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"Le mucche non danno più latte", di Grazia Longo

«Il danno economico, certo, è forte: le vacche fanno poco latte per lo stress. E quel poco non può essere lavorato perché i caseifici sono inagibili. Ma c’è anche il dispiacere per la loro sofferenza. Hanno la loro sensibilità: io le capisco perché per me è come parlare a un cane fedele». Spiazza la poesia delle parole di Omero Stefanini, 65 anni, una vita trascorsa alzandosi alle 3 del mattino, «alle 6 passa già il camion per la raccolta del latte», che oggi si trova a fare i conti con 120 vacche razza frisona italiana ancora scioccate dal terremoto.

«Avevano già manifestato segnali di disagio dopo la scossa del 20 maggio prosegue quest’omone in canottiera, con gli occhi celesti e la pelle bruciata dal sole -, ma la vera botta l’hanno presa martedì. Scappavano tutte come matte, hanno sfondato il cancello, una l’abbiamo dovuta macellare e altre quattro sono ancora ferite. Del resto stavolta è venuta giù pure la mia casa, vecchia di 100 anni, mentre il 20 maggio aveva subìto solo pochi danni».

La stalla invece è rimasta in piedi. «E dire che risale al ’75, non c’era l’obbligo delle misure antisismiche ma era stata costruita come Dio comanda. Io però non mollo: ho affittato un generatore per alimentare la macchina della mungitura e porto il latte prodotto a un caseificio privato, visto che quello solito è inagibile».

L’allevamento Stefanini a San Felice sul Panaro – che va avanti con altre due persone, il figlio Stefano e l’indiano Jarnail – è una delle tante fotografie della crisi dell’agroalimentare post terremoto.

Ottimismo e buona volontà non mancano. Ma con danni per 500 milioni di euro il settore è in ginocchio. Dai caseifici agli stabilimenti di lavorazione della frutta, dalle cantine alle acetaie di invecchiamento dell’aceto balsamico fino ai magazzini di stagionatura dei formaggi Parmigiano Reggiano e Grana ma anche case rurali, stalle, fienili, macchinari distrutti e animali morti.

La Coldiretti è in allarme per la food valley italianadalla quale partono verso l’Italia ed il resto del mondo le più prestigiose produzioni agroalimentari nazionali, dal Parmigiano Reggiano al Grana Padano ma anche latte ad uso alimentare per i cittadini. La maggioranza dei danni è a carico della filiera del latte, dalle stalle agli stabilimenti di trasformazione fino ai magazzini.

Basta farsi un giro nelle zone terremotate per toccare con mano questa realtà. Si cambia paese, fino a Mortizzuolo, frazione di Mirandola, ma la fotografia è la stessa. L’allevatore Andrea Barbieri, 44 anni, figlio d’arte, ha cinque dipendenti e 850 capi: 650 tra vacche e bufale da latte e 200 tra pecore e capre. Duecento mucche sono salve per un caso: «Le avevo spostate lunedì pomeriggio dalla stalla che aveva due piloni piegati dopo la scossa del 20 maggio. Come vede quella stalla non c’è più: rasa al suolo. Come lo sarebbero state le vacche, ma anche io e i mie quattro dipendenti che per fortuna stavamo lavorando nell’altra proprio a titolo cautelativo».

Per le pecore e per le capre, invece, ha rimediato un recinto di fortuna nel giardino di fronte alla casa. «Non posso fare altrimenti, ma il vero problema è lo stress delle vacche: producono l’80% in meno di latte al giorno. Martedì poi, a causa della corrente saltata, non abbiamo potuto abbeverarle perché non funzionava la pompa del pozzo. Uno strazio, d’estate ogni mucca beve 100 litri al giorno. Ora mi sono arrangiato con un generatore di elettricità».

Nell’allevamento di Alessandro Truzzi a Novi di Modena sono andati giù capannoni di una corte di 550 anni, crollati fienile e magazzini con sotto fieno e mangimi e non si sa cosa dare da mangiare agli animali. «Che peraltro hanno pure perso il sonno dalla paura» spiega Truzzi.

Non solo gli animali. A patire ci sono anche i campi coltivati. Il terremoto – precisa la Coldiretti – ha provocato anche un pericoloso rischio idrogeologico: danni agli impianti idraulici e frane in alcuni alvei pregiudicano il regolare deflusso delle acque. Una prima conseguenza è la sospensione del servizio irriguo per i 26 mila ettari della provincia modenese, per lo più destinati a frutticoltura e numerose risaie.

La Stampa 02.06.12

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Quelli che anziché dislocare assumono “Adesso c’è bisogno di lavorare di più”, di CATERINA GIUSBERTI

L’Emilia non ha tempo per piangere. Le fabbriche sono chiuse, ma chi può non ha smesso di lavorare neanche un minuto. E mentre il presidente dell’assemblea regionale Matteo Richetti proprio ieri ha lanciato un appello per dare alle aziende sfollate i capannoni sfitti (e un fondo a interessi zero per farle ripartire), molti piccoli imprenditori si sono già ingegnati per trovare soluzioni temporanee. Si lavora in macchina, all’aperto, in gazebo montati sui piazzali fuori dai capannoni inagibili. E, nel bel mezzo del dramma, c’è anche qualcuno che decide di assumere. È la storia di Francesca Basaglia e di suo marito Orville Covezzi, titolari della Icotet di Mirandola, un’azienda che fa quadri elettrici, per rivenderli a terzi che li esportano in tutto il mondo. Sempre del gruppo è anche un’altra azienda, la Prog. en: s’occupa di progettazione elettronica e sviluppo software.

In tutto hanno una trentina di dipendenti. Più uno. Perché proprio questa settimana, da sotto i gazebo comprati in tutta fretta a Vicenza, la Icotet ha deciso di assumere. “Un perito elettronico inizierà a lavorare con noi dalla prossima settimana – spiega Francesca – . Il lavoro per fortuna ce l’abbiamo e dunque occorre che ci muoviamo, che ripartiamo in fretta per non perderlo. Perché la solidarietà in economia non dura. All’inizio tutti ti chiedono cos’è successo, si mostrano comprensivi. Ma dopo cominciano a disdire gli ordini. Noi non possiamo permettercelo”. Quindi via, di corsa a fare le carte. A recuperare
i documenti e i moduli dalle scatole sotto i tendoni. La palazzina che ospita gli uffici non si è lesionata, ma adesso bisogna aspettare il via libera della Protezione civile. “E nel frattempo si fa tutto dai gazebo”.
La notte Francesca e Orville dormono in camper, fuori dal piazzale. C’è pure da far la guardia ai preziosi macchinari.

Una storia simile va in scena pochi chilometri più in là, a San Felice sul Panaro. La seconda assunzione del dopo terremoto (almeno nel modenese) l’ha firmata la Technoanalisys di Antonio Vignali, 18 dipendenti, laboratorio per analisi ambientali ed ecologiche del gruppo Bioteco, che si occupa di consulenza e ottimizzazione energetica e biomedicale. “Lavoriamo in macchina e da casa. Per fortuna il server funziona ancora e siamo riusciti a salvare qualche computer che alcuni dei nostri dipendenti utilizzano da casa. Gli altri sono tutti in giro, per dare assistenza alle aziende del territorio. In questo momento la priorità è far ripartire al più presto la produzione”, spiega il titolare.

E per non smentirsi, Vignali ha deciso di dare il buon esempio, assumendo un dipendente che finora aveva un co. co. pro. “Assunto dal primo di giugno. Abbiamo scelto di far scattare il suo contratto lo stesso, proprio per dimostrare che vogliamo ripartire e andare avanti. Tutto il nostro territorio deve ripartire. Dobbiamo solo levarci di dosso le paure, che sono molte, e far capire che gli imprenditori di qui non sono dei disgraziati che fanno lavorare la gente per farla morire sotto i capannoni. Siamo gente che ha seguito le regole, che ha rispettato le procedure e fatto tutti i controlli con cura. Non è colpa nostra se prima del 2003 questo territorio non era considerato a rischio sismico”.

Su Facebook, intanto, la notizia delle prime due assunzioni del dopo terremoto piace a tutti. “Dì solo che ci provino, a fermarci”, posta Ermes, in un misto di rabbia e orgoglio. Le assunzioni sono come i matrimoni, un simbolo della resistenza emiliana. Ieri l’ha detto anche il ministro dell’ambiente Corrado Clini ai microfoni di Uno Mattina: i soldi andranno usati per far ripartire le aziende in loco o, al massimo, per spostare gli impianti in altre aree della regione. La parola delocalizzazione, qui, non la vuole sentire nessuno.

La Repubblica 02.06.12

"Il merito che divide, il merito che unisce", di Stefano Semplici*

Il Governo sembra determinato a varare, già nei prossimi giorni, un decreto legge sul ≪merito≫ nella scuola e nell’universita. E le anticipazioni fin qui trapelate sono state sufficienti a riaccendere la polemica fra chi ritiene doveroso premiare i piu bravi per non perdere la strada maestra della competitivita e chi, dall’altra parte, si preoccupa di non sacrificare ulteriormente i diritti di tutti per incrementare il privilegio di pochi. Un provvedimento che, al di la delle intenzioni, dovesse contribuire a irrigidire questa contrapposizione farebbe evidentemente male al Paese, che ha bisogno di tornare a costruire su ragioni e valori che uniscono. Per questo vale forse la pena di riflettere sul titolo che viene indicato per il testo al quale si sta lavorando a Palazzo Chigi: si parla di ≪valorizzazione della capacita e del merito≫ e questo esplicito riferimento all’articolo 34 della Costituzione offre lo spunto per due osservazioni, che spero possano trovare riscontro nelle scelte del governo. La prima interroga chi pensa la giustizia sociale come antagonista del merito. Il dettato costituzionale e chiaro: e interesse e dovere della Repubblica garantire ai talenti la possibilita di crescere e raggiungere ≪i gradi piu alti degli studi≫. La concretezza del principio di pari opportunita si misura non solo rispetto ai minimi (l’istruzione inferiore obbligatoria e gratuita), ma in modo altrettanto essenziale rispetto ai massimi: e la possibilita dell’eccellenza a dover essere aperta a tutti e dunque ogni iniziativa che premi lo sforzo dei giovani in questa direzione e semplicemente l’applicazione dell’articolo 34, prima ancora che l’esigenza di un Paese che non puo prescindere da questa risorsa per tornare a crescere. La seconda osservazione interroga invece quei paladini della meritocrazia che affidano ad una mano invisibile della quale si sono ormai perse perfino le impronte il compito di farsi carico di tutti gli altri. Il merito non coincide semplicemente con la ≪capacita≫ e la riduzione del primo a semplice misura dei risultati e delle prestazioni e una concezione angusta, figlia di una cultura che si e orientata in modo purtroppo sempre piu marcato ad un individualismo senza responsabilita. Non e, in ogni caso, la concezione della nostra Costituzione, per la quale si puo essere capaci e immeritevoli in due modi: certo per mancanza di impegno, ma anche per mancanza di quel senso del dovere e di partecipazione che, come si diceva una volta, rende i cittadini benemeriti, cioe costruttori di progresso, di bene comuni. Lo dice l’articolo 4 parlando del dovere del lavoro. Lo ribadisce l’articolo 42 parlando della funzione sociale della proprieta privata. Il provvedimento sulla capacita e sul merito che davvero serve al Paese dovrebbe dunque puntare a centrare un duplice obiettivo. Da una parte garantire che il premio ai piu bravi si accompagni a misure concrete che aiutino a far crescere tutti e in primo luogo coloro che per farlo devono risalire la corrente di condizioni di partenza piu sfortunate. Dall’altra impedire che il riconoscimento del merito venga scambiato per un incoraggiamento ad essere bravi solo per se stessi. Fra le tante indiscrezioni di questi giorni ce ne sono allora due che fanno ben sperare. Si dovrebbe parlare di una valutazione del sistema scolastico basata non su classifiche, ma sul miglioramento della qualita del servizio educativo: verrebbero premiati in questo modo gli istituti che, magari in condizioni di particolare disagio sociale ed economico, si dimostrano capaci di fare di piu per i giovani che sono loro affidati. Si dovrebbe tornare a parlare, per l’universita, del ruolo centrale della didattica e della funzione di trasmissione del sapere a tutti e non solo ai migliori. Cercando, allo stesso tempo, di far ripartire i concorsi e aprire nuovi spazi ai giovani e per i giovani. Il governo deve essere giudicato rispetto a queste sfide. Le guerre sulle parole non servono a nessuno.

*docente di filosofia

L’Unità 02.06.12

"La disoccupazione tocca livelli record", di Marco Ventimiglia

Ci sono vari dati statistici che evidenziano giorno per giorno l’aggravarsi della crisi. Ma quello probabilmente più allarmante, con i suoi evidenti contraccolpi sociali, è il numero che segnala la crescita inesorabile della disoccupazione. E quanto comunicato ieri dall’Istat, con le cifre relative ai senza lavoro nel mese di aprile e nel complesso del primo trimestre, equivale ad un autentico segnale d’allarme, specie per quanto riguarda l’occupazione giovanile. Infatti, ad aprile la disoccupazione è volata al livello massimo dal 2004 mentre tra gli under 24 uno su tre è senza un lavoro. Per quanto riguarda i dati percentuali, la rilevazione dell’Istat indica un Paese nel quale il tasso di disoccupazione è salito al 10,9% nei primi tre mesi dell’anno. In aprile il dato è invece del 10,2%, ma anche in questo caso si tratta di una crescita rispetto a marzo (+0,1%) e soprattutto su base annua (+2,2%). Come detto, si tratta del livello più alto dal gennaio 1999 (se si considerano le rilevazioni trimestrali). Nel dettaglio, ad aprile il numero dei disoccupati è risultato pari a 2 milioni 615mila persone, crescendo dell’1,5% (38mila unità) rispetto a marzo e del 31,1% su base annua (621mila unità). Ma è soprattutto emergenza per i giovani: tra i 15-24enni le persone in cerca di lavoro sono 611 mila. Il tasso di disoccupazione in questa fascia è pari al 35,2%, in diminuzione di 0,8 punti percentuali rispetto a marzo ma in aumento addirittura di 7,9 punti su base annua. Nel primo trimestre, invece, il tasso di disoccupazione tra 15 e 24 anni raggiunge il 35,9% (era il 29,6% un anno prima). Alla cupa fotografia dell’Istat si è aggiunta quella analoga scattata da Eurostat per il Vecchio continente. Ed anche qui c’è ben poco da sorridere poiché la mancanza di lavoro è ormai una criticità in tutta Europa. In particolare, la disoc-nell’Eurozona mentre è in leggero aumento nell’Ue a 27, dove raggiunge il 10,3% contro il 10,2% di marzo. I disoccupati europei sono 24,667 milioni di cui 17,4 nell’Eurozona, in crescita di oltre 100 mila in un mese e di 1,9 milioni in un anno (1,797 milioni nella sola Eurozona). Forte aumento della disoccupazione giovanile, che supera il 22%, dato comunque distante da quello italiano. «OCCORREUNASVOLTA» «Quella dell’Istat è una fotografia drammatica – ha dichiarato Cesare Damiano, capogruppo Pd in Commissione lavoro alla Camera -. Abbiamo sfondato la soglia del 10% per quanto riguarda il tasso di disoccupazione, il peggior risultato dal 1999. Il trend del peggioramento della recessione, del calo della produzione industriale e dei consumi non accenna ad attenuarsi. È chiaro che occorre una svolta nelle scelte del governo a sostegno dello sviluppo. Questo deve essere l’obiettivo prioritario». Susanna Camusso, leader della Cgil, sottolinea che «non ci si può limitare a delle politiche di rigore che continuano ad alimentare la recessione. Bisogna cominciare a creare lavoro, sennò i dati saranno, mese dopo mese, sempre peggiori». Molto critico anche il leader dell’Idv, Antonio Di Pietro: «I dati dimostrano il fallimento del governo Monti, un governo tecnico che pensa solo a far quadrare i conti facendoli pagare ai più deboli». Infine, per la serie meglio tardi che mai, c’è da registrare una qualche presa di coscienza all’interno del Pdl, dopo anni passati a sottolineare la minor gravità della disoccupazione in Italia rispetto ad altri Paesi europei. «I dati sono angoscianti per la dimensione e soprattutto per la velocità del trend negativo – ha dichiarato l’ex ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi -. Essi indicano che è in atto qualcosa di più di una recessione, una profonda depressione ». ILDECRETOPERGLIESODATI Com’è noto c’è poi chi il lavoro lo ha lasciato (o perso) confidando di andare in pensione. Ma la riforma della previdenza ha allontanato anche quella: parliamo degli esodati. Ieri il premier Monti e la ministra Fornero hanno firmato il decreto che trova una soluzione solo per 65mila di loro. Gli altri, e sono decine di migliaia, restano nel limbo, senza stipendio e senza pensione. La nota di Palazzo Chigi che dà notizia della firma, comunica «l’impegno del governo» a trovare una soluzione per tutti, in particolare per chi è uscito dal lavoro a seguito di accordi collettivi (insomma chi si trova in mobilità). Un impegno, un annuncio accolto con disincanto dal sindacato: «Il problema resta intatto», taglia corto la Cgil , che invita a «non fomentare guerre tra proveri». La Cisl: «Ora il governo sia realmente disponibile al dialogo.

L’Unità 02.06.12

"Le mura solide della casa comune", di Mariantonietta Colimberti

Napolitano: «Impegno per risorse adeguate per assistenza e ricostruzione». Solidarietà e unità, ma anche impegno per l’assistenza alle popolazioni terremotate e per la ricostruzione. Nei giorni del dolore, il presidente offre la solidità della casa comune per rassicurare chi la propria casa l’ha persa. È questo il senso del videomessaggio che Giorgio Napolitano ha rivolto ieri agli italiani in occasione delle celebrazioni della festa della repubblica che avverranno oggi. Parole forti e piene di empatia umana e sociale: «Sentiamo l’angoscia di chi ha visto travolte vite operaie e certezze di lavoro nel crollo dei capannoni». Ed è lui stesso a farsi garante dell’impegno dello stato e della solidarietà nazionale, certo del risultato positivo: «Ce la faremo – afferma il capo dello stato, che giovedì prossimo visiterà le zone del sisma – e lo dico con fiducia innanzitutto a voi, gente emiliana, conoscendo la vostra tempra».
Nessun accenno alle polemiche sui costi della parata, e invece la riaffermazione del «rispetto » che si deve alle forze armate, ai corpi di polizia, alle rappresentanze della Protezione civile e del volontariato che operano nell’interesse «comune »: «Penso a quel che fecero i militari da protagonisti del movimento di liberazione da cui 66 anni fa nacque la repubblica, penso ai nostri contingenti impegnati in missioni internazionali di pace».
Poi, il messaggio politico, quello che sta a cuore a Napolitano sin dall’inizio del suo settennato, e che ieri ha riassunto in due parole: unità e solidarietà, necessarie «per superare tutte le emergenze e le prove». Insieme alle corrette modalità del vivere da cittadini: «Libero confronto tra diverse opinioni e proposte, non vecchie contrapposizioni ideologiche. Senso dell’interesse generale, senso dello stato, volontà di cambiamento» per «rendere più giusta una società troppo squilibrata e iniqua», «rinnovare la politica e rafforzare la democrazia». «Con questi intenti – è l’invito di Napolitano – anche se con animo turbato, celebriamo concordemente in questi giorni la repubblica e la costituzione, per trarne forza, per costruire un’Italia migliore».
Una festa completamente diversa da quella di un anno fa, quando erano in corso le celebrazioni del 150esimo anniversario dell’unità d’Italia e a Roma arrivarono capi di stato e di governo di 81 paesi. Oggi la sfilata, dimezzata nella sua composizione e senza mezzi militari né frecce tricolore, sarà preceduta da un minuto di silenzio per ricordare le vittime del terremoto. Ma questo 2 giugno è lontanissimo dal precedente anche per un altro, fondamentale motivo: perché la persona che ieri blaterava di euro da far stampare dalla nostra zecca l’anno scorso era ancora a capo del governo, veniva fischiato dalla folla e rompeva il protocollo, andando a battere sulla spalla del re spagnolo, come un discolo che non sa comportarsi in società. Grazie a Napolitano, spettacoli di questo genere oggi e in futuro ci saranno risparmiati.
Quello di ieri è stato quasi sicuramente l’ultimo messaggio da presidente in occasione della festa della repubblica – Napolitano ha esplicitamente escluso una sua riconferma – e conteneva i temi più importanti sviluppati in questi anni al Quirinale, quasi il senso di una missione. Nel 2006, appena eletto, così il capo dello stato aveva concluso il suo primo messaggio per il 2 giugno: «Nulla è più necessario, ora, che un clima di operosità e di responsabile collaborazione nel libero confronto delle idee e delle posizioni politiche. Corrispondere a questa necessità sarà l’impegno della mia presidenza». È stato di parola.

da Europa Quotidiano 02.06.12

"La sfida della società educante" Luigi Berlinguer

La crisi che tormenta l’Europa assume in Italia un profilo tutto suo: l’enormità del debito pubblico. Tra le sue cause, uno statalismo salvifico, pigliatutto, di cui è impregnata la nostra cultura più diffusa. Anche per questo l’abnorme ricorso al debito – ostacolo costante a politiche di crescita – ha provocato, tra l’altro, assistenzialismo, paternalismo, populismo, e ha impedito la capacità di rinnovamento di realizzate conquiste. Ciò contrasta con una società che mostra vivacità interna, anche se frenata da chiusure, corporativismi, soffocanti microprivilegi. Come aiutare una tale ricchezza sociale ad essere protagonista di una piena democrazia partecipativa? Purtroppo, non aiuta come dovrebbe il sistema educativo, ormai invecchiato, ancora ministeriale, di prevalente trasmissione del sapere, impotentemente autoritario, che colloca l’Italia indietro nel mondo evoluto e sciupa la nostra risorsa principe, la risorsa umana. Che è riuscito finora a rallentare la più bella rivoluzione moderna, la scuola per tutti, immobilizzando su quegli arcaici banchi l’energia di moltitudini di aspiranti al sapere, in altri Paesi carte vincenti dello sviluppo. Di qui l’«emergenza educativa» di cui parla Beppe Vacca nel suo bell’articolo pubblicato qualche giorno addietro da questo giornale. Per ridare pienamente la carica al Paese, l’obiettivo è la «società educante». L’istruzione-educazione è motore di civiltà, è anche produttore di ricchezza: masolo a condizione che essa cambi natura nel profondo. Il sapere deve essere una conquista, non più una trasmissione. L’apprendimento deve essere la sua base vitale: per imparare ad imparare, a capire, a costruire la propria personalità, a sostanziare la propria libertà (Montessori: «Insegnami a fare da solo»). Imparare a divenire responsabile, ad abituarsi ad affrontare la vita da protagonista. E imparare lungo tutto l’arco della vita. È l’intera società che deve esprimere a tutti i livelli questa formazione educativa, sempre. Non c’è più una sola stagione formativa: è un imperativo per i diversi poteri pubblici, per le organizzazioni sociali, garantire sempre l’esercizio della funzione educativa, che per sua intrinseca natura è funzione squisitamente pubblica. Questo è il vero cimento del Pd: puntare energicamente alla «società educante», che sta alla base della sua nascita. Proprio perché le varie sue culture originarie trovano in tale obiettivo il corpo di una comune strategia di valori e di mete che interpreta il futuro. Su alcuni assi strategici. Primo, l’Europa. Un’Europa unita, attiva, protagonista mondiale attende un soggetto politico italiano moderno, che per l’Europa sviluppi le potenzialità di una società aperta, protagonista, che rifiuta di difendere pigramente un retrobottega in cui illudersi di preservare il raggiunto benessere, quello che la competizione globale sta spazzando via. Secondo, i valori etici della politica, che non è carrierismo. Ispirazione socialista e ispirazione cattolica si alimentano di un’idea della militanza politica per «servire il popolo», per gli altri, per il Paese. Terzo, i diritti fondamentali e le responsabilità sociali. Il fenomeno più coinvolgente che ci accompagna oggi è l’incontro tra la società della conoscenza e la democrazia partecipativa. Diritto al lavoro e diritto al sapere si incontrano in una sintesi che unisce nella società lavoro (produttività e diritti) e conoscenze. Certamente il sapere conserva sempre un profilo disinteressato, non piegabile alla strumentalizzazione professionale; ma incontra anche la sua contaminazione sociale. Oggi non può concepirsi il lavoro privo del valore aggiunto che gli viene dalla conoscenza. Lo sviluppo a cui puntiamo è lo smartgrowth, sono le professioni qualificate, che promuovono il cittadino-lavoratore istruito, libero, consapevole, responsabile. Il socialismo nasce per tutelare i deboli e farne dei soggetti emancipati, liberi e eguali in un mondo solidale. La grande ispirazione cristiana è cresciuta con valori analoghi di libera fratellanza. In questo ambito si colloca il quarto tema, quello del valore della solidarietà sociale, del vasto campo della cultura delle autonomie, del valore della famiglia, in passato erroneamente eretto a terreno di scontro ideologico e politico. La famiglia non è più una struttura chiusa, autoritaria, gerarchica come un tempo.Èil regno degli affetti e insieme della libertà e dell’uguaglianza. Il Pd è tutto questo, è «il partito laico per credenti e non credenti», come ricorda Vacca. Deve guardare con preoccupazione alla grave crisi di credibilità che la politica attraversa, al crollo della partecipazione elettorale, all’insofferenza per l’immagine rissosa, rituale, arcaica che essa sembra restituire. Per il Pd – è il senso stesso della sua nascita – il futuro è uno (non certo la fusione fredda di diversi passati), ed è proprio nella «società educante». Perché non è con pezze giustapposte che si forma una bandiera.

L’Unità 02.06.12

Le scuole riaprono per due ore “Torno a prendermi lo zaino”, di Marco Alfieri

Ho recuperato lo zainetto, gli occhiali da sole e soprattutto il mio cappellino degli Yankees…» Appena esce dall’aula Dahmi Zakaria se lo pigia in testa togliendosi il caschetto rosso che gli hanno dato i ragazzi della Protezione Civile. Fuori lo attende il campo tende dove dorme con la sua famiglia, la Conad di via Genova che prova a riaprire e il viavai degli aiuti: casse di acqua, conserve di pomodoro, pacchi di pasta, tonno e biscotti offerti da cittadini, associazioni, aziende e artigiani come Weiber Morandi, che arriva da Vignola con il suo furgoncino per scaricare pane fresco e pannoloni.

La scuola media di Medolla, il comune epicentro del secondo sisma, da mercoledì è un magazzino merci per le tendopoli. Ma ieri, per due ore, dalle 11 alle 13, in tutta la zona del sisma ragazzi, genitori e insegnanti delle scuole non pericolanti sono potuti entrare in aula a riprendersi le cose abbandonate nel fuggi fuggi. «Non c’è stata una fiumana», ammettono dall’ufficio scolastico di Modena. Rientrare anche un attimo è uno choc. Alcuni ragazzi sono partiti per il mare in anticipo, altri mandano i genitori, per altri ancora è semplicemente troppo presto. «Qui a Medolla saranno venuti non più di una decina», confermano i volontari mentre riempiono di viveri l’ingresso dell’edificio. «Quasi tutti timorosi». Non Dahmi Zakaria, fisico robusto e olivastro, che frequenta la 3C. È figlio di genitori marocchini ma parla con la calata tipica emiliana. All’inizio non vorrebbe farsi fotografare, poi non la finisce più di raccontare l’incubo di martedì. «Ci siamo buttati sotto il banco», racconta concitato. «Ballava tutto, non riuscivo a tenermelo sopra la testa. Ma ora sono contento, ho recuperato il mio cappellino. Ciao giornalista…»

Poco prima erano entrate Giorgia Pansa e Irene Goldoni. Si sono fatte forza e lo hanno fatto senza genitori. Giorgia è in classe con Dahmi, Irene invece in 3A. «Avevamo lasciato in aula zaini, chiavi di casa, occhiali, il cellulare fortuna no».

I 171 ragazzi delle scuole medie di Medolla erano tornate in classe appena il giorno prima del secondo botto, dopo il terremoto del 20 maggio. «Stavamo iniziando l’ora di tecnica ed è arrivata la scossa», ricorda Giorgia. Irene stava facendo una verifica di matematica. «All’improvviso tutti hanno cominciato a urlare». Adesso le due amiche dormono insieme in tenda nel giardino della casa della zia di Irene. I genitori di Giorgia lavorano entrambi nel biomedicale in panne: la mamma alla Gambro, il papà alla Covidien. La mamma di Irene invece fa l’infermiera all’ospedale di Mirandola, «adesso è distaccata nelle tendopoli a dare una mano».

Nel pratone dietro le medie, i bambini più piccoli stanno giocando con lenzuolo e pennarelli. Dopo averlo colorato ce lo fanno vedere. C’è scritto «la terra trema, i bimbi giocano». La vita va avanti, specie a quella età. Alcuni adulti della tendopoli vanno a firmarlo mentre un trenino umano lo porta in giro come fosse un aquilone.

Le scuole dei paesi del cratere ormai riapriranno a settembre. Ma ci sono gli esami da fare e gli scrutini. Un bel problema organizzarli. Per esempio a Mirandola alla «Dante Alighieri» è crollato il tetto, mentre quelle agibili come la media «Montanari» sono diventate sedi istituzionali d’emergenza. Lo spiazzo davanti è pieno di gazebo del Comune: l’anagrafe, il centro anziani, l’ufficio pratiche stranieri e il punto scuola. In fila ci sono genitori con ragazzi italiani e stranieri perché il terremoto è multietnico. «Saranno garantiti gli scrutini in tutte le scuole, gli esami di licenza media e di qualifica professionale e gli esami di stato», spiega un prof sotto la tenda. «Probabilmente si adotterà il modello l’Aquila: esame di maturità per i 400 ragazzi di Mirandola solo con la prova orale», anticipa l’assessore all’istruzione, Carla Farina. Per i 200 di terza media si deve ancora decidere: esame o validazione dell’anno? Dahmi, Giorgia e Irene vorrebbero saperlo.

Nel frattempo giri l’angolo e nel cortile dell’Itis «Galileo Galilei» i professori hanno montato un tavolino per appoggiare registri, pc, effetti personali. In aula entrano solo i pompieri che escono con piccole casse di libri e documenti. «Dentro la scuola sembra bombardata. Solo che dobbiamo recuperare i registri per chiudere l’anno», spiega il vice preside interrotto da un capannello di genitori e studenti in bermuda come Stefano e il suo amico Carlo, che vogliono capirne di più. «I ragazzi che devono fare gli esami hanno solo i libri nello zaino. A casa non li fanno rientrare. E poi come ci si può preparare così?» Carlo e Stefano sorridono. «Per una volta, il prof ci sta dando ragione».

La Stampa 02.06.12

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“Perché vorrei andare a scuola lunedì”, di Cristina Contri

A Modena città, dove vivo, non abbiamo perso la casa, non abbiamo avuto gravi danni, la nostra angoscia è ridicola rispetto a quella di coloro che hanno visto crollare tutto, i ricordi di una vita e gli oggetti della quotidianità frantumarsi assieme a quei mattoni che per anni, per una vita intera, hanno rappresentato il confine che poteva proteggere dal fuori. Dentro casa ognuno si sente al sicuro. Basta pensare alla frasi che ripetiamo continuamente: casa dolce casa, che bello essere a casa, finalmente a casa, è bello andare in vacanza ma che bello ritornare a casa, a casa mia sto bene, ci ho messo i risparmi di una vita ecc. Ecco, la nostra angoscia è ridicola perché la casa c’è ancora, e c’è anche la casa vicina, e ci sono tutte le case della città, però il terremoto è entrato dentro la nostra quotidianità e ha scosso, insieme alle case, le nostre vite. Questa angoscia del terremoto è diversa da molte altre, perché il terremoto è angoscia di una comunità. All’alba del 20 maggio, dopo la prima forte scossa, in strada, ho conosciuto molte persone del mio palazzo e di quelli vicini, molte più di quante non ne avessi conosciute negli ultimi due anni. Verso le sei, dopo la seconda scossa di quella domenica mattina, un ragazzino è salito in casa ed è tornato giù in strada con una mezza torta, una crostata, e le persone non hanno esitato ad assaggiarne una fetta. Era l’alba, ma le strade del centro di Modena erano affollate come in pieno giorno, qualcuno era in pigiama, qualcuno vestito di tutto punto, e si mangiava, tutti assieme, un avanzo di crostata, qualcuno tentava di far ridere e qualcuno rideva. Erano le prime due scosse, il primo tremore, non sapevamo ancora che c’erano dei morti, e comunque tutti pensavamo che fosse finita lì. Quella mattina ho pensato che il terremoto è uno di quegli eventi che colpisce l’intera comunità, non i singoli, abbatte i confini tra il dentro e il fuori e alimenta il bisogno di restare tutti assieme.
Il giorno dopo, a scuola, i miei alunni, bambini e bambine di 10 anni, avevano ancora paura; la paura di avere visto i loro genitori avere paura, perché quando i grandi, gli adulti, gridano di terrore, i bambini si sentono invadere dall’impotenza. Più del terremoto li avevano spaventati le reazioni delle mamme e dei papà, dei vicini di casa. Quel lunedì mattina, a scuola, abbiamo parlato molto, ognuno ha raccontato come aveva passato l’alba della domenica, in strada e poi in macchina, qualcuno al parco, e piano piano, dopo due ore, ho visto che la paura si scioglieva e anche io stavo meglio. La forza dello stare assieme produceva un nuovo coraggio, e con questo coraggio nuovo siamo andati avanti per nove giorni. Ci sono state le scosse di terremoto, quelle più piccole, un giorno abbiamo evacuato la scuola dopo una scossa un po’più forte delle altre, ma tutti, grandi e bambini, convinti che si trattasse della fase di assestamento. Lentamente la vita tornava alla normalità e, pur vigili, pronti a scattare ad ogni piccola vibrazione, ogni rumore, siamo andati avanti convinti che fosse tutto passato. Poi il martedì mattina, il 29 maggio, di nuovo il terrore. Questa volta più nessuno aveva la forza di dirsi che era passato, nessuno aveva la forza di dire niente, solo sguardi terrorizzati; il 29 maggio abbiamo vissuto la potenza devastante dell’imprevedibile, nulla si poteva più dire. E quando mancano le parole, l’angoscia trova posto e si fa largo.
Sono passati tre giorni, stamattina sono andata a scuola, l’attività didattica è sospesa, le aule sono ancora come sono state lasciate martedì mattina, i quaderni e gli astucci aperti sui banchi, le lavagne traboccano di parole, o di operazioni. Manca ancora una settimana prima della fine ufficiale della scuola. Sono belli gli ultimi giorni di scuola, quando si fa il bilancio di quello che si è imparato, delle esperienze vissute durante l’anno, ci si saluta, c’è gioia nei bambini. La fine della scuola è un rituale che tutti, se andiamo indietro con la memoria, ricordiamo con piacere. In questo momento non sappiamo ancora se lunedì prossimo le scuole riapriranno, io però non riesco a mandare giù l’idea che un anno scolastico possa finire in questo modo. Non mi va proprio giù. Il terremoto ha costituito un evento che casualmente e improvvisamente è entrato nella nostra quotidianità e l’ha resa eccezionale, una situazione ci ha colpito, e riguarda noi, e noi, noi uomini intendo, abbiamo bisogno e voglia di conoscere e di capire quello che è successo, come è successo e perché, e abbiamo bisogno di raccontarci le storie di quello che abbiamo fatto, di come abbiamo reagito, di cosa abbiamo visto. Se anche le risposte non esistono, la voglia di conoscere rimane, così come resta il bisogno di raccontarci le nostre storie del terremoto. Conoscenza e narrazione, proprio quello che facciamo a scuola.
Mi sono venuti in mente tutti gli anni in cui con Andrea Canevaro e un gruppo di studenti universitari abbiamo fatto ricerca sulle situazione estreme, studiavamo quelle linee di resistenza che chi si trova in situazioni estreme mette in atto per andare avanti, le studiavamo perché pensavamo che quelle linee di resistenza, come le chiamavamo, potessero essere indicazioni utili sempre, anche nello scorrere normale della vita. Soprattutto mi sono ricordata di quella forma di resistenza che chiamavamo impegno nel quotidiano e nell’orizzonte della storia, e citavamo Korczak che nel ghetto di Varsavia, pochi giorni prima di morire, scriveva un articolo sull’importanza di rassettare la tavola dopo il pasto, e, negli stessi giorni, organizzava dei gruppi di studio sull’emancipazione femminile e su Napoleone Bonaparte. Ecco, l’attenzione alle piccole cose del quotidiano e l’apertura all’orizzonte della storia ci sembrava una linea di resistenza. Non voglio fare alcun paragone con quella situazione in cui si trovava Korczak, a Varsavia, con i suoi bambini, ma credo che si possa condividere l’idea che in qualunque momento è importante continuare ad impegnarsi nelle piccole cose, così come è importante continuare a studiare. Ho sentito persone in questi giorni dire frasi come: sì va bene la scuola, però prima ci sono altre cose a cui pensare! Come se fosse necessario fare una graduatoria, come se non si potessero tenere assieme tutte le cose importanti.
Ecco io vorrei tornare a scuola lunedì, vorrei incontrare i miei alunni e farli raccontare, vorrei dare loro i compiti delle vacanze, vorrei fare il gioco del “mi ricordo” per mettere in fila tutto quello che abbiamo fatto quest’anno, e poi vorrei dare loro un senso di normalità, perché la quotidianità rassicura. Lo so che nessuno di noi è tranquillo, lo so che avrò paura e sussulterò ad ogni vibrazione e ad ogni strano rumore, eppure io sono convinta che questo gesto di forza e di coraggio noi adulti lo dobbiamo ai piccoli, perché ci hanno visto avere paura e si sono spaventati, e allora dobbiamo comunicargli che anche se si è spaventati si continua a vivere, non ci si perde, si va avanti, si sta insieme, si parla e si impara. Perché se il terremoto è angoscia di una comunità, è nella comunità che l’angoscia deve essere elaborata.

da flcgil.it

"La tempesta perfetta dell'economia", di Maurizio Molinari

Più disoccupazione in America, meno manifatture in Europa, le industrie cinesi producono a rilento, l’India è a corto di investimenti e il Brasile lamenta il pil frenato dall’agricoltura: sul Pianeta incombe una fase di recessione globale ad appena due settimane dal summit del G20 che dovrebbe sancire il rilancio della crescita. Il motivo è che in ogni grande area economica le speranze di accelerazione lasciano il passo ai timori di consumatori e investitori.

Negli Stati Uniti le imprese che hanno accumulato profitti nel 2011 non hanno neanche ricostituito le scorte e, assieme alla diminuzione dei consumi, hanno innescato un vortice negativo che penalizza l’occupazione, tornata a scenderecome non avveniva da 11 mesi. In Europa la contrazione più visibile è quella delle manifatture, guidata dai dati peggiori degli ultimi tre anni in Germania, Francia e Gran Bretagna che suggeriscono come la crisi del debito sovrano abbia oramai ripercussioni negative che vanno ben oltre le economie più vulnerabili dei Paesi del Sud, superando anche i confini dell’Eurozona.

Ma a differenza di quanto avvenuto negli ultimi due anni non è solo l’Occidente in difficoltà: anche le economie dei Paesi emergenti sono in affanno. Le crescite record lasciano il posto a molteplici difficoltà. La Cina registra la peggiore produttività industriale accompagnata da timori di scontento nelle campagne, l’India che in autunno era la punta avanzata della crescita globale ora si interroga sulla carenza degli indispensabili investimenti stranieri e al Brasile i progetti di boom energetico non bastano a compensare l’indebolimento dell’industria alimentare che equivale alle materie prime. A mettere assieme i tasselli del mosaico è uno studio macroeconomico del Lloyd Banking Group paventando il rischio di una «recessione globale» che obbliga il summit del G20 in programma in Messico a rivedere in fretta la propria agenda: non si tratta di far convergere le economie emergenti sulla piattaforma pro crescita approvata dal G8 di Camp David bensì di fronteggiare con provvedimenti urgenti quella che un veterano americano dei vertici internazionali definisce la «tempesta perfetta dell’economia globale» ovvero quando tutti i maggiori motori, per un motivo o l’altro, rallentano o si fermano.

Se l’incubo è collettivo, l’urgenza di scongiurare tale scenario è anzitutto di Barack Obama perché il presidente americano che aveva scommesso la propria rielezione in settembre sulla ripresa dell’occupazione ora è obbligato a rivedere in fretta i piani di battaglia con i repubblicani. Obama assicura che «l’economia tornerà forte», imputa alla crisi dell’Europa le difficoltà della crescita e la Casa Bianca ripete che «una simile situazione non si supera in fretta». Ma in realtà da ieri il team del presidente si è reso conto che non potrà perseguire la rielezione sulla base delle aspettative di crescita, come riuscì a un debole Ronald Reagan nel 1984. Il Team Obama è obbligato a riscrivere in fretta il copione del gran finale elettorale e ciò promette sorprese.

La Stampa 02.06.12