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"In svendita le coste della Sicilia cemento e appalti per 3 miliardi ecco l´affare d´oro di Lombardo", di Giovanni Valentini

Il “caso Sicilia” può arrivare a Bruxelles: la direttiva Bolkestein tutela la concorrenza. Una mega concessione di 30 anni che può essere estesa a 50 minaccia l´intera regione. La Sicilia è in vendita. Anzi, per meglio dire, in svendita. Una mega-concessione, estensibile da 30 anni addirittura a 50, minaccia il patrimonio naturale delle sue incantevoli coste. Dall´originario miliardo e mezzo di euro, più 240 milioni di spese di progettazione, l´investimento complessivo potrebbe arrivare fino a tre miliardi, più 500 milioni. Per il prossimo mezzo secolo, il demanio marittimo dell´isola verrebbe appaltato così a un gruppo privato italo-belga, per alimentare una colata di cemento che sconvolgerebbe il paesaggio e l´intero sistema costiero.
Contenuta in un´interrogazione parlamentare di Ermete Realacci, deputato del Pd e presidente onorario di Legambiente, la denuncia è ampiamente documentata e circostanziata. Una “bomba”, come si suol dire nel linguaggio mediatico. Ma anche un preciso e formale atto d´accusa contro la Regione presieduta da Raffaele Lombardo, eletto a suo tempo dal Pdl e dall´Udc; poi a capo di una giunta “tecnica” sostenuta da un´ampia coalizione; indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio; e infine dimissionario in attesa delle prossime elezioni già previste per il 28 luglio prossimo. Ma proprio su questo progetto Lombardo è stato duramente contestato anche dall´assessore regionale alle Infrastrutture, Carmelo Pietro Russo.
Nell´ipocrisia dell´intestazione ufficiale, il colossale intervento di devastazione ambientale viene spacciato come un “Progetto per la salvaguardia del sistema costiero”, secondo la prima proposta presentata il 31 marzo 2011 dalla Società Italiana Dragaggi Spa, controllata dal Gruppo belga Deme. E una legge regionale “ad hoc”, approvata l´11 maggio dello stesso anno, annuncia e promette testualmente un “Piano straordinario per la conservazione, la messa a reddito e la valorizzazione dei beni culturali, dei beni forestali e del patrimonio costiero di proprietà regionale”.
Basta scorrere l´ultimo preventivo dei lavori e dei relativi costi per rendersi conto che si tratta in realtà di una cementificazione selvaggia, programmata su vasta scala: opere turistiche, ricettive e commerciali, per circa 1,5 miliardi di euro sui tre totali della proposta definitiva; consolidamenti, ripascimenti e barriere di difesa costiere (700 milioni); pontili, ormeggi e approdi (350 milioni); porti a secco (35 milioni); parcheggi (26 milioni); stabilimenti balneari (9,4 milioni); strutture rimovibili per bar-tavola calda (7,2 milioni); strutture rimovibili commerciali (oltre 14,5 milioni); strutture rimovibili per servizi portuali (oltre 7,6 milioni); opere impiantistiche (oltre 35,5 milioni).Totale: 3.166.536.160 euro senza Iva, più mezzo miliardo di spese di progettazione.
In base all´ultima richiesta della società italo-belga, la Regione Sicilia dovrebbe erogare un contributo a fondo perduto pari al 20% dell´intero investimento: cioè oltre 633 milioni di euro, un importo equivalente al costo delle opere di consolidamento e ripascimento della costa (698.100.000 euro). In cambio, i privati incasserebbero i proventi delle locazioni dei beni demaniali assegnati, privando l´erario pubblico regionale dei rilevanti introiti che ne deriveranno. Nella proposta originaria, quella da 1,5 miliardi di euro, il piano finanziario già prevedeva a regime ricavi per 250 milioni e saldi di cassa per 150 milioni all´anno, ma nel secondo progetto queste voci sono destinate almeno a raddoppiare. Una mega-concessione, dunque, per un maxi-affare d´oro.
Il dettaglio dei ricavi contempla un boom turistico da miracolo economico, a danno però dell´ambiente e del paesaggio: 57 milioni da cessione di posti barca, box nautici e parcheggi; 38 milioni da locazioni immobiliari di aree demaniali (581mila metri quadrati), opere su aree demaniali (522mila mq) e stabilimenti balneari (68mila mq); 78 milioni l´anno dalla gestione e locazione di 13.700 posti barca; 12 milioni dalla locazione di 7mila posti in porto a secco; 300mila euro per locazione di 6mila posti auto; 3,5 milioni da locazione di servizi di accesso wireless a oltre 15mila posti barca; 14,5 milioni da locazione di (immancabili) spazi pubblicitari; 600mila euro da noleggio di 72 strutture bar. Una colonizzazione turistica di massa, quindi, da inferno delle vacanze, modello Costa del Sol: alberghi e residence vista mare, barche, auto, fungaie di ombrelloni, lettini a castello e discoteche on the beach. Tutto questo in una terra benedetta da madrenatura che, a parte la carenza di strade o autostrade, non dispone neppure di una segnaletica efficiente per orientare l´esercito degli “invasori”.
Di fronte a una minaccia di tale portata, è già scattata la mobilitazione degli ecologisti locali, guidata dal presidente regionale di Legambiente, Mimmo Fontana. Ma il “caso Sicilia” rischia ora di arrivare fino a Bruxelles, in forza della giurisprudenza della Corte di Giustizia europea e in particolare della cosiddetta “direttiva Bolkestein” (2006) che punta a tutelare la libertà di concorrenza e la libertà di circolazione dei servizi, garantendo la certezza giuridica per il loro effettivo esercizio. Fra i settori interessati, si parla espressamente di servizi nel settore del turismo, compresi quelli ricreativi, i centri sportivi e i parchi di divertimento. «Qui – commenta allarmato Realacci – si affidano a un unico soggetto, senza oneri, tutti i litorali siciliani che poi verrebbero assegnati in concessione a terzi, incamerando i relativi canoni d´uso o locazione. Al di là di qualsiasi intestazione o etichetta, si tratta insomma di una gigantesca fornitura di servizi da cui ricavare il capitale impegnato e un considerevole margine di guadagno, a spese dell´intera collettività».

La Repubblica 31.05.12

"La grande crepa nel cuore d´Italia", di Roberto Roversi

C´è una crepa nel cuore dell´Italia. Una crepa nella terra che abbiamo dimenticato e una crepa nella storia che spesso ci pesa ricordare. Sono abbastanza vecchio da aver vissuto il terremoto del 1929: l´Emilia doveva essere infrangibile e invece dormimmo all´aperto per giorni, qualcuno nelle poche macchine che c´erano, tanti nelle tende, e poi fummo ‘sfollati´ a San Marino di Bentivoglio, un piccolo paese in campagna, vicino a Bologna. Costruimmo casette in legno – ricordo ancora l´odore di colla – per provare a difenderci e ricominciare.
Anche allora nessuno ricordava le scosse della storia, quando nei secoli passati persino la Torre degli Asinelli era stata danneggiata. L´Emilia pensa spesso di essere indenne: viene colpita, soffre e dimentica.
Quel che sta succedendo adesso purtroppo riguarda tutti: abbiamo cementificato i fiumi, trapanato campi e colline. Dalla terra abbiamo risucchiato l´anima rispettabile, senza pietà. E quando arriva un terremoto, la catastrofe ci ricorda la forza imprevedibile e ci trascina nello sgomento.
Conosco bene quelle zone, la Bassa tra Modena e Ferrara, ricordo i campi e l´agricoltura. Poi è arrivato lo sfruttamento, qui come altrove. Ci sono posti con nomi bellissimi, Concordia, Mirandola, San Felice. Sono paesi della pianura, zone che circondano Bologna, paesi a un pugno dalle nostre finestre. Che hanno tremato con loro.
Ma oggi non credo che serva poesia né demagogia, perché la nostra terra l´abbiamo abbandonata. Servirebbe speranza, quella sì. Ma per la speranza occorre una passione che può nascere solo da una visione più grande che non schiaccia i deboli, gli umili, gli indifesi.
Parliamo spesso del senso di comunità che qui, in queste zone, è forte e saldo. Eppure credo, senza essere apocalittico, che anche quello possa andare smarrito. Nelle disgrazie ritroviamo la reciproca pietà: vengono fuori sentimenti austeri, di collaborazione. Ma sono sentimenti. Quello che serve è una visione, larga, del futuro. Che riconosca il passato e quel che è successo. Che ce lo faccia leggere, finalmente, e che lo voglia cambiare.
Come fecero gli illuministi dopo il terremoto di Lisbona: lo racconta Kant, lo spiega Voltaire. Un progetto per una città nuova. E – senza più bisogno di citare i grandi filosofi – come successe in Friuli. Quella ricostruzione è stata una vera ricostruzione: non c´è esempio uguale.
Oggi viviamo in un tempo arretrato, anche qui, in Emilia. E abbiamo sotto gli occhi le transenne che ancora imprigionano L´Aquila. Serve una tensione operativa, qualcosa che non sia solo percepito come elemosina di Stato ma diventi volontà di Governo per dare un segnale vero.
Per questo vorrei sfuggire alla retorica della comunità ferita che si rialza: può essere pericolosa perché ogni individuo deve contare su se stesso sapendo di poter contare sullo Stato. Su un´idea di progresso, di futuro. Abbiamo massacrato la terra, l´abbiamo manovrata e vilipesa, abbiamo deviato le acque e consumato natura: anche qui. Impietosamente. E ci siamo dimenticati della crepa, delle tante crepe che si possono aprire.
L´unica vera “vittoria” sulla tragedia del terremoto sarebbe quella che riconsegnasse alla gente la convinzione culturale, morale e istituzionale del mondo in cui si vuole vivere, lasciando da parte utopie liberistiche, falsamente democratiche. Dobbiamo ritrovare il coraggio di difenderci dal vortice della mortificazione del presente, “alzando da terra il sole”.
(testo raccolto)

La Repubblica 31.05.12

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“Io industriale, predico una religione estinta”, di Concita De Gregorio

«Il lavoro non si può fermare. Non si deve fermare. Se si ferma il lavoro è come morire da vivi, perché stai qui, ci vede, stiamo tutti qui carichi, pieni di energia».

«Pronti a rimetterci in moto e non c´è niente da fare. Giriamo nei piazzali come anime in pena, se nei capannoni avessimo animali li metteremmo in salvo e ricominceremmo a governarli altrove ma abbiamo macchine, e le macchine da sole non si muovono, e non possiamo entrare nemmeno un minuto a tirarle via da li, e ogni giorno di fermo è un giorno in cui perdi clienti che ci hai messo una vita a conquistare, e se perdi clienti perdi commesse e perdi lavoro, intendo posti di lavoro, chi ci rimette davvero alla fine sono questi ragazzi che mandano avanti le famiglie con 1200 euro al mese e se li metti in cassa integrazione come fanno, cosa fanno, se gli togli lavoro gli hai tolto tutto davvero».
Vainer Marchesini ha una bella faccia che ride anche quando gli occhi sono bui, 66 anni, una bicicletta sotto il sedere, una busta di tabacco in tasca, due figli trentenni, 2200 dipendenti, 21 centri di produzione e 35 di vendita in tutto il mondo. Wam, si chiama la ditta. Sede centrale: Cavezzo. L´epicentro del terremoto che ha fermato il rombo ininterrotto dei motori che tutti, qui, sanno far funzionare fin da bambini. Cominciano smontando il motorino, finiscono facendo a gara con le macchine per vedere chi va più veloce, se l´uomo o la pressa. Ha cominciato con 64 mila lire e un´idea: fabbricare un tubo con un´elica dentro per trasportare il cemento, una coclea. Orfano di padre, sua madre bracciante agricola. Era il 1967. Ha lasciato i campi e si è messo a realizzare quell´idea: a mano, con saldatrice e cannello. Il primo anno di quei tubi ne ha fatti tre. Oggi è leader di macchine di precisione per il trasporto polveri nel mondo intero, ha cento brevetti internazionali, produce in America e in Cina, in Turchia e in Australia, in Brasile, in India. «Non ho fatto niente di speciale, era facile negli anni Sessanta, se avevi un´idea la realizzavi e via, poi lavoro lavoro lavoro, e basta. E´ oggi che non è più così, perché abbiamo smesso di vedere la ricchezza dov´è: la ricchezza è nelle cose, nella terra e nel mare, nel lavoro che li trasforma, nella manifattura, nell´ingegno che produce gli oggetti. Non nella finanza, no. Quello è un inganno. Eppure guardi, qui non abbiamo neppure le strade per portare nel resto del mondo i pezzi che produciamo solo noi. E´ come se fossimo monaci che si ostinano a praticare una religione estinta: quelle che ci hanno insegnato i nostri nonni e i nostri padri che anche la domenica, anche a Natale andavano nei campi. E ora cosa ci dice questo terremoto, cosa ci insegna? Se si ferma la produzione ci fermiamo tutti, questo ci dice: di lavoro si può morire, ma senza lavoro si muore di certo. Qui il terremoto non l´abbiamo mai visto, le nostre chiese, quelle che sono crollate, avevano mille anni. Qui ci aspettiamo le inondazioni, e siamo pronti. Ma la terra che salta e che ti mangia no, è una paura nuova. Rompe per sempre quella pazienza tranquilla di cui siamo fatti, lo so. Lo vedo negli occhi dei miei ragazzi. Non c´è rimedio a una paura nuova. Però bisogna fare, adesso, e fare subito».
Lascia la vecchia bici, l´appoggia a un albero. Si toglie il casco giallo dalla testa, saluta i ragazzi sul piazzale. Dà uno sguardo dentro la pancia buia dei capannoni con l´apprensione esperta che sua madre avrebbe riservato alla mucca che non dà latte nella stalla. Monta un ufficietto sotto un acero, venga che si sta sicuri qui, portiamo la scrivania e le sedie all´ombra. Si fa una sigaretta col tabacco. Sbuffa una volta sola, ma poco, quando al telefono gli spiegano che più o meno serviranno 8 milioni per rifare tutto, capannoni in sicurezza, e ripartire.
Dà un´occhiata all´orizzonte. Cavezzo chiusa dalle transenne. Deserto e silenzio. «E´ bello qui, vero?». Capannoni industriali a perdita d´occhio. «E´ come un motore sempre in moto, lo vede? Poi quando è finito l´orario della fabbrica si torna alla terra che la terra è paziente, sa aspettare che suoni la sirena di fine turno, e se c´è ancora luce si lavora lì. Si lavora il doppio e nessuno mette nel conto il suo lavoro. A me per vivere i soldi non mi servono quasi a niente. Una bici, il tabacco, poi son sempre qui. Anche la domenica. Quel che si guadagna torna tutto in azienda. E come me ce ne sono mille, guardi, uno in ogni capannone. Io sono la fotocopia di tutti quelli intorno. Ormai vecchietti – ride – ma ancora pieni di energie». La fotocopia di tutti quelli intorno. La terra continua a ballare sotto le sedie all´ombra dell´acero. Otto milioni di euro. Ma come si fa, ora? «Si fa, si fa. Si spende di meno, si lavora di più. Ci facciamo venire un´idea. I ragazzi dell´unità di crisi – li chiamo così i nostri quarantenni, io invecchio ma non voglio mica che invecchi la fabbrica, sono tutti laureati – sono già lì che ci pensano. Ora dobbiamo essere sicuri di poter ripartire, perché noi non abbiamo avuto morti ma l´ingegnere che è rimasto sotto le macerie martedì era da noi domenica e non smetto di pensare a lui. Sembrava tutto a posto. La paura chiede tempo. Ora fino a lunedì stiamo fermi, poi vediamo. Certo dobbiamo ripartire. Presto, prestissimo».
Vainer si chiama Vainer perché quando è nato sua sorella era innamorata di un partigiano di 22 anni, bellissimo, fucilato nei campi, che si chiamava così. Qui nel carpigiano hanno nomi che non somigliano a niente, magnifici. «A otto anni ero orfano di padre, mia madre lavorava nei campi, mi ha mandato in un collegio di preti a studiare il greco e il latino. Bologna, fuori casa. Poi la scuola tecnica, cinque anni, poi il primo lavoro in un´azienda di costruzioni. Ufficio Acquisti. Dopo un po´ ho pensato che una macchina che compravamo si poteva fare meglio di così. Ho preso la buonuscita, 64 mila 432 lire. Era il 1967. Ho costruito una coclea per il trasporto del cemento, anzi tre. Tre in un anno, a mano, con saldatrice e cannello. Ho fondato la “Marchesini Vainer”, si metteva prima il cognome, allora. Il secondo anno ne facevo una alla settimana, poi una al giorno. Sono andato a cercare clienti in Germania, in Francia. Nel ‘73 ho brevettato una coclea verticale, per portare il cemento su nei silos. Sembra un´idea da niente ma non ci aveva pensato nessuno. Ho esportato tantissimo. Nell´84 ho cambiato nome. Wam. Ho messo la doppia “v” perché così l´azienda sembrava tedesca, la doppia “v” dà più affidabilità. Ho aperto in America, poi in Cina. Poi mi sono messo a studiare le polveri. Il successo dipende sempre dalla conoscenza. Come si comportano le polveri, lei lo sa? Ecco, non lo sapeva nessuno. Abbiamo brevettato valvole, filtri, sistemi di raccolta. Abbiamo aperto in Brasile, in India. Otto stabilimenti in Italia. Duemila e duecento dipendenti, ma il cuore è rimasto qui. Non abbiamo un grande fatturato perché al contrario delle filosofie correnti in quegli anni non abbiamo dato niente fuori. No outsourcing, no. Abbiamo tenuto tutto dentro. Investiamo nell´azienda. A me serve poco per vivere. La bici, il tabacco, lavoro anche la domenica. Gli operai, al principio, erano tutti di qui. Quando dico di qui intendo non la provincia, ma il comune. Cavezzo. Io stesso sono un forestiero. Sono nato a Solliera, dieci chilometri più in là. Cavezzo è Cavezzo. Poi sono arrivati gli immigrati dal Sud, soprattutto da Avellino. Begli anni, il territorio li ha accolti, si stava benissimo. Poi sono venuti gli indiani, i pachistani e i ragazzi dell´Africa centrale. Dal Ghana tantissimi. Hanno fatto anche una squadra di calcio qui in paese. A me pare che siano contenti del lavoro, io sono contento di lavorare con loro. Mi sono sempre tenuto lontano dalla politica. Quando un nostro dipendente è diventato sindaco ho smesso di andare a fare le pratiche in Comune. Prima ci andavo di persona, ora ci mando un impiegato. C´è un bel senso di appartenenza alla fabbrica, un grande rispetto reciproco. La Fiom è al 90 per cento. Abbiamo fatto dei contratti molto innovativi. Non abbiamo delocalizzato la produzione: abbiamo aperto centri di produzione per quei mercati, è diverso. Molti nostri operai, ai quali facciamo corsi di lingue, vanno poi all´estero e alcuni non tornano. A Shanghai vivono bene. Mia figlia Elena, che ha 34 anni, ha aperto li un´azienda di moda: qui a Cavezzo fa il design, in Cina vende servizi. Mio figlio Marcello invece lavora qui, coi manager che sono tutti quarantenni. La crisi del 2009 l´abbiamo sentita, certo. Ma in Europa: i mercati esteri vanno bene e ci tengono in alto».
«Il terremoto non ce lo potevamo immaginare. Qui l´amicizia della terra era una certezza. Ora bisognerà tirar già tutto quello che non è sicuro e rifarlo da capo. Quando è arrivato, alle nove di martedì, eravamo tutti al lavoro. In dieci secondi gli operai sono usciti, le prove di evacuazione sono servite, alla fine… Io mi sono messo sotto una colonna ad aspettare. Il capannone di ferro è intatto, è venuta giù una capriata in quello di cemento. Ma il ferro qui in Italia è carissimo, e in tanti casi non si può proprio usare per legge. Le nuove norme antisismiche le abbiamo osservate sempre. Non bastavano, si vede. Adesso dobbiamo spostare tutto, e dire che avevamo appena finito di montare i pannelli solari…Bisogna fare presto, prestissimo. Un mese di fermo è troppo tempo. Ora ci rimbocchiamo le maniche e ricominciamo. Non posso mica lasciarli senza lavoro, questi ragazzi qua. Se ti si ammala una mucca la curi e la guarisci. Il futuro è questa cosa qui. Fare le cose, produrre, inventare le soluzioni ai problemi. E non arrendersi mai, mai. Che il latte non arriverà se non dalla stalla, mi creda. L´unica cura che conosco è il lavoro. Un´altra non c´è».

La Repubblica 31.05.12

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“Danni per oltre due miliardi cancellata l´industria emiliana” e il capannone si sposta in tenda, di Jenner Meletti

“Da queste parti alle difficoltà siamo abituati, ma stavolta è stata davvero troppo grossa”. Gli imprenditori: “Se restiamo fermi perderemo i clienti e saremo costretti a chiudere”. In ginocchio i distretti, dal biomedicale all´alimentare, dal meccanico alla ceramica
Fa impressione il silenzio, in via di Mezzo, che era una strada di campagna ed è diventata la spina dorsale di una zona industriale invidiata in mezzo mondo. Si sente soltanto l´allarme di una fabbrica che non smette di suonare dalla mattina di martedì. «Siamo venuti qui per spegnerlo, ma non possiamo entrare in azienda». Carlo e Alberto Barbi costruiscono qui, nella ditta «Barbi Galileo», i loro autobus Granturismo. Ce ne sono sei nel piazzale, due finiti e lucidissimi, gli altri quattro da terminare. «Per fortuna li avevamo portati fuori dopo la prima scossa della domenica». All´ombra di un pioppo, Carlo Barbi, 63 anni, può raccontare un pezzo della storia di Mirandola e di questa Bassa che è conosciuta più all´estero che in Italia. «Posso dire – racconta – che molti della mia generazione si sono dati da fare. Mauro Mantovani, il titolare della Aries, che è morto perché è stato l´ultimo a uscire dalla fabbrica, era un mio compagno di scuola».
Nella strada deserta – ci sono i capannoni spezzati dell´Api, della Cls costruzioni, della Coop gas, della RB, della Picotronik… – passa una pattuglia di vigili urbani con un altoparlante. L´annuncio fa venire in mente gli anni del coprifuoco. «Per il momento è vietato entrare in tutte le aziende e negli edifici industriali. Vi preghiamo di mantenere la calma e di collaborare con le autorità». Il sindaco Maino Benatti ha firmato l´ordinanza che impedisce ai titolari delle aziende, oltre naturalmente agli operai, di entrare in fabbrica. Ci sono state troppe vittime fra i lavoratori, e oltre a Mauro Mantovani un altro imprenditore, Enea Grilli, è stato schiacciato dal cemento della sua azienda. C´era fretta di tornare al lavoro, si sperava che quella del 20 maggio fosse l´ultima scossa. Così non è stato. E ora sulla strage degli operai la procura di Modena ha aperto un´inchiesta per omicidio colposo.
Mario Veronesi, 80 anni, è lo Steve Jobs del distretto del biomedicale. Ottocento – mille milioni di fatturato, 100 imprese e oltre 4.000 addetti. «Dobbiamo riprenderci in fretta – dice – ma usando la ragione. Intanto dobbiamo stimare i danni per capire se una ripresa sia possibile. E dobbiamo sapere quali siano le cose da cambiare. Se si alza il livello di pericolo sismico, ad esempio, come faremo a intervenire nelle fabbriche? Le fondamenta delle aziende non si cambiano». Era un farmacista, Mario Veronesi, che dopo un viaggio negli Stati Uniti chiamò dei professori dell´istituto tecnico e alcuni allievi e si mise a produrre «set da infusioni», le flebo, e poi tutto ciò che serve per la dialisi. Adesso, nel polo mirandolese, si costruiscono quelli che sono chiamati i «cuori artificiali» e gran parte delle macchine e degli utensili usati nella sale operatorie.
Anche il fondatore del biomedicale ora è lontano da Mirandola. «La mia casa è solida ma è nel centro storico, zona rossa, e così sono stato cacciato fuori. Certo, ragionare e fare presto non è facile, ma dobbiamo riuscirci». Ha costruito aziende comprate poi dalle multinazionali, ne ha costruito altre che sono all´avanguardia nel mondo. «Io dico sempre ai miei colleghi e anche agli operai: fate in modo che le multinazionali abbiano interesse a restare qui. C´è il pericolo, dopo questo disastro, che alcune di loro decidano di migrare altrove. Solo facendo presto e bene impediremo questa fuga. Il biomedicale è un settore delicato. Con le aziende bloccate, non riusciamo a servire i nostri clienti, ospedali in testa. E rischiamo così che questi enti, che non possono restare senza la nostra “merce”, si rivolgano ad altri produttori».
«Rischiamo – dice il sindaco Maino Benatti – di tornare agli anni ‘50». «Rischiamo davvero – racconta Mario Veronesi – di buttare via un lavoro di 50 anni. Non ce lo possiamo permettere, i giovani hanno diritto a un futuro. Quando ho cominciato io, qui c´erano un grande mercato bestiame, un salumificio, uno zuccherificio, una fabbrica di scarpe e una di conserva di pomodoro, e l´officina delle corriere, la Barbi, che era qui in centro». Carlo Barbi è ancora nel grande piazzale della sua fabbrica. «Mi sembra impossibile non potere entrare dentro, controllare, fare qualcosa, ma gli ordini si rispettano». Racconta la storia del nonno Galileo che 105 anni fa aprì l´officina per costruire birocci per i cavalli. Mostra con orgoglio i suoi pullman, che sul mercato costano dai 250.000 ai 300.000 euro. «Vede, noi alla difficoltà siamo abituati, ma questa volta è troppo grossa. Abbiamo lavorato per 25 anni per la Volvo, che poi all´improvviso ha deciso di fare costruire i pullman in Polonia. Abbiamo dovuto valorizzare il nostro marchio, crearci una rete commerciale, trovare i clienti, e ci siamo riusciti. Ci siamo solo noi, in Italia, a costruire pullman. Vede quei telai? Servono per allestire pullman per l´esercito, avevamo avuto la commessa pochi mesi fa. Oggi i danni sono pesanti, e non sappiamo ancora se i piloni centrali hanno retto. Senza un aiuto concreto, stavolta non ce la faremo. Con la Volvo avevo 100 dipendenti, ora ne ho cinquanta. Non posso togliere lo stipendio a 50 famiglie».
È dalle idee dei Mario Veronesi e dei Galileo Barbi che nasce la fortuna di Mirandola, 3,6 miliardi di fatturato nel settore manifatturiero. Biomedicale, alimentare e meccanico danno lavoro a 15.000 addetti. Il danno complessivo all´economia nelle zone del sisma è stimato al momento in due miliardi. Solo nel biomedicale si calcolano perdite per almeno 800 milioni. Sono crollate le ceramiche di Finale Emilia (4,2 miliardi di fatturato nell´intera provincia modenese, con 20 mila addetti), e le aziende come la Barbi fanno parte di quella metalmeccanica che nelle due province terremotate, Modena e Ferrara, supera gli 11 miliardi di fatturato. Sempre nelle due provincie, l´agricoltura produce 1,2 miliardi, l´agroindustria 6,2 miliardi. «Noi i danni non li abbiamo ancora calcolati – dice Giovanni Messori, del caseificio sociale 4 Madonne a Lesignana di Modena – ma sappiamo che sono perdute la metà delle nostre 33.000 forme di parmigiano». La Coldiretti ha fatto ieri una prima stima e i numeri sono pesantissimi: 500 milioni di danni nella food valley dell´intera zona terremotata, Parma, Mantova e Rovigo comprese. Qui, dove si produce oltre il 10% del Pil agricolo, ci sono 600.000 forme di parmigiano e di grana padano cadute dalle «scalere». «Hanno continuato a cadere anche oggi – dice Giovanni Messori – non più a causa del terremoto ma per l´effetto domino: una scalera si appoggia all´altra e i crolli non si fermano. Oggi abbiamo dovuto chiudere il nostro caseificio a Medolla, perché è stato tolto il gas».
L´auto dei vigili passa anche davanti alla B Braun Sharing expertise, settore biomedicale. «Noi non possiamo – dice Giuliana Gavioli, manager di questa multinazionale tedesca – restare fermi del tutto. Dopo la prima scossa siamo andati in un albergo, con i nostri uffici. E dopo tre giorni siamo rientrati in fabbrica, a pulire, tinteggiare… Dopo la scossa di martedì, stiamo montando una grande tenda nel piazzale. Speriamo che ce lo permettano. Se non manteniamo i contatti, se non assicuriamo i clienti, altre aziende negli Usa e nella stessa Germania sarebbero pronti a portarceli via. Abbiamo bisogno di aiuto, è vero. Ma soprattutto di sapere cosa dobbiamo fare, subito. E spero che lo Stato si dia da fare con lungimiranza, per fare capire alle multinazionali che ricostruire qui è nel loro interesse».

La Repubblica 31.05.12

"Le imprese non devono crollare", di Mario Deaglio

Se un nemico avesse dovuto scegliere una zona produttiva da bombardare per provocare, in un territorio limitato, il massimo danno possibile all’Italia, ben difficilmente avrebbe potuto trovare un obiettivo migliore dell’area colpita da due terremoti in rapidissima successione. Sono radicate in queste zone imprese piccole o medie, poco burocratiche e molto vitali, aperte senza traumi alla globalizzazione. Nei recenti anni bui dell’economia italiana, hanno rappresentato il progetto di un futuro possibile per la crescita del Paese, spesso l’unico delineato nei fatti in una società addormentata.

Operano in settori molto diversi con i quali l’Italia cerca di rientrare in un’economia globale in cui corre il rischio di diventare quasi marginale: dalle piastrelle agli apparecchi diagnostici fino alla nuova avventura agricola del parmigiano, proposto in grande stile a un crescente mercato mondiale. Hanno dimostrato di saper combinare con successo organizzazioni di produzione all’avanguardia e organizzazioni di vendita moderne, dal respiro globale.

Il Paese semplicemente non può permettersi di perdere settori come questi in particolare in un momento in cui al terremoto fisico si aggiunge il terremoto finanziario che scuote un’Europa incredula e clamorosamente impotente, assai poco capace di reagire, di fronte all’attacco dei mercati ai titoli dei debiti sovrani. L’Italia dell’economia deve dimostrare di essere più brava dell’Europa della finanza.

Per questo non è proponibile oggi, come è stato il caso per altri episodi sismici anche recenti, commiserare prima di ricostruire, lasciar sedimentare le tendopoli in attesa di riedificazioni più o meno lontane. Nell’economia di oggi, un fermo di 4-6 mesi per imprese e settori lanciati in un’avventura globale può significare perdite di quote di mercato con effetti assai più distruttivi per l’economia di quelli dei capannoni crollati. Il terremoto ha fatto crollare le fabbriche, il dopo-terremoto può far crollare le imprese. Le popolazioni, del resto, dicono chiaramente che le loro priorità sono per la ricostruzione produttiva: sanno benissimo che di lì deriva il loro futuro.

Per uscirne fuori bene, gli italiani devono fare come nel dopoguerra. I programmi di aiuto devono avere tre caratteristiche: priorità alla ricostruzione produttiva e sua estrema rapidità, burocrazia al minimo, finanziamenti immediati. Soprattutto, però, è necessario un quarto fattore: un gioco di squadra tra imprese e lavoratori, banche e amministrazioni pubbliche, governo compreso. Un simile gioco di squadra nelle gravi emergenze è, del resto, tipico della tradizione italiana: nel cruento finale della Seconda Guerra mondiale l’industria automobilistica fu salvata dalla collaborazione di fatto tra la Fiat e i nuovi sindacati, il che non impedì che, terminata l’emergenza, ciascuno tornasse al suo ruolo e le contrapposizioni di interesse riapparissero con grande vigore.

Gli strumenti per agire non mancano: il credito necessario è alla portata del sistema bancario e finanziario italiano, assai più solido di quanto facciano ritenere valutazioni affrettate, e non richiede importanti esborsi pubblici che potranno essere in parte sostituiti da semplici garanzie statali. La voglia di ricostruire è accanita e diffusa e così quella delle amministrazioni di favorire ricostruzione e rinascita. La solidarietà nazionale sembra essersi riaccesa, come dimostrano non solo le sottoscrizioni e i volontari ma anche il favore con cui sono accolte le offerte di acquisto di prodotti delle imprese colpite dal terremoto, a cominciare ai formaggi. Invece che un ulteriore freno all’economia, il dopoterremoto potrebbe diventare un inaspettato strumento di rinascita e di recupero della coesione nazionale.

La Stampa 31.05.12

"C'era una volta l'Europa", di Barbara Spinelli

È colmo di insidie e doppiezze, il modo in cui un gran numero di politici europei, e di economisti, e di esperti, sta prospettando l´uscita della Grecia dalla moneta unica. embra una preparazione razionale al peggio, ma i presupposti di una vera preparazione sono assenti: è del tutto inaudibile una critica autentica degli errori commessi, che corregga alle radici i vizi dell´euro e dell´Unione. Non vediamo che un vacuo oscillare tra falsi allarmi e false sicumere. A volte la secessione di Atene è temuta, per gli effetti finanziari che avrebbe; altre volte sembra in segreto propiziata, accelerata. Non è interpretabile diversamente, ad esempio, la decisione che il Fondo salva-Stati ha preso all´inizio di maggio, quando gli aiuti a Atene sono passati dai concordati 5,2 miliardi di euro a 4,2 miliardi: «un miliardo di olio bollente su una ferita aperta», scrisse Giuliano Amato sul Sole 24 ore del 13 maggio. Stessa apatica indolenza di fronte a un possibile no irlandese al Patto di bilancio (fiscal compact), nel referendum di oggi. Come sempre si correrà dietro la storia, senza farla.
Chi ha gettato la Grecia nel marasma ha volutamente giocato col fuoco, oltre che con un popolo, e ancora sorprende lo stupore causato dal voto del 6 maggio: una maggioranza parlamentare introvabile, il tracollo dei vecchi partiti, la necessità di indire – il 17 giugno – nuove elezioni. Viste le cose come stanno, si comincia a considerare fatale lo sfascio della moneta, e neanche così nefasto. Senza Atene si potrà forse salvare l´Euro, anche se rattrappendolo un po´. Meglio pochi felici – in un´eurozona ripulita – ben sorretti dal muro antincendio (il famoso firewall) che fermerà l´espandersi del male. Si può fare, dicono a Berlino e a Bruxelles: «È governabile».
Quel che inquieta, nei piani d´emergenza allo studio, non è la volontà di erigere muri. Prepararsi a neri scenari è saggezza, in politica, a condizione però che il male sia riconosciuto, detto, e non circoscritto ma proscritto. Altrimenti avremo barriere di carta, come l´esiziale linea Maginot che doveva immunizzare i francesi da assalti nazisti. Tale è l´odierno muro antincendio, e il motivo è chiaro: manca la coscienza che la crisi non è greca ma dell´intera Unione, e per questo il panico che regna ha qualcosa di sinistro. È un panico fatto di leggerezza, di ignoranza storica, di vuoti di memoria colossali. In cuor loro i capi europei sanno di mentire, quando dicono che non ci sarà contagio. Quando esibiscono tranquillità, come se tutto potesse continuare come prima, dopo il crollo greco o il no irlandese. La leggerezza è funesta, perché non è così che l´Europa ritroverà le forze e i cittadini la fiducia.
Chi prospetta un´uscita sopportabile di Atene sta occultandone il prezzo, e non valuta quel che significherebbe la disgregazione dell´euro. Troppo facilmente ci si consola, credendo nella favola che ci si racconta: l´eurozona che sopravviverebbe, l´Unione che resterebbe quella che conosciamo. Nella migliore delle ipotesi vengono enumerate le perdite finanziarie, alcuni evocano perfino una Banca centrale non più solvibile, ma a quel che sta nel fondo del pozzo non si guarda.
Anche economisti illustri giocano con l´Unione come fosse un algoritmo. Paul Krugman dice giustamente che l´euro s´infrangerà, vista la volontà d´impotenza degli Stati, ma subito aggiunge che non sarà il dramma paventato. L´Argentina nel 2001-2002 si sganciò dal dollaro, svalutò il peso, poi formidabilmente si riprese: perché non potrebbe accadere a Atene, e magari a Madrid, Lisbona, Roma? Dov´è scritto che l´Unione crollerebbe, se finisse un euro fatto così male, non sostenuto dalla fusione dei suoi Stati? Si può tornare allo status quo ante. Lo stesso Joschka Fischer, ex ministro degli Esteri, spiega che l´euro non era una necessità economica, ma politica: strategicamente non se ne può fare a meno, ma tecnicamente sì.
Affermazioni simili sono un inganno: non dicono le cose come stanno. Proviamo allora a immaginare quel che succederebbe non solo nel medio periodo ma nel breve, se Atene tornasse alla dracma per poi svalutarla massicciamente. Non avremmo uno scenario argentino, perché Atene non dispone più di una moneta nazionale, e perché il mondo industrializzato è oggi in recessione. Un lungo periodo di transizione sarebbe necessario, per passare alla dracma, durante il quale occorrerebbe bloccare le frontiere, la libera circolazione dei capitali e anche delle persone.
Il trattato di Schengen, che abolisce i confini interni sostituendoli con un´unica frontiera esterna, verrebbe sospeso durevolmente. La svalutazione della dracma – domani della moneta spagnola, portoghese – scatenerebbe guerre commerciali. Anche per la Germania sarebbe una calamità: economica, politica, psicologica. Berlino è oggi una potenza perché leader di una moneta con peso mondiale. Ridotta a custodire il marco diverrebbe ininfluente. «Temo molto meno la potenza della Germania che la sua presente inerzia. Dovete diventare la nazione indispensabile d´Europa e non fallire nella leadership», ha detto il ministro degli Esteri polacco Sikorski in un discorso nella capitale tedesca il 28 novembre scorso. Berlino tornerebbe a esser guardata con rancore. Fischer mette in guardia la Merkel, nell´intervista al Corriere del 26 maggio: «Sarebbe una tragica ironia se la Germania unita, con mezzi pacifici e le migliori intenzioni, causasse la distruzione dell´ordine europeo una terza volta. Eppure il rischio è proprio questo». La stessa cosa hanno detto negli ultimi anni due ex cancellieri: Schmidt e Kohl.
La rovina non sarebbe solo finanziaria. Sarebbe politica, culturale. È inutile evocare sessant´anni di storia europea a rischio, se non si specifica in cosa consista precisamente tale storia. Se non si dice la verità ai cittadini, su quel che perderemmo. Non saranno protetti da Stati nazione che recupereranno la sovranità, perché la sovranità è persa dal dopoguerra. L´euro fu necessario economicamente: non fu creato perché urgeva una penitenza politica dei tedeschi. La chiusura delle frontiere ci cambierebbe antropologicamente: ogni nazione rientrerebbe nel suo misero recinto, gli spiriti si rinazionalizzerebbero, la xenofobia diverrebbe un male banale.
La lunga educazione europea alla mescolanza di culture, alla tolleranza, all´apertura al diverso, si prosciugherebbe per decenni. Già sta accadendo, in un´Europa che ritiene patologico il debito greco e perfettamente sana la tirannide di Orban in Ungheria. Già in Francia Sarkozy ha sbandierato la xenofobia in campagna elettorale. In Grecia già cresce un partito nazista che saluta col braccio teso e promette di installare mine anti-uomo lungo i confini. L´Unione fu inventata contro i nazionalismi razzisti: l´invenzione franerebbe. Così come vacillerebbero le nostre costituzioni, figlie del clima che generò anche l´unità europea. A nulla servirebbe la Carta dei diritti che affianca il Trattato di Lisbona. Né i giudici né gli economisti salveranno, al posto dei politici e di ogni cittadino, la civiltà dell´Unione.
È il motivo per cui non credo che Atene uscirà dall´euro, e non solo perché i vecchi partiti greci risalgono nei sondaggi. Anche se vincesse la sinistra radicale, l´Europa non può permettersi disastri che cambierebbero la fisionomia dei suoi popoli. Molti responsabili lo sanno. Perché non parlano? La Germania si dice pronta a una Federazione. Il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, ha scelto la tribuna di Le Monde, il 26 maggio, per dire che se Parigi scegliesse la via federale e nuove deleghe di sovranità molte cose diverrebbero possibili, compresa la messa in comune dei debiti. Il silenzio di Parigi è rovinoso. Le due rigidità, francese e tedesca, congiurano contro la rinascita dell´Europa.

La Repubblica 31.05.12

"Scuola, l'idea del merito per decreto. Profumo tentato dal blitz in CdM", di Mariagrazia Gerina

Un blitz tentato nel nome del «merito». Anche se non sarà facile per il ministro dell’Istruzione Profumo argomentare «necessità e urgenza» di un provvedimento scritto per introdurre nella scuola italiana novità come lo «studente dell’anno» o la carta «IoMerito». Certo, l’ex rettore del Politecnico di Torino ci tiene molto. Tanto da tentare, in una giornata come quella di ieri, l’accelerazione finale. L’intenzione – ha spiegato Profumo ieri pomeriggio convocando d’urgenza una riunione con i responsabili Scuola e Università dei partiti di maggioranza – è di portare già oggi in Consiglio dei ministri un decreto legge (e non più un disegno di legge come ipotizzato nelle settimane scorse) che raccolga tutti i provvedimenti messi a punto a viale Trastevere in questi mesi per introdurre nella scuola, nell’università e nella ricerca incentivi e meccanismi per premiare il merito. Obiettivo già impugnato come una bandiera dal precedente governo, all’epoca della riforma Gelmini sull’università. Eppure, a ben vedere, è proprio quella riforma che il decreto che Profumo si accinge a portare in Consiglio dei ministri va a correggere. Specie nell’ultima versione che cancella, in sostanza, all’articolo 9, l’abilitazione nazionale, cuore della riforma Gelmini, che sembra non averla presa troppo bene. Al posto dell’abilitazione da lei prospettata, da qui al 2015 verrà sperimentata un’altra forma di reclutamento dei docenti. Saranno i singoli atenei a bandire i concorsi per associato e saranno commissioni composte prevalentemente da esterni a valutare, concorso per concorso, se il candidato ha i requisiti definiti dall’Anvur. Una rivoluzione copernicana. Che riporta il reclutamento all’interno dei singoli atenei ma contemporaneamente lo consegna nelle mani di commissioni composte da due ordinari interni, due esterni sorteggiati da una lista di eccellenze, e un terzo chiamato da una università di un paese Ocse. Il fatto stesso che Profumo abbia deciso di intervenire su questo punto «certifica il fallimento della riforma Gelmini, che sta bloccando da quasi quattro anni l’università», fa osservare Marco Meloni, responsabile Università del Pd. Altro elemento di novità rispetto alla prima versione anticipata dieci giorni fa dall’Unità riguarda i ricercatori precari. Qualora ottengano un assegno di ricerca potranno svolgere anche attività didattica. «Cosa che non apprezziamo affatto, perché gli assegni di ricerca dovrebbero essere superati e sostituiti da un contratto unico a tempo determinato », spiega ancora Meloni. L’altra metà delle novità riguarda la scuola e va dalle olimpiadi di matematica, fisica, filosofia, italiano, etc., al «borsellino elettronico» da consegnare allo «studente dell’anno», un solo studente per scuola, il più meritevole, scelto tra quanti prenderanno alla maturità il massimo dei voti, al Portfolio degli studenti, che le aziende potranno sfogliare per proporre eventuali stage. Rispetto a una prima versione, sono stati introdotti alcuni correttivi. Si parla per esempio di scuola «competitiva» e non di scuola «selettiva», spiega Francesca Puglisi, responsabile Scuola del Pd, che però ha abbandonato la riunione di maggioranza. «È l’impianto che non condividiamo», spiega Puglisi, richiamando l’articolo 34 della Costituzione che riguarda sì i meritevoli ma «privi di mezzi». «Crediamo – osserva Puglisi – che in questo momento le priorità siano altre: le scuole terremote, la lotta alla dispersione scolastica, il tempo pieno, la scuola dell’infanzia. Se si hanno delle risorse, anche poche, è su queste cose che bisogna investire». E sul diritto allo studio. Concetto che diventa antagonista del merito premiato con le risorse sottratte a chi ha meno. Il Pd è stato piuttosto chiaro nel manifestare le sue contrarietà. L’ex ministro Gelmini anche. Tanto che ieri sera nell’ordine del giorno del Consiglio dei ministri non c’era traccia del decreto per il merito. Resta solo da vedere se all’ultimo Profumo riuscirà a inserirlo «fuori sacco».Anche se la giornata convulsa e il terremoto in Emilia suggerirebbero che altre sono le «necessità» e le «urgenze».

l’Unità 30.05.12

"Non sono esodati Martone nega deroghe per i prof", di Franco Bastianini

Doccia fredda sui circa seimila dirigenti scolastici, docenti e personale educativo, amministrativo, tecnico ed ausiliario che, maturando entro la fine dell’anno scolastico 2011/2012 i requisiti anagrafici e contributivi richiesti dalla normativa previgente l’entrata in vigore della riforma Fornero, speravano in una deroga alle disposizioni contenute nel predetto articolo che consentisse loro di accedere al trattamento pensionistico a decorrere dal 1° settembre 2012.

Il governo, attraverso le parole del vice ministro del lavoro e delle politiche sociali, Michel Martone, pronunciate in sede di risposta ad una apposita interrogazione parlamentare sulla disciplina previdenziale del personale del comparto scuola, ha precisato che tutte le deroghe in materia sono state previste a protezione dei soggetti che, con l’entrata in vigore delle nuove disposizioni, si sarebbero trovati privi di retribuzione e di pensione. Non sussistono invece specificità di carattere previdenziale del comparto scuola tali da giustificare una regolamentazione differenziata rispetto alla generalità dei lavoratori, a parte l’obbligo di accedere al pensionamento il 1° settembre di ogni anno.

L’eventuale slittamento al 31 agosto 2012 dei tempi per la maturazione dei requisiti per l’accesso alla pensione richiesti dalla previgente normativa (per la pensione di vecchiaia degli uomini, 65 anni di età e 61 anni per le donne entrambi con almeno 20 anni di contribuzione; per la pensione anticipata la quota 96), risulterebbe inoltre, stando al significato letterale delle parole pronunciate dal vice ministro, asistematico e necessiterebbe di una specifica iniziativa legislativa con individuazione di idonea copertura finanziaria.

da ItaliaOggi 30.05.12

Ghizzoni eletta Presidente Commissione Cultura e Istruzione: "in primo piano ricostruzione in zone sisma"

“Sono felice per l’ampia convergenza raggiunta dai gruppi parlamentari sul mio nome e per il risultato del voto”. Cosi’ la democratica Manuela Ghizzoni commenta la sua elezione a presidente della commissione Cultura di Montecitorio. “Svolgero’ questo prestigioso incarico con grande senso di responsabilità – aggiunge Ghizzoni – ricercando, ogni volta, la piu’ ampia convergenza e condivisione sugli ambiti di competenza della commissione. La sostanziale unanimita’ raggiunta e’ sicuramente un buon auspicio per l’importante lavoro che dovremo svolgere da qui alla fine della
legislatura. Non manca molto, ma sono ancora tanti i provvedimenti che devono essere conclusi e le nuove sfide a cui saremo chiamati a dare risposte. A partire dalla necessita’ di aiutare e sostenere il governo nelle scelte per la ricostruzione del patrimonio storico artistico e dell’edilizia scolastica nelle zone colpite dal sisma, con l’ambizione, nell’ultimo caso, che a settembre l’anno scolastico possa iniziare regolarmente anche in quei territori”.

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Ghizzoni nuova presidente commissione Cultura: soddisfazione e speranza
Francesca Puglisi, responsabile Scuola PD, esprime il proprio compiacimento e quello del Partito Democratico per l’elezione della parlamentare, cui sono riconosciute competenza e capacità di lavoro. Dichiarazione di Francesca Puglisi, Responsabile Scuola Segreteria nazionale PD. Saluto con gioia e soddisfazione l’elezione di Manuela Ghizzoni a presidente della Commissione Cultura e Istruzione della Camera dei Deputati. La sua competenza e la sua capacità di lavoro sono unanimemente riconosciute, così come la sua disponibilità e la sua capacità relazionale.

Da parte del Partito Democratico assicuriamo piena collaborazione, affinché si possa finalmente guardare con più fiducia alle politiche per l’istruzione, le uniche che potranno consentire al nostro Paese di rialzare la testa dopo questa lunga e drammatica congiuntura negativa.