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"L´Aquila, la pompei del XXI secolo", di Salvatore Settis

Tre sono le cause del degrado che affligge non solo il centro storico dell´Aquila (tra i più preziosi d´Italia), ma anche la società, l´economia e la vita stessa della città. La prima, e la meno grave, è il terremoto di cui ricorre il terzo anniversario. La seconda, peggiore del terremoto, è la pessima gestione dell´emergenza, dovuta a scelte irresponsabili del governo Berlusconi. Più allarmante è la terza causa: la nostra cecità, la riluttanza ad ammettere che in tre anni si sono risolti ben pochi problemi, anzi se ne sono creati dei nuovi. Molti italiani credono in buona fede che nella città martoriata ferva la ricostruzione. Altri, pur sospettando quanto grave sia la paralisi, si consolano con qualche buona notizia, come il restauro Fai della simbolica Fontana delle 99 cannelle, o si accontentano degli annunci che piovono ogni tanto. Onna, per esempio è un cumulo di rovine, non una casa è stata ricostruita (nemmeno la chiesa): la Germania, nel ricordo dell´eccidio nazista che vi avvenne nel 1944, ha costruito solo una “sala multifunzionale” accanto ai baraccamenti degli sfollati. Ed è già qualcosa, visto che quasi tutti i Paesi che al G8 avevano dispensato promesse si sono dileguati. Più generoso ed efficace di tutti, il Kazakistan; qualcosa hanno dato anche Francia e Giappone, nulla dagli altri, compresi Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna.
Nelle strade deserte del centro si allineano spettrali impalcature, sulla navata delle chiese sventrate svolazzano teloni di plastica che il vento ha strappato dagli ormeggi. Un silenzio irreale pervade le piazze, quasi stilla dalle pietre, dalle orbite vuote delle case. Qua e là la traccia di un cantiere di ricostruzione, invariabilmente abbandonato. Case, banche, palazzi pubblici avvolti in una selva di tubi che ne impediscono il crollo ma non ne preparano la resurrezione. Un unico bar aperto, quello del famoso torrone dei fratelli Nurzia; non più di due o tre persone che si aggirano silenti nella città fantasma. La vita è altrove, nelle new town volute da Berlusconi: quasi ventimila aquilani deportati in città-satellite dove non c´è un bar, non un´edicola, una piazza, una scuola, una chiesa, un luogo d´incontro. Quartieri-dormitorio, sorti in fretta su terreni già agricoli e dati in comodato agli sfollati, con loro convenienza economica; ma a prezzo di non rivedere mai le proprie case, di non poter neppure portare nella nuova casa il letto o il tavolo di quella vecchia (non c´è spazio, sono in comodato anche i mobili); di disgregare il tessuto sociale.
Questo svuotamento di memoria e socialità risponde a un progetto consapevole, lo stesso che fu fulmineamente concepito, la notte del terremoto, dal costruttore Piscicelli. Parlando al telefono con il cognato, i due sghignazzano sinistramente: per loro il terremoto porta cemento, porta affari. È per loro beneficio che, trasformando il centro dell´Aquila in una Pompei del XXI secolo, si è puntato non sulla ricostruzione né su villaggi temporanei, ma su permanenti “città nuove” che sono piuttosto altrettante non-città (per la precisione diciannove, distanti da 3 a 15 Km dal centro, e fino a 30 Km l´una dall´altra). Quanta differenza da altri terremoti, come quelli del Friuli o dell´Umbria, quando la ricostruzione dei centri storici si dava per scontata! Quanta strada abbiamo percorso, in pochi anni, verso il fondo dell´abisso! All´insegna, si capisce, dello “sviluppo”, identificato con la cementificazione di territorio già agricolo. Perciò L´Aquila non è una città qualsiasi: vittima sacrificale di un pensiero unico, spacciato per ineluttabile, essa è il simbolo di un´Italia asservita alla cinica retorica della crescita senza fine che governa la nuova urbanizzazione e spalma di cemento l´intero Paese. Si aggira intanto per l´Aquila il “popolo delle carriole”, che di quando in quando invade pacificamente il centro, ripulisce un po´ di macerie, ricorda a se stesso (e a noi) che L´Aquila non può morire.
Il ministro Barca ha recentemente annunciato un progetto sulla città, a quel che pare elaborato da funzionari Ocse e ricercatori olandesi. Cominciamo male, con un frivolo slogan: trasformare l´Aquila in una smart city. Continuiamo peggio: perché L´Aquila diventi intelligente occorre farne «un prototipo, un laboratorio vivente, uno studio di caso, che sfrutti nuove tecnologie per migliorare la qualità della vita». La ricostruzione? Può aspettare, anzi è sbagliata «l´intenzione di ricostruire prima e poi trovare i mezzi per progredire». Bisogna, anzi, «spostare il centro dell´attenzione dalla ricostruzione fisica allo sviluppo economico e sociale». L´Aquila dev´essere «adatta a nuovi modelli di business», candidarsi a capitale europea della cultura, e non toccare una pietra senza prima aver lanciato un concorso fra «architetti di fama mondiale», che intervengano sugli edifici cambiandone la destinazione d´uso per farne «luoghi moderni concepiti in maniera creativa, modificando gli interni e conservando le facciate storiche degli edifici». Insomma, «celebrare il passato» lasciando in piedi le facciate, costruire il futuro sventrandone gli interni. E poi, tanta tecnologia: energia pulita, Internet per tutti, città cablata. Non una parola sul riscatto dei cittadini dall´esilio nelle squallide new town: per sentirsi intelligenti, smart, all´avanguardia, per volare «sulle ali dell´Aquila» (altro slogan del progetto) meglio rimandare la ricostruzione, puntare su concorsi di architetti e realtà virtuale.
Rimandare la ricostruzione in nome di un roseo futuro tecnologico, consolidando in perpetuo l´espulsione dei cittadini nei ghetti delle new town, pensare al centro storico come terra di nessuno per esperimenti architettonici e (ipotetiche) soluzioni d´avanguardia: questa strategia non è nuova. Ricorda da vicino le dichiarazioni dell´onorevole Stracquadanio alla Camera (7 agosto 2010): «L´Aquila era una città che stava morendo indipendentemente dal terremoto, e il terremoto ne ha certificato la morte civile; il governo avrebbe voluto fare una nuova università, una Harvard italiana, e ci è stato detto che volevamo cementificare». Intanto, si minaccia il trasferimento a Sulmona del Museo nazionale d´Abruzzo, già collocato all´Aquila nel Castello; intanto, i 6 milioni offerti dalla Provincia di Trento sono destinati a costruire un nuovo auditorium di Renzo Piano che assai impropriamente dovrebbe sorgere nel parco del Castello (lo ha denunciato Italia Nostra). Condannata a morte, questa nobile città italiana non può accontentarsi di architetture-spot o di farneticazioni tecnologiche. Se non vogliamo essere complici di Piscicelli e Stracquadanio, la priorità è: riportare gli aquilani nelle loro case, ridar vita al centro storico.

La Repubblica 07.04.12

Intervista a Pier Luigi Bersani «Vinta la battaglia dell’articolo 18, nessuno ora tenti colpi di mano», di Simone Collini

Nei mesi scorsi molti hanno pensato che davanti a un tema di questo genere si potesse frantumare il Pd. E invece mi pare che le cose siano andate in modo molto diverso…». Pier Luigi Bersani in queste ore evita di infierire sulla Lega (e anzi alla domanda sulla crisi del Carroccio risponde con un ragionamento sulla possibilità di recuperare le tradite «ragioni originarie» che hanno portato alla nascita di quella forza politica), mentre nota che la riforma del mercato del lavoro sta creando problemi «in casa d’altri», non nel suo partito: «Questo dovrebbe dire qualcosa a chi ha sottovalutato l’unità, l’autonomia e la forza del pensiero e delle proposte del Pd».
Nel disegno di legge sul lavoro è stata inserita la possibilità del reintegro per i licenziamenti economici illegittimi, ma ora il Pdl chiede “nuove intese” al governo, se vuole i loro voti: c’è il rischio che il testo esca stravolto dalla discussione parlamentare? «Serve un dibattito rapido ma serio, che faccia emergere gli elementi da rafforzare sia dal lato delle esigenze poste dalle imprese che da quello riguardante i precari. Ma questo dovrà avvenire nel solco dell’equilibrio trovato».
Un equilibrio buono per voi, ma non per altri…
«Tutta questa vicenda ha sofferto un’ambiguità iniziale, riguardante il messaggio che si voleva dare». Cioè?
«Una volta approvata la più rilevante riforma delle pensioni che si sia vista in Europa, e che peraltro presenta un buco rilevante sugli esodati che andrà sanato, qual era il messaggio da dare? Di deregolazione o di ri-regolazione secondo le migliori esperienze europee? Questa ambiguità ha accompagnato tutta la discussione. Ora ci potrà essere anche un perfezionamento, ma è stato trovato un punto di equilibrio che viste le premesse è molto importante e va mantenuto».
Anche se Marcegaglia ha detto al “Financial Times” che la riforma è “pessima”? Anche se Di Pietro e Vendola, nonostante la battaglia del Pd sul reintegro, dicono che il testo costituisce un attacco all’articolo 18? «Non intendo ascrivere esclusivamente al Pd il merito della presenza nel disegno di legge del reintegro, chiesto da sindacati, autorità morali, opinione pubblica. Dopodiché, che ci sia una modifica dell’articolo 18 per come lo abbiamo conosciuto fin qui è evidente, e quindi è malafede dire al mondo che abbiamo le stesse rigidità di ieri. Stupisce sentire commenti distruttivi da parte di Confindustria, soprattutto quando ci si rivolge all’opinione pubblica internazionale e quando tutti sanno che per il 95% questo disegno di legge risponde al lavoro impegnativo fatto per tre mesi dalle forze sociali».
E il reintegro come “miraggio”, per dirla con Di Pietro?
«Non è così. È previsto quando vi siano insussistenti motivazioni economiche».
Anche se Monti ha sottolineato che il giudice “può”, non “deve” decidere per il reintegro?
«Sono convinto che il giudice, di fronte a un’insussistenza conclamata di motivazioni di tipo economico, si comporterà in coerenza. È determinante che sia rispettato il principio che non può esserci la sola monetizzazione del rapporto di lavoro. Principio che abbiamo sempre posto e che è stato ben compreso da un’opinione pubblica larghissima. È stato fermato il rischio di introdurre in un momento così difficile elementi di ansia, il sospetto di voler indebolire i rapporti di forza tra aziende e singolo lavoratore, addirittura di voler isolare la condizione lavorativa».
Il Pd quali aggiustamenti chiederà in Parlamento?
«Bisogna vedere come colmare il vuoto sugli ammortizzatori per i lavoratori parasubordinati, come ribilanciare i contributi pensionistici per il lavoro dipendente e per i lavoratori parasubordinati. Ma per noi resta un punto dirimente anche la questione degli esodati, su cui attendiamo provvedimenti da parte del governo».
La riforma del lavoro è approdata in Parlamento e però lo spread è ancora a livelli di guardia: sicuri che sia stata imboccata la strada giusta?
«Questa riforma è importante, ma non facciamo di queste norme l’alfa e l’omega di tutta la questione, anche perché è una favola che il mondo ci guarda per quel che facciamo sull’articolo 18. Più importante di ogni altra cosa adesso è la politica economica e come dare un po’ di lavoro. Ci si sarà accorti che perfino il “Wall Street Journal” dice che l’elemento critico della situazione italiana ed europea è il rischio di un avvitamento disastroso tra austerità cieca, recessione e mancata tenuta dei conti pubblici?».
Si torna a parlare di una legge sui partiti, per l’ennesima volta…
«Nei prossimi mesi saremo di fronte a un passaggio drammatico, in cui dovremo decidere se vogliamo consegnare alle prossime generazioni una democrazia costituzionale, occidentale, o se ci arrenderemo a un’eccezionalità italiana che passa da un populismo all’altro. Se è verso la prima che vogliamo andare, dobbiamo prendere di petto il tema della democrazia dei partiti, che devono rispondere non solo ai propri iscritti ma all’intero sistema, dare garanzie su bilanci, codici etici, partecipazione interna, candidature». Come si capisce se è la volta buona? «Ho chiesto ad Alfano e Casini di trovare il minimo comun denominatore tra le nostre proposte. Bisogna cominciare dalla certificazione dei bilanci, dalla loro pubblicazione su internet, dall’abbassamento a cinque mila euro per le donazioni per cui non è necessaria una dichiarazione. Per noi va privilegiata l’urgenza e si deve dare un segno che cominciamo a fare sul serio».
C’è chi sostiene che per fare sul serio vadano aboliti i rimborsi elettorali: lei che dice?
«Ci sono stati tagli considerevoli negli ultimi anni e ora una seria riforma va fatta, ad esempio si deve stabilire che quando un partito non c’è più non deve più ricevere finanziamenti. Ma in tutti i paesi occidentali è prevista una forma di finanziamento alle attività politiche ed è giusto che sia così, perché altrimenti si cade nell’oligarchia o nel dominio». Le vicende leghiste dicono che siamo alla fine dei partiti personali? «L’elemento personale ha giocato molto, per quel che riguarda la Lega, ma non alla Berlusconi. C’è stato un cortocircuito tra l’elemento personalistico e un centralismo che ha sospeso l’elemento partecipativo. Basti pensare che la Lega, che comunque vive nel territorio, non fa un congresso federale da dieci anni. Ma non scordiamo che in questo momento è il partito che ha il nome più antico, e penso che le ragioni di fondo che ne hanno determinato l’arrivo non siano scomparse».
Cosa intende dire?
«Quello che ho sempre detto, anche davanti ai militanti leghisti. E cioè: dov’è finita la vostra ragione originaria? La Lega è nata come forza antiburocratica, autonomistica, e costruita nella critica a tangentopoli. Tutto questo via via è stato perso e sostituito con una fisionomia separatista, xenofoba, populista, che si è fatta identificare come una politica di potere il giorno che ha preso a braccetto il miliardario. Ora la Lega può riprendere una sua strada solo rivedendo l’atto di nascita perduto in questi anni».
Si preoccupa delle sorti leghiste?
«No, mi preoccupo del fatto che quegli elementi originari devono ancora avere una risposta, dopo che la responsabilità autonomista è stata tradita da un federalismo propagandistico e inefficace e dopo che chi si era presentato difendendo la sobrietà in politica è finito in queste vicende. Oggi tocca anche a noi, non solo per il Nord ma per l’intero Paese, dare le risposte giuste».

L’Unità 07.04.12

"Apprendisti stregoni in salsa padana", di Filippo Ceccarelli

La magia ha questo di bello, o di brutto, dipende: che sfugge al dominio della realtà e quasi sempre si fa beffe della ragione, per cui adesso tutta l´avventura della Lega rischia di potersi rileggere. E di potersi riscrivere alla luce della lanterna che rischiarava la notte padana da lassù, nella mansarda della villetta di Gemonio, tra le pagine di tutti quei libri che Umberto e la Manuela sfogliavano con segreto ardore.
“Magia nera, cartomanzia, astrologia…” rivela golosamente all´amico tesoriere e dovutamente sempliciotto la segretaria-portinaia di via Bellerio – e ce ne sarebbe già quanto basta per innescare una caccia alle streghe. Sennonché, come si può notare in questi giorni, il Cerchio Magico logora chi ce l´ha, con il che si rende fortunosamente superfluo ogni eventuale rogo della bibliotechina esoterica della famiglia Bossi, o peggio della Manuela, di quei testi occulti divenuta lettrice così esclusiva da tenerli ammonticchiati sul pavimento.
Non che proprio si sentisse il bisogno, con tutto quello che sta emergendo in termini di quattrini, della negromanzia padana, forse però inevitabile in un tempo così tecnologicamente regressivo, il medioevo più internet, e dalle parti della Lega ancora di più. In verità, questa storia dei libri magici in mansarda, e più in generale di una passione ermetica condivisa in famiglia, era in qualche modo risaputa. E´ precisamente nell´aprile del 1995 che Bossi, a quei tempi assiduo disegnatore di schemini con misteriose freccette e arcane definizioni, invocò per la prima volta il “cerchio magico”. Ma per attribuirlo, anzi per scagliarlo addosso al suo ex alleato e ora asperrimo nemico Berlusconi. Era lui, il Cavaliere, il “mago malefico” che voleva imprigionare la Lega – e in particolare Bobo Maroni, allora pencolante – in un incantesimo. Nella designazione Bossi comprendeva anche il potere della tv, che “lavava il cervello alla gente”. Ma il linguaggio di quelle uscite, relativamente insolite per un fantasista come lui, suonava appropriato a una cultura cui la politica italiana, che da poco si era tolta dai piedi democristiani e comunisti, era a dir poco restia ad attingere.
Da quel frasario vagamente iniziatico si poteva dedurre che i libri del pensiero tenebroso stavano arrivando a Gemonio. Di certo il loro afflusso crebbe in abbondanza e intensità. Tanto che nel 1996 Bossi salì sul cavallino bianco della secessione, in senso strettamente politico. Su di un altro piano, meno immediatamente intellegibile, prese ad alimentare un dirizzone metapolitico piuttosto caotico e anche buffo che a tratti lo faceva parlare come un capo indiano, ma dietro il quale sembrava di scorgere un precipitato misteriosofico d´incerto discernimento e ancor più improbabile rifornimento che con il pretesto degli antichi celti teneva assieme audaci panteismi, passioni fluviali, credenze druidiche, stirpi solari e iperoboreali, magie delle nebbie e degli elfi.
E venne il tempo dell´acqua del Monviso, del dio Po, dell´ampolla e dei riti veneziani di sposalizio con il mare. Per via del grande fiume e di una stella più esoterica di altre al quartogenito, ignara e innocente creatura, come in un disegno di Novello, Umbertone e la Manuela imposero il nome di Eridanio Sirio. E dopo l´acqua santa, arrivarono, nel senso che andarono a prenderle con l´elicottero, anche le pietre sante del sacro monte, e tutto divenne sacro per mano del Senatùr: il sacro sole alpino, il sacro giuramento e il sacro pratone di Pontida, dove si fecero le promesse del sacro matrimonio padano, da celebrarsi con sacre formule e da innaffiarsi con idromele, per una generazione di giornalisti politici fu un periodo spassoso e indimenticabile. E non solo perché le nozze celtiche di Calderoli, per dire, furono officiate da un drudo che era il capo di un villaggio vacanze e il valoroso Davide Boni, quello del penultino scandalo lombardo, vi partecipò in kilt, seppur con giacca, cravatta e gilet; ma perché a questa effervescenza mitologica si accompagnava allegramente una sarabanda di motociclisti ubriaconi, ufo proto-leghisti, annunci per single, raduni di alpini, esibizioni di cani e gatte e auto d´epoca, e pornostar, stendardi, formaggi, impensabili gadget, graffiti di dragoni nei bar, inesorabili poeti dialettali, camicie verdi e anche nanetti da giardino da vestire di verde pure loro ed accortamente mobilitare contro il nano di Arcore.
“Eccezionale fecondità simbolica” riconobbe allora a Bossi il professor David I. Kertzer, illustre studioso di “Riti e simboli del potere” (Mulino, 1981), ma fu un´eccezione perché la alta politologia preferiva girare la testa da un´altra parte lasciando così ai cronisti l´onere e l´onore della malizia divertita e del variopinto scetticismo. Quando alla fine degli anni 90 Bossi recuperò l´alleanza con Berlusconi, sembra di ricordare un accenno liquidatorio, anche se malinteso, alla biblioteca della mansarda. Di tutti quei libri che lo avevano messo contro il Cavaliere, disse alimentando l´equivoco che si trattava di una collezione interamente dedicata alla nefandezze del berlusconismo, mafia, riciclaggio e oscurità varie, poteva fare a meno.
A una dozzina d´anni di distanza, e con la coscienza che su questo genere di questioni non si va dal notaio (come invece Silvio e Umbertone pare siano andati giusto in quel tempo per dirimere altre e più sostanziose faccende), ecco, si viene a sapere che quei libri erano di magia e oggi il dubbio è che Bossi non ne avesse più bisogno perché il Gran Mago era diventato lui, o comunque si sentiva ormai un mago più potente di quel Cavaliere che qualche anno prima aveva cercato di rinchiudere la Lega nel cerchio magico, e invece lui ne era uscito di slancio. E insomma è questa un´ipotesi, anche se è pur vero che i potenti fanno sempre a gara a chi lo è di più, in tutti i sensi.
Però poi Bossi si è ammalato, anche di brutto, e già questo smentiva il superbo assunto della sua ultraterrena invincibilità. Poi il cerchio magico – dizione di seconda mano – arrivò a certificare la fragilità di quel leader che poco prima la Padania aveva definito “capace di orientare i destini universali”. E´ possibile che la signora Bossi abbia continuato a leggere quei volumi. Ma è sicuro che tra quelle pagine ce ne sono diverse che vivamente sconsigliano di usare i poteri della magia per fini di misera e bassa convenienza: poltrone, denaro, carriera, lodi, vantaggi per i figli, auto, ville, vacanze e altri benefici.
Si pensa all´”Apprendista Stregone” e subito viene in mente Topolino che con il secchio e la scopa combina un sacco di disastri in “Fantasia” di Walt Disney. Ma veramente è un mito arcaico e a suo modo terribile che anch´esso sorprende alle spalle la realtà facendosi beffe della ragione.

E di potersi riscrivere alla luce della lanterna che rischiarava la notte padana da lassù, nella mansarda della villetta di Gemonio, tra le pagine di tutti quei libri che Umberto e la Manuela sfogliavano con segreto ardore.
“Magia nera, cartomanzia, astrologia…” rivela golosamente all´amico tesoriere e dovutamente sempliciotto la segretaria-portinaia di via Bellerio – e ce ne sarebbe già quanto basta per innescare una caccia alle streghe. Sennonché, come si può notare in questi giorni, il Cerchio Magico logora chi ce l´ha, con il che si rende fortunosamente superfluo ogni eventuale rogo della bibliotechina esoterica della famiglia Bossi, o peggio della Manuela, di quei testi occulti divenuta lettrice così esclusiva da tenerli ammonticchiati sul pavimento.
Non che proprio si sentisse il bisogno, con tutto quello che sta emergendo in termini di quattrini, della negromanzia padana, forse però inevitabile in un tempo così tecnologicamente regressivo, il medioevo più internet, e dalle parti della Lega ancora di più. In verità, questa storia dei libri magici in mansarda, e più in generale di una passione ermetica condivisa in famiglia, era in qualche modo risaputa. E´ precisamente nell´aprile del 1995 che Bossi, a quei tempi assiduo disegnatore di schemini con misteriose freccette e arcane definizioni, invocò per la prima volta il “cerchio magico”. Ma per attribuirlo, anzi per scagliarlo addosso al suo ex alleato e ora asperrimo nemico Berlusconi. Era lui, il Cavaliere, il “mago malefico” che voleva imprigionare la Lega – e in particolare Bobo Maroni, allora pencolante – in un incantesimo. Nella designazione Bossi comprendeva anche il potere della tv, che “lavava il cervello alla gente”. Ma il linguaggio di quelle uscite, relativamente insolite per un fantasista come lui, suonava appropriato a una cultura cui la politica italiana, che da poco si era tolta dai piedi democristiani e comunisti, era a dir poco restia ad attingere.
Da quel frasario vagamente iniziatico si poteva dedurre che i libri del pensiero tenebroso stavano arrivando a Gemonio. Di certo il loro afflusso crebbe in abbondanza e intensità. Tanto che nel 1996 Bossi salì sul cavallino bianco della secessione, in senso strettamente politico. Su di un altro piano, meno immediatamente intellegibile, prese ad alimentare un dirizzone metapolitico piuttosto caotico e anche buffo che a tratti lo faceva parlare come un capo indiano, ma dietro il quale sembrava di scorgere un precipitato misteriosofico d´incerto discernimento e ancor più improbabile rifornimento che con il pretesto degli antichi celti teneva assieme audaci panteismi, passioni fluviali, credenze druidiche, stirpi solari e iperoboreali, magie delle nebbie e degli elfi.
E venne il tempo dell´acqua del Monviso, del dio Po, dell´ampolla e dei riti veneziani di sposalizio con il mare. Per via del grande fiume e di una stella più esoterica di altre al quartogenito, ignara e innocente creatura, come in un disegno di Novello, Umbertone e la Manuela imposero il nome di Eridanio Sirio. E dopo l´acqua santa, arrivarono, nel senso che andarono a prenderle con l´elicottero, anche le pietre sante del sacro monte, e tutto divenne sacro per mano del Senatùr: il sacro sole alpino, il sacro giuramento e il sacro pratone di Pontida, dove si fecero le promesse del sacro matrimonio padano, da celebrarsi con sacre formule e da innaffiarsi con idromele, per una generazione di giornalisti politici fu un periodo spassoso e indimenticabile. E non solo perché le nozze celtiche di Calderoli, per dire, furono officiate da un drudo che era il capo di un villaggio vacanze e il valoroso Davide Boni, quello del penultino scandalo lombardo, vi partecipò in kilt, seppur con giacca, cravatta e gilet; ma perché a questa effervescenza mitologica si accompagnava allegramente una sarabanda di motociclisti ubriaconi, ufo proto-leghisti, annunci per single, raduni di alpini, esibizioni di cani e gatte e auto d´epoca, e pornostar, stendardi, formaggi, impensabili gadget, graffiti di dragoni nei bar, inesorabili poeti dialettali, camicie verdi e anche nanetti da giardino da vestire di verde pure loro ed accortamente mobilitare contro il nano di Arcore.
“Eccezionale fecondità simbolica” riconobbe allora a Bossi il professor David I. Kertzer, illustre studioso di “Riti e simboli del potere” (Mulino, 1981), ma fu un´eccezione perché la alta politologia preferiva girare la testa da un´altra parte lasciando così ai cronisti l´onere e l´onore della malizia divertita e del variopinto scetticismo. Quando alla fine degli anni 90 Bossi recuperò l´alleanza con Berlusconi, sembra di ricordare un accenno liquidatorio, anche se malinteso, alla biblioteca della mansarda. Di tutti quei libri che lo avevano messo contro il Cavaliere, disse alimentando l´equivoco che si trattava di una collezione interamente dedicata alla nefandezze del berlusconismo, mafia, riciclaggio e oscurità varie, poteva fare a meno.
A una dozzina d´anni di distanza, e con la coscienza che su questo genere di questioni non si va dal notaio (come invece Silvio e Umbertone pare siano andati giusto in quel tempo per dirimere altre e più sostanziose faccende), ecco, si viene a sapere che quei libri erano di magia e oggi il dubbio è che Bossi non ne avesse più bisogno perché il Gran Mago era diventato lui, o comunque si sentiva ormai un mago più potente di quel Cavaliere che qualche anno prima aveva cercato di rinchiudere la Lega nel cerchio magico, e invece lui ne era uscito di slancio. E insomma è questa un´ipotesi, anche se è pur vero che i potenti fanno sempre a gara a chi lo è di più, in tutti i sensi.
Però poi Bossi si è ammalato, anche di brutto, e già questo smentiva il superbo assunto della sua ultraterrena invincibilità. Poi il cerchio magico – dizione di seconda mano – arrivò a certificare la fragilità di quel leader che poco prima la Padania aveva definito “capace di orientare i destini universali”. E´ possibile che la signora Bossi abbia continuato a leggere quei volumi. Ma è sicuro che tra quelle pagine ce ne sono diverse che vivamente sconsigliano di usare i poteri della magia per fini di misera e bassa convenienza: poltrone, denaro, carriera, lodi, vantaggi per i figli, auto, ville, vacanze e altri benefici.
Si pensa all´”Apprendista Stregone” e subito viene in mente Topolino che con il secchio e la scopa combina un sacco di disastri in “Fantasia” di Walt Disney. Ma veramente è un mito arcaico e a suo modo terribile che anch´esso sorprende alle spalle la realtà facendosi beffe della ragione.

La Repubblica 07.04.12

"Se un liceo abolisce i voti bassi. Umiliazione o insegnamento?", di Annachiara Sacchi

Martedì 27 marzo, seduta pomeridiana, il collegio docenti è quasi concluso. Dopo le solite discussioni, il piano di offerta formativa, i programmi e i precari, il preside — siamo al liceo classico Berchet, storico istituto milanese con decine di diplomati eccellenti, da Luchino Visconti ad Andrea De Carlo fino a Giuliano Pisapia — lancia la proposta: «Vorrei escludere, in sede di scrutinio, i voti inferiori al 4. I due e i tre creano troppa frustrazione nei ragazzi. Che cosa ne pensate?». I professori ammutoliscono. Poi, superato lo choc, cominciano a discutere. Ma è troppo difficile dire sì o no subito. «Ne riparliamo dopo Pasqua».
Punire con un due chi non termina la versione di latino o dare un quattro che non lasci troppe ferite? Rimandare con un tre (quasi una condanna a ripetere l’anno) o limitarsi a un’insufficienza più digeribile? Il votaccio fa solo male o fa crescere? Dibattito che divide. E divisi sono gli insegnanti del liceo di via Commenda — il primo dei classici statali nella classifica milanese della Fondazione Agnelli — dopo la proposta di Innocente Pessina, dirigente storico che crede nell’«educare senza punire», che non si è mai vantato — anzi — dei troppi ragazzi che lasciano il ginnasio «perché non ce la fanno», che ha sempre sostenuto la necessità di valutare anche i docenti, preside compreso.
L’arringa di Pessina raccontata da chi c’era: «Ho visto troppi ragazzi andare in crisi per una raffica di due. Alcuni smettono di mangiare, altri abbandonano la scuola distrutti. Sì, sono diversi da come eravamo noi. Cerchiamo di capirli».
Mai meno di 4 in pagella. Proposta choc. Messa ai voti durante il collegio dei docenti della scorsa settimana. Tra favorevoli e contrari ha prevalso la terza via: decisione rinviata alla prossima riunione. Meglio aspettare. Anche se tra gli insegnanti una discreta parte sembra contraria. «Prima di tutto — avverte una docente — la norma dice che i voti vanno dall’uno al dieci. Secondo: il giudizio in sede di scrutinio è espresso dal consiglio di classe, non dal singolo prof. Terzo, dire che in questo modo si riduce la depressione dei ragazzi è un alibi». Prosegue un collega: «La frustrazione è un’esperienza che va fatta proprio da adolescenti. In realtà il problema sono gli adulti».
I genitori, appunto. Spesso accusati di esagerare nel proteggere i loro «cuccioli», di delegare alla scuola tutto il «pacchetto educativo», di essere troppo presenti o assenti. Attacca una professoressa: «I ragazzi non vogliono soluzioni edulcorate. Il problema sono gli adulti e la loro incapacità di giustificare un giudizio severo». Sentenza a difesa del dirigente: «Noi docenti dobbiamo cambiare. E sforzarci di accompagnare i giovani nel loro difficile percorso di crescita».
Rimpallo di responsabilità. E controproposta della fazione che non accetta lo «sbarramento del 4»: «Invece di fare la campagna del voto al ribasso, ripensiamo ai valori dall’uno al dieci». Tesi dei «pessiniani» che difendono la posizione del dirigente: «Inutile accanirsi. Che senso ha umiliare gli studenti con un 2– (due meno meno)?».
Il valore di un numero. E le conseguenze sui minorenni. Alessandro Generali, ex berchettiano, fino allo scorso giugno rappresentante nel consiglio di istituto e ora consigliere del movimento «Milano Civica» (il popolo arancione vicino al sindaco Pisapia), commenta: «Dare quattro al posto di due a chi ha presentato un compito praticamente inclassificabile non risolve il problema della preparazione dello studente. Al contrario, lo illude semplicemente di essere in una condizione diversa da quella in cui realmente si trova».
Troppa indulgenza può far male, insiste l’ex allievo. Ma c’è un altro aspetto, comune a molte scuole, che Generali sottolinea: «Mi pare che il problema maggiore non siano i voti troppo bassi, ma la mancanza di omogeneità ed equità nelle valutazioni: è un classico, a parte rare e benemerite eccezioni, che i giudizi più generosi siano riservati agli studenti che rafforzano gli insegnanti nel loro ruolo, approvandone metodi e punti di vista. Trattamento opposto, invece, tocca a chi mantiene la propria libertà di giudizio e non si presta a un simile gioco». Esperienza diretta? Il ragazzo sorride: «Certamente».

Il Corriere della Sera 07.04.12

"La bancarotta della politica", di Guido Crainz

I nodi sono giunti al pettine. I due partiti fondativi della “seconda Repubblica” sono attraversati da una crisi probabilmente irreversibile, e i punti di somiglianza sembrano prendere il sopravvento sulle diversità. Non solo e non tanto per gli aspetti più superficiali ed evidenti: la crisi di entrambi è stata progressivamente scandita dal pur differente tracollo dei due padri-padroni che li hanno forgiati e dominati, assolutamente incapaci di porsi il problema del ricambio. Portati a far crollare con sé le colonne del tempio, in un cupio dissolvi che si è arrestato solo sulla soglia della dissoluzione. Erosi da quella stessa antipolitica che ne aveva costituito il discutibile punto di forza e che rivela ora per intero i suoi esiti: l´assenza di democrazia interna, le cricche elevate a sistema, lo strapotere di tesorieri-avventurieri, il familismo da Basso Impero delineano in realtà percorsi paralleli e analoghi. Danno il segnale più visibile di un´involuzione della politica e del Paese, ci costringono a fare i conti con il ventennio di questa sciagurata “seconda Repubblica” e con le sue radici. Ci obbligano, soprattutto, a misurarci con il grande vuoto che si avverte sullo sfondo. Con le sue incognite e con gli enormi problemi che pone: in modo non molto dissimile, a ben vedere, da quel che era avvenuto vent´anni fa.
Sono entrati drasticamente in crisi, infatti, due partiti cui si era rivolta una parte significativa del Paese: in essi aveva fatto confluire alcune delle sue pulsioni peggiori – dall´egoismo proprietario all´intolleranza – ma anche illusioni e paure reali, ricerca di protezione e angoscia per l´urgere dei problemi, bisogno di speranza e rimozione delle inquietudini. L´antipolitica aveva fatto da cemento potente, alimentata da antiche e diffuse inculture e da sostanziali estraneità alla democrazia. Una deriva profonda, che talora sembrò inarrestabile: e che fu poco contrastata da forme di buona politica e da proposte capaci di rispondere in modo credibile alla crisi profonda del Paese. Di costruire un´idea di futuro. È stata questa assenza a permettere il consolidarsi del centro-destra e il suo lungo interagire con le deformazioni culturali più corpose della nostra storia recente.
Ove si ripercorra la storia degli ultimi decenni non è difficile comprendere l´iniziale irrompere della Lega e il successivo trionfo di Berlusconi. Non è difficile neppure cogliere il segreto di un´alleanza che era parsa (ed era) improbabile ma si è rivelata più duratura delle rotture e delle tensioni di superficie. Convivevano in essa, a dirla in breve, sia i peggiori guasti degli anni Ottanta sia l´esasperazione per le loro conseguenze. Vi confluivano cioè egoismi individuali e di ceto, protagonismi privi di regole e valori, disprezzo per lo Stato, indifferenza ai valori collettivi: in sintesi, il prevalere del privato sul pubblico nell´economia e nella politica, nei comportamenti quotidiani e nelle relazioni sociali. E vi era al tempo stesso l´esasperata reazione di fronte agli inevitabili frutti di tutto ciò (il debito pubblico ne era e ne è un concretissimo simbolo). Questo fu il connubio che vinse nel 1994, e uno sguardo agli anni precedenti rende più agevole capire perché quella vittoria sia stata possibile. Rende più chiari, anche, i problemi che stavano sullo sfondo e che rinviano a questioni centrali. Non era certo un´invenzione, ad esempio, la “questione settentrionale”, pur nel suo scomposto deflagrare: che risposte ha avuto, e come si presenta ora? Per capire poi meglio, su di un differente versante, altri e connessi nodi che abbiamo di fronte si pensi anche ad un´esperienza molto positiva dell´ultimo ventennio: il grande pregio del primo governo Prodi nel portare il Paese in Europa ma al tempo stesso la sua debolezza nel far comprendere appieno le ragioni ideali e le prospettive di una costruzione europea che imponeva nell´immediato sacrifici pesanti.
Queste questioni sono ancora tutte sul terreno e non è possibile riproporre senza molta convinzione le ricette precedenti: è necessaria un´inversione di marcia radicale e riconoscibile. Capace di ridare fiducia. A questo è chiamato in primo luogo il centrosinistra ma forse è possibile che scendano in campo su questo terreno, pur con diversità di prospettive e di accenti, energie e forze più ampie. Nella speranza, naturalmente, che l´esperienza stessa del governo Monti possa contribuire anche alla nascita di quella “destra normale” che il Paese non ha mai conosciuto e che sarebbe invece preziosa.
Vi è però una questione assolutamente preliminare e drammaticamente urgente, e la prolungata insensibilità e sordità di quel che resta del ceto politico ha effetti ogni giorno più devastanti. Lo squallore della vicenda della Lega, ad esempio, non è riducibile a tesorieri felloni o a miserabili cerchi, a parenti o affini: è l´espressione esasperata di una bancarotta della politica che trae origine dal suo complessivo degradare e dalle scelte che ha compiuto. È difficile descrivere con parole adeguate la truffa compiuta ai danni di un Paese che aveva abolito per via referendaria il finanziamento pubblico. E che ha visto invece crescere a dismisura rimborsi ai partiti concessi senza alcuna documentazione, talmente esorbitanti da autorizzare investimenti in Tanzania e truffaldine dilapidazioni private. Lo ha scritto benissimo Stefano Rodotà su questo giornale prima ancora che l´ultima vicenda deflagrasse: la politica, prima vittima di questo viluppo di corruzione e privilegi, ne è stata complice. E ora non ha più alibi.
Revisione immediata e radicale della legge sui rimborsi elettorali, norme severissime contro la corruzione, riduzione drastica dei costi della politica: come è possibile presentarsi al Paese senza aver compiuto questi passi? Come è possibile lasciar incancrenire la situazione nel momento stesso in cui alla collettività nazionale si impongono invece sacrifici pesantissimi? Il tempo è scaduto, la casa brucia da tempo: ogni ulteriore ritardo è in realtà una corsa verso il baratro.

La Repubblica 07.04.12

"Oscurata e sconfitta quell'idea del partito del Nord", di Oreste Pivetta

Il futuro della Lega sarà nelle mani dei suoi elettori. È ovvio. Ci si può spingere più in là: è nelle mani di Dio. Non sembra infatti che il triumvirato in corso Maroni – Calderoli – Dal Lago sia in grado di esprimere svolte radicali: non c’è la secessione alle porte, non c’è la Padania e non compare neppure l’eventualità di una colorita scampagnata lungo le rive del Po. Anche i riti consolidati, tipo il giuramento di Pontida, perdono smalto. Dopo vent’anni, dopo aver appoggiato tutte le leggi possibili salva-Berlusconi, la Lega non ha conquistato neppure uno straccio di federalismo e non c’è più nulla su cui giurare e su cui sperare. In quel bilancio tra lo zero e lo sconforto suona la campana a morto. La resa si conta così, prima che di fronte a presunti i traffici illeciti dal cerchio magico ai figlioli. Il più politico dei leghisti, dopo il Senatur naturalmente, Roberto Maroni, osannato soltanto tre mesi fa, è stato salutato come «Giuda» e si può immaginare la violenza dell’insulto per i leghisti, che considerano Umberto Bossi il loro unico, insuperabile profeta. Tradire Bossi, ecco il delitto peggiore. Maroni cercherà, se gli Lega nell’alveo della normalità. Ma a quel punto l’appeal leghista rischierà di sfumare. Si apre comunque una nuova fase politica. Dopo Berlusconi, Bossi. Si può ricominciare ignorando la Lega? Cioè i suoi elettori, la sua base popolare? Credo di no. E non perché per far voti si possa riprendere a modello un partito localista. Magari ci ripenseranno i veneti, che una lunga tradizione in quel senso sotto gli stendardi del leone di San Marco la possono vantare: sono arrivati loro prima di Bossi. Ma il problema è che l’Italia, di fronte all’Europa, ha bisogno d’altro.
Soprattutto quando le strade non sono lastricate d’oro, il Pil cala, i disoccupati aumentano, le tasse infieriscono, le pensioni diventano la chimera per generazioni e generazioni. È la recessione, e rifare un partito in tempi di recessione è un’impresa. Se qualcuno ha in testa di risollevare lo spirito della Lega deve tener conto di un disegno politico che si è ormai esaurito, visto che la ristrutturazione della produzione nel Nord Italia è avvenuta per conto suo, senza che vi potesse metter mano qualche stratega ministeriale del Carroccio. E quel popolo di produttori minimi che si scagliava contro Roma ladrona e contro l’ottusa burocrazia si è assai indebolito. La fedeltà alla Lega
non ha pagato. Il mondo, anche al Nord, è sempre più conteso tra ricchi e poveri, le aziende chiudono, i ragazzi diventano lavoratori precari, i padri passano anni di cassa integrazione. Che
cosa può significare raccogliere l’eredità della Lega? Tornare alla
secessione e alla Padania? La tentazione del partito del Nord seduce ancora qualcuno?La Lega ha illuso. Dicono che si sia radicata nel territorio. È vero. Ma la delusione (insieme con il sorgere prepotente di una questione morale, come finora quelli del Carroccio avevano sempre fatto finta di non vedere, malgrado la tangente Enimont, le speculazioni immobiliari, la Tanzania…) può spazzar via in un amen sezioni e pure i gazebi bossiani. Così le buone amministrazioni locali poco potrebbero contare per la tenuta
generale di un partito, in tempi in cui è più facile abbandonare una bandiera, senza sogni e senza ideologie di mezzo. In tempi in cui si va a caccia soprattutto di liste civiche (Verona insegna) e
l’identità si frantuma. Sul piatto, in Padania come in Italia, resta la crisi, resta una rotta negativa che non si sa quando si invertirà. Di fronte a un orizzonte fermo e oscuro, piuttosto che immaginare il partito del Nord, per parlare a quel popolo leghista si dovrebbe coglierne la sofferenza comune e usare un linguaggio che rimettesse al centro di tutto il lavoro. Che rimettesse al centro la produzione, il commercio, l’innovazione, l’intelligenza dei nostri produttori, quanto di meglio un’Italia volonterosa e coraggiosa in altre stagioni non aveva esitato a mostrare. Dovrebbe, di fronte a un elettorato che s’era convinton della bontà di una idea balorda e arretrata come la secessione, ricomparire uno Stato forte, capace ancora di programmare e
di investire, di riprendere una politica economica che stimolasse
davvero la produzione industriale, capace di correggere
idiozie burocratiche, di sveltire i processi, di accelerare i pagamenti, di razionalizzare ferrovie.
Occorre il realismo delle scelte politiche, occorre la concretezza della azioni amministrative: si cominci a proporre una riforma del sistema bancario, si guardi ai patrimoni delle fondazioni bancarie, si trovino così i soldi per rifondare lo Stato imprenditore e si riprenda la via dell’economia mista. Ricostruendo quel canovaccio di impresa, scuola, formazione, innovazione, welfare e di speranza dentro il quale il Nord possa riprendere, in un Paese che cresce, quel ruolo di traino che ha sempre avuto nel passato. Molto prima che se ne accorgesse Bossi.

L’Unità 07.04.12

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“Maroni che entra papa in conclave…”, di Francesco Lo Sardo

Per Bobo non è scontata la conquista del trono: finora solo tattica e zero progetto
«Iettatori fottetevi tutti, La Grande Lega è tornata più forte di prima. Padania Libera ». Padania libera? Se il buongiorno si vede dal mattino, non pare che Roberto Maroni parta col piede giusto nella sua sgambata per la conquista del trono, dopo la caduta del re Bossi, trascinato a fondo dal tragicomico tonfo della corte del Cerchio magico. A dispetto di chi ne dà già per scontata l’elezione a “pontefice verde in autunno (ammesso che il congresso, dopo dieci anni di “no” di Bossi che ne ha impedito la celebrazione si terrà davvero), con l’aria di batosta elettorale che tira per la Lega in Lombardia mai come per il lumbard Maroni vale il vecchio detto: «Chi entra papa in conclave ne esce cardinale».
Troppe variabili, di qui ai prossimi mesi: in particolare l’insofferenza alla condizione di subordinazione, ormai non più giustificata dai numeri, nei confronti della centrale lombarda di via Bellerio che cresce tra i leghisti veneti: quelli diventati primo partito in regione, quelli che tengono su la Lega a livello nazionale, quelli che portano acqua al mulino mentre altri si mettono il pennacchio. Una dinamica, questa, che anche per effetto delle amministrative potrebbe travolgere gli schemi di gioco studiati a tavolino da Maroni, finora apertamente sostenuto per la leadership del Carroccio da quel Flavio Tosi in ascesa che ha già in tasca l’elezione a capo della Lega veneta al congresso regionale che si terrà a giugno, dopo la sua marcia annunciata come trionfale sulla città di Verona.
Ma questa, prima tra numerose altre possibili nefaste incognite, sarebbe poca cosa se non si sommasse al vero punto debole di Bobo: l’assenza di un chiaro disegno strategico di progetto di una Lega “maroniana” per il dopo-Bossi. Da mesi, a partire dalle comunali di Milano del giugno scorso, da quando Bobo – tra esitazioni e reticenze, a differenza di Tosi – s’è messo ad agitare l’ascia di guerra contro i suoi avversari interni non c’è traccia di un progetto maroniano, se non quello di azzerare la banda del Cerchio magico a livello centrale e periferico e accelerare la successione a Bossi. Se in Veneto la Lega accentua il makeup di partito di governo e cambia toni, sventola il tricolore e inneggia agli alpini guardando oltre i confini di partito, il grido “Padania Libera” di Maroni è un sudario steso su un vuoto di contenuti offerto a una dolente platea di quadri e militanti in nome del nostalgismo e del ritorno agli antichi fasti della Lega. Una Lega così, per restare perennemente all’opposizione del governo e senza alleati a livello nazionale? Una Lega fuori e contro l’area della responsabilità dei partiti impegnati, forse anche dopo il voto 2013, in un’intesa d’emergenza anti-crisi? Forse sì.
Forse questo Maroni minimal è l’unico Maroni possibile. Ma questo cinico calcolo, che è il più vistoso limite dell’attuale Maroni, potrebbe essergli fatale. Già il triumvirato, anziché giovargli, gli riduce i margini di manovra, lo impiglia e lo rischiaccia sul vecchio avversario Calderoli. La ricerca di una mediazione con Bossi e con le altre correnti, (dai resti dei cerchisti ai secessionisti) lo logorerà. Ma il gioco, per l’equilibrista Bobo Maroni, vale comunque la candela. In fondo, venuto dalla sinistra interna leghista, ruppe con Bossi da destra (difendendo l’intesa con Berlusconi), rientrò al centro e lì rimase, senza fiatare, per anni: ministro del welfare e poi dell’interno. Avrebbe continuato così, aspettando di passare dal delfinato al trono altri cent’anni, dentro il patto di potere Bossi-Berlusconi, se l’incauto Cerchio magico, l’anno scorso, non avesse deciso di farlo fuori. Ha reagito e li ha fatti fuori lui. Un abile cardinale. Gli basterà per fare il papa?

da Europa Quotidiano 07.04.12

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“La strana tregua Zaia-Tosi”, di Luca Romano

Governatore e sindaco non si combattono più. E il caso Treviso insegna. È in Veneto che la Lega rischia di più dal terremoto delle dimissioni di Umberto Bossi. Rischia di più perché in quel territorio è cresciuta una schiera di amministratori locali anche di nuova generazione, il radicamento dalle campagne dei distretti industriali e dai territori marginali si è allargato anche a centri urbani importanti come Verona e Treviso e, soprattutto, dal 2010 ha un suo governatore alla guida della regione. Dei principali fattori che hanno costituito la forza della Lega, il sindacato di territorio e la rivendicazione federalista, l’antropologia della comunità perduta e dell’identità ferita e la forma carismatica di partito, il colpo devastante costituito dalle dimissioni di Bossi si riversa su questo ultimo aspetto, quello che ha unificato movimenti, leghe e lighe sul terreno della leadership politica.
Ne derivano tre scenari possibili. La deriva localista con la balcanizzazione del partito-movimento: la forza identitaria delle specifiche differenze territoriali, priva del contrappeso di un indirizzo unificante quale quello che aveva connotato la leadership carismatica di Bossi, sospinge tutti i particolarismi, e personalismi, in un itinerario che conferisce reversibilità a quello documentato da Francesco Jori: non dalla Liga alla Lega, come titolava il suo libro, ma dalla Lega a uno sventagliamento di lighe e leghe, centrifughe e rissose.
Un’altra possibilità, che presupporrebbe una maestria dirigenziale molto pronunciata da parte della schiera dei “colonnelli”, consiste nell’avviare il problema della crisi del centralismo lombardo a una soluzione con un modello federativo compiuto.
Ma è anche possibile la secessione venetista. Proprio per aver capitalizzato una rappresentanza maggiormente aderente alle caratteristiche della società veneta e delle sue peculiari dinamiche territoriali, prive di una metropoli a fungere da magnete, la Liga Veneta potrebbe accarezzare l’idea dello strappo. Nei prossimi mesi verranno riattizzati i temi “antisistema”, favoriti anche dalla saturazione dello spazio del riformismo Uno scenario in cui Manuela Dal Lago potrebbe avere un ruolo cruciale, per il suo percorso fuori dagli schemi consueti, la sua estraneità alla bolla mediatica, la sapienza con cui saprà trattare la “questione veneta”.
Non è casuale che in Veneto le fazioni pro-Zaia e pro- Tosi, che finora si sono combattute ricorrendo alle triangolazioni lùmbard, da circa un anno hanno smesso di litigare. Come pure, alla luce di quanto sta avvenendo, si capiscono di più i rimescolamenti che hanno assegnato la leadership leghista a un maroniano perfino nella Treviso che fino a poco tempo fa era considerata una falange monolitica di Umberto Bossi.
Per questa fase, sia il sindaco uscente di Verona che il governatore veneto hanno assunto un codice perfettamente identico: riconoscimento del ruolo storico di Bossi, durissima critica sulla gestione familistico amorale del suo entourage, autocritica di partito e spinta autolegittimatrice a un ricambio. Certo, sullo sfondo c’è anche il rischio dell’implosione della Lega senza Bossi, ma per ora l’ immagine che si tenta di accreditare è quella del cambio di stagione e di leadership politica. Senza rivoluzioni.

da Europa Quotidiano 07.04.12

"Che imbarazzo in Europa per l'omofobia italica", intervista a Ignazio Marino di Claudia Arletti

Di unioni civili in Italia non si parla (ovvero, si parla e basta), e così la sortita di Angelino Alfano – che si è esercitato nell`antico vaticinio della «sinistra pronta a fare i matrimoni gay alla Zapatero» – ha avuto almeno il merito di increspare la palude. Poi, di nuovo tutto fermo, stagnante e silenzioso. «Era un discorso di una certa rozzezza» dice Ignazio Marino, «citava le unioni tra uomini, ignorando quelle tra donne».
Il senatore del PD – padre di famiglia, cattolico, impegnato sul fronte dei diritti e adesso in libreria con Credere e conoscere, scritto col cardinale Carlo Maria Martini (che «apre» alle ragioni dei gay) è convinto che debba e possa essere il Parlamento, questo Parlamento, ad agire.
Ammetterà, però, che non è aria.
«Ci rendiamo ridicoli in Europa. È capitato anche a me, di non sapere dove girarmi».
Racconti.
«Fine 2011, ero a un incontro della commissione sui diritti civili, per fare il punto sull`applicazione, nella Ue, delle leggi nazionali sull`aborto. Lo sa, no, che l`Italia è nella black listi».
Anche su questo.
«Per forza, abbiamo regioni con I`80 per cento di obiettori tra gli anestesisti… Comunque, una europarlamentare olandese inizia a dire che bisogna vigilare con attenzione sui diritti civili, e poi fa l`esempio: “Ricordiamoci che in Europa ci sono ancora due Paesi dove le persone che si amano, se sono dello stesso sesso, non sono come le altre coppie”».
E lei?
«Io, zitto. Arrossisco e basta. In quel momento ero il rappresentante di una “vergognosa anomalia”, Noi e la Grecia», Eppure, quando si parla di unioni gay in Italia, apriti cielo.
«È la classe politica: ferma al secolo scorso. Il Paese va in un`altra direzione, anzi è già altrove. Chiunque abbia figli adolescenti sa che l`amore omosessuale non è più argomento di discussione».
La Chiesa si oppone, però.
«Una bizzarria: è l`idea che la famiglia, così come si è fissata nella storia, in quanto coppia eterosessuale, si difenda e si rafforzi proibendo altri tipi di unione. Comunque, anche nella Chiesa ci sono pareri diversi. Prenda il cardinale Martini».
Lei non pronuncia mai la parola «matrimonio».
«Contano i diritti, non le parole, e per molti questa è quasi un tabù. Ma ci sono coppie eterosessuali, tante con figli, che hanno ritenuto di non sposarsi, né civilmente né in chiesa. Se uno dei partner sfortunatamente muore, l`altro non subentra neanche nella proprietà della casa. lo penso alla soluzione inglese del civil partnership senza nozze, si attribuiscono tutti i diritti a ogni coppia ».
Anche il suo partito fibrilla.
«Il mio partito dovrebbe essere il portabandiera del rispetto e dell`uguaglianza, al di là della religione, del sesso e dell`orientamento sessuale».
Invece, l`argomento divide.
«Agita solo una ridotta componente dei parlamentari. Forse è il caso di fare un resetting».
Rivedere le posizioni?
«No, rivedere i parlamentari. Tagliare fuori quelli per i quali i diritti civili sono un problema».
Be’, facciamo l`elenco.
«Niente nomi: spero sempre che ci sia un`evoluzione. L`altra sera, in fondo, Clemente Mastella ha ammesso in tv di avere cambiato idea su questi temi».
Però Mario Monti ha precisato di non volere giocare la partita.
«Monti sbaglia. Invoca un Paese all’altezza dell`Europa, ma se poi un manager tedesco, maschio o femmina, viene a lavorare in Italia con il partner cui è unito civilmente, e questo si ammala, non avrà il diritto di assisterlo in ospedale». Un`ultima domanda…
«Vuole sapere se sono gay?».
Ma si figuri….
«Invece pensi che, in campagna elettorale, alla fine di un dibattito alla festa dell`Unità, dopo un bicchiere, me lo hanno anche chiesto: “Ignazio, ma tu… ?”».

(In questa legislatura, sono stati depositati 19 disegni di legge sulle unioni civili: dieci allo Camera, nove al Senato. Uno è stato ritirato. Di nessuno è iniziato l`esame).

da Venerdì di Repubblica