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"Le mucche non danno più latte", di Grazia Longo

«Il danno economico, certo, è forte: le vacche fanno poco latte per lo stress. E quel poco non può essere lavorato perché i caseifici sono inagibili. Ma c’è anche il dispiacere per la loro sofferenza. Hanno la loro sensibilità: io le capisco perché per me è come parlare a un cane fedele». Spiazza la poesia delle parole di Omero Stefanini, 65 anni, una vita trascorsa alzandosi alle 3 del mattino, «alle 6 passa già il camion per la raccolta del latte», che oggi si trova a fare i conti con 120 vacche razza frisona italiana ancora scioccate dal terremoto.

«Avevano già manifestato segnali di disagio dopo la scossa del 20 maggio prosegue quest’omone in canottiera, con gli occhi celesti e la pelle bruciata dal sole -, ma la vera botta l’hanno presa martedì. Scappavano tutte come matte, hanno sfondato il cancello, una l’abbiamo dovuta macellare e altre quattro sono ancora ferite. Del resto stavolta è venuta giù pure la mia casa, vecchia di 100 anni, mentre il 20 maggio aveva subìto solo pochi danni».

La stalla invece è rimasta in piedi. «E dire che risale al ’75, non c’era l’obbligo delle misure antisismiche ma era stata costruita come Dio comanda. Io però non mollo: ho affittato un generatore per alimentare la macchina della mungitura e porto il latte prodotto a un caseificio privato, visto che quello solito è inagibile».

L’allevamento Stefanini a San Felice sul Panaro – che va avanti con altre due persone, il figlio Stefano e l’indiano Jarnail – è una delle tante fotografie della crisi dell’agroalimentare post terremoto.

Ottimismo e buona volontà non mancano. Ma con danni per 500 milioni di euro il settore è in ginocchio. Dai caseifici agli stabilimenti di lavorazione della frutta, dalle cantine alle acetaie di invecchiamento dell’aceto balsamico fino ai magazzini di stagionatura dei formaggi Parmigiano Reggiano e Grana ma anche case rurali, stalle, fienili, macchinari distrutti e animali morti.

La Coldiretti è in allarme per la food valley italianadalla quale partono verso l’Italia ed il resto del mondo le più prestigiose produzioni agroalimentari nazionali, dal Parmigiano Reggiano al Grana Padano ma anche latte ad uso alimentare per i cittadini. La maggioranza dei danni è a carico della filiera del latte, dalle stalle agli stabilimenti di trasformazione fino ai magazzini.

Basta farsi un giro nelle zone terremotate per toccare con mano questa realtà. Si cambia paese, fino a Mortizzuolo, frazione di Mirandola, ma la fotografia è la stessa. L’allevatore Andrea Barbieri, 44 anni, figlio d’arte, ha cinque dipendenti e 850 capi: 650 tra vacche e bufale da latte e 200 tra pecore e capre. Duecento mucche sono salve per un caso: «Le avevo spostate lunedì pomeriggio dalla stalla che aveva due piloni piegati dopo la scossa del 20 maggio. Come vede quella stalla non c’è più: rasa al suolo. Come lo sarebbero state le vacche, ma anche io e i mie quattro dipendenti che per fortuna stavamo lavorando nell’altra proprio a titolo cautelativo».

Per le pecore e per le capre, invece, ha rimediato un recinto di fortuna nel giardino di fronte alla casa. «Non posso fare altrimenti, ma il vero problema è lo stress delle vacche: producono l’80% in meno di latte al giorno. Martedì poi, a causa della corrente saltata, non abbiamo potuto abbeverarle perché non funzionava la pompa del pozzo. Uno strazio, d’estate ogni mucca beve 100 litri al giorno. Ora mi sono arrangiato con un generatore di elettricità».

Nell’allevamento di Alessandro Truzzi a Novi di Modena sono andati giù capannoni di una corte di 550 anni, crollati fienile e magazzini con sotto fieno e mangimi e non si sa cosa dare da mangiare agli animali. «Che peraltro hanno pure perso il sonno dalla paura» spiega Truzzi.

Non solo gli animali. A patire ci sono anche i campi coltivati. Il terremoto – precisa la Coldiretti – ha provocato anche un pericoloso rischio idrogeologico: danni agli impianti idraulici e frane in alcuni alvei pregiudicano il regolare deflusso delle acque. Una prima conseguenza è la sospensione del servizio irriguo per i 26 mila ettari della provincia modenese, per lo più destinati a frutticoltura e numerose risaie.

La Stampa 02.06.12

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Quelli che anziché dislocare assumono “Adesso c’è bisogno di lavorare di più”, di CATERINA GIUSBERTI

L’Emilia non ha tempo per piangere. Le fabbriche sono chiuse, ma chi può non ha smesso di lavorare neanche un minuto. E mentre il presidente dell’assemblea regionale Matteo Richetti proprio ieri ha lanciato un appello per dare alle aziende sfollate i capannoni sfitti (e un fondo a interessi zero per farle ripartire), molti piccoli imprenditori si sono già ingegnati per trovare soluzioni temporanee. Si lavora in macchina, all’aperto, in gazebo montati sui piazzali fuori dai capannoni inagibili. E, nel bel mezzo del dramma, c’è anche qualcuno che decide di assumere. È la storia di Francesca Basaglia e di suo marito Orville Covezzi, titolari della Icotet di Mirandola, un’azienda che fa quadri elettrici, per rivenderli a terzi che li esportano in tutto il mondo. Sempre del gruppo è anche un’altra azienda, la Prog. en: s’occupa di progettazione elettronica e sviluppo software.

In tutto hanno una trentina di dipendenti. Più uno. Perché proprio questa settimana, da sotto i gazebo comprati in tutta fretta a Vicenza, la Icotet ha deciso di assumere. “Un perito elettronico inizierà a lavorare con noi dalla prossima settimana – spiega Francesca – . Il lavoro per fortuna ce l’abbiamo e dunque occorre che ci muoviamo, che ripartiamo in fretta per non perderlo. Perché la solidarietà in economia non dura. All’inizio tutti ti chiedono cos’è successo, si mostrano comprensivi. Ma dopo cominciano a disdire gli ordini. Noi non possiamo permettercelo”. Quindi via, di corsa a fare le carte. A recuperare
i documenti e i moduli dalle scatole sotto i tendoni. La palazzina che ospita gli uffici non si è lesionata, ma adesso bisogna aspettare il via libera della Protezione civile. “E nel frattempo si fa tutto dai gazebo”.
La notte Francesca e Orville dormono in camper, fuori dal piazzale. C’è pure da far la guardia ai preziosi macchinari.

Una storia simile va in scena pochi chilometri più in là, a San Felice sul Panaro. La seconda assunzione del dopo terremoto (almeno nel modenese) l’ha firmata la Technoanalisys di Antonio Vignali, 18 dipendenti, laboratorio per analisi ambientali ed ecologiche del gruppo Bioteco, che si occupa di consulenza e ottimizzazione energetica e biomedicale. “Lavoriamo in macchina e da casa. Per fortuna il server funziona ancora e siamo riusciti a salvare qualche computer che alcuni dei nostri dipendenti utilizzano da casa. Gli altri sono tutti in giro, per dare assistenza alle aziende del territorio. In questo momento la priorità è far ripartire al più presto la produzione”, spiega il titolare.

E per non smentirsi, Vignali ha deciso di dare il buon esempio, assumendo un dipendente che finora aveva un co. co. pro. “Assunto dal primo di giugno. Abbiamo scelto di far scattare il suo contratto lo stesso, proprio per dimostrare che vogliamo ripartire e andare avanti. Tutto il nostro territorio deve ripartire. Dobbiamo solo levarci di dosso le paure, che sono molte, e far capire che gli imprenditori di qui non sono dei disgraziati che fanno lavorare la gente per farla morire sotto i capannoni. Siamo gente che ha seguito le regole, che ha rispettato le procedure e fatto tutti i controlli con cura. Non è colpa nostra se prima del 2003 questo territorio non era considerato a rischio sismico”.

Su Facebook, intanto, la notizia delle prime due assunzioni del dopo terremoto piace a tutti. “Dì solo che ci provino, a fermarci”, posta Ermes, in un misto di rabbia e orgoglio. Le assunzioni sono come i matrimoni, un simbolo della resistenza emiliana. Ieri l’ha detto anche il ministro dell’ambiente Corrado Clini ai microfoni di Uno Mattina: i soldi andranno usati per far ripartire le aziende in loco o, al massimo, per spostare gli impianti in altre aree della regione. La parola delocalizzazione, qui, non la vuole sentire nessuno.

La Repubblica 02.06.12