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"Laurea, un colpo a poveri e Sud", di Franco Frabboni

Abolire il valore legale sarebbe un grave danno per il Mezzogiorno e per i ceti meno abbienti. Si penalizzerebbe fortemente l’emanicipazione culturale e professionale delle ragazze meridionali. Con molto vigore, gli studenti e i docenti si sono opposti alle leggi della Gelmini che hanno infestato, per un quadriennio, il mondo universitario di un «neoliberismo » incolto e senza futuro. Fortunatamente, sono ben altri i volti – per pulizia morale e sguardo democratico – del premier Mario Monti e del ministro dell’Istruzione Francesco Profumo. Entrambi hanno ben altra cultura unita a competenza, moralità, buone maniere. Tuttavia, vorrei esprimere alcune riserve sul tema del valore legale del titolo di studio universitario di cui si discute in queste settimane. È positiva la decisione di promuovere una consultazione sulla sua abolizione osul come, viceversa, mantenerlo e qualificarlo. Non condivido però le argomentazioni con le quali si è aperto il dibattito, perché possono accendere una microconflittualità tra sedi universitarie: tra Nord e Sud , tra mega e mini atenei, tra le discipline vicine alla ricerca applicata e quelle umanistiche. Le critiche severe del governo si sono indirizzate alle lobbies accademiche, presenti in Parlamento, che sbarrano la strada alla proposta di abolizione. La requisitoria parte da una diagnosi sicuramente veritiera. Nella prima decade del secolo, il sistema universitario italiano è stato frammentato in un arcipelago grottesco di sedi, sotto-sedi, capanni occasionali di insegnamento mordi-e-fuggi. Uno spettacolo avvilente, mai denunciato con durezza. Anzi, la conferenza dei rettori ha per lo più benedetto l’insediamento di pattuglie d’avanguardia di docenti – alle prime armi – forzatamente consenzienti anche al cospetto di contesti surreali, privi delle condizioni minime per fare insegnamento e ricerca. Attenzione,però.L’arcipelago peninsulare di mega-atenei e di piccole isole accademiche, di virtuose sedi universitarie e di dequalificati contesti accademici, non può venire sommerso da un dispositivo di legge che abroghi il valore legale del titolo di studio. Sarebbe un ordigno a orologeria che potrebbe buttare via con l’acqua sporca (la moltiplicazione abborracciata delle sedi), anche il bambino (le nuove geografie accademiche: il meridione, i ceti a basso reddito, le ragazze, il settore umanistico). Vediamo quali rischi si possono correre decidendo l’annullamento del valore legale della laurea. Intanto si penalizza soprattutto il mondo giovanile del Mezzogiorno. Togliere l’obbligatorietà del titolo di laurea significa che il percorso di studio verrà discrezionalmente apprezzato da chi assumerà i giovani per concorso, per libera contrattazione o per altri motivi. Come criterio discriminante, sarà favorita la sede accademica che rilascia il titolo di studio: la cui autorevolezza (certificata come?) avrà per risultato una scontata valutazione gerarchica. La laurea acquisita in una sede del Nord (meglio se si tratta di un mega ateneo) godrà di un appeal esclusivo per entrare nelle professioni future. La deriva sarà sicuramente questa: la caduta verticale degli studenti del meridione (non dimentichiamo che l’Italia è maglia nera in Europa: solo il 20% dei giovani si laurea, a fronte del 40% auspicato dalla Commissione europea). Parliamo della popolazione di ceto basso e medio: l’altra, la più fortunata economicamente potrà trasferirsi negli atenei del Nord. In secondo luogo l’abolizione del titolo penalizzerà i micro campus. Le classifiche relative all’appeal delle sedi consiglieranno le famiglie a scartare le più vicine e le spingerà a iscrivere i figli nelle macro sedi popolose e accreditate dei capoluoghi regionali. Inoltre con quella scelta si colpisce l’emancipazione culturale e professionale delle ragazze meridionali. È facile prevedere la caduta verticale del mondo femminile nelle aule accademiche, con la catastrofica perdita di un sacrosanto diritto all’emancipazione civile, culturale, esistenziale. Come dire: ghigliottinare il valore legale del titolo di studio porta alla perdita di «frontiere rosa» di cultura e di democrazia che l’Italia non può assolutamente permettersi.❖

“Laurea, un colpo a poveri e Sud”, di Franco Frabboni

Abolire il valore legale sarebbe un grave danno per il Mezzogiorno e per i ceti meno abbienti. Si penalizzerebbe fortemente l’emanicipazione culturale e professionale delle ragazze meridionali. Con molto vigore, gli studenti e i docenti si sono opposti alle leggi della Gelmini che hanno infestato, per un quadriennio, il mondo universitario di un «neoliberismo » incolto e senza futuro. Fortunatamente, sono ben altri i volti – per pulizia morale e sguardo democratico – del premier Mario Monti e del ministro dell’Istruzione Francesco Profumo. Entrambi hanno ben altra cultura unita a competenza, moralità, buone maniere. Tuttavia, vorrei esprimere alcune riserve sul tema del valore legale del titolo di studio universitario di cui si discute in queste settimane. È positiva la decisione di promuovere una consultazione sulla sua abolizione osul come, viceversa, mantenerlo e qualificarlo. Non condivido però le argomentazioni con le quali si è aperto il dibattito, perché possono accendere una microconflittualità tra sedi universitarie: tra Nord e Sud , tra mega e mini atenei, tra le discipline vicine alla ricerca applicata e quelle umanistiche. Le critiche severe del governo si sono indirizzate alle lobbies accademiche, presenti in Parlamento, che sbarrano la strada alla proposta di abolizione. La requisitoria parte da una diagnosi sicuramente veritiera. Nella prima decade del secolo, il sistema universitario italiano è stato frammentato in un arcipelago grottesco di sedi, sotto-sedi, capanni occasionali di insegnamento mordi-e-fuggi. Uno spettacolo avvilente, mai denunciato con durezza. Anzi, la conferenza dei rettori ha per lo più benedetto l’insediamento di pattuglie d’avanguardia di docenti – alle prime armi – forzatamente consenzienti anche al cospetto di contesti surreali, privi delle condizioni minime per fare insegnamento e ricerca. Attenzione,però.L’arcipelago peninsulare di mega-atenei e di piccole isole accademiche, di virtuose sedi universitarie e di dequalificati contesti accademici, non può venire sommerso da un dispositivo di legge che abroghi il valore legale del titolo di studio. Sarebbe un ordigno a orologeria che potrebbe buttare via con l’acqua sporca (la moltiplicazione abborracciata delle sedi), anche il bambino (le nuove geografie accademiche: il meridione, i ceti a basso reddito, le ragazze, il settore umanistico). Vediamo quali rischi si possono correre decidendo l’annullamento del valore legale della laurea. Intanto si penalizza soprattutto il mondo giovanile del Mezzogiorno. Togliere l’obbligatorietà del titolo di laurea significa che il percorso di studio verrà discrezionalmente apprezzato da chi assumerà i giovani per concorso, per libera contrattazione o per altri motivi. Come criterio discriminante, sarà favorita la sede accademica che rilascia il titolo di studio: la cui autorevolezza (certificata come?) avrà per risultato una scontata valutazione gerarchica. La laurea acquisita in una sede del Nord (meglio se si tratta di un mega ateneo) godrà di un appeal esclusivo per entrare nelle professioni future. La deriva sarà sicuramente questa: la caduta verticale degli studenti del meridione (non dimentichiamo che l’Italia è maglia nera in Europa: solo il 20% dei giovani si laurea, a fronte del 40% auspicato dalla Commissione europea). Parliamo della popolazione di ceto basso e medio: l’altra, la più fortunata economicamente potrà trasferirsi negli atenei del Nord. In secondo luogo l’abolizione del titolo penalizzerà i micro campus. Le classifiche relative all’appeal delle sedi consiglieranno le famiglie a scartare le più vicine e le spingerà a iscrivere i figli nelle macro sedi popolose e accreditate dei capoluoghi regionali. Inoltre con quella scelta si colpisce l’emancipazione culturale e professionale delle ragazze meridionali. È facile prevedere la caduta verticale del mondo femminile nelle aule accademiche, con la catastrofica perdita di un sacrosanto diritto all’emancipazione civile, culturale, esistenziale. Come dire: ghigliottinare il valore legale del titolo di studio porta alla perdita di «frontiere rosa» di cultura e di democrazia che l’Italia non può assolutamente permettersi.❖

“Laurea, un colpo a poveri e Sud”, di Franco Frabboni

Abolire il valore legale sarebbe un grave danno per il Mezzogiorno e per i ceti meno abbienti. Si penalizzerebbe fortemente l’emanicipazione culturale e professionale delle ragazze meridionali. Con molto vigore, gli studenti e i docenti si sono opposti alle leggi della Gelmini che hanno infestato, per un quadriennio, il mondo universitario di un «neoliberismo » incolto e senza futuro. Fortunatamente, sono ben altri i volti – per pulizia morale e sguardo democratico – del premier Mario Monti e del ministro dell’Istruzione Francesco Profumo. Entrambi hanno ben altra cultura unita a competenza, moralità, buone maniere. Tuttavia, vorrei esprimere alcune riserve sul tema del valore legale del titolo di studio universitario di cui si discute in queste settimane. È positiva la decisione di promuovere una consultazione sulla sua abolizione osul come, viceversa, mantenerlo e qualificarlo. Non condivido però le argomentazioni con le quali si è aperto il dibattito, perché possono accendere una microconflittualità tra sedi universitarie: tra Nord e Sud , tra mega e mini atenei, tra le discipline vicine alla ricerca applicata e quelle umanistiche. Le critiche severe del governo si sono indirizzate alle lobbies accademiche, presenti in Parlamento, che sbarrano la strada alla proposta di abolizione. La requisitoria parte da una diagnosi sicuramente veritiera. Nella prima decade del secolo, il sistema universitario italiano è stato frammentato in un arcipelago grottesco di sedi, sotto-sedi, capanni occasionali di insegnamento mordi-e-fuggi. Uno spettacolo avvilente, mai denunciato con durezza. Anzi, la conferenza dei rettori ha per lo più benedetto l’insediamento di pattuglie d’avanguardia di docenti – alle prime armi – forzatamente consenzienti anche al cospetto di contesti surreali, privi delle condizioni minime per fare insegnamento e ricerca. Attenzione,però.L’arcipelago peninsulare di mega-atenei e di piccole isole accademiche, di virtuose sedi universitarie e di dequalificati contesti accademici, non può venire sommerso da un dispositivo di legge che abroghi il valore legale del titolo di studio. Sarebbe un ordigno a orologeria che potrebbe buttare via con l’acqua sporca (la moltiplicazione abborracciata delle sedi), anche il bambino (le nuove geografie accademiche: il meridione, i ceti a basso reddito, le ragazze, il settore umanistico). Vediamo quali rischi si possono correre decidendo l’annullamento del valore legale della laurea. Intanto si penalizza soprattutto il mondo giovanile del Mezzogiorno. Togliere l’obbligatorietà del titolo di laurea significa che il percorso di studio verrà discrezionalmente apprezzato da chi assumerà i giovani per concorso, per libera contrattazione o per altri motivi. Come criterio discriminante, sarà favorita la sede accademica che rilascia il titolo di studio: la cui autorevolezza (certificata come?) avrà per risultato una scontata valutazione gerarchica. La laurea acquisita in una sede del Nord (meglio se si tratta di un mega ateneo) godrà di un appeal esclusivo per entrare nelle professioni future. La deriva sarà sicuramente questa: la caduta verticale degli studenti del meridione (non dimentichiamo che l’Italia è maglia nera in Europa: solo il 20% dei giovani si laurea, a fronte del 40% auspicato dalla Commissione europea). Parliamo della popolazione di ceto basso e medio: l’altra, la più fortunata economicamente potrà trasferirsi negli atenei del Nord. In secondo luogo l’abolizione del titolo penalizzerà i micro campus. Le classifiche relative all’appeal delle sedi consiglieranno le famiglie a scartare le più vicine e le spingerà a iscrivere i figli nelle macro sedi popolose e accreditate dei capoluoghi regionali. Inoltre con quella scelta si colpisce l’emancipazione culturale e professionale delle ragazze meridionali. È facile prevedere la caduta verticale del mondo femminile nelle aule accademiche, con la catastrofica perdita di un sacrosanto diritto all’emancipazione civile, culturale, esistenziale. Come dire: ghigliottinare il valore legale del titolo di studio porta alla perdita di «frontiere rosa» di cultura e di democrazia che l’Italia non può assolutamente permettersi.❖

"L’architetto della democrazia", di Pierluigi Castagnetti

Ne sono passati trentaquattro, eppure ogni anno, il 16 marzo (uccisione dei cinque agenti della scorta e cattura dell’onorevole Moro) e il 9 maggio (ritrovamento del cadavere dello statista democristiano) sono occasione per riflettere non soltanto su una delle pagine più drammatiche della vita della repubblica, ma anche sullo straordinario magistero di uno dei suoi protagonisti più importanti. Moro non è stato infatti soltanto un dirigente di partito e uomo di governo a livelli di massima responsabilità, ma è stato “l’architetto” dell’allargamento e del compimento della democrazia e, come tale, uno dei maggiori pensatori e ideatori di processi politici nuovi. È stato l’uomo che ha respirato con i polmoni della storia, cogliendo anche i sintomi più flebili dei cambiamenti che spesso sovrastavano la “sovranità” della politica, cercando di rintracciare in ognuno di essi ragioni di speranza e fiducia. È stato uomo che ha sempre abitato serenamente il suo tempo, amato come dono della Provvidenza.
Rileggendo la sua immensa produzione culturale, spirituale e politica si trovano pagine che, pur scritte in un tempo assai diverso, possono illuminare quello che stiamo vivendo. A proposito di una emergenza che costrinse alla collaborazione forze politiche che prima di allora si erano sempre contrapposte, scriveva ad esempio: «Abbiamo un’emergenza economica e un’emergenza politica. Io sento parlare di opposizione, del gioco della maggioranza e dell’opposizione. Sono in linea di principio pienamente d’accordo…Ma immaginate cosa avverrebbe in Italia in questo momento storico se fosse condotta fino in fondo la logica dell’opposizione, se questo paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili fosse messo ogni giorno alla prova da una opposizione condotta fino in fondo? Ecco che cosa è l’emergenza, ed ecco che cosa consiglia una sorta di tregua che suggerisce di riflettere su un modo accettabile per uscire da questa crisi» (febbraio 1978).
E, prima ancora, rivolgendosi agli altri partiti, aveva scritto «Non sempre ci siamo trovati concordi nelle stesse posizioni, ma abbiamo saputo sempre di non essere estranei gli uni agli altri, di avere un patrimonio comune che nell’interesse del paese, quali che siano le vicende nei tempi che cambiano, è doveroso non disperdere… Non è importante che pensiamo le stesse cose, che immaginiamo lo stesso identico destino, ma è invece straordinariamente importante che, ferma la fede di ciascuno nel proprio originale contributo per la salvezza dell’uomo e del mondo, tutti abbiamo il proprio libero respiro, tutti il proprio spazio intangibile nel quale vivere la propria esperienza di rinnovamento e di verità, tutti collegati l’uno all’altro nella comune accettazione di essenziali ragioni di libertà e di dialogo» (Il Giorno, 17 aprile 1977).
Pur essendo diversi i tempi e le condizioni storico-politiche, non v’è chi non veda in queste parole la descrizione delle stesse ragioni che hanno portato solo quattro mesi fa alla nascita del governo Monti e della “strana” maggioranza che lo sostiene. Il dibattito di oggi peraltro riguarda già ciò che avverrà dopo questa fase politica, un “dopo” che non sarà identico al “prima”, perché le ragioni profonde, che lo stesso governo Monti sta per alcuni aspetti inaspettatamente rivelando, attengono a un cambiamento già intervenuto nella società italiana, di cui il distanziamento dalla politica e dai partiti è solo un sintomo, in parte giustificato proprio dall’accusa rivolta alla politica e ai partiti di non conoscere più il paese e di temere il confronto con ciò che è cambiato. L’accusa di non amare questo tempo. Scriveva Moro ancora molti anni fa (Al di là della politica e altri scritti, ed. Studium, p.89): «Come ci piace straniarci dal nostro tempo per scuotere da noi pesanti e fastidiose responsabilità! Non amiamo il nostro tempo perché non vogliamo fare la fatica di capirlo nel suo vero significato, in questo emergere impetuoso di nuove ragioni di vita, in questa fresca misteriosa giovinezza del mondo».
Certo per i partiti è sempre stato difficile ripensare se stessi, il modo di farsi, di essere e di rapportarsi con la realtà; di fronte all’esigenza di cambiarsi capita infatti spesso che si richiudano a riccio per fare ciò che già sanno e sperimentare ciò che già fanno. È ancora Moro ad invitare il partito (Scritti e discorsi, volume V, ed. Cinque Lune, p. 3410) ad «aprire finalmente le finestre di questo castello nel quale siamo arroccati per far entrare il vento della vita che soffia intorno a noi. Non è un fatto di vita interna di partito, di distribuzione di potere, ma di necessità di un grande nuovo dibattito con l’intero paese… come condizione essenziale di sviluppo politico, un modo per dominare gli avvenimenti, non costringendoli fin quando si può ma assumendoli come dati importanti inseriti ordinatamente in una attenta dinamica sociale».
E, nel congresso della Dc del 1976, trentasei anni fa, veramente tanti anche se non sembrano così lontani, a proposito delle novità «che si annunciano all’orizzonte», dirà: «Chi non può negare che il riconoscimento del valore della donna, della sua originalità, della sua ricchezza, la sua reale indipendenza ed uguaglianza sia un problema eludibile e cruciale dello sviluppo storico? Chi può ignorare lo spirito dirompente dei giovani e un diritto di successione rivoluzionaria che non può essere contestata né aggirata con false promesse? Chi può disconoscere il peso radicalmente nuovo che i lavoratori hanno nell’organizzazione sociale, il loro incomprimibile diritto di non essere mero strumento, dove si prendono decisioni politiche o si svolge il loro lavoro, del potere altrui? Questo è il compito della nostra epoca.
Il tema dei diritti è ancora centrale nella nostra dialettica politica. Di fronte a questa fioritura la politica deve essere conscia del proprio limite, pronta a piegarsi su questa nuova realtà che le toglie la rigidezza della ragione di stato per darle il respiro della ragione dell’uomo». Mi pare che altro non serva. Serve solo meditare.

da Europa Quotidiano 16.03.12

“L’architetto della democrazia”, di Pierluigi Castagnetti

Ne sono passati trentaquattro, eppure ogni anno, il 16 marzo (uccisione dei cinque agenti della scorta e cattura dell’onorevole Moro) e il 9 maggio (ritrovamento del cadavere dello statista democristiano) sono occasione per riflettere non soltanto su una delle pagine più drammatiche della vita della repubblica, ma anche sullo straordinario magistero di uno dei suoi protagonisti più importanti. Moro non è stato infatti soltanto un dirigente di partito e uomo di governo a livelli di massima responsabilità, ma è stato “l’architetto” dell’allargamento e del compimento della democrazia e, come tale, uno dei maggiori pensatori e ideatori di processi politici nuovi. È stato l’uomo che ha respirato con i polmoni della storia, cogliendo anche i sintomi più flebili dei cambiamenti che spesso sovrastavano la “sovranità” della politica, cercando di rintracciare in ognuno di essi ragioni di speranza e fiducia. È stato uomo che ha sempre abitato serenamente il suo tempo, amato come dono della Provvidenza.
Rileggendo la sua immensa produzione culturale, spirituale e politica si trovano pagine che, pur scritte in un tempo assai diverso, possono illuminare quello che stiamo vivendo. A proposito di una emergenza che costrinse alla collaborazione forze politiche che prima di allora si erano sempre contrapposte, scriveva ad esempio: «Abbiamo un’emergenza economica e un’emergenza politica. Io sento parlare di opposizione, del gioco della maggioranza e dell’opposizione. Sono in linea di principio pienamente d’accordo…Ma immaginate cosa avverrebbe in Italia in questo momento storico se fosse condotta fino in fondo la logica dell’opposizione, se questo paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili fosse messo ogni giorno alla prova da una opposizione condotta fino in fondo? Ecco che cosa è l’emergenza, ed ecco che cosa consiglia una sorta di tregua che suggerisce di riflettere su un modo accettabile per uscire da questa crisi» (febbraio 1978).
E, prima ancora, rivolgendosi agli altri partiti, aveva scritto «Non sempre ci siamo trovati concordi nelle stesse posizioni, ma abbiamo saputo sempre di non essere estranei gli uni agli altri, di avere un patrimonio comune che nell’interesse del paese, quali che siano le vicende nei tempi che cambiano, è doveroso non disperdere… Non è importante che pensiamo le stesse cose, che immaginiamo lo stesso identico destino, ma è invece straordinariamente importante che, ferma la fede di ciascuno nel proprio originale contributo per la salvezza dell’uomo e del mondo, tutti abbiamo il proprio libero respiro, tutti il proprio spazio intangibile nel quale vivere la propria esperienza di rinnovamento e di verità, tutti collegati l’uno all’altro nella comune accettazione di essenziali ragioni di libertà e di dialogo» (Il Giorno, 17 aprile 1977).
Pur essendo diversi i tempi e le condizioni storico-politiche, non v’è chi non veda in queste parole la descrizione delle stesse ragioni che hanno portato solo quattro mesi fa alla nascita del governo Monti e della “strana” maggioranza che lo sostiene. Il dibattito di oggi peraltro riguarda già ciò che avverrà dopo questa fase politica, un “dopo” che non sarà identico al “prima”, perché le ragioni profonde, che lo stesso governo Monti sta per alcuni aspetti inaspettatamente rivelando, attengono a un cambiamento già intervenuto nella società italiana, di cui il distanziamento dalla politica e dai partiti è solo un sintomo, in parte giustificato proprio dall’accusa rivolta alla politica e ai partiti di non conoscere più il paese e di temere il confronto con ciò che è cambiato. L’accusa di non amare questo tempo. Scriveva Moro ancora molti anni fa (Al di là della politica e altri scritti, ed. Studium, p.89): «Come ci piace straniarci dal nostro tempo per scuotere da noi pesanti e fastidiose responsabilità! Non amiamo il nostro tempo perché non vogliamo fare la fatica di capirlo nel suo vero significato, in questo emergere impetuoso di nuove ragioni di vita, in questa fresca misteriosa giovinezza del mondo».
Certo per i partiti è sempre stato difficile ripensare se stessi, il modo di farsi, di essere e di rapportarsi con la realtà; di fronte all’esigenza di cambiarsi capita infatti spesso che si richiudano a riccio per fare ciò che già sanno e sperimentare ciò che già fanno. È ancora Moro ad invitare il partito (Scritti e discorsi, volume V, ed. Cinque Lune, p. 3410) ad «aprire finalmente le finestre di questo castello nel quale siamo arroccati per far entrare il vento della vita che soffia intorno a noi. Non è un fatto di vita interna di partito, di distribuzione di potere, ma di necessità di un grande nuovo dibattito con l’intero paese… come condizione essenziale di sviluppo politico, un modo per dominare gli avvenimenti, non costringendoli fin quando si può ma assumendoli come dati importanti inseriti ordinatamente in una attenta dinamica sociale».
E, nel congresso della Dc del 1976, trentasei anni fa, veramente tanti anche se non sembrano così lontani, a proposito delle novità «che si annunciano all’orizzonte», dirà: «Chi non può negare che il riconoscimento del valore della donna, della sua originalità, della sua ricchezza, la sua reale indipendenza ed uguaglianza sia un problema eludibile e cruciale dello sviluppo storico? Chi può ignorare lo spirito dirompente dei giovani e un diritto di successione rivoluzionaria che non può essere contestata né aggirata con false promesse? Chi può disconoscere il peso radicalmente nuovo che i lavoratori hanno nell’organizzazione sociale, il loro incomprimibile diritto di non essere mero strumento, dove si prendono decisioni politiche o si svolge il loro lavoro, del potere altrui? Questo è il compito della nostra epoca.
Il tema dei diritti è ancora centrale nella nostra dialettica politica. Di fronte a questa fioritura la politica deve essere conscia del proprio limite, pronta a piegarsi su questa nuova realtà che le toglie la rigidezza della ragione di stato per darle il respiro della ragione dell’uomo». Mi pare che altro non serva. Serve solo meditare.

da Europa Quotidiano 16.03.12

“L’architetto della democrazia”, di Pierluigi Castagnetti

Ne sono passati trentaquattro, eppure ogni anno, il 16 marzo (uccisione dei cinque agenti della scorta e cattura dell’onorevole Moro) e il 9 maggio (ritrovamento del cadavere dello statista democristiano) sono occasione per riflettere non soltanto su una delle pagine più drammatiche della vita della repubblica, ma anche sullo straordinario magistero di uno dei suoi protagonisti più importanti. Moro non è stato infatti soltanto un dirigente di partito e uomo di governo a livelli di massima responsabilità, ma è stato “l’architetto” dell’allargamento e del compimento della democrazia e, come tale, uno dei maggiori pensatori e ideatori di processi politici nuovi. È stato l’uomo che ha respirato con i polmoni della storia, cogliendo anche i sintomi più flebili dei cambiamenti che spesso sovrastavano la “sovranità” della politica, cercando di rintracciare in ognuno di essi ragioni di speranza e fiducia. È stato uomo che ha sempre abitato serenamente il suo tempo, amato come dono della Provvidenza.
Rileggendo la sua immensa produzione culturale, spirituale e politica si trovano pagine che, pur scritte in un tempo assai diverso, possono illuminare quello che stiamo vivendo. A proposito di una emergenza che costrinse alla collaborazione forze politiche che prima di allora si erano sempre contrapposte, scriveva ad esempio: «Abbiamo un’emergenza economica e un’emergenza politica. Io sento parlare di opposizione, del gioco della maggioranza e dell’opposizione. Sono in linea di principio pienamente d’accordo…Ma immaginate cosa avverrebbe in Italia in questo momento storico se fosse condotta fino in fondo la logica dell’opposizione, se questo paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili fosse messo ogni giorno alla prova da una opposizione condotta fino in fondo? Ecco che cosa è l’emergenza, ed ecco che cosa consiglia una sorta di tregua che suggerisce di riflettere su un modo accettabile per uscire da questa crisi» (febbraio 1978).
E, prima ancora, rivolgendosi agli altri partiti, aveva scritto «Non sempre ci siamo trovati concordi nelle stesse posizioni, ma abbiamo saputo sempre di non essere estranei gli uni agli altri, di avere un patrimonio comune che nell’interesse del paese, quali che siano le vicende nei tempi che cambiano, è doveroso non disperdere… Non è importante che pensiamo le stesse cose, che immaginiamo lo stesso identico destino, ma è invece straordinariamente importante che, ferma la fede di ciascuno nel proprio originale contributo per la salvezza dell’uomo e del mondo, tutti abbiamo il proprio libero respiro, tutti il proprio spazio intangibile nel quale vivere la propria esperienza di rinnovamento e di verità, tutti collegati l’uno all’altro nella comune accettazione di essenziali ragioni di libertà e di dialogo» (Il Giorno, 17 aprile 1977).
Pur essendo diversi i tempi e le condizioni storico-politiche, non v’è chi non veda in queste parole la descrizione delle stesse ragioni che hanno portato solo quattro mesi fa alla nascita del governo Monti e della “strana” maggioranza che lo sostiene. Il dibattito di oggi peraltro riguarda già ciò che avverrà dopo questa fase politica, un “dopo” che non sarà identico al “prima”, perché le ragioni profonde, che lo stesso governo Monti sta per alcuni aspetti inaspettatamente rivelando, attengono a un cambiamento già intervenuto nella società italiana, di cui il distanziamento dalla politica e dai partiti è solo un sintomo, in parte giustificato proprio dall’accusa rivolta alla politica e ai partiti di non conoscere più il paese e di temere il confronto con ciò che è cambiato. L’accusa di non amare questo tempo. Scriveva Moro ancora molti anni fa (Al di là della politica e altri scritti, ed. Studium, p.89): «Come ci piace straniarci dal nostro tempo per scuotere da noi pesanti e fastidiose responsabilità! Non amiamo il nostro tempo perché non vogliamo fare la fatica di capirlo nel suo vero significato, in questo emergere impetuoso di nuove ragioni di vita, in questa fresca misteriosa giovinezza del mondo».
Certo per i partiti è sempre stato difficile ripensare se stessi, il modo di farsi, di essere e di rapportarsi con la realtà; di fronte all’esigenza di cambiarsi capita infatti spesso che si richiudano a riccio per fare ciò che già sanno e sperimentare ciò che già fanno. È ancora Moro ad invitare il partito (Scritti e discorsi, volume V, ed. Cinque Lune, p. 3410) ad «aprire finalmente le finestre di questo castello nel quale siamo arroccati per far entrare il vento della vita che soffia intorno a noi. Non è un fatto di vita interna di partito, di distribuzione di potere, ma di necessità di un grande nuovo dibattito con l’intero paese… come condizione essenziale di sviluppo politico, un modo per dominare gli avvenimenti, non costringendoli fin quando si può ma assumendoli come dati importanti inseriti ordinatamente in una attenta dinamica sociale».
E, nel congresso della Dc del 1976, trentasei anni fa, veramente tanti anche se non sembrano così lontani, a proposito delle novità «che si annunciano all’orizzonte», dirà: «Chi non può negare che il riconoscimento del valore della donna, della sua originalità, della sua ricchezza, la sua reale indipendenza ed uguaglianza sia un problema eludibile e cruciale dello sviluppo storico? Chi può ignorare lo spirito dirompente dei giovani e un diritto di successione rivoluzionaria che non può essere contestata né aggirata con false promesse? Chi può disconoscere il peso radicalmente nuovo che i lavoratori hanno nell’organizzazione sociale, il loro incomprimibile diritto di non essere mero strumento, dove si prendono decisioni politiche o si svolge il loro lavoro, del potere altrui? Questo è il compito della nostra epoca.
Il tema dei diritti è ancora centrale nella nostra dialettica politica. Di fronte a questa fioritura la politica deve essere conscia del proprio limite, pronta a piegarsi su questa nuova realtà che le toglie la rigidezza della ragione di stato per darle il respiro della ragione dell’uomo». Mi pare che altro non serva. Serve solo meditare.

da Europa Quotidiano 16.03.12

“Modello tedesco anche per la soglia di applicazione”, di Luigi Mariucci

Sembra che nel confronto tra governo e parti sociali si sia aperto uno spiraglio positivo, se è vero che in materia di licenziamenti si sta ragionando su misure ispirate al modello tedesco. È questa la strada giusta, come chi scrive ha più volte proposto in queste pagine, se si vogliono affrontare i problemi reali ed evitare di dar vita a logoranti quanto inutili guerre ideologiche. Intanto va chiarita, una volte per tutte, la questione dei licenziamenti discriminatori: in merito non c’è nulla da cambiare, poiché già oggi i licenziamenti discriminatori sono radicalmente nulli, come è ovvio, e quindi sanzionati con la reintegrazione a prescindere dalle dimensioni d’impresa. Questo vale anche nel caso del licenziamento della collaboratrice domestica. Il punto è che nessuno dirà «ti licenzio perché ho scoperto che sei musulmana!». Vale a dire che la prova della discriminazione (politica, sindacale, di sesso, di religione ecc) è sempre difficile, quasi diabolica. La discriminazione infatti si nasconde dietro atti apparentemente neutri e motivi formalmente diversi, di tipo soggettivo (scarso rendimento, colpe disciplinari ecc.) o oggettivo, come nel caso del licenziamento per motivi cosiddetti economici, di carattere individuale o plurimo (al di sotto della soglia a cui si applica la disciplina dei licenziamenti collettivi, derivata da una direttiva europea). Se vengono licenziati con causali in apparenza soggettive o economiche lavoratori guarda caso, impegnati sindacalmente, o di colore, o appartenenti tutti al medesimo sesso come si fa a provare la discriminazione? Per questo la legge prevede che il datore di lavoro debba dimostrare l’esistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo e che in mancanza di questo il giudice disponga la rimozione dell’atto illegittimo, ovvero la reintegrazione. Questo dice l’art.18 dello Statuto dei lavoratori, che perciò consiste in una norma di civiltà ed ha una forte carica deterrente poiché mette il lavoratore in condizione di rendere effettivi i propri diritti nel corso del rapporto Cos’è dunque che non funziona in questa norma? Anzitutto, com’è noto, la questione dei tempi: se i processi tra i vari gradi durano fino a sei-sette anni, come accade in molti (non tutti) i distretti giudiziari la reintegrazione con l’aggiunta del risarcimento diventa un non-senso. Qui occorre quindi adottare misure cogenti di accelerazione delle controversie, come giustamente si sta ipotizzando al tavolo del confronto governo-sindacati. L’altra cosa che non funziona nell’art.18 è la rigidità del meccanismo e del criterio che ne delimita il campo di applicazione: la famosa soglia dei 15 dipendenti (peraltro applicata anche ai fini dell’esercizio dei diritti sindacali di cui alla parte III dello Statuto, e da altre normative, quali la Cassa integrazione). Tale soglia non è più attendibile, anche in ragione dei diffusi processi di esternalizzazione del ciclo produttivo e del mancato calcolo di un numero rilevante di dipendenti (apprendisti, somministrati, lavoratori a termine ecc.). Questa soglia andrebbe rivista o introducendo criteri più razionali di valutazione della potenzialità economica dell’impresa, secondo formule già previste dalla Unione europea per il calcolo delle dimensioni d’impresa, o ispirandosi anche in questo caso al modello tedesco. Lì la legge sui licenziamenti del 1951 si applica alle imprese con più di 5 dipendenti ed è il giudice (non il datore di lavoro) a decidere, salvo il caso in cui sia provato il carattere discriminatorio del licenziamento, se disporre la reintegrazione ovvero stabilire un equo indennizzo in rapporto alla natura del caso, alle dimensioni dell’impresa e al comportamento delle parti. Si manterrebbe in tal modo la funzione deterrente e di principio della reintegrazione ma ne verrebbe resa più flessibile l’attuazione. Non si dimentichi infatti che il primo compito del giudice è quello di promuovere la conciliazione delle controversie. Se poi ci si ispirasse al modello tedesco anche per quanto riguarda il funzionamento delle agenzie pubbliche del lavoro e i sistemi di sostegno del reddito di chi perde il lavoro e di chi (soprattutto giovani e donne) non lo trova, e si introducessero efficaci meccanismi di contrasto al ricorso abusivo ai contratti precari, si potrebbe concludere che finalmente il disegno della riforma comincia ad assumere un profilo positivo e, quel che più conta, utile al Paese.

L’Unità 16.03.12

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Monti: «Siamo vicini al traguardo». La Cgil rinvia la scelta al direttivo, di Laura Matteucci

Dopo la schiarita di mercoledì, sulla trattativa per il lavoro il governo accelera e riconvoca le parti sociali per martedì pomeriggio. Secondo Monti sarà l’occasione per «tirare le somme di un percorso di dialogo avviato il 23 gennaio e che porterà ad una conclusione, auspicabilmente con un pieno accordo, entro la fine di marzo», sostenendo che «il governo con le parti sociali è in dirittura d’arrivo, prima di portare il risultato di questo negoziato in Parlamento». E da Palazzo Chigi per le parti sociali arriva pure un elogio, con una nota che parla di «positivo spirito di collaborazione e contributo di idee da loro offerto sin dal primo momento». Anche i leader dei partiti che sostengono il governo, prima del vertice avuto in serata con Monti, invitano a chiudere in tempi brevi ma, se Alfano e Casini sottolineano soprattutto le esigenze delle imprese, Bersani ricorda che «ci sono ancora problemi su ammortizzatori, contratti e risorse».Una volta risolti, continua il segretario del Pd dopo aver avuto «contatti con tutti», «c’è la possibilità di arrivare ad un accordo. Mi aspetto parole chiare e passi avanti sulla riforma». Una conferma arriva anche dal ministro al Lavoro Fornero: «Siamo in una fase delicata rispetto alla quale nonposso anticipare contenuti, che spero possano essere portati all’accordo nei prossimi giorni». «Ci sono però concetti: inclusione, universalismo, dinamismo che ispirano la riforma – dice il ministro ancora una volta – fatta per aumentare l’occupazione. È questo il nostro obiettivo ultimo» facendo inmodoche sia «un po’ migliore per i giovani». Fornero torna anche a sostenere che «chi ha perso il lavoro deve essere assistito finanziariamente ma anche rispetto alla ricerca di un nuovo lavoro e nonperunaccompagnamento lungo verso la pensione. La conservazione di privilegi, di reti di protezione, di divisioni è qualcosa che non fa bene, che merita di essere smantellata. Senza procedere con metodi troppo energici». MONTAGNE RUSSE Di ostacoli all’intesa sembrano però essercene ancora. Rete imprese Italia punta i piedi e fa sapere che se aumenterà il costo del lavoro per le piccole e medie imprese, così come previsto, le associazioni aderenti potrebbero decidere di disdettare i contratti collettivi. La Cgil convocherà il direttivo mercoledì prossimo, occasione per valutare l’incontro al tavolo del giorno prima e, qualora ci fossero le condizioni, per dare ilmandato alla segreteria per concludere la trattativa. La minoranza interna intanto si fa sentire, con Gianni Rinaldini («La Cgil che vogliamo») che boccia la trattativa del governo Monti, il cui obiettivo sarebbe «non modificare le molteplici forme di lavoro precario, affermare la libertà di licenziamento riducendo ruolo, entità e durata della Cassa integrazione straordinaria, cancellare l’indennità di mobilità e operare manutenzioni sull’art.18, come dire che si afferma la totale libertà di licenziamento». E se la segretaria Cgil Susanna Camusso avverte che «l’incontro di mercoledì è stato utile, ma la trattativa è sulle montagne russe», il segretario Uil Luigi Angeletti chiosa «speriamo che non deragli, perché di solito il rischio è proprio che all’ultimo minuto si possa deragliare». «Ora – continua – ci sono condizioni migliori per una possibile intesa. La paccata di soldi non c’è, ma non c’è più neanche il rischio delle nozze coi fichi secchi ». Perché se cifre ancora non ne sonostate fatte, l’impegno ad assicurare risorse alla proroga del regime di cassa integrazione fino al 2016, quello c’è. Oltre a questo, una serie di aperture, ad esempio sugli esodati e suunmeccanismo che dovrebbe rendere più difficoltoso il ricorso a tipologie di contratti precari, hanno determinato l’accelerazione verso un esito positivo.❖

L’Unità 16.03.12

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“E i Piccoli minacciano di disdettare i contratti collettivi”, di Raffaella Cascioli

Rete Imprese Italia non ci sta e alza la voce. Nella trattativa sul mercato del lavoro, incamminata verso le battute conclusive, i diversi soggetti interessati – da Confindustria ai sindacati – stanno iniziando a trovare un punto di equilibrio. Tutti ad eccezione dei piccoli su cui si scaricherebbero non solo gli alti costi della riforma, ma anche le eventuali rigidità che potrebbero essere introdotte nella flessibilità in entrata. E così dopo le perplessità espresse sulle proposte presentate dalla Fornero e aver minacciato di non firmare una riforma che impone costi inaccettabili alle piccole e medie imprese, Rete Imprese Italia si accinge a valutare la disdetta dei contratti collettivi di lavoro.
In vista dell’incontro in serata tra Monti e i tre segretari di maggioranza, ieri pomeriggio i piccoli imprenditori hanno incontrato Casini, Bersani e Alfano a cui hanno spiegato il peso della riforma sulla realtà imprenditoriale italiana che si è dimostrata più vivace anche in tempo di crisi. E le forze politiche si sono mostrate sensibili alle posizioni di Rete Imprese Italia tanto che Bersani ha sottolineato come «la possibilità di un accordo esiste, anche se c’è ancora qualche problema, non sull’articolo 18, ma sul complesso dell’operazione e sugli ammortizzatori, sui contratti e sulle risorse».
Al tempo stesso l’Associazione ha messo a punto una serie di proposte alternative sia sul tema degli ammortizzatori sociali che della flessibilità in entrata, a breve sul tavolo del ministro Fornero. L’obiettivo è quello di arrivare al vertice di martedì convocato da Monti a palazzo Chigi con la possibilità di riaprire la partita. Ma cosa è che chiedono i piccoli? «Nessuna barricata, fanno sapere da Rete Imprese Italia, anzi siamo favorevoli all’allargamento delle tutele e alla buona flessibilità», purché a pagare il costo della riforma non siano solo i piccoli, già penalizzati da un aumento dei contributi previdenziali per 2,7 miliardi di euro. La denuncia è quella di far cassa sulle piccole e medie imprese costrette dalla riforma a far fronte ad un costo aggiuntivo di 1,2 miliardi di euro l’anno.
Di qui la necessità di operare qualche compensazione visto che l’Aspi, ovvero la vecchia indennità di disoccupazione, finirebbe per colpire soprattutto le pmi che oggi pagano in misura ridotta. Quello che artigiani e commercianti proporrebbero è che, a compensazione di questo ulteriore esborso, si provveda a una riduzione delle tariffe Inail e della gestione malattie Inps, dove si registra un avanzo complessivo di circa 20 miliardi di euro. C’è poi il problema della flessibilità in entrata con il rischio di un irrigidimento sui contratti a tempo determinato e a chiamata che, per le caratteristiche delle pmi, sono utilizzati da artigiani e commercianti e costituiscono «esempi di buona occupazione».
In questo senso occorre operare distinzioni tra grandi e piccole imprese, che devono fare i conti anche con la stagionalità. Tematiche queste specifiche per le pmi e che vanno considerate. Anche perché in proporzione le grandi imprese sarebbero meno penalizzate se non addirittura avvantaggiate in termini di costi dalla riforma. Una contrapposizione che mal si coniuga con il fatto che proprio grandi e piccole imprese a settembre di quest’anno hanno fatto fronte comune presentando il manifesto per le imprese (a cui hanno aderito Abi, Ania, Alleanza delle cooperative, Confindustria e Rete Imprese Italia) non solo per sottolineare i pericoli che correva il paese ma anche per condizionare un processo che poi ha portato l’Italia a voltare pagina, a chiudere la stagione di Berlusconi e aprirne una nuova.
Un’alleanza che ancora in questi giorni su temi caldi come il Sistri funziona, ma che sul tema del lavoro sembra non esistere.

da Europa Quotidiano 16.03.12