poi si capisce che tutti qui hanno bisogno di aiuto, ma nessuno ha bisogno di consolazione: «Un abbraccio fortissimo da noi che siamo fortissimi. Addirittura più del terremoto!».

La Repubblica 07.06.12