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Intervista a Pier Luigi Bersani «Vinta la battaglia dell’articolo 18, nessuno ora tenti colpi di mano», di Simone Collini

Nei mesi scorsi molti hanno pensato che davanti a un tema di questo genere si potesse frantumare il Pd. E invece mi pare che le cose siano andate in modo molto diverso…». Pier Luigi Bersani in queste ore evita di infierire sulla Lega (e anzi alla domanda sulla crisi del Carroccio risponde con un ragionamento sulla possibilità di recuperare le tradite «ragioni originarie» che hanno portato alla nascita di quella forza politica), mentre nota che la riforma del mercato del lavoro sta creando problemi «in casa d’altri», non nel suo partito: «Questo dovrebbe dire qualcosa a chi ha sottovalutato l’unità, l’autonomia e la forza del pensiero e delle proposte del Pd».
Nel disegno di legge sul lavoro è stata inserita la possibilità del reintegro per i licenziamenti economici illegittimi, ma ora il Pdl chiede “nuove intese” al governo, se vuole i loro voti: c’è il rischio che il testo esca stravolto dalla discussione parlamentare? «Serve un dibattito rapido ma serio, che faccia emergere gli elementi da rafforzare sia dal lato delle esigenze poste dalle imprese che da quello riguardante i precari. Ma questo dovrà avvenire nel solco dell’equilibrio trovato».
Un equilibrio buono per voi, ma non per altri…
«Tutta questa vicenda ha sofferto un’ambiguità iniziale, riguardante il messaggio che si voleva dare». Cioè?
«Una volta approvata la più rilevante riforma delle pensioni che si sia vista in Europa, e che peraltro presenta un buco rilevante sugli esodati che andrà sanato, qual era il messaggio da dare? Di deregolazione o di ri-regolazione secondo le migliori esperienze europee? Questa ambiguità ha accompagnato tutta la discussione. Ora ci potrà essere anche un perfezionamento, ma è stato trovato un punto di equilibrio che viste le premesse è molto importante e va mantenuto».
Anche se Marcegaglia ha detto al “Financial Times” che la riforma è “pessima”? Anche se Di Pietro e Vendola, nonostante la battaglia del Pd sul reintegro, dicono che il testo costituisce un attacco all’articolo 18? «Non intendo ascrivere esclusivamente al Pd il merito della presenza nel disegno di legge del reintegro, chiesto da sindacati, autorità morali, opinione pubblica. Dopodiché, che ci sia una modifica dell’articolo 18 per come lo abbiamo conosciuto fin qui è evidente, e quindi è malafede dire al mondo che abbiamo le stesse rigidità di ieri. Stupisce sentire commenti distruttivi da parte di Confindustria, soprattutto quando ci si rivolge all’opinione pubblica internazionale e quando tutti sanno che per il 95% questo disegno di legge risponde al lavoro impegnativo fatto per tre mesi dalle forze sociali».
E il reintegro come “miraggio”, per dirla con Di Pietro?
«Non è così. È previsto quando vi siano insussistenti motivazioni economiche».
Anche se Monti ha sottolineato che il giudice “può”, non “deve” decidere per il reintegro?
«Sono convinto che il giudice, di fronte a un’insussistenza conclamata di motivazioni di tipo economico, si comporterà in coerenza. È determinante che sia rispettato il principio che non può esserci la sola monetizzazione del rapporto di lavoro. Principio che abbiamo sempre posto e che è stato ben compreso da un’opinione pubblica larghissima. È stato fermato il rischio di introdurre in un momento così difficile elementi di ansia, il sospetto di voler indebolire i rapporti di forza tra aziende e singolo lavoratore, addirittura di voler isolare la condizione lavorativa».
Il Pd quali aggiustamenti chiederà in Parlamento?
«Bisogna vedere come colmare il vuoto sugli ammortizzatori per i lavoratori parasubordinati, come ribilanciare i contributi pensionistici per il lavoro dipendente e per i lavoratori parasubordinati. Ma per noi resta un punto dirimente anche la questione degli esodati, su cui attendiamo provvedimenti da parte del governo».
La riforma del lavoro è approdata in Parlamento e però lo spread è ancora a livelli di guardia: sicuri che sia stata imboccata la strada giusta?
«Questa riforma è importante, ma non facciamo di queste norme l’alfa e l’omega di tutta la questione, anche perché è una favola che il mondo ci guarda per quel che facciamo sull’articolo 18. Più importante di ogni altra cosa adesso è la politica economica e come dare un po’ di lavoro. Ci si sarà accorti che perfino il “Wall Street Journal” dice che l’elemento critico della situazione italiana ed europea è il rischio di un avvitamento disastroso tra austerità cieca, recessione e mancata tenuta dei conti pubblici?».
Si torna a parlare di una legge sui partiti, per l’ennesima volta…
«Nei prossimi mesi saremo di fronte a un passaggio drammatico, in cui dovremo decidere se vogliamo consegnare alle prossime generazioni una democrazia costituzionale, occidentale, o se ci arrenderemo a un’eccezionalità italiana che passa da un populismo all’altro. Se è verso la prima che vogliamo andare, dobbiamo prendere di petto il tema della democrazia dei partiti, che devono rispondere non solo ai propri iscritti ma all’intero sistema, dare garanzie su bilanci, codici etici, partecipazione interna, candidature». Come si capisce se è la volta buona? «Ho chiesto ad Alfano e Casini di trovare il minimo comun denominatore tra le nostre proposte. Bisogna cominciare dalla certificazione dei bilanci, dalla loro pubblicazione su internet, dall’abbassamento a cinque mila euro per le donazioni per cui non è necessaria una dichiarazione. Per noi va privilegiata l’urgenza e si deve dare un segno che cominciamo a fare sul serio».
C’è chi sostiene che per fare sul serio vadano aboliti i rimborsi elettorali: lei che dice?
«Ci sono stati tagli considerevoli negli ultimi anni e ora una seria riforma va fatta, ad esempio si deve stabilire che quando un partito non c’è più non deve più ricevere finanziamenti. Ma in tutti i paesi occidentali è prevista una forma di finanziamento alle attività politiche ed è giusto che sia così, perché altrimenti si cade nell’oligarchia o nel dominio». Le vicende leghiste dicono che siamo alla fine dei partiti personali? «L’elemento personale ha giocato molto, per quel che riguarda la Lega, ma non alla Berlusconi. C’è stato un cortocircuito tra l’elemento personalistico e un centralismo che ha sospeso l’elemento partecipativo. Basti pensare che la Lega, che comunque vive nel territorio, non fa un congresso federale da dieci anni. Ma non scordiamo che in questo momento è il partito che ha il nome più antico, e penso che le ragioni di fondo che ne hanno determinato l’arrivo non siano scomparse».
Cosa intende dire?
«Quello che ho sempre detto, anche davanti ai militanti leghisti. E cioè: dov’è finita la vostra ragione originaria? La Lega è nata come forza antiburocratica, autonomistica, e costruita nella critica a tangentopoli. Tutto questo via via è stato perso e sostituito con una fisionomia separatista, xenofoba, populista, che si è fatta identificare come una politica di potere il giorno che ha preso a braccetto il miliardario. Ora la Lega può riprendere una sua strada solo rivedendo l’atto di nascita perduto in questi anni».
Si preoccupa delle sorti leghiste?
«No, mi preoccupo del fatto che quegli elementi originari devono ancora avere una risposta, dopo che la responsabilità autonomista è stata tradita da un federalismo propagandistico e inefficace e dopo che chi si era presentato difendendo la sobrietà in politica è finito in queste vicende. Oggi tocca anche a noi, non solo per il Nord ma per l’intero Paese, dare le risposte giuste».

L’Unità 07.04.12