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“Tutti i rischi di un vertice affollato”, di Luigi La Spina

La foto di gruppo a palazzo Chigi con i tre segretari che sostengono il governo, spedita su Twitter durante il vertice di giovedì, oltre ad aggiornare i metodi comunicativi della politica italiana, segnala anche l’inizio della «fase due» nel rapporto tra Monti e i partiti della sua maggioranza parlamentare. Con l’intesa sulla riforma del mercato del lavoro, infatti, si chiude il tempo dell’emergenza economica, caratterizzato da quell’appoggio sospettoso, riluttante e intermittente, degli «strani» alleati, Alfano e Bersani, e dalla necessità, in Parlamento, di una decretazione a colpi di voti di fiducia. Si apre, invece, un periodo che arriverà sicuramente fino alle elezioni amministrative, ma che potrebbe prolungarsi fino al termine della legislatura, in cui i due maggiori partiti si uniranno al «terzo polo» di Casini nel «mettere la faccia», appunto, accanto a quella del governo e del presidente del Consiglio.

Un calcolo sbagliato era all’origine dell’atteggiamento del Pdl e del Pd. Pensavano che la necessità di misure severe di risanamento dei conti pubblici scavasse un solco di violenta impopolarità tra i cittadini e Monti, con il seguito dei suoi ministri tecnici. Con l’abbandono della prima linea, sulla scena della politica, ritenevano, perciò, di scansarne le pericolose conseguenze elettorali. Dalle retrovie, intanto, tentavano di tutelare gli interessi delle corporazioni a loro vicine, attraverso il ricatto dell’arma letale per il governo: il ritiro dell’appoggio parlamentare e, quindi, l’obbligo delle dimissioni di Monti.

La realtà ha smentito queste previsioni. I consensi al governo, nonostante i duri provvedimenti fiscali, non si sono ridotti a percentuali preoccupanti; anzi, si sono mantenuti a un livello rassicurante. Nel frattempo, la rapida riduzione del famoso «spread» tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi, vero termometro della fiducia dei mercati sul futuro dell’Italia, sanzionava il successo del «ministero strano» e la stima dei partner europei nei confronti di Monti ne accresceva il prestigio, a scapito dei leader dei partiti nostrani. Insomma, tutti i meriti si indirizzavano verso palazzo Chigi e tutte le colpe dei compromessi, degli annacquamenti nelle misure annunciate dal governo venivano attribuite ai freni imposti dalle lobby partitiche e dai privilegi a cui i parlamentari non volevano rinunciare.

La controprova di questo sorprendente rovesciamento delle aspettative, veniva, poi, dall’altro fronte, quello delle opposizioni. La maggiore forza politica contro il governo Monti, la Lega di Bossi, non solo non veniva avvantaggiata dalla sua collocazione parlamentare, ma era squassata da tensioni interne dirompenti e l’appello alla demagogia antigovernativa sembrava cadere in un vuoto di credibilità impressionante. Nè i sondaggi erano più clementi nei confronti delle residue pattuglie dell’opposizione, a cominciare dall’Idv di Antonio Di Pietro.

Alla luce di queste sorprendenti vicende, il cambio di rotta si imponeva con una tale chiarezza che nè Alfano, nè Bersani potevano sacrificarlo alle loro inquiete basi parlamentari. Così, il forte abbraccio dei segretari stretto a Monti nella notte di giovedì costituisce, insieme, una rassicurazione sull’esistenza del governo, ma rischia di diventare persino un po’ troppo soffocante.

L’assunzione di una piena e chiara responsabilità nel sostegno a Monti, infatti, consente al presidente del Consiglio una navigazione politica meno solitaria e meno esposta alle turbolenze quotidiane. Anche il sostegno alle Camere dovrebbe essere più solido, dal momento che, finita la fase dell’emergenza economica, i provvedimenti governativi dovrebbero prendere la strada dei consueti disegni di legge. Come dimostra la via scelta per attuare l’accordo sulla giustizia trovato nel vertice notturno, dalle norme anticorruzione ai limiti sulle intercettazioni e sulla loro pubblicazione. Un ritorno alla normalità delle procedure di legislazione democratica che certamente andrebbe apprezzato. Così, si dovrebbe far credito ai partiti di voler cogliere l’opportunità di realizzare quelle riforme che da troppo tempo la società italiana aspetta e che le esasperate polemiche tra gli schieramenti finora hanno impedito di varare.

Gli abbracci troppo vigorosi, però, possono nascondere qualche insidia. Innanzi tutto, limitano gli spazi d’iniziativa autonoma. Finora, il presidente del Consiglio poteva esercitare la sua libertà d’azione con la sicurezza di poter dimostrare ai partiti che lo sostengono come la loro presunta «arma letale», il ritiro della fiducia, fosse, in realtà, una pistola scarica. Ora, con la fine del periodo più acuto della crisi finanziaria, ma soprattutto, con il metodo degli accordi preventivi e ufficiali, sanzionati dai vertici con i tre leader, la situazione si è modificata, non sempre a vantaggio del presidente del Consiglio. Perché i segretari dei partiti di maggioranza, di fronte a un provvedimento che non trovasse tutti d’accordo, potrebbero più facilmente rimproverare a Monti di voler imporre una misura sulla quale non è stata trovata un’intesa.

Nella «fase uno», questo governo rischiava di avanzare in terreni inesplorati, infidi e di trovarsi, un giorno, senza truppe alle spalle. Nella «fase due», il pericolo non sta più indietro, ma avanti: quello di vedere la strada troppo affollata e di essere costretto a indietreggiare.

La Stampa 17.03.12

"Chi ha paura di una nuova Rai?", di Giovanni Valentini

È vero che la riforma della Rai, rispetto all´urgenza della crisi economica e sociale, al debito pubblico e allo spread, al lavoro che manca e ai salari che scendono, in questo momento non è una priorità. Ed è vero anche che la legge sulla televisione tuttora in vigore è stata approvata – diciamo legittimamente – dall´ex maggioranza che aveva vinto le ultime elezioni. Ma è altrettanto vero che la Rai è una priorità da sempre. E che oggi la vecchia maggioranza di centrodestra non esiste più, per cui la famigerata legge Gasparri è ormai orfana, figlia di nessuno, priva di legittimità.
A parte il consolidamento del vecchio duopolio Rai-Mediaset, sopravvissuto nel passaggio dal sistema analogico al digitale, il difetto principale di quella pseudo-riforma consiste nel fatto che trasferisce il controllo della televisione pubblica dal Parlamento al governo. E con ciò, contraddice proprio la sua funzione d´interesse generale: vale a dire quella di garantire – come ricorda l´autore del libro citato all´inizio – il diritto alla libertà d´espressione e d´informazione sancito dalle Carte costituzionali di tutta l´Europa. Non c´è dubbio, perciò, che la necessità di modificare la governance dell´azienda – reclamata a gran voce dal Pd di Pier Luigi Bersani – è chiara ed evidente.
Ma nella situazione in cui siamo, con un governo tecnico o istituzionale che dir si voglia, un tale vulnus potrebbe anche risultare paradossalmente un pregio o un vantaggio. Perché di fatto consegna al presidente Monti e al ministro Passera la facoltà di porre l´imprimatur sul futuro vertice della Rai, al posto di quello attuale in scadenza a fine marzo. Proprio in forza della Gasparri, al governo in carica tocca ora nominare il suo nuovo rappresentante nel Cda; designare il presidente che poi dev´essere formalmente eletto dalla Commissione parlamentare di Vigilanza con una maggioranza qualificata dei due terzi; e, infine, indicare il direttore generale che dev´essere nominato dal consiglio di amministrazione.
È assai improbabile che, in base agli attuali rapporti di forza parlamentari, si possa davvero riformare la Rai con la collaborazione di chi l´ha assaltata, depredata, danneggiata, attraverso un´occupazione manu militari: e cioè, il centrodestra rappresentato oggi dal Pdl. Tanto più che si tratta del partito-azienda che continua a considerare la tv pubblica come il suo principale rivale, avversario, nemico: sia sul piano politico sia su quello pubblicitario e quindi economico. Sarebbe già tanto, perciò, se la mediazione di Monti riuscisse a ottenere una mini-riforma, per ridurre il numero dei consiglieri da 9 a 5, risparmiare i rispettivi emolumenti e soprattutto favorire la composizione di un vertice più omogeneo. In linea, peraltro, con quanto è stato già stabilito per l´Autorità sulle Comunicazioni.
La verità è che, ad aver paura di una nuova Rai, sono proprio il Pdl e Mediaset. Il partito-azienda, perché teme di perderne il controllo politico. L´azienda-partito, perché teme di ritrovarsi un concorrente più agguerrito e competitivo, sul piano della programmazione, dell´audience e quindi della raccolta pubblicitaria. Al momento, nonostante l´erosione dei canali digitali tematici e di quelli satellitari, i sei canali generalisti tradizionali (tre Rai e tre Mediaset) continuano ad attrarre la larga maggioranza dei telespettatori che, nel giorno medio, superano addirittura il 75% del totale (2010).
Nel saggio del professor Richeri per Laterza, c´è anche un capitolo intitolato “Perché un´impresa televisiva pubblica?”. E l´autore, dati alla mano, fornisce un´articolata ed esauriente risposta, rilevando innanzitutto che “il ruolo della pubblicità nel sistema televisivo italiano è centrale, dal momento che genera quasi la metà delle risorse complessive”: 4,324 miliardi di euro, su un totale di 8,976, pari al 48%. Né manca di sottolineare l´anomalia che, rispetto al resto d´Europa, nel nostro Paese tre imprese (Rai, Mediaset e Sky) “controllano quasi il 90% delle risorse totali, mentre il restante 10% è frammentato tra le altre imprese nazionali e locali”. La somma di una tale concentrazione, fra entrate pubblicitarie e abbonamenti, “raggiunge quasi 8 miliardi di euro su un totale di 9”.
Non si tratta, dunque, di intervenire soltanto sulla governance della Rai, per liberarla finalmente dalla morsa della partitocrazia che ne mortifica l´autonomia e l´indipendenza. Ma anche di provvedere alle fonti di finanziamento, per sottrarre l´azienda alla schiavitù dell´audience e restituirla al suo ruolo di servizio pubblico. Quanto al canone, inteso come “tassa di scopo”, è ancora Richeri a rilevare che “il mancato pagamento da parte delle famiglie rappresenta una perdita di circa 600 milioni di euro all´anno, a cui si aggiungono 140 milioni per il canone non pagato dagli enti: una cifra che corrisponde nell´insieme al 30% del bilancio Rai 2010”.
Al governo di Monti e Passera non sfuggirà certamente la dimensione economica – oltreché politica, sociale e culturale – della “questione televisiva”, anche per la sua influenza sullo sviluppo del Paese. La Rai è perciò la prima casella da cui bisogna necessariamente partire.

La Repubblica 17.03.12

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“Rai, ora spunta l´ipotesi commissario”, di Goffredo De Marchis

Monti vuole un dg con poteri speciali. Ok di Bersani. Il Pdl insorge: anticostituzionale. Ma Passera è convinto che sia meglio rinnovare il cda con i criteri della Gasparri. A notte fonda, poco prima della fine del vertice, Mario Monti riapre i giochi sulla Rai. Lascia capire che tutte le ipotesi sono ancora in campo. Perché il rinnovo dei vertici con la legge attuale, la Gasparri, non lo convinceva ieri e non lo convince oggi. «Viale Mazzini non funziona come deve funzionare un´azienda». Non è solo il suo pensiero: il presidente della tv pubblica Paolo Garimberti condivide e ne è convinto anche Giorgio Napolitano. Palazzo Chigi non esclude perciò il ricorso a un commissario. O meglio, a un direttore generale con poteri ampliati e deleghe piene che sarebbe un “commissario risanatore” in grado di rimettere in sesto l´azienda e i suoi conti. Il termine risanatore richiama subito il nome di Enrico Bondi, ex amministratore straordinario della Parmalat. Oggi è senza incarichi e ha fatto sapere di essere disponibile a prendersi la grana Rai. Per avere il totale controllo della Rai potrebbe diventare presidente-direttore generale, come avviene in altre imprese.
La mossa di Monti ha anche motivazioni tattiche. La Rai non è una priorità, ma anche per la tv vale la regola che il premier si è dato fin dall´inizio. Ricerca della condivisione e l´invito ai partiti a «non polemizzare, ad astenersi da forzature». Come quella di Bersani che ha annunciato il rifiuto del Pd a partecipare alla spartizione. Lo spauracchio di un intervento diretto del governo nelle cose di Viale Mazzini da sempre appaltate alle forze politiche può aiutare a superare i veti incrociati. Pesa tantissimo anche il ruolo di Silvio Berlusconi con il suo immane conflitto d´interessi. Il Pdl punta a mantenere l´attuale assetto, cioè alla conferma di Lorenza Lei al vertice. Pier Ferdinando Casini però indica le tappe che forse il governo si appresta a seguire: fine del mandato dell´attuale Cda, pausa di riflessione per superare la data delle amministrative (metà maggio) e dopo un nuovo giro di tavolo con i partiti. Sarebbe una proroga di fatto per il cda, anche se di breve durata.
Adesso tocca alle forze della maggioranza mandare dei segnali al governo. Ossia trovare una mediazione che offra a Monti una via d´uscita. Ma un problema il premier ce l´ha anche in casa. Corrado Passera, ministro dello Sviluppo economico e delle Comunicazioni, è contrario a riaprire il “tavolo”. Dopo aver tentato di commissariare la Rai attraverso il contratto di servizio pubblico che fissa le regole della concessione statale, Passera si è convinto che non ci sia altra strada che la legge Gasparri. Trovare nomi nuovi, azzerare l´attuale vertice ma sceglierne uno nuovo con i criteri in vigore.
Il totonomine gira sempre intorno ad alcuni nomi. Per la presidenza: Piero Angela (che si sfila: «Tutti mi chiedono la disponibilità ma io rendo un servizio migliore alla Rai continuando a fare il mio lavoro») o Giulio Anselmi. Berlusconi ha fatto un sondaggio per Antonio Verro, quasi un atto dovuto dopo che il consigliere aveva rinunciato al seggio della Camera per rimanere nel fortino di Viale Mazzini. In realtà il candidato del Cavaliere è Mario Resca, ex manager McDonald. Per la direzione generale sono in corsa Claudio Cappon, vicino a Passera, il vicedirettore generale Giancarlo Leone, Rocco Sabelli, ex ad di Alitalia. La Lei cerca un difficile bis. Perché la mossa di Monti è soprattutto un messaggio ad Alfano: i vertici vanno cambiati, rimuovete i vostri veti.
L´ipotesi di un super-direttore generale viene accolta con un sorriso da Bersani: «Monti non si è sbilanciato, ma ha ascoltato con attenzione e ha condiviso le preoccupazioni del Pd». La reazione del Pdl invece è un muro. «L´idea di un commissario è incostituzionale. Lo dicono tutte le sentenze. È bene che il governo abbandoni l´avventurismo», attacca Maurizio Gasparri. Il capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto avverte: «Sulla Rai non sono accettabili forzature di alcun tipo».I veti dunque rimangono. E Casini si dice sicuro che «dopo le amministrative ci sarà più serenità». L´idea del commissario serve ora a imporre un passo indietro ai duellanti. Ma che la legge Gasparri non sia gradita a Palazzo Chigi l´altra notte è stato chiarissimo. Per questo un´iniziativa radicale di Monti può andare oltre la tattica.

La Repubblica 17.03.12

“Chi ha paura di una nuova Rai?”, di Giovanni Valentini

È vero che la riforma della Rai, rispetto all´urgenza della crisi economica e sociale, al debito pubblico e allo spread, al lavoro che manca e ai salari che scendono, in questo momento non è una priorità. Ed è vero anche che la legge sulla televisione tuttora in vigore è stata approvata – diciamo legittimamente – dall´ex maggioranza che aveva vinto le ultime elezioni. Ma è altrettanto vero che la Rai è una priorità da sempre. E che oggi la vecchia maggioranza di centrodestra non esiste più, per cui la famigerata legge Gasparri è ormai orfana, figlia di nessuno, priva di legittimità.
A parte il consolidamento del vecchio duopolio Rai-Mediaset, sopravvissuto nel passaggio dal sistema analogico al digitale, il difetto principale di quella pseudo-riforma consiste nel fatto che trasferisce il controllo della televisione pubblica dal Parlamento al governo. E con ciò, contraddice proprio la sua funzione d´interesse generale: vale a dire quella di garantire – come ricorda l´autore del libro citato all´inizio – il diritto alla libertà d´espressione e d´informazione sancito dalle Carte costituzionali di tutta l´Europa. Non c´è dubbio, perciò, che la necessità di modificare la governance dell´azienda – reclamata a gran voce dal Pd di Pier Luigi Bersani – è chiara ed evidente.
Ma nella situazione in cui siamo, con un governo tecnico o istituzionale che dir si voglia, un tale vulnus potrebbe anche risultare paradossalmente un pregio o un vantaggio. Perché di fatto consegna al presidente Monti e al ministro Passera la facoltà di porre l´imprimatur sul futuro vertice della Rai, al posto di quello attuale in scadenza a fine marzo. Proprio in forza della Gasparri, al governo in carica tocca ora nominare il suo nuovo rappresentante nel Cda; designare il presidente che poi dev´essere formalmente eletto dalla Commissione parlamentare di Vigilanza con una maggioranza qualificata dei due terzi; e, infine, indicare il direttore generale che dev´essere nominato dal consiglio di amministrazione.
È assai improbabile che, in base agli attuali rapporti di forza parlamentari, si possa davvero riformare la Rai con la collaborazione di chi l´ha assaltata, depredata, danneggiata, attraverso un´occupazione manu militari: e cioè, il centrodestra rappresentato oggi dal Pdl. Tanto più che si tratta del partito-azienda che continua a considerare la tv pubblica come il suo principale rivale, avversario, nemico: sia sul piano politico sia su quello pubblicitario e quindi economico. Sarebbe già tanto, perciò, se la mediazione di Monti riuscisse a ottenere una mini-riforma, per ridurre il numero dei consiglieri da 9 a 5, risparmiare i rispettivi emolumenti e soprattutto favorire la composizione di un vertice più omogeneo. In linea, peraltro, con quanto è stato già stabilito per l´Autorità sulle Comunicazioni.
La verità è che, ad aver paura di una nuova Rai, sono proprio il Pdl e Mediaset. Il partito-azienda, perché teme di perderne il controllo politico. L´azienda-partito, perché teme di ritrovarsi un concorrente più agguerrito e competitivo, sul piano della programmazione, dell´audience e quindi della raccolta pubblicitaria. Al momento, nonostante l´erosione dei canali digitali tematici e di quelli satellitari, i sei canali generalisti tradizionali (tre Rai e tre Mediaset) continuano ad attrarre la larga maggioranza dei telespettatori che, nel giorno medio, superano addirittura il 75% del totale (2010).
Nel saggio del professor Richeri per Laterza, c´è anche un capitolo intitolato “Perché un´impresa televisiva pubblica?”. E l´autore, dati alla mano, fornisce un´articolata ed esauriente risposta, rilevando innanzitutto che “il ruolo della pubblicità nel sistema televisivo italiano è centrale, dal momento che genera quasi la metà delle risorse complessive”: 4,324 miliardi di euro, su un totale di 8,976, pari al 48%. Né manca di sottolineare l´anomalia che, rispetto al resto d´Europa, nel nostro Paese tre imprese (Rai, Mediaset e Sky) “controllano quasi il 90% delle risorse totali, mentre il restante 10% è frammentato tra le altre imprese nazionali e locali”. La somma di una tale concentrazione, fra entrate pubblicitarie e abbonamenti, “raggiunge quasi 8 miliardi di euro su un totale di 9”.
Non si tratta, dunque, di intervenire soltanto sulla governance della Rai, per liberarla finalmente dalla morsa della partitocrazia che ne mortifica l´autonomia e l´indipendenza. Ma anche di provvedere alle fonti di finanziamento, per sottrarre l´azienda alla schiavitù dell´audience e restituirla al suo ruolo di servizio pubblico. Quanto al canone, inteso come “tassa di scopo”, è ancora Richeri a rilevare che “il mancato pagamento da parte delle famiglie rappresenta una perdita di circa 600 milioni di euro all´anno, a cui si aggiungono 140 milioni per il canone non pagato dagli enti: una cifra che corrisponde nell´insieme al 30% del bilancio Rai 2010”.
Al governo di Monti e Passera non sfuggirà certamente la dimensione economica – oltreché politica, sociale e culturale – della “questione televisiva”, anche per la sua influenza sullo sviluppo del Paese. La Rai è perciò la prima casella da cui bisogna necessariamente partire.

La Repubblica 17.03.12

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“Rai, ora spunta l´ipotesi commissario”, di Goffredo De Marchis

Monti vuole un dg con poteri speciali. Ok di Bersani. Il Pdl insorge: anticostituzionale. Ma Passera è convinto che sia meglio rinnovare il cda con i criteri della Gasparri. A notte fonda, poco prima della fine del vertice, Mario Monti riapre i giochi sulla Rai. Lascia capire che tutte le ipotesi sono ancora in campo. Perché il rinnovo dei vertici con la legge attuale, la Gasparri, non lo convinceva ieri e non lo convince oggi. «Viale Mazzini non funziona come deve funzionare un´azienda». Non è solo il suo pensiero: il presidente della tv pubblica Paolo Garimberti condivide e ne è convinto anche Giorgio Napolitano. Palazzo Chigi non esclude perciò il ricorso a un commissario. O meglio, a un direttore generale con poteri ampliati e deleghe piene che sarebbe un “commissario risanatore” in grado di rimettere in sesto l´azienda e i suoi conti. Il termine risanatore richiama subito il nome di Enrico Bondi, ex amministratore straordinario della Parmalat. Oggi è senza incarichi e ha fatto sapere di essere disponibile a prendersi la grana Rai. Per avere il totale controllo della Rai potrebbe diventare presidente-direttore generale, come avviene in altre imprese.
La mossa di Monti ha anche motivazioni tattiche. La Rai non è una priorità, ma anche per la tv vale la regola che il premier si è dato fin dall´inizio. Ricerca della condivisione e l´invito ai partiti a «non polemizzare, ad astenersi da forzature». Come quella di Bersani che ha annunciato il rifiuto del Pd a partecipare alla spartizione. Lo spauracchio di un intervento diretto del governo nelle cose di Viale Mazzini da sempre appaltate alle forze politiche può aiutare a superare i veti incrociati. Pesa tantissimo anche il ruolo di Silvio Berlusconi con il suo immane conflitto d´interessi. Il Pdl punta a mantenere l´attuale assetto, cioè alla conferma di Lorenza Lei al vertice. Pier Ferdinando Casini però indica le tappe che forse il governo si appresta a seguire: fine del mandato dell´attuale Cda, pausa di riflessione per superare la data delle amministrative (metà maggio) e dopo un nuovo giro di tavolo con i partiti. Sarebbe una proroga di fatto per il cda, anche se di breve durata.
Adesso tocca alle forze della maggioranza mandare dei segnali al governo. Ossia trovare una mediazione che offra a Monti una via d´uscita. Ma un problema il premier ce l´ha anche in casa. Corrado Passera, ministro dello Sviluppo economico e delle Comunicazioni, è contrario a riaprire il “tavolo”. Dopo aver tentato di commissariare la Rai attraverso il contratto di servizio pubblico che fissa le regole della concessione statale, Passera si è convinto che non ci sia altra strada che la legge Gasparri. Trovare nomi nuovi, azzerare l´attuale vertice ma sceglierne uno nuovo con i criteri in vigore.
Il totonomine gira sempre intorno ad alcuni nomi. Per la presidenza: Piero Angela (che si sfila: «Tutti mi chiedono la disponibilità ma io rendo un servizio migliore alla Rai continuando a fare il mio lavoro») o Giulio Anselmi. Berlusconi ha fatto un sondaggio per Antonio Verro, quasi un atto dovuto dopo che il consigliere aveva rinunciato al seggio della Camera per rimanere nel fortino di Viale Mazzini. In realtà il candidato del Cavaliere è Mario Resca, ex manager McDonald. Per la direzione generale sono in corsa Claudio Cappon, vicino a Passera, il vicedirettore generale Giancarlo Leone, Rocco Sabelli, ex ad di Alitalia. La Lei cerca un difficile bis. Perché la mossa di Monti è soprattutto un messaggio ad Alfano: i vertici vanno cambiati, rimuovete i vostri veti.
L´ipotesi di un super-direttore generale viene accolta con un sorriso da Bersani: «Monti non si è sbilanciato, ma ha ascoltato con attenzione e ha condiviso le preoccupazioni del Pd». La reazione del Pdl invece è un muro. «L´idea di un commissario è incostituzionale. Lo dicono tutte le sentenze. È bene che il governo abbandoni l´avventurismo», attacca Maurizio Gasparri. Il capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto avverte: «Sulla Rai non sono accettabili forzature di alcun tipo».I veti dunque rimangono. E Casini si dice sicuro che «dopo le amministrative ci sarà più serenità». L´idea del commissario serve ora a imporre un passo indietro ai duellanti. Ma che la legge Gasparri non sia gradita a Palazzo Chigi l´altra notte è stato chiarissimo. Per questo un´iniziativa radicale di Monti può andare oltre la tattica.

La Repubblica 17.03.12

“Chi ha paura di una nuova Rai?”, di Giovanni Valentini

È vero che la riforma della Rai, rispetto all´urgenza della crisi economica e sociale, al debito pubblico e allo spread, al lavoro che manca e ai salari che scendono, in questo momento non è una priorità. Ed è vero anche che la legge sulla televisione tuttora in vigore è stata approvata – diciamo legittimamente – dall´ex maggioranza che aveva vinto le ultime elezioni. Ma è altrettanto vero che la Rai è una priorità da sempre. E che oggi la vecchia maggioranza di centrodestra non esiste più, per cui la famigerata legge Gasparri è ormai orfana, figlia di nessuno, priva di legittimità.
A parte il consolidamento del vecchio duopolio Rai-Mediaset, sopravvissuto nel passaggio dal sistema analogico al digitale, il difetto principale di quella pseudo-riforma consiste nel fatto che trasferisce il controllo della televisione pubblica dal Parlamento al governo. E con ciò, contraddice proprio la sua funzione d´interesse generale: vale a dire quella di garantire – come ricorda l´autore del libro citato all´inizio – il diritto alla libertà d´espressione e d´informazione sancito dalle Carte costituzionali di tutta l´Europa. Non c´è dubbio, perciò, che la necessità di modificare la governance dell´azienda – reclamata a gran voce dal Pd di Pier Luigi Bersani – è chiara ed evidente.
Ma nella situazione in cui siamo, con un governo tecnico o istituzionale che dir si voglia, un tale vulnus potrebbe anche risultare paradossalmente un pregio o un vantaggio. Perché di fatto consegna al presidente Monti e al ministro Passera la facoltà di porre l´imprimatur sul futuro vertice della Rai, al posto di quello attuale in scadenza a fine marzo. Proprio in forza della Gasparri, al governo in carica tocca ora nominare il suo nuovo rappresentante nel Cda; designare il presidente che poi dev´essere formalmente eletto dalla Commissione parlamentare di Vigilanza con una maggioranza qualificata dei due terzi; e, infine, indicare il direttore generale che dev´essere nominato dal consiglio di amministrazione.
È assai improbabile che, in base agli attuali rapporti di forza parlamentari, si possa davvero riformare la Rai con la collaborazione di chi l´ha assaltata, depredata, danneggiata, attraverso un´occupazione manu militari: e cioè, il centrodestra rappresentato oggi dal Pdl. Tanto più che si tratta del partito-azienda che continua a considerare la tv pubblica come il suo principale rivale, avversario, nemico: sia sul piano politico sia su quello pubblicitario e quindi economico. Sarebbe già tanto, perciò, se la mediazione di Monti riuscisse a ottenere una mini-riforma, per ridurre il numero dei consiglieri da 9 a 5, risparmiare i rispettivi emolumenti e soprattutto favorire la composizione di un vertice più omogeneo. In linea, peraltro, con quanto è stato già stabilito per l´Autorità sulle Comunicazioni.
La verità è che, ad aver paura di una nuova Rai, sono proprio il Pdl e Mediaset. Il partito-azienda, perché teme di perderne il controllo politico. L´azienda-partito, perché teme di ritrovarsi un concorrente più agguerrito e competitivo, sul piano della programmazione, dell´audience e quindi della raccolta pubblicitaria. Al momento, nonostante l´erosione dei canali digitali tematici e di quelli satellitari, i sei canali generalisti tradizionali (tre Rai e tre Mediaset) continuano ad attrarre la larga maggioranza dei telespettatori che, nel giorno medio, superano addirittura il 75% del totale (2010).
Nel saggio del professor Richeri per Laterza, c´è anche un capitolo intitolato “Perché un´impresa televisiva pubblica?”. E l´autore, dati alla mano, fornisce un´articolata ed esauriente risposta, rilevando innanzitutto che “il ruolo della pubblicità nel sistema televisivo italiano è centrale, dal momento che genera quasi la metà delle risorse complessive”: 4,324 miliardi di euro, su un totale di 8,976, pari al 48%. Né manca di sottolineare l´anomalia che, rispetto al resto d´Europa, nel nostro Paese tre imprese (Rai, Mediaset e Sky) “controllano quasi il 90% delle risorse totali, mentre il restante 10% è frammentato tra le altre imprese nazionali e locali”. La somma di una tale concentrazione, fra entrate pubblicitarie e abbonamenti, “raggiunge quasi 8 miliardi di euro su un totale di 9”.
Non si tratta, dunque, di intervenire soltanto sulla governance della Rai, per liberarla finalmente dalla morsa della partitocrazia che ne mortifica l´autonomia e l´indipendenza. Ma anche di provvedere alle fonti di finanziamento, per sottrarre l´azienda alla schiavitù dell´audience e restituirla al suo ruolo di servizio pubblico. Quanto al canone, inteso come “tassa di scopo”, è ancora Richeri a rilevare che “il mancato pagamento da parte delle famiglie rappresenta una perdita di circa 600 milioni di euro all´anno, a cui si aggiungono 140 milioni per il canone non pagato dagli enti: una cifra che corrisponde nell´insieme al 30% del bilancio Rai 2010”.
Al governo di Monti e Passera non sfuggirà certamente la dimensione economica – oltreché politica, sociale e culturale – della “questione televisiva”, anche per la sua influenza sullo sviluppo del Paese. La Rai è perciò la prima casella da cui bisogna necessariamente partire.

La Repubblica 17.03.12

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“Rai, ora spunta l´ipotesi commissario”, di Goffredo De Marchis

Monti vuole un dg con poteri speciali. Ok di Bersani. Il Pdl insorge: anticostituzionale. Ma Passera è convinto che sia meglio rinnovare il cda con i criteri della Gasparri. A notte fonda, poco prima della fine del vertice, Mario Monti riapre i giochi sulla Rai. Lascia capire che tutte le ipotesi sono ancora in campo. Perché il rinnovo dei vertici con la legge attuale, la Gasparri, non lo convinceva ieri e non lo convince oggi. «Viale Mazzini non funziona come deve funzionare un´azienda». Non è solo il suo pensiero: il presidente della tv pubblica Paolo Garimberti condivide e ne è convinto anche Giorgio Napolitano. Palazzo Chigi non esclude perciò il ricorso a un commissario. O meglio, a un direttore generale con poteri ampliati e deleghe piene che sarebbe un “commissario risanatore” in grado di rimettere in sesto l´azienda e i suoi conti. Il termine risanatore richiama subito il nome di Enrico Bondi, ex amministratore straordinario della Parmalat. Oggi è senza incarichi e ha fatto sapere di essere disponibile a prendersi la grana Rai. Per avere il totale controllo della Rai potrebbe diventare presidente-direttore generale, come avviene in altre imprese.
La mossa di Monti ha anche motivazioni tattiche. La Rai non è una priorità, ma anche per la tv vale la regola che il premier si è dato fin dall´inizio. Ricerca della condivisione e l´invito ai partiti a «non polemizzare, ad astenersi da forzature». Come quella di Bersani che ha annunciato il rifiuto del Pd a partecipare alla spartizione. Lo spauracchio di un intervento diretto del governo nelle cose di Viale Mazzini da sempre appaltate alle forze politiche può aiutare a superare i veti incrociati. Pesa tantissimo anche il ruolo di Silvio Berlusconi con il suo immane conflitto d´interessi. Il Pdl punta a mantenere l´attuale assetto, cioè alla conferma di Lorenza Lei al vertice. Pier Ferdinando Casini però indica le tappe che forse il governo si appresta a seguire: fine del mandato dell´attuale Cda, pausa di riflessione per superare la data delle amministrative (metà maggio) e dopo un nuovo giro di tavolo con i partiti. Sarebbe una proroga di fatto per il cda, anche se di breve durata.
Adesso tocca alle forze della maggioranza mandare dei segnali al governo. Ossia trovare una mediazione che offra a Monti una via d´uscita. Ma un problema il premier ce l´ha anche in casa. Corrado Passera, ministro dello Sviluppo economico e delle Comunicazioni, è contrario a riaprire il “tavolo”. Dopo aver tentato di commissariare la Rai attraverso il contratto di servizio pubblico che fissa le regole della concessione statale, Passera si è convinto che non ci sia altra strada che la legge Gasparri. Trovare nomi nuovi, azzerare l´attuale vertice ma sceglierne uno nuovo con i criteri in vigore.
Il totonomine gira sempre intorno ad alcuni nomi. Per la presidenza: Piero Angela (che si sfila: «Tutti mi chiedono la disponibilità ma io rendo un servizio migliore alla Rai continuando a fare il mio lavoro») o Giulio Anselmi. Berlusconi ha fatto un sondaggio per Antonio Verro, quasi un atto dovuto dopo che il consigliere aveva rinunciato al seggio della Camera per rimanere nel fortino di Viale Mazzini. In realtà il candidato del Cavaliere è Mario Resca, ex manager McDonald. Per la direzione generale sono in corsa Claudio Cappon, vicino a Passera, il vicedirettore generale Giancarlo Leone, Rocco Sabelli, ex ad di Alitalia. La Lei cerca un difficile bis. Perché la mossa di Monti è soprattutto un messaggio ad Alfano: i vertici vanno cambiati, rimuovete i vostri veti.
L´ipotesi di un super-direttore generale viene accolta con un sorriso da Bersani: «Monti non si è sbilanciato, ma ha ascoltato con attenzione e ha condiviso le preoccupazioni del Pd». La reazione del Pdl invece è un muro. «L´idea di un commissario è incostituzionale. Lo dicono tutte le sentenze. È bene che il governo abbandoni l´avventurismo», attacca Maurizio Gasparri. Il capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto avverte: «Sulla Rai non sono accettabili forzature di alcun tipo».I veti dunque rimangono. E Casini si dice sicuro che «dopo le amministrative ci sarà più serenità». L´idea del commissario serve ora a imporre un passo indietro ai duellanti. Ma che la legge Gasparri non sia gradita a Palazzo Chigi l´altra notte è stato chiarissimo. Per questo un´iniziativa radicale di Monti può andare oltre la tattica.

La Repubblica 17.03.12

"Caro Saviano, sacri per chi?" di Mila Spicola

I professori sono sacri. Questo commovente pensiero espresso da Roberto Saviano qualche giorno fa all’Auditorium di Roma cade come un sasso muto nel pozzo artesiano di Alfredino Rampi.
Perché evoco un ricordo così duro della memoria collettiva di tutti noi proprio adesso?
Perché caro Roberto, nonostante le tue nobili intenzioni nel dire e nobili, le nostre, nell’ascoltare, in realtà stiamo imbiancando i sepolcri. Giusto per passare da immagine a immagine.
La verità è che noi professori non siamo sacri affatto e per nessuno. La verità è che il sapere, la conoscenza, l’istruzione, non sono sacri per nulla.
Non lo sono per i governi, che negli ultimi anni hanno tolto, tagliato, razionalizzato, smantellato, il valore del sapere e della scuola. Altro che “in cima all’agenda”.
Ma non lo sono soprattutto per il paese intero e sarebbe l’ora di svelare il velo di una sostanziale ipocrisia che ha riguardato l’argomento per fin troppo tempo.
Il velo lo squarciano ogni giorno i miei alunni quando mi dicono: “prof ma a che serve studiare, essere bravi, laurearsi? Tanto non serve a nulla, servono solo le conoscenze”.
Come dire: la verità dell’innocenza. Hai voglia a ripetergli che si studia per se stessi, per la propria crescita. La classe dirigente intera italiana (economica, accademica, aziendale, e tutto quello che volete aggiungerci) a un certo punto ha deciso che non contano affatto il sapere, la conoscenza, i meriti, i curricula.. contano solo le “relazioni” che si riescono a intrattenere con i propri sottoposti. Per cui studiare manco più a quello serve, a trovare un buon lavoro. Rimarrebbe la crescita personale come motivazione, ma ci credono solo, e non più con la stessa convinzione, i professori. E dunque a chi la vogliamo raccontare la favola della sacralità? Dell’importanza della scuola? Se qualcuno l’ha distrutta, (la politica?), lo ha fatto con la complicità di tutti.
La scuola oggi non è importante per chi cresce adesso e in questo sistema di regole. A chi vogliamo trasferire il valore di qualcosa che non ha nessun valore sociale effettivo?
Riflettevo sul fatto che la TAV costerà all’Italia circa 34 miliardi di euro. E’ necessaria, ce lo chiede l’Europa e l’Italia deve allinearsi e competere con gli altri sul piano della modernità. Mi chiedevo,a proposito di “modernità”, quante scuole del sud (o del paese intero) si potrebbero mettere a norma, ricostruire, sistemare con 34 miliardi di euro. Penso che avanzerebbero soldi persino per stabilizzare i colleghi lasciati per strada, per aggiornare tutti noi, per adeguare le infrastrutture tecnologiche della conoscenza… Mi ha stoppato subito una cara amica:”Le due cose non sono alternative, Mila! La Tav deve farsi! E la scuola deve essere tutelata, su questo non ci piove. Le due cose sono entrambe necessarie!” Eppur ci piove, non solo metaforicamente, ma proprio pioggia vera, in certe aule.
In un tweet recentissimo Gianni Riotta mi invita, quando si parla di educazione e scuola, ad essere realisti. Giusto per la congiuntura storica e la crisi.
Ok, lo sono, e molto. Sono infatti realisticamente certa che la TAV si farà, 34 miliardi spunteranno fuori. Le scuole no: non verrano aggiustate. Giusto per ricordarvi che le due cose non hanno nemmeno lontanamente la stessa urgenza . Se lo sogna la scuola statale italiana di avere un finanziamento di 34 miliardi. Non lo vuole nemmeno il paese, figuriamoci la politica, o la tecno-politica. Al netto della retorica sullo spendere bene i soldi, immagino che questo governo potrebbe davvero fregarsene del consenso dei teologi della conservazione dello sfascio (è un governo tecnico no?) e agire in modo completamente innovativo (e cioè dando la sua idea sul come spendere e meglio i soldi ) se solo lo volesse negli ambiti del sapere, della conoscenza, della ricerca; investire in modo vero in istruzione, ricerca e innovazione. Anche perché tutto ciò costa, è vero, ma qualcuno se lo sta chiedendo quanto ci costerà tra 20 anni non l’averlo fatto?
Non so come ma ho la certezza, altrettanto realistica, che non abbiano nessuna intenzione di farlo. Perché anche questo governo si adegua a quel sistema di cose, (e riguarda il paese intero, lo ripeto) del resto si tratta della stessa classe identica dirigente che ha guidato il paese negli ultimi 30 anni, magari da altri ambiti rispetto a quello politico, e che del sapere degli altri non sa che farsene. Per la quale un buon raccomandato vale molto ma molto di più di un buon curriculum. Dall’ultimo dei lavori al concorso di ordinario alla carica politica alla direzione di una municipalizzata.

A che serve dunque il sapere, prof? E a te Saviano, chiedo: sacri per chi? Dobbiamo ridere o cosa? Per chi siamo sacri? Nessun valore oggi è in declino come una buona educazione e una buona formazione, cioè, voglio dire: sono degli accessori dell’ipocrisia collettiva, non delle necessità. Figuriamoci un professore. La realtà parla di abbandoni scolastici altissimi, di scuole senza risorse e senza attrattività. Di laureati disoccupati. Di allievi migliori che vanno via dall’Italia per non sottostare ai ricatti. Di concorsi truccati. Di corruzione. Di risorse sprecate. E’ inutile continuare..sappiamo perfettamente: we don’t need no education..

In Cina il 26% del PIL va alla ricerca (alla ricerca libera..in Cina..sembra un ossimoro). In Italia circa l’1 %. Non c’è storia, adesso come adesso, per il nostro paese di ritornare nella Storia. Non con questo andazzo. Non in mano a questo paese.
Nel 1979 il testo di cui sotto segnò una rivoluzione socio-educativa, vi ricordate? L’abbiamo seguita alla lettera per dar corso a una sostanziale, anche se spero, reversibile, involuzione educativa. Il professore ha lasciato soli i ragazzi e nel far questo è rimasto solo. Sempre di oscuro sarcasmo in aula si tratta. Tutto sommato è solo un altro mattone nel muro altissimo che proprio quei ragazzi ribelli hanno eretto una volta arrivati in cima. Eppure io spero in una diversa generazione di ribelli, quelli che canteranno: we pretend a good education.

We don’t need no education.
We don’t need no thought control.
No dark sarcasm in the classroom.
Teacher, leave those kids alone.
Hey, Teacher, leave those kids alone!
All in all it’s just another brick in the wall.

Non abbiamo bisogno di educazione
Non abbiamo bisogno di essere sorvegliati
né di oscuro sarcasmo in aula
Professore, lascia in pace i ragazzi
Hey, professore, lascia da soli i ragazzi!
Tutto sommato, è solo un altro mattone nel muro.

da www.unita.it

“Caro Saviano, sacri per chi?” di Mila Spicola

I professori sono sacri. Questo commovente pensiero espresso da Roberto Saviano qualche giorno fa all’Auditorium di Roma cade come un sasso muto nel pozzo artesiano di Alfredino Rampi.
Perché evoco un ricordo così duro della memoria collettiva di tutti noi proprio adesso?
Perché caro Roberto, nonostante le tue nobili intenzioni nel dire e nobili, le nostre, nell’ascoltare, in realtà stiamo imbiancando i sepolcri. Giusto per passare da immagine a immagine.
La verità è che noi professori non siamo sacri affatto e per nessuno. La verità è che il sapere, la conoscenza, l’istruzione, non sono sacri per nulla.
Non lo sono per i governi, che negli ultimi anni hanno tolto, tagliato, razionalizzato, smantellato, il valore del sapere e della scuola. Altro che “in cima all’agenda”.
Ma non lo sono soprattutto per il paese intero e sarebbe l’ora di svelare il velo di una sostanziale ipocrisia che ha riguardato l’argomento per fin troppo tempo.
Il velo lo squarciano ogni giorno i miei alunni quando mi dicono: “prof ma a che serve studiare, essere bravi, laurearsi? Tanto non serve a nulla, servono solo le conoscenze”.
Come dire: la verità dell’innocenza. Hai voglia a ripetergli che si studia per se stessi, per la propria crescita. La classe dirigente intera italiana (economica, accademica, aziendale, e tutto quello che volete aggiungerci) a un certo punto ha deciso che non contano affatto il sapere, la conoscenza, i meriti, i curricula.. contano solo le “relazioni” che si riescono a intrattenere con i propri sottoposti. Per cui studiare manco più a quello serve, a trovare un buon lavoro. Rimarrebbe la crescita personale come motivazione, ma ci credono solo, e non più con la stessa convinzione, i professori. E dunque a chi la vogliamo raccontare la favola della sacralità? Dell’importanza della scuola? Se qualcuno l’ha distrutta, (la politica?), lo ha fatto con la complicità di tutti.
La scuola oggi non è importante per chi cresce adesso e in questo sistema di regole. A chi vogliamo trasferire il valore di qualcosa che non ha nessun valore sociale effettivo?
Riflettevo sul fatto che la TAV costerà all’Italia circa 34 miliardi di euro. E’ necessaria, ce lo chiede l’Europa e l’Italia deve allinearsi e competere con gli altri sul piano della modernità. Mi chiedevo,a proposito di “modernità”, quante scuole del sud (o del paese intero) si potrebbero mettere a norma, ricostruire, sistemare con 34 miliardi di euro. Penso che avanzerebbero soldi persino per stabilizzare i colleghi lasciati per strada, per aggiornare tutti noi, per adeguare le infrastrutture tecnologiche della conoscenza… Mi ha stoppato subito una cara amica:”Le due cose non sono alternative, Mila! La Tav deve farsi! E la scuola deve essere tutelata, su questo non ci piove. Le due cose sono entrambe necessarie!” Eppur ci piove, non solo metaforicamente, ma proprio pioggia vera, in certe aule.
In un tweet recentissimo Gianni Riotta mi invita, quando si parla di educazione e scuola, ad essere realisti. Giusto per la congiuntura storica e la crisi.
Ok, lo sono, e molto. Sono infatti realisticamente certa che la TAV si farà, 34 miliardi spunteranno fuori. Le scuole no: non verrano aggiustate. Giusto per ricordarvi che le due cose non hanno nemmeno lontanamente la stessa urgenza . Se lo sogna la scuola statale italiana di avere un finanziamento di 34 miliardi. Non lo vuole nemmeno il paese, figuriamoci la politica, o la tecno-politica. Al netto della retorica sullo spendere bene i soldi, immagino che questo governo potrebbe davvero fregarsene del consenso dei teologi della conservazione dello sfascio (è un governo tecnico no?) e agire in modo completamente innovativo (e cioè dando la sua idea sul come spendere e meglio i soldi ) se solo lo volesse negli ambiti del sapere, della conoscenza, della ricerca; investire in modo vero in istruzione, ricerca e innovazione. Anche perché tutto ciò costa, è vero, ma qualcuno se lo sta chiedendo quanto ci costerà tra 20 anni non l’averlo fatto?
Non so come ma ho la certezza, altrettanto realistica, che non abbiano nessuna intenzione di farlo. Perché anche questo governo si adegua a quel sistema di cose, (e riguarda il paese intero, lo ripeto) del resto si tratta della stessa classe identica dirigente che ha guidato il paese negli ultimi 30 anni, magari da altri ambiti rispetto a quello politico, e che del sapere degli altri non sa che farsene. Per la quale un buon raccomandato vale molto ma molto di più di un buon curriculum. Dall’ultimo dei lavori al concorso di ordinario alla carica politica alla direzione di una municipalizzata.

A che serve dunque il sapere, prof? E a te Saviano, chiedo: sacri per chi? Dobbiamo ridere o cosa? Per chi siamo sacri? Nessun valore oggi è in declino come una buona educazione e una buona formazione, cioè, voglio dire: sono degli accessori dell’ipocrisia collettiva, non delle necessità. Figuriamoci un professore. La realtà parla di abbandoni scolastici altissimi, di scuole senza risorse e senza attrattività. Di laureati disoccupati. Di allievi migliori che vanno via dall’Italia per non sottostare ai ricatti. Di concorsi truccati. Di corruzione. Di risorse sprecate. E’ inutile continuare..sappiamo perfettamente: we don’t need no education..

In Cina il 26% del PIL va alla ricerca (alla ricerca libera..in Cina..sembra un ossimoro). In Italia circa l’1 %. Non c’è storia, adesso come adesso, per il nostro paese di ritornare nella Storia. Non con questo andazzo. Non in mano a questo paese.
Nel 1979 il testo di cui sotto segnò una rivoluzione socio-educativa, vi ricordate? L’abbiamo seguita alla lettera per dar corso a una sostanziale, anche se spero, reversibile, involuzione educativa. Il professore ha lasciato soli i ragazzi e nel far questo è rimasto solo. Sempre di oscuro sarcasmo in aula si tratta. Tutto sommato è solo un altro mattone nel muro altissimo che proprio quei ragazzi ribelli hanno eretto una volta arrivati in cima. Eppure io spero in una diversa generazione di ribelli, quelli che canteranno: we pretend a good education.

We don’t need no education.
We don’t need no thought control.
No dark sarcasm in the classroom.
Teacher, leave those kids alone.
Hey, Teacher, leave those kids alone!
All in all it’s just another brick in the wall.

Non abbiamo bisogno di educazione
Non abbiamo bisogno di essere sorvegliati
né di oscuro sarcasmo in aula
Professore, lascia in pace i ragazzi
Hey, professore, lascia da soli i ragazzi!
Tutto sommato, è solo un altro mattone nel muro.

da www.unita.it

“Caro Saviano, sacri per chi?” di Mila Spicola

I professori sono sacri. Questo commovente pensiero espresso da Roberto Saviano qualche giorno fa all’Auditorium di Roma cade come un sasso muto nel pozzo artesiano di Alfredino Rampi.
Perché evoco un ricordo così duro della memoria collettiva di tutti noi proprio adesso?
Perché caro Roberto, nonostante le tue nobili intenzioni nel dire e nobili, le nostre, nell’ascoltare, in realtà stiamo imbiancando i sepolcri. Giusto per passare da immagine a immagine.
La verità è che noi professori non siamo sacri affatto e per nessuno. La verità è che il sapere, la conoscenza, l’istruzione, non sono sacri per nulla.
Non lo sono per i governi, che negli ultimi anni hanno tolto, tagliato, razionalizzato, smantellato, il valore del sapere e della scuola. Altro che “in cima all’agenda”.
Ma non lo sono soprattutto per il paese intero e sarebbe l’ora di svelare il velo di una sostanziale ipocrisia che ha riguardato l’argomento per fin troppo tempo.
Il velo lo squarciano ogni giorno i miei alunni quando mi dicono: “prof ma a che serve studiare, essere bravi, laurearsi? Tanto non serve a nulla, servono solo le conoscenze”.
Come dire: la verità dell’innocenza. Hai voglia a ripetergli che si studia per se stessi, per la propria crescita. La classe dirigente intera italiana (economica, accademica, aziendale, e tutto quello che volete aggiungerci) a un certo punto ha deciso che non contano affatto il sapere, la conoscenza, i meriti, i curricula.. contano solo le “relazioni” che si riescono a intrattenere con i propri sottoposti. Per cui studiare manco più a quello serve, a trovare un buon lavoro. Rimarrebbe la crescita personale come motivazione, ma ci credono solo, e non più con la stessa convinzione, i professori. E dunque a chi la vogliamo raccontare la favola della sacralità? Dell’importanza della scuola? Se qualcuno l’ha distrutta, (la politica?), lo ha fatto con la complicità di tutti.
La scuola oggi non è importante per chi cresce adesso e in questo sistema di regole. A chi vogliamo trasferire il valore di qualcosa che non ha nessun valore sociale effettivo?
Riflettevo sul fatto che la TAV costerà all’Italia circa 34 miliardi di euro. E’ necessaria, ce lo chiede l’Europa e l’Italia deve allinearsi e competere con gli altri sul piano della modernità. Mi chiedevo,a proposito di “modernità”, quante scuole del sud (o del paese intero) si potrebbero mettere a norma, ricostruire, sistemare con 34 miliardi di euro. Penso che avanzerebbero soldi persino per stabilizzare i colleghi lasciati per strada, per aggiornare tutti noi, per adeguare le infrastrutture tecnologiche della conoscenza… Mi ha stoppato subito una cara amica:”Le due cose non sono alternative, Mila! La Tav deve farsi! E la scuola deve essere tutelata, su questo non ci piove. Le due cose sono entrambe necessarie!” Eppur ci piove, non solo metaforicamente, ma proprio pioggia vera, in certe aule.
In un tweet recentissimo Gianni Riotta mi invita, quando si parla di educazione e scuola, ad essere realisti. Giusto per la congiuntura storica e la crisi.
Ok, lo sono, e molto. Sono infatti realisticamente certa che la TAV si farà, 34 miliardi spunteranno fuori. Le scuole no: non verrano aggiustate. Giusto per ricordarvi che le due cose non hanno nemmeno lontanamente la stessa urgenza . Se lo sogna la scuola statale italiana di avere un finanziamento di 34 miliardi. Non lo vuole nemmeno il paese, figuriamoci la politica, o la tecno-politica. Al netto della retorica sullo spendere bene i soldi, immagino che questo governo potrebbe davvero fregarsene del consenso dei teologi della conservazione dello sfascio (è un governo tecnico no?) e agire in modo completamente innovativo (e cioè dando la sua idea sul come spendere e meglio i soldi ) se solo lo volesse negli ambiti del sapere, della conoscenza, della ricerca; investire in modo vero in istruzione, ricerca e innovazione. Anche perché tutto ciò costa, è vero, ma qualcuno se lo sta chiedendo quanto ci costerà tra 20 anni non l’averlo fatto?
Non so come ma ho la certezza, altrettanto realistica, che non abbiano nessuna intenzione di farlo. Perché anche questo governo si adegua a quel sistema di cose, (e riguarda il paese intero, lo ripeto) del resto si tratta della stessa classe identica dirigente che ha guidato il paese negli ultimi 30 anni, magari da altri ambiti rispetto a quello politico, e che del sapere degli altri non sa che farsene. Per la quale un buon raccomandato vale molto ma molto di più di un buon curriculum. Dall’ultimo dei lavori al concorso di ordinario alla carica politica alla direzione di una municipalizzata.

A che serve dunque il sapere, prof? E a te Saviano, chiedo: sacri per chi? Dobbiamo ridere o cosa? Per chi siamo sacri? Nessun valore oggi è in declino come una buona educazione e una buona formazione, cioè, voglio dire: sono degli accessori dell’ipocrisia collettiva, non delle necessità. Figuriamoci un professore. La realtà parla di abbandoni scolastici altissimi, di scuole senza risorse e senza attrattività. Di laureati disoccupati. Di allievi migliori che vanno via dall’Italia per non sottostare ai ricatti. Di concorsi truccati. Di corruzione. Di risorse sprecate. E’ inutile continuare..sappiamo perfettamente: we don’t need no education..

In Cina il 26% del PIL va alla ricerca (alla ricerca libera..in Cina..sembra un ossimoro). In Italia circa l’1 %. Non c’è storia, adesso come adesso, per il nostro paese di ritornare nella Storia. Non con questo andazzo. Non in mano a questo paese.
Nel 1979 il testo di cui sotto segnò una rivoluzione socio-educativa, vi ricordate? L’abbiamo seguita alla lettera per dar corso a una sostanziale, anche se spero, reversibile, involuzione educativa. Il professore ha lasciato soli i ragazzi e nel far questo è rimasto solo. Sempre di oscuro sarcasmo in aula si tratta. Tutto sommato è solo un altro mattone nel muro altissimo che proprio quei ragazzi ribelli hanno eretto una volta arrivati in cima. Eppure io spero in una diversa generazione di ribelli, quelli che canteranno: we pretend a good education.

We don’t need no education.
We don’t need no thought control.
No dark sarcasm in the classroom.
Teacher, leave those kids alone.
Hey, Teacher, leave those kids alone!
All in all it’s just another brick in the wall.

Non abbiamo bisogno di educazione
Non abbiamo bisogno di essere sorvegliati
né di oscuro sarcasmo in aula
Professore, lascia in pace i ragazzi
Hey, professore, lascia da soli i ragazzi!
Tutto sommato, è solo un altro mattone nel muro.

da www.unita.it