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Art. 18, Bersani contro Alfano «Noi da qui non ci muoviamo», di Simone Collini

Botta e risposta tra Bersani e Alfano sull’articolo 18. Il leader del Pd: «No alla monetizzazione come unica soluzione». Il segretario del Pdl: «Non possiamo applicare il modello tedesco con i giudici italiani». Di certo non ci sarà l’«intesa» chiesta da Angelino Alfano. Ma a giudicare dal primo scambio di battute tra i due, anche la «discussione serena» auspicata da Pier Luigi Bersani appare complicata. E insomma se sulle modifiche all’articolo 18 si aprirà in Parlamento una discussione che ricalcherà le dinamiche venute alla luce nel faccia a faccia di ieri, il muro contro muro tra Pd e Pdl è assicurato. Al forum di Confcommercio a Cernobbio si è svolta una tavola rotonda a cui hanno partecipato il segretario del Pd, quello del Pdl e il leghista Roberto Maroni, con il direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli a fare da moderatore (ieri ha firmato un editoriale dal titolo «Una trincea ideologica», critico nei confronti di chi chiede la possibilità di reintegro per i licenziamenti economici senza giusta causa, che Alfano dice di «sottoscrivere dalla prima all’ultima parola» e Bersani giudica pieno di «caricature»).
INDEBOLIRE O RAFFORZARE
I toni sono pacati, il clima disteso, complice anche una chiacchierata a tavola che ha preceduto i lavori. Ma sulle modifiche da apportare all’articolo 18 le distanze tra i leader delle due principali forze che sostengono Monti appaiono incolmabili. Questo vuol dire, come sostiene Alfano, che il governo è più «debole» dopo la decisione di presentare un disegno di legge sul lavoro? O, come sostiene Bersani, modificare la riforma per non far sì che l’articolo 18 di fatto scompaia serve proprio a rafforzare il governo? I due concordano solo sui tempi necessari per approvare le nuove norme sul mercato del lavoro: prima dell’estate. Ma per il resto, divergono sia nel merito della legge che dovrà vedere la luce che nelle conseguenze che questa operazione potrà avere sull’esecutivo. Il leader del Pdl giudica necessaria un’«intesa tra le forze politiche» perché questo passaggio ha indebolito il governo nella sua capacità di decisione: «Il testo della riforma non l’abbiamo letto perché c’è il “salvo intese”, i tempi sono incerti e lo sciopero della Cgil non è stato revocato. Se fosse una schedina del totocalcio avrebbe totalizzato zero». Il leader del Pd non condivide, chiarisce che il suo partito «è qui per rafforzare il governo» («a indebolirlo non è chi vuole discutere di questioni complesse ma semmai chi fa saltare i vertici sulla Rai o le norme sulla corruzione») e che
la riforma sul lavoro «contiene cose buone» ma anche una parte,
quella sull’articolo 18, che deve essere modificata. E qui emerge tutta la distanza tra il segretario del Pd e quello del Pdl.
MODELLO TEDESCO, GIUDICI ITALIANI
Bersani ribadisce che in Parlamento la bozza di riforma uscita dal Consiglio dei ministri andrà modificata per garantire la possibilità di reintegro ai lavoratori licenziati per motivi economici senza giusta causa: «Non possiamo accettare che la monetizzazione sia la soluzione esclusiva. Da qui non ci muoviamo».
Alfano accusa l’interlocutore di avere «un pregiudizio nei confronti degli imprenditori, chenon godono nel licenziare i loro collaboratori» (sic) e poi, gira che ti rigira, dice che è colpa dei giudici se da noi non si può fare come in Germania.
Già, perché se Bersani chiede di applicare anche in Italia il modello tedesco- che conferisce alla magistratura la facoltà di scegliere tra reintegro e indennizzo monetario – «e non quello americano», il leader del Pdl dice che non si può mantenere l’ipotesi del reintegro perché i giudici hanno ridato il posto di lavoro anche in casi «inaccettabili» e abbiamo «una giurisprudenza che è contro i datori di lavoro». La discussione che si aprirà dunque in Parlamento (molto probabilmente partendo dal Senato) sarà
segnata da questa contrapposizione sull’articolo 18. Se passeranno
o meno le modifiche chieste dal Pd dipenderà dalla posizione che assumerà il Terzo polo (Idv e Lega sono contrarie alla riforma messa a punto dal governo).
Ma bisognerà anche vedere che atteggiamento manterrà il Pdl durante l’iter parlamentare. A giudicare da quanto detto da Alfano ieri, non è da escludere che scatti un meccanismodi veti incrociati, ripicche e ripercussioni a non finire: «O si accetta il punto di equilibrio che il governo ha individuato – è il messaggio lanciato dal leader del Pdl – o se si comincia a lavorare su modifiche non si può immaginare che avvengano solo sull’articolo 18 e che siano modifiche di un solo colore».
Dice Bersani lasciando Cernobbio che se in Parlamento ci sarà una discussione «serena e attenta» non ci saranno motivi di tensioni sociali. L’avvio si è visto, tra non molto si vedrà il seguito.

L’Unità 25.03.12

Arezzo – Iniziativa PD: La scuola che verrà

Circolo Aurora in piazza Sant’Agostino.

Dove sta andando la scuola italiana?”. A rispondere arriva in città l’On. Manuela Ghizzoni, Capogruppo Pd della VII Commissione Cultura, Scienza ed Istruzione.

“Penso che sia un’occasione preziosa avere un quadro chiaro della situazione grazie ad un esponente di spicco come l’On. Ghizzoni in grado di fornirci informazioni utili e di rilievo – commenta Francesca Lorenzoni responsabile scuola della Segreteria Comunale di Arezzo che condurrà la riunione aperta – Il confronto che abbiamo preparato volge soprattutto verso temi strategici e concreti come il reclutamento, l’organico funzionale e il dimensionamento scolastico, aspetti questi che interessano da vicino gli addetti ai lavori”.

All’iniziativa interverranno inoltre l’On. Donella Mattesini della Commissione Lavoro della Camera dei Deputati, Marco Meacci, Segretario Provinciale Pd, Andrea Lanzi, Segretario Comunale Pd e Massimo Macconi, Responsabile Provinciale Pd Università e Ricerca.

Quel sogno di Giorgio "Una donna sul Colle", di Filippo Ceccarelli

Dopo di me una donna. Il diluvio può attendere, e con l´auspicio semiconfidenziale dell´odierno presidente della Repubblica il sogno in rosa di una donna al Quirinale fa un altro passettino nella sua lunga, ma al dunque assai povera storia politica e di civiltà. Perché frugando nel passato remoto si scopre che agli albori della Repubblica, per la precisione il 28 giugno del 1946, quando cioè Enrico De Nicola venne eletto alla suprema magistratura dello Stato, 32 parlamentari dell´Uomo Qualunque avevano in realtà votato per una donna: con il che, all´annuncio dei risultati il profetico fondatore di quel pittoresco movimento, Guglielmo Giannini, si chinò platealmente a baciare la mano della senatrice Ottavia Penna, figlia di una baronessa e moglie di un medico, neosenatrice di Caltagirone.
Per dire le reazioni, racconta Vittorio Gorresio ne I moribondi di Montecitorio (Longanesi, 1946) che il giorno dopo un quotidiano commentò: “Lo scherzo dei qualunquisti non è sembrato spiritoso a nessuno”. Ma Giannini a sua volta replicò che non era uno scherzo, e anzi quel voto andava inteso come “un´affermazione di principio” – e anche piuttosto lungimirante, considerato il mezzo secolo e più che dovette trascorrere perché l´ipotesi di una donna a Capo dello Stato rientrasse nel dibattito politico.
Nel frattempo ci furono, è vero, delle signore generalmente ritenute all´altezza di quella funzione. Una fu la democristiana veneta Tina Anselmi, per tanti versi considerata l´erede naturale di Pertini; e un´altra Nilde Jotti, comunista emiliana e compagna di Togliatti, per due legislature ottima presidente dell´assemblea di Montecitorio, nonché candidata di bandiera del Pds al Quirinale nel 1992.
Non che si possano trascurare le lotte per l´emancipazione e il movimento delle donne nell´esito di questi cinquant´anni. Ma occorre pur sempre riconoscere che la questione ritornò se non all´ordine del giorno del potere, almeno all´attenzione del sistema mediatico, per merito di un uomo. E ciò accadde nel settembre del 1998 allorché Giuliano Amato, sia pure con la sintomatica premessa che non si trattava di una “provocazione”, comunicò alla platea quasi tutta maschile di Cernobbio che a suo giudizio era arrivato il momento di eleggere una donna al Quirinale.
Alcuni mesi dopo di nuovo Amato – come ricorda Giovanna Casadio nella sua intervista con Emma Bonino dal titolo I doveri della libertà (Laterza, 2011) – trovò un modo polemicamente colorito per ritornare su quell´argomento così liquidando le inconfessabili reazioni raccolte: “Neanche avessi proposto un coleottero al Quirinale” (altra e più offensiva lectio: uno “scarafaggio”).
Ma a quel punto si era già ampiamente compreso che non era un´idea assurda né provocatoria, o meglio non lo era più, in questo mostrandosi la società più avanti della sua classe politica. Sta di fatto che alla fine del secolo i rilevamenti demoscopici indicavano una notevole quota di favorevoli, oltre il 40 per cento, mentre il 39 per cento del campione dichiarava di essere del tutto indifferente all´eventualità che successore di Scalfaro fosse di sesso maschile o femminile.
L´attenzione si concentrò quindi su due figure. La popolare Rosa Russo Jervolino, allora ministro dell´Interno, e la radicale Emma Bonino, impegnata nella Commissione europea. Se la prima appariva interna ai giochi del circuito politico e in particolare all´alleanza tra D´Alema e il Ppi, attorno a “Emma for president” si dispiegò un´efficace campagna trasversale (da Tremonti a Pasquino a Montanelli) e di marketing (con tanto di sponsor), che la faceva soggetto di un presidenzialismo anche maggioritario nei sondaggi, ma del tutto virtuale.
Inutile ricordare che al dunque venne eletto Ciampi. E che la storia procede di solito con infinita lentezza, salvo improvvisi balzi che però in genere si capiscono solo dopo che sono stati compiuti.

La Repubblica 25.03.12

Quel sogno di Giorgio “Una donna sul Colle”, di Filippo Ceccarelli

Dopo di me una donna. Il diluvio può attendere, e con l´auspicio semiconfidenziale dell´odierno presidente della Repubblica il sogno in rosa di una donna al Quirinale fa un altro passettino nella sua lunga, ma al dunque assai povera storia politica e di civiltà. Perché frugando nel passato remoto si scopre che agli albori della Repubblica, per la precisione il 28 giugno del 1946, quando cioè Enrico De Nicola venne eletto alla suprema magistratura dello Stato, 32 parlamentari dell´Uomo Qualunque avevano in realtà votato per una donna: con il che, all´annuncio dei risultati il profetico fondatore di quel pittoresco movimento, Guglielmo Giannini, si chinò platealmente a baciare la mano della senatrice Ottavia Penna, figlia di una baronessa e moglie di un medico, neosenatrice di Caltagirone.
Per dire le reazioni, racconta Vittorio Gorresio ne I moribondi di Montecitorio (Longanesi, 1946) che il giorno dopo un quotidiano commentò: “Lo scherzo dei qualunquisti non è sembrato spiritoso a nessuno”. Ma Giannini a sua volta replicò che non era uno scherzo, e anzi quel voto andava inteso come “un´affermazione di principio” – e anche piuttosto lungimirante, considerato il mezzo secolo e più che dovette trascorrere perché l´ipotesi di una donna a Capo dello Stato rientrasse nel dibattito politico.
Nel frattempo ci furono, è vero, delle signore generalmente ritenute all´altezza di quella funzione. Una fu la democristiana veneta Tina Anselmi, per tanti versi considerata l´erede naturale di Pertini; e un´altra Nilde Jotti, comunista emiliana e compagna di Togliatti, per due legislature ottima presidente dell´assemblea di Montecitorio, nonché candidata di bandiera del Pds al Quirinale nel 1992.
Non che si possano trascurare le lotte per l´emancipazione e il movimento delle donne nell´esito di questi cinquant´anni. Ma occorre pur sempre riconoscere che la questione ritornò se non all´ordine del giorno del potere, almeno all´attenzione del sistema mediatico, per merito di un uomo. E ciò accadde nel settembre del 1998 allorché Giuliano Amato, sia pure con la sintomatica premessa che non si trattava di una “provocazione”, comunicò alla platea quasi tutta maschile di Cernobbio che a suo giudizio era arrivato il momento di eleggere una donna al Quirinale.
Alcuni mesi dopo di nuovo Amato – come ricorda Giovanna Casadio nella sua intervista con Emma Bonino dal titolo I doveri della libertà (Laterza, 2011) – trovò un modo polemicamente colorito per ritornare su quell´argomento così liquidando le inconfessabili reazioni raccolte: “Neanche avessi proposto un coleottero al Quirinale” (altra e più offensiva lectio: uno “scarafaggio”).
Ma a quel punto si era già ampiamente compreso che non era un´idea assurda né provocatoria, o meglio non lo era più, in questo mostrandosi la società più avanti della sua classe politica. Sta di fatto che alla fine del secolo i rilevamenti demoscopici indicavano una notevole quota di favorevoli, oltre il 40 per cento, mentre il 39 per cento del campione dichiarava di essere del tutto indifferente all´eventualità che successore di Scalfaro fosse di sesso maschile o femminile.
L´attenzione si concentrò quindi su due figure. La popolare Rosa Russo Jervolino, allora ministro dell´Interno, e la radicale Emma Bonino, impegnata nella Commissione europea. Se la prima appariva interna ai giochi del circuito politico e in particolare all´alleanza tra D´Alema e il Ppi, attorno a “Emma for president” si dispiegò un´efficace campagna trasversale (da Tremonti a Pasquino a Montanelli) e di marketing (con tanto di sponsor), che la faceva soggetto di un presidenzialismo anche maggioritario nei sondaggi, ma del tutto virtuale.
Inutile ricordare che al dunque venne eletto Ciampi. E che la storia procede di solito con infinita lentezza, salvo improvvisi balzi che però in genere si capiscono solo dopo che sono stati compiuti.

La Repubblica 25.03.12

Quel sogno di Giorgio “Una donna sul Colle”, di Filippo Ceccarelli

Dopo di me una donna. Il diluvio può attendere, e con l´auspicio semiconfidenziale dell´odierno presidente della Repubblica il sogno in rosa di una donna al Quirinale fa un altro passettino nella sua lunga, ma al dunque assai povera storia politica e di civiltà. Perché frugando nel passato remoto si scopre che agli albori della Repubblica, per la precisione il 28 giugno del 1946, quando cioè Enrico De Nicola venne eletto alla suprema magistratura dello Stato, 32 parlamentari dell´Uomo Qualunque avevano in realtà votato per una donna: con il che, all´annuncio dei risultati il profetico fondatore di quel pittoresco movimento, Guglielmo Giannini, si chinò platealmente a baciare la mano della senatrice Ottavia Penna, figlia di una baronessa e moglie di un medico, neosenatrice di Caltagirone.
Per dire le reazioni, racconta Vittorio Gorresio ne I moribondi di Montecitorio (Longanesi, 1946) che il giorno dopo un quotidiano commentò: “Lo scherzo dei qualunquisti non è sembrato spiritoso a nessuno”. Ma Giannini a sua volta replicò che non era uno scherzo, e anzi quel voto andava inteso come “un´affermazione di principio” – e anche piuttosto lungimirante, considerato il mezzo secolo e più che dovette trascorrere perché l´ipotesi di una donna a Capo dello Stato rientrasse nel dibattito politico.
Nel frattempo ci furono, è vero, delle signore generalmente ritenute all´altezza di quella funzione. Una fu la democristiana veneta Tina Anselmi, per tanti versi considerata l´erede naturale di Pertini; e un´altra Nilde Jotti, comunista emiliana e compagna di Togliatti, per due legislature ottima presidente dell´assemblea di Montecitorio, nonché candidata di bandiera del Pds al Quirinale nel 1992.
Non che si possano trascurare le lotte per l´emancipazione e il movimento delle donne nell´esito di questi cinquant´anni. Ma occorre pur sempre riconoscere che la questione ritornò se non all´ordine del giorno del potere, almeno all´attenzione del sistema mediatico, per merito di un uomo. E ciò accadde nel settembre del 1998 allorché Giuliano Amato, sia pure con la sintomatica premessa che non si trattava di una “provocazione”, comunicò alla platea quasi tutta maschile di Cernobbio che a suo giudizio era arrivato il momento di eleggere una donna al Quirinale.
Alcuni mesi dopo di nuovo Amato – come ricorda Giovanna Casadio nella sua intervista con Emma Bonino dal titolo I doveri della libertà (Laterza, 2011) – trovò un modo polemicamente colorito per ritornare su quell´argomento così liquidando le inconfessabili reazioni raccolte: “Neanche avessi proposto un coleottero al Quirinale” (altra e più offensiva lectio: uno “scarafaggio”).
Ma a quel punto si era già ampiamente compreso che non era un´idea assurda né provocatoria, o meglio non lo era più, in questo mostrandosi la società più avanti della sua classe politica. Sta di fatto che alla fine del secolo i rilevamenti demoscopici indicavano una notevole quota di favorevoli, oltre il 40 per cento, mentre il 39 per cento del campione dichiarava di essere del tutto indifferente all´eventualità che successore di Scalfaro fosse di sesso maschile o femminile.
L´attenzione si concentrò quindi su due figure. La popolare Rosa Russo Jervolino, allora ministro dell´Interno, e la radicale Emma Bonino, impegnata nella Commissione europea. Se la prima appariva interna ai giochi del circuito politico e in particolare all´alleanza tra D´Alema e il Ppi, attorno a “Emma for president” si dispiegò un´efficace campagna trasversale (da Tremonti a Pasquino a Montanelli) e di marketing (con tanto di sponsor), che la faceva soggetto di un presidenzialismo anche maggioritario nei sondaggi, ma del tutto virtuale.
Inutile ricordare che al dunque venne eletto Ciampi. E che la storia procede di solito con infinita lentezza, salvo improvvisi balzi che però in genere si capiscono solo dopo che sono stati compiuti.

La Repubblica 25.03.12

"Così non si combatte la piaga del precariato", di Luciano Gallino

Lo scopo più importante di una riforma del mercato del lavoro dovrebbe consistere nel ridurre in misura considerevole, e nel minor tempo possibile, il numero di lavoratori che hanno contratti di breve durata, ossia precari, quale che sia la loro denominazione formale. Per conseguire tale scopo sarebbe necessario comprendere anzitutto i motivi che spingono le imprese a impiegare milioni di lavoratori con contratti aventi una scadenza fissa e breve. Di un esame di tali motivi non sembra esservi traccia nelle dichiarazioni e nei testi provvisori rilasciati finora dal governo, tipo le “Linee di intervento sulla disciplina delle tipologie contrattuali” o le modifiche annunciate dell´art. 18. Meno che mai si parla di essi nella miriade di articoli che ogni giorno commentano i passi del governo. Pare stiano tutti mettendo mano alla riparazione urgente di un complesso macchinario rimasto bloccato, senza avere la minima idea di come funziona e com´è fatto dentro.
Si suole affermare che le imprese fanno un uso smodato dei contratti di breve durata – in ciò incentivati da leggi e decreti sul mercato del lavoro emanate dal 1997 al 2003 e oltre – perché costano meno. Ma non è affatto questo il motivo principale. Le imprese ricorrono a tali contratti, sia pure in misura variabile da un settore all´altro, soprattutto perché essi permettono di adattare rapidamente la quantità di personale impiegato, in più o in meno, alla catena produttiva, organizzativa e finanziaria in cui si trovano ad operare. Nel corso degli anni l´hanno scientificamente costruita loro stesse, la catena, finendo tuttavia per diventarne schiave. Ogni impresa è ormai soltanto un anello che dipende da tutti gli altri. Nessuna impresa produce più nulla per intero al proprio interno, si tratti di un elettrodomestico, un mobile o un servizio pubblicitario. Ciascuna aggiunge un po´ di lavoro a manufatti o servizi che sono già stati lavorati in parte da imprese a monte, quasi sempre situate in Paesi differenti, e saranno ulteriormente lavorati da un´impresa a valle, in altri Paesi. Questo modo di produrre comporta che la regolare attività di ogni impresa dipende da qualità, prezzo, puntualità di consegna di quel che le arriva dalle imprese a monte, non meno che dalla disponibilità delle imprese a valle ad accettare qualità, prezzo, puntualità di quel che essa consegna loro. Per cui l´imperativo di ciascuna è diventato “assumi meno che puoi, appalta ad altri tutto ciò che ti riesce.”
Oltre a questa intrinseca dipendenza da ciò che fanno gli anelli che la precedono come da quelli che la seguono, ciascuna impresa sa bene di essere oggetto di continue e implacabili valutazioni di ordine finanziario. Il suo prodotto intermedio può anche essere di buona qualità e rendere elevati utili; nondimeno se sullo schermo di un qualche computer compare che nello Utah, in Pomerania o in Vietnam c´è un´impresa che fa la stessa lavorazione a minor costo, o con maggiori utili, è molto probabile che le commesse spariscano, o arrivi dall´alto l´ordine di chiudere.
A causa dei suddetti caratteri le catene globali di creazione del valore, come si chiamano, hanno accresciuto a dismisura l´insicurezza produttiva e finanziaria in cui le imprese, non importa se grandi o piccole, si trovano ad operare. Più che mai ai tempi di una crisi che dura da anni, e promette di durarne molti altri. Un rimedio però è stato trovato, con l´aiuto del legislatore dell´ultimo quindicennio: utilizzando grossi volumi di contratti precari le imprese hanno trasferito l´insicurezza che le assilla ai lavoratori. Fa parte di quelle politiche del lavoro chiamate globalizzazione. Quando i rapporti con gli altri anelli della catena vanno bene, un´impresa assume personale mediante un buon numero di contratti di breve durata; se i rapporti vanno male, non rinnova una parte di tali contratti, o magari tutti, senza nemmeno doversi prendere il fastidio di licenziare qualcuno.
A fronte di simile realtà strutturale, che riguarda l´intero modello produttivo e la sua drammatica crisi, è dubbio che la riforma in gestazione, salvo modifiche sostanziali in Parlamento, risulti idonea a ridurre il tasso di precarietà che affligge milioni di lavoratori, e meno che mai a farlo presto. In effetti potrebbe intervenire una sorta di scambio perverso: le imprese riducono di qualcosa l´utilizzo dei contratti atipici di breve durata, a causa dell´aumento del costo contributivo previsto dalle citate linee di intervento; però grazie allo svuotamento sostanziale dell´articolo 18, perseguito dal governo con una tenacia che meriterebbe di essere dedicata ad altri scopi, licenziano un maggior numero di lavoratori che si erano illusi di avere un contratto a tempo indeterminato, o di altri che nella veste di apprendisti speravano, anno dopo anno, di arrivare ad averlo.
Ma potrebbe anche accadere di peggio: che la precarietà esistente rimanga più o meno tal quale, ma si estenda a settori dove prima ce n´era poca (improvvisi fallimenti aziendali a parte). Lo scenario è pronto: da un lato, dinanzi al cospicuo vantaggio di poter ridurre la forza lavoro senza nemmeno dover licenziare, l´aumento dell´1,4 per cento del costo contributivo dei contratti atipici si configura come uno svantaggio quasi trascurabile. Dall´altro lato, la libertà concessa di licenziare ciascuno e tutti per motivi economici, veri o presunti o inventati, di cui chiunque abbia un´idea di come funziona un´impresa può redigere un elenco infinito, costituisce un formidabile incentivo a modulare quantità e qualità della forza lavoro utilizzata a suon di licenziamenti. Magari assumendo giovani freschi di studi, al posto di quarantenni o cinquantenni tecnologicamente obsoleti, che tanto, una volta perso lo stipendio, non dovranno aspettare più di dieci o quindici anni per ricevere la pensione. Sarebbe un passo verso l´eliminazione del dualismo tra bacini diversi di lavoro, da molti deprecato, ma non esattamente nel modo che la riforma sembrava da principio promettere.
Potrebbe il Parlamento ovviare ai limiti della riforma in discussione? In qualche misura sì, se mai si trovasse una maggioranza. Però v´è da temere non possa andare al di là di qualche ritocco, perché se non si tengono in debito conto le cause reali del guasto di un complicato macchinario, è molto difficile che la riparazione vada a buon fine, quali che siano le intenzioni dei riparatori.

La Repubblica 25.03.12

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“Un milione di atipici esclusi dall´assegno di disoccupazione”, di Valentina Conte

Nel documento approvato dal governo c´è soltanto l´impegno a rafforzare le una tantum previste oggi dalla legge
La mini-Aspi si applicherà solo ai lavoratori subordinati, non agli “indipendenti” come i cocopro. Un milione di precari senza rete. La nuova riforma del mercato del lavoro, targata Monti-Fornero, rischia di lasciare a piedi ancora una volta i molti già esclusi dalle tutele, gli intermittenti, gli ex milleuristi, le vittime di un mercato “segmentato” tra protetti e non protetti. Proprio coloro che, nelle intenzioni, questa riforma doveva accompagnare nel tunnel della flessibilità “buona” verso la luce della stabilità. E invece abbandona nel «deserto» evocato dal ministro Fornero come il nemico da sconfiggere.

FUORI DA ASPI E MINI-ASPI
Uno su due è sotto i 40 anni e guadagna meno di 10 mila euro lordi l´anno. Quando il lavoro finisce, nessun sostegno. Né Aspi, né mini-Aspi. Zero. Come prima e peggio di prima. L´Assicurazione sociale per l´impiego – l´assegno unico di disoccupazione che dal 2017 sostituirà mobilità e indennità – copre i soli lavoratori dipendenti, sia pubblici che privati, e in più apprendisti e artisti (oggi esclusi da ogni sostegno), che hanno un contratto a termine (determinato, formazione lavoro, part-time, ecc). I requisiti sono stringenti: due anni di anzianità assicurativa e almeno 52 settimane lavorate nel biennio. La mini-Aspi è invece la versione aggiornata dell´attuale assegno “con requisiti ridotti”, riservato ancora una volta ai soli lavoratori subordinati che hanno lavorato poco, almeno 78 giorni in un anno, ora diventato «almeno 13 settimane di contribuzione negli ultimi 12 mesi» con durata massima «pari alla metà delle settimane» lavorate nell´anno, dunque al massimo sei mesi, come ora. A conti fatti, però la mini-Aspi è più generosa del trattamento attuale, per una retribuzione media di 9.855 euro l´anno (quella di un precario): chi ha lavorato 3 mesi prenderà 926 euro in tutto (contro i 731 di oggi), ma chi ha lavorato un anno raddoppierà l´assegno (3.700 euro contro 1.800). Il calcolo è lo stesso previsto per l´Aspi: il 75% della retribuzione (fino a 1.150 euro), il 25% dopo, con abbattimento del 15% ogni sei mesi.

L´ESERCITO DEI NON PROTETTI
La mini-Aspi, dunque, non amplia la platea dei protetti, ma sostiene chi oggi ha già un ombrello. Al palo restano 945.141 lavoratori atipici, intermittenti, precari (dati Isfol, 2010). Quasi la metà sono co.co.pro (675.883). Ma si contano anche 52.459 associati in partecipazione, 54.210 co.co.co statali, 49.179 dottorandi e assegnisti di ricerca, 24 mila venditori porta a porta, 27 mila “collaboratori”, 8.913 occasionali.

SOLO UN IMPEGNO
La riforma approvata dal Consiglio dei ministri venerdì scorso contiene solo un impegno a rendere strutturale («a regime») l´una tantum oggi riservata ai co.co.pro. E questa viene considerata una vittoria dai sindacati, visto che le ultime versioni del testo la escludevano. L´una tantum oggi è pari al 30% del reddito dell´anno precedente, con un tetto di 4 mila euro. I requisiti sono molto restrittivi e di fatto l´83% dei fondi stanziati per il triennio 2009-2011 non è stato utilizzato (35 milioni su 200), con il 69% di domande respinte (28.674 su 42.550). Senza una revisione, questo paracadute continuerà ad essere inutile, oltre che limitato.

LE BUSTE PAGA
Il confronto parlamentare sulla riforma dovrebbe tenerne conto, considerando poi che l´aumento dell´1,4% delle aliquote contributive su tutti i contratti a termine – quindi anche del milione di parasubordinati – rischia di scaricarsi su buste paga già ridotte all´osso. Un rincaro che finanzierà proprio Aspi e mini-Aspi, da cui i precari sono tagliati fuori. Beffa e paradosso. E che potrebbe ingrossare – nonostante la stretta che la riforma intende mettere in campo – le fila delle 4 milioni di partite Iva, escluse da tutto, da sempre. Ma ancora “convenienti”.

La Repubblica 25.03.12

“Così non si combatte la piaga del precariato”, di Luciano Gallino

Lo scopo più importante di una riforma del mercato del lavoro dovrebbe consistere nel ridurre in misura considerevole, e nel minor tempo possibile, il numero di lavoratori che hanno contratti di breve durata, ossia precari, quale che sia la loro denominazione formale. Per conseguire tale scopo sarebbe necessario comprendere anzitutto i motivi che spingono le imprese a impiegare milioni di lavoratori con contratti aventi una scadenza fissa e breve. Di un esame di tali motivi non sembra esservi traccia nelle dichiarazioni e nei testi provvisori rilasciati finora dal governo, tipo le “Linee di intervento sulla disciplina delle tipologie contrattuali” o le modifiche annunciate dell´art. 18. Meno che mai si parla di essi nella miriade di articoli che ogni giorno commentano i passi del governo. Pare stiano tutti mettendo mano alla riparazione urgente di un complesso macchinario rimasto bloccato, senza avere la minima idea di come funziona e com´è fatto dentro.
Si suole affermare che le imprese fanno un uso smodato dei contratti di breve durata – in ciò incentivati da leggi e decreti sul mercato del lavoro emanate dal 1997 al 2003 e oltre – perché costano meno. Ma non è affatto questo il motivo principale. Le imprese ricorrono a tali contratti, sia pure in misura variabile da un settore all´altro, soprattutto perché essi permettono di adattare rapidamente la quantità di personale impiegato, in più o in meno, alla catena produttiva, organizzativa e finanziaria in cui si trovano ad operare. Nel corso degli anni l´hanno scientificamente costruita loro stesse, la catena, finendo tuttavia per diventarne schiave. Ogni impresa è ormai soltanto un anello che dipende da tutti gli altri. Nessuna impresa produce più nulla per intero al proprio interno, si tratti di un elettrodomestico, un mobile o un servizio pubblicitario. Ciascuna aggiunge un po´ di lavoro a manufatti o servizi che sono già stati lavorati in parte da imprese a monte, quasi sempre situate in Paesi differenti, e saranno ulteriormente lavorati da un´impresa a valle, in altri Paesi. Questo modo di produrre comporta che la regolare attività di ogni impresa dipende da qualità, prezzo, puntualità di consegna di quel che le arriva dalle imprese a monte, non meno che dalla disponibilità delle imprese a valle ad accettare qualità, prezzo, puntualità di quel che essa consegna loro. Per cui l´imperativo di ciascuna è diventato “assumi meno che puoi, appalta ad altri tutto ciò che ti riesce.”
Oltre a questa intrinseca dipendenza da ciò che fanno gli anelli che la precedono come da quelli che la seguono, ciascuna impresa sa bene di essere oggetto di continue e implacabili valutazioni di ordine finanziario. Il suo prodotto intermedio può anche essere di buona qualità e rendere elevati utili; nondimeno se sullo schermo di un qualche computer compare che nello Utah, in Pomerania o in Vietnam c´è un´impresa che fa la stessa lavorazione a minor costo, o con maggiori utili, è molto probabile che le commesse spariscano, o arrivi dall´alto l´ordine di chiudere.
A causa dei suddetti caratteri le catene globali di creazione del valore, come si chiamano, hanno accresciuto a dismisura l´insicurezza produttiva e finanziaria in cui le imprese, non importa se grandi o piccole, si trovano ad operare. Più che mai ai tempi di una crisi che dura da anni, e promette di durarne molti altri. Un rimedio però è stato trovato, con l´aiuto del legislatore dell´ultimo quindicennio: utilizzando grossi volumi di contratti precari le imprese hanno trasferito l´insicurezza che le assilla ai lavoratori. Fa parte di quelle politiche del lavoro chiamate globalizzazione. Quando i rapporti con gli altri anelli della catena vanno bene, un´impresa assume personale mediante un buon numero di contratti di breve durata; se i rapporti vanno male, non rinnova una parte di tali contratti, o magari tutti, senza nemmeno doversi prendere il fastidio di licenziare qualcuno.
A fronte di simile realtà strutturale, che riguarda l´intero modello produttivo e la sua drammatica crisi, è dubbio che la riforma in gestazione, salvo modifiche sostanziali in Parlamento, risulti idonea a ridurre il tasso di precarietà che affligge milioni di lavoratori, e meno che mai a farlo presto. In effetti potrebbe intervenire una sorta di scambio perverso: le imprese riducono di qualcosa l´utilizzo dei contratti atipici di breve durata, a causa dell´aumento del costo contributivo previsto dalle citate linee di intervento; però grazie allo svuotamento sostanziale dell´articolo 18, perseguito dal governo con una tenacia che meriterebbe di essere dedicata ad altri scopi, licenziano un maggior numero di lavoratori che si erano illusi di avere un contratto a tempo indeterminato, o di altri che nella veste di apprendisti speravano, anno dopo anno, di arrivare ad averlo.
Ma potrebbe anche accadere di peggio: che la precarietà esistente rimanga più o meno tal quale, ma si estenda a settori dove prima ce n´era poca (improvvisi fallimenti aziendali a parte). Lo scenario è pronto: da un lato, dinanzi al cospicuo vantaggio di poter ridurre la forza lavoro senza nemmeno dover licenziare, l´aumento dell´1,4 per cento del costo contributivo dei contratti atipici si configura come uno svantaggio quasi trascurabile. Dall´altro lato, la libertà concessa di licenziare ciascuno e tutti per motivi economici, veri o presunti o inventati, di cui chiunque abbia un´idea di come funziona un´impresa può redigere un elenco infinito, costituisce un formidabile incentivo a modulare quantità e qualità della forza lavoro utilizzata a suon di licenziamenti. Magari assumendo giovani freschi di studi, al posto di quarantenni o cinquantenni tecnologicamente obsoleti, che tanto, una volta perso lo stipendio, non dovranno aspettare più di dieci o quindici anni per ricevere la pensione. Sarebbe un passo verso l´eliminazione del dualismo tra bacini diversi di lavoro, da molti deprecato, ma non esattamente nel modo che la riforma sembrava da principio promettere.
Potrebbe il Parlamento ovviare ai limiti della riforma in discussione? In qualche misura sì, se mai si trovasse una maggioranza. Però v´è da temere non possa andare al di là di qualche ritocco, perché se non si tengono in debito conto le cause reali del guasto di un complicato macchinario, è molto difficile che la riparazione vada a buon fine, quali che siano le intenzioni dei riparatori.

La Repubblica 25.03.12

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“Un milione di atipici esclusi dall´assegno di disoccupazione”, di Valentina Conte

Nel documento approvato dal governo c´è soltanto l´impegno a rafforzare le una tantum previste oggi dalla legge
La mini-Aspi si applicherà solo ai lavoratori subordinati, non agli “indipendenti” come i cocopro. Un milione di precari senza rete. La nuova riforma del mercato del lavoro, targata Monti-Fornero, rischia di lasciare a piedi ancora una volta i molti già esclusi dalle tutele, gli intermittenti, gli ex milleuristi, le vittime di un mercato “segmentato” tra protetti e non protetti. Proprio coloro che, nelle intenzioni, questa riforma doveva accompagnare nel tunnel della flessibilità “buona” verso la luce della stabilità. E invece abbandona nel «deserto» evocato dal ministro Fornero come il nemico da sconfiggere.

FUORI DA ASPI E MINI-ASPI
Uno su due è sotto i 40 anni e guadagna meno di 10 mila euro lordi l´anno. Quando il lavoro finisce, nessun sostegno. Né Aspi, né mini-Aspi. Zero. Come prima e peggio di prima. L´Assicurazione sociale per l´impiego – l´assegno unico di disoccupazione che dal 2017 sostituirà mobilità e indennità – copre i soli lavoratori dipendenti, sia pubblici che privati, e in più apprendisti e artisti (oggi esclusi da ogni sostegno), che hanno un contratto a termine (determinato, formazione lavoro, part-time, ecc). I requisiti sono stringenti: due anni di anzianità assicurativa e almeno 52 settimane lavorate nel biennio. La mini-Aspi è invece la versione aggiornata dell´attuale assegno “con requisiti ridotti”, riservato ancora una volta ai soli lavoratori subordinati che hanno lavorato poco, almeno 78 giorni in un anno, ora diventato «almeno 13 settimane di contribuzione negli ultimi 12 mesi» con durata massima «pari alla metà delle settimane» lavorate nell´anno, dunque al massimo sei mesi, come ora. A conti fatti, però la mini-Aspi è più generosa del trattamento attuale, per una retribuzione media di 9.855 euro l´anno (quella di un precario): chi ha lavorato 3 mesi prenderà 926 euro in tutto (contro i 731 di oggi), ma chi ha lavorato un anno raddoppierà l´assegno (3.700 euro contro 1.800). Il calcolo è lo stesso previsto per l´Aspi: il 75% della retribuzione (fino a 1.150 euro), il 25% dopo, con abbattimento del 15% ogni sei mesi.

L´ESERCITO DEI NON PROTETTI
La mini-Aspi, dunque, non amplia la platea dei protetti, ma sostiene chi oggi ha già un ombrello. Al palo restano 945.141 lavoratori atipici, intermittenti, precari (dati Isfol, 2010). Quasi la metà sono co.co.pro (675.883). Ma si contano anche 52.459 associati in partecipazione, 54.210 co.co.co statali, 49.179 dottorandi e assegnisti di ricerca, 24 mila venditori porta a porta, 27 mila “collaboratori”, 8.913 occasionali.

SOLO UN IMPEGNO
La riforma approvata dal Consiglio dei ministri venerdì scorso contiene solo un impegno a rendere strutturale («a regime») l´una tantum oggi riservata ai co.co.pro. E questa viene considerata una vittoria dai sindacati, visto che le ultime versioni del testo la escludevano. L´una tantum oggi è pari al 30% del reddito dell´anno precedente, con un tetto di 4 mila euro. I requisiti sono molto restrittivi e di fatto l´83% dei fondi stanziati per il triennio 2009-2011 non è stato utilizzato (35 milioni su 200), con il 69% di domande respinte (28.674 su 42.550). Senza una revisione, questo paracadute continuerà ad essere inutile, oltre che limitato.

LE BUSTE PAGA
Il confronto parlamentare sulla riforma dovrebbe tenerne conto, considerando poi che l´aumento dell´1,4% delle aliquote contributive su tutti i contratti a termine – quindi anche del milione di parasubordinati – rischia di scaricarsi su buste paga già ridotte all´osso. Un rincaro che finanzierà proprio Aspi e mini-Aspi, da cui i precari sono tagliati fuori. Beffa e paradosso. E che potrebbe ingrossare – nonostante la stretta che la riforma intende mettere in campo – le fila delle 4 milioni di partite Iva, escluse da tutto, da sempre. Ma ancora “convenienti”.

La Repubblica 25.03.12