Latest Posts

Disoccupati record “In Italia sopra il 10%”, di Roberto Giovannini

Sempre meno offerte Con gli imprenditori in crisi, in Italia diminuiscono le offerte dei posti di lavoro in quasi tutti i settori. Dati preoccupanti per un Primo Maggio in cui il lavoro per molti è un miraggio. Confermando sostanzialmente i recenti dati dell’Istat, ieri l’Ilo (l’Organizzazione internazionale del Lavoro, l’agenzia Onu che si occupa appunto del lavoro) ha diffuso il suo report. La scheda che illustra la situazione italiana evidenzia così un crollo del mercato del lavoro nel quarto trimestre del 2011.

Con un tasso di disoccupazione «ufficiale» che raggiunge quota 9,7% (pari a 2,1 milioni di persone che cercano e non trovano un impiego). Ma che considerando i 250mila lavoratori in cassa integrazione potrebbe anche superare la soglia del 10%. Scende anche il tasso di occupazione nella fascia 15-64 anni, al 56,9%.

In più, dice sempre il report Ilo, bisogna fare i conti con l’«allarmante» situazione dei cosiddetti Neet, ovvero le persone Not in Education, Employment or Training, cioè che non studiano, non lavorano e non sono neanche in formazione. Si tratta di quasi 1,5 milioni di italiani. Per quanto riguarda i giovani, la disoccupazione risulta pari al 32,6%, più che raddoppiata dall’inizio del 2008.

I lavoratori che non cercano più lavoro perché «scoraggiati» hanno raggiunto il 5% del totale della forza lavoro, mentre i disoccupati di lunga durata rappresentano il 51,1% dei disoccupati totali. «Seri problemi» esistono anche riguardo alla qualità dei posti di lavoro creati. Dall’inizio della crisi, la proporzione dell’occupazione a tempo determinato e a tempo parziale è aumentata fino a raggiungere rispettivamente il 13,4% e il 15,2% dell’occupazione totale.

Inoltre, il 50% del lavoro a tempo parziale e il 68% del lavoro a tempo determinato non è frutto della libera scelta dei lavoratori, ma è una condizione imposta dall’impossibilità di trovare un impiego migliore e più stabile. Nel suo rapporto generale l’Ilo non manca di sottolineare come le recenti misure di austerità rischino «di alimentare ulteriormente il ciclo di recessione e di rinviare ancora l’inizio della ripresa economica e il risanamento fiscale».

Infatti, la ripresa viene frenata dalla contrazione del consumo privato; e «tale contrazione è aggravata dal fatto che gli stipendi crescono meno velocemente rispetto all’inflazione». La priorità secondo l’agenzia Onu è quella di «trovare un equilibrio sostenibile tra risanamento fiscale e ripresa dell’occupazione. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, infine, nel 2012 la disoccupazione nel mondo colpirà 202 milioni di individui proprio a causa dei contraccolpi delle misure di austerità messe in atto in diversi paesi. Nel 2013 il tasso mondiale sarà del 6,3%.

Numeri allarmanti in un Primo Maggio pesantemente segnato da una crisi, iniziata nel 2008 e di cui, dopo più di quattro anni, non si vede la conclusione. «Sarà il primo maggio – dice il leader della Cgil Susanna Camusso – di un Paese in cui le persone sono sempre più preoccupate della disoccupazione, della difficoltà di reggere con il reddito a disposizione. Ma non c’è un declino ineluttabile, non ci rassegniamo».

Il segretario della Cisl Raffaele Bonanni esprime preoccupazione per la «miscela esplosiva» che si sta creando. «La gente – spiega è stanca di fare sacrifici, senza un segnale altrettanto chiaro da parte delle istituzioni e della politica. Vogliamo un patto per la crescita in cui tutti facciano la propria parte per favorire il rilancio degli investimenti». «Il principale messaggio – conclude Luigi Angeletti, leader della Uil – è che bisogna ridurre le tasse sulle buste paga, lo strumento più importante per evitare l’acuirsi della recessione e quindi della perdita dei posti di lavoro».

La Stampa 01.05.12

"La nostra festa", di Claudio Sardo

La festa del lavoro nel tempo della crisi più profonda, e socialmente drammatica, del dopoguerra. Mentre si diffondono paure e sfiducia, le istituzioni democratiche paiono impotenti di fronte ai mercati, le speranze di cambiamento faticano a incarnarsi in comunità politiche.
Ma il 1° maggio è una festa speciale. Perché esprime innanzitutto una lotta comune. Una battaglia che non si fermerà, essendo parte della dignità dell’uomo. Una rete di solidarietà che viene prima e dà ragione ad ogni progetto di rinnovamento.

Il lavoro è il fondamento della Repubblica italiana. I costituenti potevano scrivere altrimenti l’articolo 1 della nostra Carta. Invece hanno deciso così. E ora il lavoro per noi è l’obiettivo primario, il volto umano di ogni programma di risanamento e di crescita, la priorità necessaria nella traversata di questa crisi. Purtroppo i numeri del lavoro in Italia sono drammatici. I tassi di occupazione sono sempre stati bassi. Ma oggi raggiungiamo cifre insostenibili: soprattutto per le donne e per i giovani. Siamo in coda alle classifiche dell’Unione europea. E le ricette rigoriste – che fino a ieri venivano presentate come indiscutibili e che ancora oggi, benché criticate, restano il paradigma delle politiche correnti – ci spingono ancora più a fondo.
L’Italia, anzi l’Europa – perché è questa la dimensione che può consentire una reazione adeguata alla crisi economica – deve rimettere al centro della propria azione e della stessa competizione politica il tema della crescita, dello sviluppo sostenibile. Non stiamo parlando di teorie economiche, benché i disastri del liberismo siano ormai evidenti. Stiamo parlando di persone in carne e ossa: di fabbriche che chiudono, di pensionati che non hanno soldi per mangiare, di famiglie che vivono nella povertà, di esodati senza lavoro e senza pensione, di giovani a cui viene rubato il futuro.La misura della crescita, come la misura dell’equità, è il lavoro. Il riconoscimento del diritto al lavoro delle persone. Il lavoro come piena cittadinanza. Si può dire ancora così? O dobbiamo rassegnarci all’idea che la disoccupazione sia una condizione ineliminabile, magari persino utile alla competitività del sistema?
La nostra Costituzione non è solo la cornice di un ordinamento. È un patrimonio di valori, che contiene tuttora linee guida a cui sarebbe bene ispirarsi. Sappiamo perché, negli anni dell’egemonia della destra, qualcuno ha cercato di snaturarla. Per fortuna l’attacco non è riuscito, anche se abbiamo perso molto sul terreno sociale e culturale. Ora il lavoro deve tornare al centro di un programma di riscatto e di cambiamento. Non si tratta di arroccarsi ai presidi rimasti, nella società o nei codici. La difesa è possibile solo dentro una sfida sulla qualità, la creatività, l’innovazione, dunque anche la competitività di sistema. Ma si tratta di intendersi: la qualità è figlia di un modello sociale e culturale, non è slegata al valore che si dà alla persona. Il fine della politica, come dell’azione sindacale, resta la persona. Dunque il lavoro, che ne garantisce la dignità di cittadino e che dà corpo al diritto.
Celebriamo questo 1° maggio in un passaggio importante. Nelle prossime settimane si voterà in molti Paesi europei. A partire dalla Francia domenica prossima. E dall’Italia, con il primo turno delle amministrative. Una svolta è possibile. Le politiche liberiste possono, debbono essere cambiate. Ovviamente bisognerà combattere. Per costruire, per rafforzare le reti unitarie e di solidarietà. Unità dei progressisti europei attorno a un programma comune. Unità d’azione dei sindacati confederali per smentire chi vuole fare a meno dei corpi intermedi. Unità tra le forze del lavoro, le imprese, la ricerca che vogliono tenere l’Italia in serie A.
Il governo dei tecnici è ora al lavoro sui tagli alla spesa pubblica e ha chiamato ieri altri «tecnici» all’opera. Ci sono tagli utili e buoni propositi, ma non tutti i tagli sono di per sè buoni. Ci vuole equità. E soprattutto una nuova idea di pubblico. Che condizionerà la prova decisiva: quella degli investimenti, senza i quali la crescita sarà impossibile.
Oggi comunque festeggiamo. L’Unità esce con la testata rossa, come in altri 1° maggio. Il rosso è il colore iscritto nella sua storia. Ma il rosso è anche uno dei colori della nostra bandiera, un tratto nazionale. Per noi, per il giornale, quest’anno la festa è ancora più speciale. Perché stiamo preparando un nuovo formato, una nuova versione grafica, che debutterà in edicola lunedì 7 maggio. Vogliamo «tornare grandi» per raccontare meglio la società e per essere uno strumento al servizio di chi vuole che in Italia e in Europa si cambi rotta. Nel senso del lavoro. Più lavoro, più qualità del lavoro. Ovviamente cercando di unire gli innovatori.

l’Unità 01.05.2012

******

«Ora basta con i tagli. Intervento pubblico per la ripresa del Paese», di Rinaldo Gianola

Susanna Camusso non ha dubbi: «La politica dei tagli del governo Monti ci porterà altri guai, l’idea che le riforme strutturali suscitino automaticamente il risanamento e lo sviluppo non sta in piedi. Aiutiamo il Paese, salviamo il lavoro, le imprese, ridiamo dignità all’intervento pubblico in economia. Lo ha fatto Obama in America, perché non possiamo farlo noi?». Il Primo Maggio, una delle nostre belle feste civili, arriva in un momento difficile: siamo al quarto anno di crisi, la disoccupazione continua a crescere, la spesa familiare raggiunge livelli record, aumentano le bollette e presto c’è l’Imu da pagare. La festa del lavoro è l’occasione per riflettere con il segretario della Cgil sulle condizioni della nostra Italia, sulla qualità della democrazia, sui valori politici, culturali e sociali in cui ancora si riconoscono i lavoratori, i pensionati, le famiglie che sopportano con responsabilità il peso dei sacrifici per salvare il Paese.

Segretario Camusso, parliamo tanto di lavoro ma c’è la netta sensazione che abbia perso valore e importanza nella nostra società. È così? «In questi anni è passato un messaggio tutto politico che solo il denaro dà forza, solo i soldi, l’arricchimento individuale garantiscono il successo e per raggiungere questo obiettivo vanno bene le scorciatoie, le furbizie, le protezioni dei potenti, l’evasione fiscale. Chi lavora onestamente, il disoccupato, le donne e i giovani in difficoltà sono colpevolizzati da una “cultura” aberrante che nega la solidarietà, la giustizia sociale, l’aspirazione a diritti fondamentali. Il disvalore del lavoro rende più grave la crisi e accentua drammaticamente le diseguaglianze tra chi sta meglio e chi sta peggio ».

Come ne usciamo? «La Cgil combatte una battaglia perché sia chiaro che il modello economico adottato in Europa e che fa proseliti in Italia è sbagliato e ha fallito. Il neoliberismo ha determinato la crisi in America e noi l’abbiamo copiato, ne abbiamo fatto una versione un po’ raffazzonata che mina le basi dell’Unione Europa. Oggi aumentano pericolosamente la distanze e i conflitti tra i Paesi europei, anziché procedere verso un processo integrativo viene alimentato un disegno disgregativo dell’Europa. La signora Merkel ragiona come se le stessero rubando la merenda. Speriamo nella svolta in Francia. È ora di riscoprire il valore della vecchia mediazione tra capitale e condizioni di vita delle persone che ha consentito al Vecchio Continente di crescere e di vivere in pace. Questo impegno è ancora più urgente per il nostro Paese che ha bisogno di una riscossa morale per fronteggiare un degrado anche civile ormai insopportabile».

In questo degrado inserisce anche la violenza sulle donne? «Certamente. La violenza che vediamo così chiaramente in questi giorni è il risultato di un deterioramento profondo della nostra convivenza, delle relazioni tra uomini e donne, in cui la stagione del berlusconismo ha avuto un ruolo decisivo. Il messaggio dell’egoismo individualista, del “liberi tutti”, che non ci sono regole da rispettare, è passato in profondità e non è casuale che le prime vittime siano le donne. Parallelamente a questi fenomeni drammatici c’è un’offensiva politica e sociale contro le donne, il diritto alla maternità e al lavoro ».

A che cosa si riferisce? «A interventi legislativi che danno il senso di una guerra alle donne. Siamo partiti dalle dimissioni “in bianco” e siamo arrivati a discutere dei costi della maternità responsabile, delle donne che non hanno la testa per il lavoro, che in un momento di crisi le donne possono stare a casa… Se rimetti in circolo queste idee crei le condizioni per avvelenare la società, per far vincere sempre il più furbo e il più forte. E le donne sono deboli, hanno bisogno della battaglia del movimento, del sindacato, della politica seria».

Non è arrivata l’ora di riscoprire l’intervento pubblico in economia? «In Europa si sono salvate le banche con i soldi pubblici che, però, non si possono usare per il lavoro, per mantenere il tessuto industriale, per difendere quote di sviluppo. C’è una patologia che impedisce l’indispensabile svolta: è la teoria che il privato sia sempre meglio del pubblico, che l’assicurazione e la sanità privata siano i modelli da perseguire così si può smantellare il welfare statale. Poi ci troviamo i buchi di don Verzè e le curiose vicende di Formigoni».

Dopo quattro anni di crisi che cosa la preoccupa di più? «La deriva sociale, il rischio che la rassegnazione e la paura spingano molti alla disperazione. Questi elementi, purtoppo, ci sono. Però vedo che la gente, i lavoratori, i disoccupati, gli esodati hanno voglia di lottare. Il sindacato mantiene la sua credibilità, la capacità di stare vicino alla gente che soffre. E la Cgil mantiene alta l’attenzione sui diritti, sulla condizioni di lavoro, sulla democrazia in fabbrica. Deve essere chiaro che non arretreremo sull’articolo 18».

Si nota una ripresa di collaborazione tra Cgil, Cisl e Uil. A che punto siamo? «Il movimento sindacale, pur con tutti i difetti, tiene un alto profilo di fronte all’emergenza. Con Cisl e Uil lavoriamo a livello nazionale e sul territorio per fronteggiare gli effetti della crisi. Penso che dovremo fare una proposta unitaria sul fisco al governo perché non è tollerabile che lavoratori e pensionati paghino il prezzo più alto. Noi della Cgil, poi, pensiamo che lo sciopero generale abbia ancora un valore».

Monti cambierà politica? «Non mi pare. Però le persone intelligenti possono capire i problemi e le ansie di tanta gente, e possono cambiare idea».

Segretario, il suo primo ricordo della festa del lavoro? «Il “mio” Primo Maggio nella memoria è Luciano Lama sul palco in piazza del Duomo a Milano che annuncia la liberazione di Saigon. Che felicità! Era il 1975, allora non c’era Internet ».

l’Unità 01.05.12

"La fine del Nirvana", di Massimo Giannini

«NON tirerò a campare», aveva promesso Monti il 26 aprile, con una sorprendente parafrasi del vecchio motto andreottiano. Da allora è passato poco più di un mese. E il presidente del Consiglio, in effetti, ha dato al Paese e al Palazzo l’impressione di una preoccupante deriva dorotea. Fiaccato dalla dolorosa polemica sulla riforma del mercato del lavoro, bersagliato dalla velenosa Vandea fiscale cavalcata dai populisti di ogni colore, logorato dallo speculare ritorno di fiamma dei partiti, il premier ha rischiato un pericoloso galleggiamento.

Per questo, da giorni, si aspettava un colpo d’ala, che riportasse il «governo di impegno nazionale» all’altezza del suo compito e l’Italia in sicurezza sui mercati internazionali. Proprio nella settimana in cui è risuonata l’eco sinistra delle elezioni anticipate, quel colpo d’alaè finalmente arrivato. Il varo della «spending review» messa a punto dal ministro Giarda, e la nomina di Enrico Bondi come commissario straordinario per la razionalizzazione della spesa pubblica, segnano una svolta radicale nel cammino del risanamento e nel destino del governo. Cambia la quantità dei sacrifici finanziari che saranno richiesti agli italiani di qui al 2013. Cambia la qualità dei rapporti politici che accompagneranno la strana maggioranza fino al termine della legislatura.

Dal punto di vista economico, l’operazione di taglio della spesa corrente «comprimibile», cioè quella che non riguarda pensioni, stipendi e costo degli interessi sul debito, sancisce un’inversione di rotta attesa da anni. Dopo una manovra fin troppo infarcita di aumenti di imposta, il Professore trova il coraggio di compiere l’atto più politico che esista: incidere con il bisturi sul corpo amorfo della spesa improduttiva, nella quale si annidano non solo gli sprechi, ma anche e soprattutto le rendite di sottogoverno e le clientele partitiche ed elettorali.

Una missione che tentò meritoriamente, e purtroppo inutilmente, Tommaso Padoa-Schioppa, e che ora torna d’attualità con un obiettivo arduo ma ambizioso: risparmiare 4,2 miliardi in soli sette mesi.

Si poteva osare di più? È possibile.

Nel lungo periodo, la spesa «non incomprimibile» è cifrata da Monti in 295 miliardi. Nel breve, è stimata in 80 miliardi. I tagli potenziali, dunque, sono tanti. Ma l’importante è cominciare, e non rassegnarsi all’inerzia degli inasprimenti fiscali, né cedere al ricatto conservativo delle amministrazioni. E a questa impresentabile destra italiana, che ora si indigna per la nomina di Bondi sostenendo che non serve il «tecnico dei tecnici» per ridurre i costi del Leviatano statale, bisognerà pur chiedere dov’era e cosa faceva, mentre governava il Paese per quasi undici anni sugli ultimi diciotto, e la spesa corrente cresceva indisturbata del 34 per cento.

Il grande risanatore dei crack Ferruzzie Parmalat avrà un compito difficile,e quasi proibitivo. Ma se c’è una chance di farcela, Bondi è l’uomo giusto. Competenza e coraggio non gli mancano. Per piegare le resistenze partitocratiche e burocratiche avrà bisogno di un sostegno granitico del governo che lo ha nominato, e di un appoggio politico delle parti sociali e delle forze più responsabili presenti in Parlamento. La stessa cosa vale per gli altri «consulenti» scelti dal premier, da Francesco Giavazzi che dovrà monitorarei tagli degli aiuti alle imprese, a Giuliano Amato che dovrà occuparsi del finanziamento ai partiti. È nell’interesse dell’Italia e dei contribuenti, che la «spending review» abbia successo. Solo così sarà possibile scongiurare l’aumento di due punti dell’Iva, già programmato per ottobre, e magari trovare risorse aggiuntive da restituire alle famiglie.

Dal punto di vista politico, la svolta di Monti è ancora più netta. La revisione dei criteri di spesa, per il premier, è l’occasione per regolare qualche conto sospeso con chi, nelle piazze o nelle aule di Montecitorio, in questi giorni ha irresponsabilmente gettato benzina sul fuoco della protesta anti-tasse. Il decreto Salva-Italia è troppo sbilanciato dal lato delle imposte, che assorbono i due terzi dell’intera manovra correttiva. La pressione fiscale è a livelli eccezionalmente alti, e crescerà ancora l’anno prossimo fino al livello record del 45,4 per cento del Pil. Ma in questo clima di perdurante instabilità finanziaria in Europa, e di destabilizzante tensione sociale in Italia, quello che sta facendo la destra è vergognoso, oltre che pericoloso.

La Lega di Maroni, il barbaro sognante che si spaccia «moderato», sobilla i comuni a non pagare l’Imu.

Il Pdl di Alfano, il segretario di Berlusconi che si proclama «responsabile», propone a chi ha pagamenti in sospeso dalla Pubblica Amministrazione di compensarli non versando le imposte fino ad esaurimento del suo credito. Mancava solo Giulio Tremonti, l’ex ministro dei condoni e dei tagli lineari, a lamentare «tasse e aumenti» e a evocare «un buco da 20 miliardi». Parole usate come pietre, in un discorso pubblico già fin troppo esasperato, da chi ha governato in questi ultimi tre anni e mezzo, e ha portato il Paese a un passo dalla bancarotta etica, politica ed economica. Guido Carli,a suo tempo, li avrebbe definiti «atti sediziosi». Oggi, più prosaicamente, possiamo definirli penosi esercizi di bassa demagogia, in cui si mescolano cinismo, opportunismo e «peggiorismo». Monti finalmente sbatte in faccia a questa sciagurata destra forzaleghista tutto il peso delle sue responsabilità storiche. Marca una cesura definitiva con Berlusconi, smascherando le sue nefandezze sui campi che gli sono da sempre più cari. Sulle tasse, gli ricorda le disinvolte campagnea favore dell’evasione e l’allegra cancellazione dell’Ici che oggi rende necessaria le reintroduzione dell’Imu.

Sulla giustizia, gli ricorda la «corruzione dilagante», cioè la vera «tassa occulta» che soffoca l’economia.

Sulle televisioni, gli ricorda lo scempio della Rai, del tutto priva di «logiche di trasparenza, merito e indipendenza dalla politica».

Anche solo per questa operazione-verità, gli italiani devono essere grati al Professore. Comunque vada, avrà avuto il merito di aver spazzato via il bugiardo «Nirvana» nel quale ci ha trascinato, per troppi anni, il Cavaliere.

La Repubblica 1 maggio 2012

*******

“Mister Forbici, da Parmalat ai ministeri”, di ETTORE LIVINI

NON c’è due senza tre. E così dopo aver risanato Montedison e salvato Parmalat, Enrico Bondi – all’alba dei 77 anni – affronta la più impossible delle sue mission: far quadrare i conti della Governo Spa. Obiettivo: ridurre di 5 miliardi le spese dei ministeri per risparmiare agli italiani un altro aumento dell’Iva.

IL METODO? Lo stesso che ha funzionato a Foro Buonaparte e Collecchio, trasformandolo in una sorta di Croce Rossa in servizio permanente per i casi più disperati dell’industria italiana: poche parole («non ho niente da dire», sono le uniche che ha rivolto ai giornalisti in cinquant’anni di carriera)e molti fatti. Conditi da uno stile di vita riservato e monacale al cui confronto persino il sobrio Mario Monti rischia di passare per un Fabrizio Corona della politica. All’Italia, del resto, le chiacchiere non servono. «Ringrazio per la fiducia, cercherò di essere incisivo», ha promesso ieri Bondi. Nessuno ne dubita. Le forbici della spending review – assicura chi ha lavorato con lui – non potevano finire in mani più esperte. Il compito, ovviamente, è titanico. Ma per il super-risanatore è una sorta di déjà vu.

Montedison e Parmalat erano una versione bonsai del Belpaese di oggi: sane, ma zavorrate dai debiti e sull’orlo del crac. Situazioni da brividi che “Il dottore” – come l’hanno sempre chiamato tutti i suoi collaboratori – ha aggredito a modo suo: zero proclami, maniche rimboccate e poi via di bisturi senza guardare in faccia nessuno. Particolare che ha già fatto scattare qualche campanello d’allarme nei corridoi dei ministeri capitolini.

Poco male. Molti nemici, molto onore. E il manager-contadino (nel week-end innesta rosee coltiva ulivi nella tenuta “Il matto”) nonè tipo da impressionarsi facilmente. Quando nel 1993 Enrico Cuccia gli ha affidato le redini di una Montedison disastrata dalla gestione Ferruzzi, il benvenuto di Guido Rossi – allora presidente di Foro Buonaparte – è stato gelido: «Bondi? È la brutta copia di un cattivo esempio», l’ha fulminato ricordando il legame con il mentore Cesare Romiti. Il seguito è storia.

Il dottor mani di forbice ha tirato dritto per la sua strada dribblando i sarcasmi del professore. Ha venduto le controllate in crisi, tagliato i costi, messo all’asta quadri e yacht della famiglia di Ravenna, riposizionato la società sull’energia. Uscendo di scena nel 2001 quando il fior fiore della finanza italiana (ed europea) si è dato battaglia a colpi di Opa miliardarie per comprare la Montedison risorta dalle sue ceneri. Bondi tace, ma i numeri parlano per lui: l'”artista delle ristrutturazioni” – copyright The Economist – è arrivato in società con il titolo a 10 lire e se ne è andato con le azioni a quota 5.500 dopo che l’azienda è finita ai francesi di Edf.

Il copione è andato in scena in fotocopia due anni più tardi quando – dopo un rapido passaggio in Telecom Italia, Lucchini e Premafin – Bondi è sbarcato in Emilia per salvare Parmalat.

Missione forse più disperata della spending review romana.

«È il commissario delle banche!», si sono lamentati i puristi del mercato. Lui ha fatto orecchie da mercante, ha dedicato un paio di settimane a pagare in contanti (all’alba) le autobotti di latte all’ingresso della fabbrica di Collecchio per non interrompere forniture e produzione. Ha isolato il bubbone – i 14 miliardi di buco dei Tanzi – dall’industria, convinto il Parlamento ad approvare una legge (la Marzano) su misura per salvare la società e limato il limabile per far quadrare i conti. Poi, alla faccia dell’uomo delle banche, è partito all’assalto degli istituti di credito con una serie di cause miliardarie da cui ha incassato 2,3 miliardi, girati a stretto giro di posta ai risparmiatori travolti dal crac. Risultato finale: Parmalat c’è ancora, non è stato perso un posto di lavoro e i bond-people di Collecchio hanno recuperato fino al 60% del loro capitale quando i francesi di Lactalis hanno messo sul piatto 6 miliardi per scalare la società.

Ai grandi numeri – è la lezione di Bondi – si arriva anche con piccoli risparmi. E il buon esempio deve arrivare dall’alto. Lui stesso è una sorta di manuale vivente dell’arte della spending review. In Telecom ha rinunciato all’auto blu per una Punto bianca. Per il Governo lavorerà gratis («spero di convincerlo a prendere un rimborso spese di 150mila euro l’anno», ha fatto sapere ieri il premier). A Collecchio, dove ha assunto il figlio di Mario Monti, guadagnava tra 320mila e 550mila euro l’anno, un decimo delle buste paga di molti ad delle aziende pubbliche quotate. Tempera le matite con cui scrive fino a ridurle a moncherini di tre centimetri. E le eleganti cartellette in cuoio verde nella sala dei cda della società emiliana sono le stesse fatte fare dai Tanzi per la vecchia Parmalat Finanziaria. Riciclate dal super-risanatore cancellando con il raschietto quella parola (Finanziaria) sparita oggi dalla ragione sociale. «Meglio un ducato in borsa che dieci spesi male», ripete spesso lui, citando il suo corregionale Francesco Guicciardini.

Dopo l’ultima assemblea Parmalat, quella dell’addio, ha salutato tutti con un discorso asciutto – «lascio un’azienda migliore di quello che ho trovato» – uscendo di scena al volante di una piccola Panda grigia, rigorosamente energy-saving.

L’uomo, ovviamente, ha i suoi difetti. Un carattere molto ruvido (resta da vedere se è un lato negativo), la nomea di risanatore implacabile incapace di far crescere le aziende salvate. Alla Roma dei tecnici, però, basta e avanza il suo lavoro di forbici.

Sperando che l’Italia Spa si salvi come è successo a Parmalat e Montedison. Evitando, se possibile, scalate francesi.

La Repubblica 1 maggio 2012

"Una lapide per ricordare il Duce. Vergogna a Giulino di Mezzegra", di Massimo Franchi

Fascisti vivi e vegeti nel Comasco. Con perfino un prete a benedire loro e la lapide nel luogo dove furono fucilati Benito Mussolini e Claretta Petacci del 28 aprile del 1945.. È successo ieri a Giulino di Mezzegra. A sessantasette anni esatti dalla sentenza di morte decisa dal Comitato di Liberazione Nazionale, la sedicente Unione nazionale combattenti della Repubblica sociale italiana ha pensato bene di celebrare la memoria del (loro) Duce e della sua amante con un cippo di marmo che raffigura un libro aperto con le due effigi in cui Mussolini e la Petacci sono ritratti in abiti civili.

L’Unità 30.04.12

Si tratta del secondo tentativo, visto che anni fa gli stessi fascisti appesero una croce nera con il nome del duce sul vicino muro della casa dove Mussolini e la Petacci trascorsero l’ultima notte. In corteo, con una bandiera tricolore con al centro un’aquila, circa duecento nostalgici vestiti quasi tutti con la camicia nera hanno raggiunto il luogo, e quando è stato chiamato ad alta voce il nome di Benito Mussolini, hanno risposto tre volte “Presente”, facendo il saluto romano. Dopo il “silenzio” intonato da un ex bersagliere, la lapide è stata benedetta da don Luigi Barindelli, parrocco di Mezzagra, che quest’anno non ha celebrato la messa per i reduci della Repubblica sociale per l’anniversario della morte di Mussolini.

La manifestazione è stata organizzata anche per celebrare il centesimo compleanno di Mario Nicollini, un reduce della Rsi, che ogni anno il 28 aprile organizza la commemorazione del duce. Proprio Nicollini, che ieri non era presente, ha inviato un messaggio nel quale si è detto felice che sulla lapide ci sia anche la fotografia della Petacci. L’iniziativa è stata avallata dal sindaco del paese, la leghista Claudia Lingeri con l’incredibile motivazione che «la lapide non fa riferimenti espliciti all’epoca fascista». Lo stesso sindaco ieri era presente alla celebrazione. All’Anpi, l’Associazione dei partigiani, che aveva chiesto di mettere sulla strada, al posto del cartello piuttosto ermetico che indica semplicemente “Fatto storico 1945”, un’indicazione più esplicita del luogo che ha segnato la fine della dittatura fascista, l’amministrazione comunale ha risposto “No” con la scusa di questioni formali, legate alla cartellonistica stradale e al fatto che l’indicazione rientra in un percorso tra i luoghi che hanno segnato la fine del fascismo voluto dall’amministrazione provinciale. Sabato invece a Lecco, sul luogo della fucilazione di 16 tra ufficiali e sottufficiali della Rsi, alla cerimonia ha partecipato anche il consigliere comunale del Pdl Giacomo Zamperini, che ha ceduto alla tentazione di fare il saluto romano. oltraggio nel Bergamasco Di tutt’altro segno anche le commemorazioni in un altro paesino lombardo. A Schilpario, nel Bergamasco, è stato ricordato l’«Eccidio dei Fondi», 12 partigiani uccisi in un’imboscata dai fascisti della Tagliamento.

Nella chiesetta di Santa Barbara è stata celebrata una messa, con i ragazzi delle scuole che hanno portato sull’altare un lumino per ogni partigiano ucciso. Ma in quello stesso giorno di 67 anni fa, 43 militari della stessa Legione Tagliamento vennero uccisi a Rovetta in un’azione le cui responsabilità sono ancora discusse. E per ricordare il fatto ogni fine maggio arrivano in paese reduci repubblichini e nostalgici neofascisti. Per questo nei giorni scorsi un gruppo locale aveva distribuito nelle cassette postali un dvd per ricostruire i fatti. La replica dei nostalgici non si è fatta attendere con due striscioni affissi in paese: uno sul municipio («Quegli eroi che hai massacrato sono ancora qua»), uno al parco vicino al cimitero («Onore e gloria»). Entrambi, per fortuna, sono rimossi dalla polizia locale.

"Bersani: «La spesa sociale non si abbatte a colpi di mazza»", di Maria Zegarelli

Il Pd «Tagli mirati, non alla scuola; meglio la patrimoniale». Il Pdl «Non si tocchi la sicurezza». L’Idv: voto anticipato
Bersani d’accordo sull’urgenza di intervenire sulla spesa pubblica ma dice no ai tagli alla scuola e chiede «razionalizzazione» nella pubblica amministrazione. Alla vigilia del Cdm i partiti mettono i paletti.

Sì ai tagli nella pubblica amministrazione purché siano mirati, purché ci si lasci alle spalle definitivamente l’approccio tremontiano della linearità e si attivi invece una fase di razionalizzazione di risorse e di strutture. Il segretario Pd Pier Luigi Bersani accoglie positivamente gli interventi annunciati dal ministro per i rapporti con il Parlamento, Piero Giarda, ma avverte: basta con i tagli alla scuole, meglio insistere sulle spese della Difesa.
Dall’Idv Antonio Di Pietro torna a chiedere il voto e commenta: «Finalmente la smette di massacrare i cittadini e inizia a sforbiciare gli sprechi», ma anche l’ex magistrato mette paletti: «Una cosa è eliminare la marea di auto blu che ci costano un occhio della testa, un’altra dare il colpo di grazia a un’amministrazione della giustizia che è già in ginocchio», un conto è intervenire sulle spese militari, «come lo sciagurato acquisto dei caccia F-35», un conto «intervenire sugli effettivi delle forze dell’ordine o sulle loro dotazioni tecniche».
Per Italo Bocchino, Fli, tagliare solo cinque miliardi di spesa pubblica è niente altro che una «presa in giro del governo nei confronti degli italiani», mentre dal Pdl Maurizio Gasparri suona note da campagna elettorale: «In materia di spending review sosterremo con convinzione la lotta agli sprechi e alle spese inutili. Ma non consentiremo che lo Stato abbassi la guardia nella sicurezza e nel controllo del territorio».
IL CACCIAVITE
«Non siamo stati coinvolti dice Bersani nel corso di un’intervista a Sky Tg24 ma so che c’è la possibilità di alleggerire la spesa per quello che riguarda il modo di funzionare dello Stato, comunque sono sicuro che Giarda pensa di entrare con il cacciavite in queste meccanismi perché usare la mazza non va bene». Vero è, per il segretario, che «ci sono sprechi e punti di grande sofferenza ma la spesa pubblica italiana non è più alta della media». Il punto è un altro: si spende male e l’esempio più eclatante è la Difesa, dove ci sarebbe bisogno di «una grande ristrutturazione», di una razionalizzazione della spesa corrente e di quella del mantenimento. Insomma, non basta tagliare le spese per gli F35, «occorre pensare un nuovo modello di Difesa», dice Stefano Fassina, responsabile lavoro del Pd.
Ma la grande preoccupazione resta l’enorme pressione fiscale, ormai «insostenibile» per le famiglie e le imprese italiane, soprattutto ora che la crisi è entrata nella sua fase più acuta. Secondo il segretario Pd è soltanto attraverso un’intensificazione della lotta all’evasione che si può intervenire per alleggerire il carico fiscale, «altrimenti non ne usciamo». Il carico fiscale va riequilibrato, aggiunge, perché «c’è il problema di imprenditori che spendono troppo per il lavoratore ma lui mette in tasca molto poco». Con il passare dei mesi, gli italiani che pure si fidavano del governo e del premier Monti, oggi iniziano ad accusare i colpi delle misure adottate per portare l’Italia fuori dal rischio Grecia. Cala il consenso verso il governo e per i partiti che lo sostengono diventa sempre più difficile spiegare ai loro elettori che è necessario mandare giù la medicina amara. Per questo i segretari dei partiti che sostengono Monti nei giorni scorsi hanno chiesto misure per la crescita e per questo Bersani, anche di fronte alla spending review annunciata da Giarda, insiste su interventi con il «cacciavite» e non con la «mazza».
LA PATRIMONIALE
E al Pdl (ma anche alla Lega) che, in piena campagna elettorale e di fronte ai sondaggi spietati che arrivano nelle segreterie, tornano all’attacco dell’Imu non va bene, Bersani replica che il suo partito una proposta per renderla più leggera ce l’aveva: «Un’imposta personale sui grandi patrimoni immobiliari. Presi un po’ di soldi da lì si sarebbe potuta fare l’Imu più leggera». Un’ipotesi che nel Pdl solo a sentirla avvertono sintomi da orticaria. «Maroni era lìinsiste Bersani riferendosi alle minacce di sciopero fiscale avanzate dall’ex ministro dell’Interno e da Pisapia quando abbiamo fatto questa proposta. Erano tutti lì quelli che ora si lamentano. Poi su una cosa Pisapia ha ragione: bisogna creare un meccanismo per cui l’Imu rimane ai Comuni e lo Stato non trasferisce».

da l’Unità 30.4.12

******

“I sindaci: niente obiezione fiscale ma adesso l´Imu deve cambiare”, di Luisa Grion

Anci: diventi un tributo comunale. Alemanno: la Lega sbaglia. Studio dell´Ilo: “Ora la pressione tributaria rischia di bruciare altri posti di lavoro”. Tutti i partiti chiedono un patto con la Svizzera per scovare i capitali esportati

ROMA – Troppe tasse: sindaci e partiti – pur se con toni e proposte diverse – sono d´accordo sul fatto che la politica fiscale del governo Monti non va. Se la disobbedienza al fisco invocata dal leghista Maroni non fa proseliti fra i grandi Comuni, sull´idea che l´Imu vada cambiata sono tutti d´accordo. E´ vista la sensibilità dell´opinione pubblica al tema e l´imminente voto amministrativo anche Pd e Pdl mettono sul tavolo le loro carte. La Lega gioca all´opposizione, invita a non pagare l´Imu e a disdire i contratti sulla riscossione che le giunte firmano con Equitalia. Una proposta che non piace al presidente dell´Anci Graziano Delrio: «Sono contrario a chi invita alla disobbedienza civile sulle tasse, ma sono favorevole a cambiare le imposte ingiuste – commenta – i cittadini devono sapere che dietro la sigla Imu si nasconde una tassa dello Stato: piuttosto si lasci ai Comuni la gestione degli interi importi e si tolgano i trasferimenti. Le scorciatoie, però, non mi piacciono: non valevano per Berlusconi e non valgono per Monti». Quanto ai contratti con Equitalia già oggi, precisa «le amministrazioni hanno facoltà d´intervento».
Stessa lunghezza d´onda per il sindaco della Capitale, Gianni Alemanno: «Roma paga un prezzo altissimo con l´introduzione dell´Imu che è una patrimoniale mascherata: noi la riscuotiamo per girarla al governo. Ma i leghisti si devono ricordare di essere stati più volte ministri e sicuramente hanno più responsabilità dei romani per questa situazione difficile». Nemmeno nella Firenze di Matteo Renzi prende piede l´obiezione fiscale: il sindaco, pur molto critico sull´Imu, intende piuttosto agire sul fronte del Patto di Stabilità. Minaccia di violarlo e preme sul governo per svincolare almeno la spesa per investimenti.
Al di là dei Comuni, il fisco è terreno di battaglia anche per i partiti (tutti d´accordo quantomeno sulla necessità di tassare i capitali trasferiti in Svizzera). Pierluigi Bersani, leader del Pd, propone «una tassazione sui grandi patrimoni immobiliari per rendere più leggera l´Imu» e chiede «una tassa sulle transazioni finanziarie». Angelino Alfano, segretario del Pdl, vuole invece che «l´imprenditore che ha dei crediti con lo Stato non paghi le tasse per la stessa cifra». Dal coro di proteste si scosta solo Casini, leader del Terzo Polo: «Tutti mi sembrano Alice nel Paese delle meraviglie – commenta – pare che la pressione fiscale sia colpa di Monti, invece lui deve rimediare perché qualcuno, prima, ha abolito l´Ici e qualcuno, in Europa, ha sottoscritto impegni pesantissimi che ora dobbiamo onorare». Ma pressione fiscale alta, austerità e attenzione spasmodica all´equilibrio di bilancio – a scapito degli investimenti per l´occupazione – possono produrre «conseguenze disastrose» per il mercato del lavoro. Lo fa notare il rapporto dell´Ilo (l´agenzia dell´Onu che si occupa del settore) per il 2012: senza inversioni di rotta la ripresa dell´occupazione avverrà solo a fine 2016. «L´austerità fiscale associata alla deregolamentazione del mercato del lavoro non favorirà la creazione di posti a breve termine».

da La Repubblica

"Il governo dei tagli investa sulla scuola", di Chiara Saraceno

Dopo molti annunci, sta finalmente partendo la spending review. Ottimo se porterà a ridurre sprechi e a razionalizzare le spese. Se si passa dall´analisi della efficienza della spesa a quella delle priorità, tuttavia, le cose sono un po´ più complesse. L´individuazione di che cosa è necessario mantenere, che cosa rafforzare e che cosa si può tagliare, richiede una valutazione delle finalità della spesa stessa. Da questo punto di vista non può non destare preoccupazione il fatto che ancora una volta si guardi alla scuola, già sottoposta a successive, radicali, cure dimagranti, come ad un comparto ove si può ancora operare qualche sostanzioso risparmio. Sono certa che anche qui molte cose possono essere ulteriormente razionalizzate, in particolare per quanto riguarda gli acquisti di arredi e materiali di consumo. Anche se ormai le risorse per acquistare alcunché sono ridotte al lumicino e in molti casi i genitori si fanno carico anche della carta igienica. Forse, in alcuni distretti scolastici si può lavorare ulteriormente alla razionalizzazione della distribuzione degli insegnanti, anche se gli interventi degli anni scorsi hanno già portato in diverse classi ad un rapporto insegnante-allievi al limite della efficacia didattica. Ma ogni euro risparmiato con queste razionalizzazioni va re-investito per rendere le scuole italiane più sicure e più efficaci dal punto di vista didattico. La scuola italiana richiede più, non meno investimenti.
Non dimentichiamo che abbiamo un patrimonio edilizio tra i più fatiscenti e in molti casi pericolosi e al di fuori di ogni norma di sicurezza. Tutti i giorni migliaia di bambini e ragazzi entrano in edifici che mettono a rischio la loro incolumità. Mancano troppo spesso laboratori e aule informatiche. Le lingue straniere, soprattutto nelle scuole elementari (ma ahimè spesso anche alle medie) sono insegnate da docenti che non hanno mai ricevuto una preparazione specifica e spesso conoscono poco più di un imparaticcio della lingua che dovrebbero insegnare. Mancano insegnanti di sostegno per i ragazzini con difficoltà. Nonostante la crescente presenza di bambini e ragazzi stranieri non solo per cittadinanza, ma per lingua, mancano docenti specializzati in italiano come seconda lingua. Al Politecnico di Milano si pensa di abbandonare l´italiano per l´inglese (magari quello maccheronico dei docenti italiani). Ma in molte scuole di base l´apprendimento dell´italiano è una conquista faticosa e non sempre raggiungibile per chi, non solo straniero, non ha alle spalle dei genitori in grado sia di fornire le basi e competenze cognitive di partenza, sia di integrare ciò che la scuola da sola non può dare, stante lo scarto tra bisogni e risorse. Le scuole dei quartieri più poveri e degradati, specialmente nel Mezzogiorno, dove l´investimento di tempo, intelligenza, progettazione, cooperazione dovrebbe essere maggiore, sono lasciate troppo spesso alla disponibilità e iniziativa volontaria degli insegnanti, per altro lì come altrove pagati poco e spesso umiliati da un discorso pubblico che sembra considerarli puri parassiti. Si rafforzano così, invece di compensarle, le disuguaglianze di partenza.
Forse la sostituzione dei libri con l´iPad, cara al ministro Profumo, può attendere un po´ in un Paese in cui non solo in troppe case il libro è un oggetto estraneo, ma la scuola è sperimentata come un ambiente affollato e insicuro, non come un luogo attraente e stimolante. Ciò che non può attendere, perché siamo già troppo in ritardo, è una concezione di scuola non solo come spesa, ma come la prima forma di investimento nelle nuove generazioni e il primo diritto di cittadinanza cui queste hanno accesso: strumento essenziale perché sviluppino appieno le proprie competenze di essere umani e cittadini.
In una delle sue molte esternazioni la ministra Fornero ha rimproverato quei genitori che si preoccupano più di risparmiare per acquistare casa ai propri figli che di investire per farli studiare. Sarebbe opportuno che le condizioni in cui studiano le nuove generazioni, quindi la qualità della scuola, divenisse anche la priorità del governo e il criterio che guida la spending review.

da La Repubblica 30.4.12

******

“Secondo il MEF la scuola spende troppo”, di R.P.
Tra il 2009 e il 2011 le spese per beni e servizi nella PA sono diminuite di 3 miliardi, mentre nella scuola sono rimaste costanti. Il PD contrario a nuovi tagli alla scuola. Intervengono Puglisi e Letta. Vendola: “Se tagliano un solo euro alla scuola, è la rivolta”. Si parla di ridurre le spese per beni e servizi.

Mano a mano che passano le ore aumentano le indiscrezioni sulla manovra finanziaria. L’ultima novità relativa alla scuola è questa: taglio del 15% delle spese per beni e servizi sostenute dal Ministero dell’Istruzione. E siccome tali spese ammontano a un miliardo, il taglio dovrebbe essere appunto di 150milioni di euro, come già abbiamo anticipato. In effetti negli ultimi tre anni le spese per i consumi intermedi del Ministero dell’Istruzione sono rimaste costanti, mentre sono diminuiti di 3 miliardi nel complesso della Pubblica amministrazione.

2009 2010 2011
Consumi intermedi MIUR 1,166 0,913 1,113
Consumi intermedi Stato 15,445 12,177 12,477

Ma è anche altrettanto vero che la scuola è il settore della Pubblica amministrazione che più di tutti gli altri ha pagato il prezzo della legge finanziaria dell’estate 2008.
Come si può vedere mentre tra il 2009 e il 2011 la spesa per il personale del Miur è diminuita di più di un miliardo e mezzo, quella complessiva del personale statale e aumentata di 2miliardi e 100milioni: il che significa che negli altri ministeri la spesa è aumentata di poco meno di 4 miliardi.

2009 2010 2011
Personale MIUR 41,264 40,896 39,677
Personale Stato 90,993 90,798 93,117

La scuola, insomma, ha già dato e pensare di ridurre persino i trasferimenti alle scuole è davvero impensabile.

Intanto la responsabile scuola del PD Francesca Puglisi ha già fatto sapere la propria posizione sulle voci di tagli: “Nella scuola non c’e’ proprio nulla da tagliare. Chiediamo chiarezza al Governo sulle intenzioni e i contenuti della spending review. Se risparmi ci saranno nella riorganizzazione della spesa dello Stato, vengano piuttosto reinvestiti per restituire il tempo scuola sottratto dal Governo Berlusconi e per dare un posto nella scuola dell’infanzia alle migliaia di bambini in lista d’attesa in tutta Italia” . Posizione ribadita da Enrico Letta, vicesegretario nazionale del PD che ha già stoppato il Governo: “Va benissimo razionalizzare la spesa pubblica, ma ad una condizione: sulla scuola non si taglia, anzi bisogna investire”
Durissima la reazione di Nichi Vendola (SEL): “Se pensano ad ulteriori tagli sulle scuola pubblica anche solo di 1 euro, sappiano che è una provocazione bella e buona, che non potrà che provocare una sacrosanta ribellione”.

da La Tecnica della Scuola

******

“Scuola, risparmi in quattro mosse ma senza toccare gli insegnanti”, di Flavia Amabile
L’idea del ministro Profumo è quello di trasformare l’organizzazione interna creando un ministero meno autorizzativo e più cooperativo. Sforbiciata agli affitti: -75%. Segreterie e biblioteche saranno condivise tra gli istituti

Segreterie e biblioteche delle scuole in Comune, una riorganizzazione del personale del Miur, riduzione delle sedi: anche il ministero dell’Istruzione è al lavoro in queste ore per l’esame della spending review, la revisione mirata della spesa pubblica necessaria ad assicurare il raggiungimento del pareggio strutturale di bilancio nel 2013 e impedire che i conti siano di nuovo in rosso.

Luigi Fiorentino, capo di gabinetto del Miur da pochi mesi, arrivato un mese dopo l’insediamento di Francesco Profumo alla guida del ministero, è alle prese con i conti ma sa che la scuola è già stata molto spremuta negli ultimi 10 anni e il suo pensiero va innanzitutto agli insegnanti: «Voglio che sappiano che ogni euro risparmiato andrà investito per loro».

Da qualche parte però bisognerà pur tagliare per allontanare lo spettro dei licenziamenti dei dipendenti pubblici sul modello greco. Il Miur agirà su quattro capitoli di spesa. Sulla scuola innanzitutto, perché si può ancora provare a realizzare delle economie di spesa, sostiene Fiorentino. Si può infatti rendere più efficiente la gestione delle supplenze e mettere in condivisione spazi come biblioteche e segreterie. Non si sa ancora quanto e come si ricaverà ma i risparmi saranno reinvestiti all’interno del sistema scolastico, promette il ministero.

Il secondo capitolo riguarda gli affitti. Saranno escluse le scuole che non verranno toccate da questa razionalizzazione. Le strutture dell’amministrazione centrale del ministero dell’istruzione, università e ricerca costano ogni anno 12 milioni di euro di canoni.

I dipendenti centrali sono suddivisi in due sedi: il palazzo storico del Ministero su viale Trastevere dove lavorano 900 dipendenti e piazzale Kennedy all’Eur sede degli uffici dedicati all’università ma non solo, e dove lavorano 400 dipendenti. A disposizione hanno 40mila metri quadri, in pratica 100mq per ogni dipendente della struttura. Un po’ sovradimensionata, insomma. Non strategici anche due depositi a Fiano Romano, un paese a nord di Roma, e villa Lucidi usata per ospitare il sistema informatico e un centro di corsi di Formazione. Verrà tutto dismesso entro fine 2013 concentrando tutte le attività tra la sede centrale di Trastevere e gli uffici di viale Carcani. Totale del risparmio circa 9 milioni di euro, il 75% dell’attuale spesa che calerà da 12 a 3 milioni.

Uno degli interventi più delicati sarà quello che toccherà la riorganizzazione degli uffici amministrativi. Si sta studiando una rivoluzione delle funzioni e degli uffici che seguirà la linea dettata dal ministro Profumo: di un ministero non più autorizzativo, ma cooperativo. E quindi molto accento sulle funzioni di indirizzo e coordinamento mentre saranno ridotte le strutture che finora hanno gestito i processi seguiti per raggiungere gli obiettivi. Anche in questo caso al Miur non si sbilanciano sulle cifre né sul programma di riorganizzazione che potrebbe prevedere tagli o spostamenti interni.

Un’ultima quota di risparmi arriverà dai beni e servizi. Quando si faranno le gare si cercherà di aumentare l’uso dell’e-procurement. Si ricorrerà cioè all’acquisto on-line, in genere meno costoso: il risparmio atteso è di circa 100 milioni, il 15% della spesa attuale.

da www.lastampa.it