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“Primo, concertare”, di Mimmo Carrieri e Cesare Damiano

Il barometro della trattativa sul mercato del lavoro continua a oscillare, a volte volge al bello, altre in direzione contraria. Il governo aveva ventilato, in alcune occasioni, che non fosse indispensabile arrivare a una intesa con le parti sociali. E questo aveva fatto suscitare più di qualche interrogativo. Ci avevano insegnato (ricordate lo “scambio politico”) che è interesse fondante dei governi pervenire ad accordi con le parti sociali (che usavamo chiamare di concertazione): specie se si tratta di governi tecnici e dall’incerta base parlamentare, come è l’attuale. L’intesa era una necessità se essi volevano davvero allargare il loro consenso sociale (o neutralizzare potenziali conflitti).
In realtà queste indicazioni di “scuola” hanno subìto nel corso degli ultimi anni alcuni slittamenti, in ragione del prevalere (qualche volta anche nel centrosinistra) di una lettura liberista – molto discutibile – del rapporto con le organizzazioni sociali, in primo luogo i sindacati. Questa lettura porta a ritenere preferibile, alla strada dell’accordo, quella della decisione dirigista o dell’assecondamento della spontaneità del mercato. In questa ottica queste due modalità – decreto e mercato – sarebbero migliori perché più rapide ed efficaci.
Nella fase attuale a supporto di queste tesi vengono addotte le meraviglie prodotte dalle decisioni unilaterali adottate dal governo spagnolo (di destra) su queste materie. In realtà, finora queste meraviglie si traducono in due risultati certi: una minore protezione per i lavoratori (ed un ulteriore indebolimento dei sindacati); una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, che era già il più flessibile fra quelli dell’Europa occidentale. Restano incerti, e tutti da verificare, gli altri risultati che vengono propagandati: l’aumento quantitativo di opportunità occupazionali e la possibilità qualitativa di transitare più velocemente verso gli impieghi stabili.
Intorno al nodo del lavoro continuano dunque a circolare due stereotipi che vanno criticati e rovesciati con soluzioni pratiche meglio congegnate. Il primo è che vada accresciuta la flessibilità del mercato del lavoro come condizione della sua espansione. Questo principio-guida è stato già applicato per tutto il decennio, e senza successo: la legge 30, che lo aveva incarnato, non è più considerata un toccasana.
Non è casuale – e dovrebbe essere oggetto di riflessione – che oggi neppure gli sponsor di destra della flessibilità la evochino come la panacea per i mali del mercato del lavoro. Il tema che oggi dovrebbe essere al centro della discussione è piuttosto un altro: quello di come regolare la flessibilità, in modo da rendere più agevole il passaggio dei lavoratori discontinui all’ occupazione stabile e in modo da ridurre il costo sociale della flessibilità e della precarietà.
L’enfatizzazione fin qui assegnata alla revisione dell’articolo 18 sembra del tutto fuori tema e comunque sproporzionata rispetto al fine che si dovrebbe davvero promuovere: una stabilità ridisegnata, anche se senza le rigidità del periodo fordista (peraltro ormai sbiadite), e con una decisa semplificazione del paniere dei contratti di impiego.
Il secondo aspetto riguarda i caratteri e gli esiti degli incontri in corso tra governo e parti sociali. A tale riguardo le pulsioni dirigiste – decidere senza accordo e senza dare vita a una vera trattativa – vengono variamente alimentate, anche in virtù dell’alibi ricorrente costituito dal vincolo europeo. Ma anche in questo caso sembra più opportuno dare vita a un cammino prudente, cedendo il passo a modalità già sperimentate e con effetti positivi. Sarebbe quindi auspicabile che il confronto diventasse un vero e proprio negoziato per concertare. Nell’interesse dello stesso governo che vedrebbe in questa ipotesi esaltato il ruolo di soggetto “terzo”, che aiuta le parti – mediante scambi e persuasioni – a cooperare per obiettivi di natura generale (migliori performance economiche, ma anche nuove sicurezze sociali), trovando nello stesso tempo maggiore supporto per la sua azione. La strada maestra per affrontare i nodi aperti – mercato del lavoro e protezioni sociali – resta dunque quella degli accordi di concertazione. Una strada forse meno suggestiva ed eccitante rispetto ai fasti e alle speranze del passato. Ma che soddisfa ancora istanze primarie.
Essa assicura maggiore coesione sociale rispetto al metodo del decisionismo dall’alto. E garantisce anche risultati diffusi ed effetti pratici più in linea con le aspettative riformatrici rispetto a meccanismi verticalizzati. Soprattutto dovrebbe essere chiaro che nessun soggetto è depositario dell’interesse generale: tantomeno un governo tecnico, la cui ottica è dichiaratamente parziale. I beni comuni sono il frutto di un processo di costruzione condiviso, al cui servizio il governo dovrebbe mettere le sue competenze e la sua stessa “parzialità”.

da Europa Quotidiano 09.03.12

"L'urlo della scuola", di Mila Spicola

C’è bisogno di urlare per difendere la scuola statale italiana? A Bologna riparte la protesta a difesa della scuola. La voce l’abbiamo alzata in tanti in questi ultimi anni, non è servito. E’ chiaro. Perché a fronte dello stile diverso dal precedente, questo governo non è chi stia brillando per sostanziali cambi di passo per quel che riguarda le azioni a sostegno della scuola statale, al di là dei desiderata e delle dichiarazioni. Gli ultimi eventi , i provvedimenti dichiarati e smentiti subito dopo, dal concorso per i docenti, al riordino degli anni dell’obbligo e del ciclo di studi, all’ultimo sulla stabilizzazione dei docenti precari, ci disegnano un quadro frammentato di desideri e di proposte subito rimangiate nel nome della scarsità di risorse. Il risultato? Un estrema incertezza legata alla presa d’atto dello status quo: la scuola rimane povera e in difficoltà e non si affacciano all’orizzonte provvedimenti strutturali ma solo marginali. Ed ecco che torna a farsi viva e necessaria la protesta. Si ricomincia da Bologna, da cui parte un invito: una mobilitazione per il 23 marzo seguita da una giornata dibattito il 24 marzo che si terrà nella città emiliana. La manifestazione si chiama significativamente “L’urlo della scuola”.

La storia di questo movimento congiunto di genitori e insegnati ( www.assembleascuolebo.org ) inizia dalla notte bianca della scuola nell’ottobre 2008 fino allo sciopero della fame dello scorso giugno, durato una settimana e sostenuto con il loro corpo da più di 100 persone fra genitori e insegnanti.

Da quegli eventi è nata un’esperienza permanente di partecipazione civile a difesa della scuola, della sua qualità innanzitutto, come bene comune.

“L’urlo è nato dall’esigenza di rilanciare l’interesse per la scuola, l’istruzione e la ricerca come unica parola d’ordine per il futuro di questo disgraziato paese. I professori con le loro parole dell’economia dovrebbero fare un salto di qualità e aprire i cordoni della borsa che difendono come cani da guardia, perché se non si investe in scuola nessun futuro sarà possibile per i bambini, per i ragazzi, ma soprattutto per tutto il paese.

Ci aspettiamo che ognuno nel suo piccolo e nella sua scuola faccia quello che riesce ad organizzare: dal volantinaggio dell’appello, ad indossare la spilletta con la primula – simbolo di una nuova primavera per l’istruzione pubblica – a scambiare due parole davanti a scuola con altri genitori o in sala insegnanti per ribadire quello che non va e quello che si vorrebbe in più dalla scuola fino alle occupazioni, le manifestazioni, le assemblee, i frozen, ognuno con la sua creatività e la sua voglia di urlare.” Cosi Marina D’Altri e Ambrogio Vitali, tra gli organizzatori della manifestazione.

La giornata è anche il momento per mettere a punto e presentare una Convenzione Nazionale per la Scuola Pubblica, un momento di riflessione e ripartenza per coagulare i tanti movimenti e associazioni che in questi anni hanno difeso coraggiosamente e instancabilmente la qualità e il valore della scuola pubblica statale.

“Dopo l’Urlo di attenzione del 23 dunque le proposte del 24 marzo. L’intenzione è quella di raccogliere le forze più sensibili ai temi dell’istruzione pubblica per discutere di una possibile piattaforma di richieste su cui mobilitarsi per far sì che la scuola di tutti possa domani essere ed apparire una scuola all’avanguardia, laica, libera, solidale, come la scuola immaginata dagli articoli 3, 33, 34 della nostra Costituzione. Un bene comune non alienabile e non disponibile alle avventure di politiche ottuse e senza visione. Si alterneranno interventi e contributi. “

Ulteriori informazioni, lo spazio per le adesioni e i contributi (richiesti e graditi) su www.urlodellascuola.it . Spero siate presenti, se non fisicamente, almeno con le azioni. Io ci sarò.

Alla giornata hanno aderito, oltre a docenti, insegnanti e scuole, personaggi della società civile e culturale italiana tra cui:

Ivano Marescotti – attore

Remo Bodei – filosofo

Mila Spicola – insegnante

Gianni Vattimo – filosofo

Edoardo Bennato – musicista

Paolo Villaggio – attore

Toni Servillo – attore

Umberto Curi – filosofo

Luciana Castellina – scrittrice/giornalista

Fulvio Abbate – giornalista

Fabrizio Bentivoglio – attore

Mimmo Calopresti – regista

Fabio Vacchi – compositore

Sandra Amurri -giornalista

Antonio Pennacchi – scrittore

Andrea Rivera – cabarettista

Beatrice Alemagna – scrittrice

Stefano Bonaga – docente universitario

Paolo Fresu – musicista

Sonia Peana – musicista

Salvo Intravaia – giornalista

Loriano Macchiavelli – scrittore

Giuseppe Caliceti – scrittore

Marco Sgrosso – attore

Davide Ceccon – fumettista

Elena Balboni – illustratrice

Bruno Tognolini – scrittore

Duilio Pizzocchi – comico

Anna Amadori – attrice

Gianluca “Fogliazza” – vignettista

L’Unità 09.03.12

“L’urlo della scuola”, di Mila Spicola

C’è bisogno di urlare per difendere la scuola statale italiana? A Bologna riparte la protesta a difesa della scuola. La voce l’abbiamo alzata in tanti in questi ultimi anni, non è servito. E’ chiaro. Perché a fronte dello stile diverso dal precedente, questo governo non è chi stia brillando per sostanziali cambi di passo per quel che riguarda le azioni a sostegno della scuola statale, al di là dei desiderata e delle dichiarazioni. Gli ultimi eventi , i provvedimenti dichiarati e smentiti subito dopo, dal concorso per i docenti, al riordino degli anni dell’obbligo e del ciclo di studi, all’ultimo sulla stabilizzazione dei docenti precari, ci disegnano un quadro frammentato di desideri e di proposte subito rimangiate nel nome della scarsità di risorse. Il risultato? Un estrema incertezza legata alla presa d’atto dello status quo: la scuola rimane povera e in difficoltà e non si affacciano all’orizzonte provvedimenti strutturali ma solo marginali. Ed ecco che torna a farsi viva e necessaria la protesta. Si ricomincia da Bologna, da cui parte un invito: una mobilitazione per il 23 marzo seguita da una giornata dibattito il 24 marzo che si terrà nella città emiliana. La manifestazione si chiama significativamente “L’urlo della scuola”.

La storia di questo movimento congiunto di genitori e insegnati ( www.assembleascuolebo.org ) inizia dalla notte bianca della scuola nell’ottobre 2008 fino allo sciopero della fame dello scorso giugno, durato una settimana e sostenuto con il loro corpo da più di 100 persone fra genitori e insegnanti.

Da quegli eventi è nata un’esperienza permanente di partecipazione civile a difesa della scuola, della sua qualità innanzitutto, come bene comune.

“L’urlo è nato dall’esigenza di rilanciare l’interesse per la scuola, l’istruzione e la ricerca come unica parola d’ordine per il futuro di questo disgraziato paese. I professori con le loro parole dell’economia dovrebbero fare un salto di qualità e aprire i cordoni della borsa che difendono come cani da guardia, perché se non si investe in scuola nessun futuro sarà possibile per i bambini, per i ragazzi, ma soprattutto per tutto il paese.

Ci aspettiamo che ognuno nel suo piccolo e nella sua scuola faccia quello che riesce ad organizzare: dal volantinaggio dell’appello, ad indossare la spilletta con la primula – simbolo di una nuova primavera per l’istruzione pubblica – a scambiare due parole davanti a scuola con altri genitori o in sala insegnanti per ribadire quello che non va e quello che si vorrebbe in più dalla scuola fino alle occupazioni, le manifestazioni, le assemblee, i frozen, ognuno con la sua creatività e la sua voglia di urlare.” Cosi Marina D’Altri e Ambrogio Vitali, tra gli organizzatori della manifestazione.

La giornata è anche il momento per mettere a punto e presentare una Convenzione Nazionale per la Scuola Pubblica, un momento di riflessione e ripartenza per coagulare i tanti movimenti e associazioni che in questi anni hanno difeso coraggiosamente e instancabilmente la qualità e il valore della scuola pubblica statale.

“Dopo l’Urlo di attenzione del 23 dunque le proposte del 24 marzo. L’intenzione è quella di raccogliere le forze più sensibili ai temi dell’istruzione pubblica per discutere di una possibile piattaforma di richieste su cui mobilitarsi per far sì che la scuola di tutti possa domani essere ed apparire una scuola all’avanguardia, laica, libera, solidale, come la scuola immaginata dagli articoli 3, 33, 34 della nostra Costituzione. Un bene comune non alienabile e non disponibile alle avventure di politiche ottuse e senza visione. Si alterneranno interventi e contributi. “

Ulteriori informazioni, lo spazio per le adesioni e i contributi (richiesti e graditi) su www.urlodellascuola.it . Spero siate presenti, se non fisicamente, almeno con le azioni. Io ci sarò.

Alla giornata hanno aderito, oltre a docenti, insegnanti e scuole, personaggi della società civile e culturale italiana tra cui:

Ivano Marescotti – attore

Remo Bodei – filosofo

Mila Spicola – insegnante

Gianni Vattimo – filosofo

Edoardo Bennato – musicista

Paolo Villaggio – attore

Toni Servillo – attore

Umberto Curi – filosofo

Luciana Castellina – scrittrice/giornalista

Fulvio Abbate – giornalista

Fabrizio Bentivoglio – attore

Mimmo Calopresti – regista

Fabio Vacchi – compositore

Sandra Amurri -giornalista

Antonio Pennacchi – scrittore

Andrea Rivera – cabarettista

Beatrice Alemagna – scrittrice

Stefano Bonaga – docente universitario

Paolo Fresu – musicista

Sonia Peana – musicista

Salvo Intravaia – giornalista

Loriano Macchiavelli – scrittore

Giuseppe Caliceti – scrittore

Marco Sgrosso – attore

Davide Ceccon – fumettista

Elena Balboni – illustratrice

Bruno Tognolini – scrittore

Duilio Pizzocchi – comico

Anna Amadori – attrice

Gianluca “Fogliazza” – vignettista

L’Unità 09.03.12

"Aumentare i consumi e creare lavoro. Serve la Patrimoniale", di Laura Pennacchi

Il dibattito sul «dopo Monti», e sull’auspicabilità di una grande coalizione centrista alla guida dell’Italia anche dal 2013 in avanti, dovrebbe incorporare la riflessione sul futuro deflazionista preparato per l’Europa dalla filosofia rigorista del Fiscal Compact, insufficientemente contrastabile con la prospettiva di rilancio della crescita, basata solo sull’estensione delle liberalizzazioni e l’approfondimento concorrenziale del mercato interno, contenuta nella lettera sottoscritta in febbraio da dodici capi di Stato europei tra cui Monti e Cameron, leader conservatore inglese. Dal Fiscal Compact e dalla lettera dei dodici, infatti, si vede quanto conti quella discriminante destra/sinistra che i sostenitori della «Grande coalizione» pretenderebbero non essere più operante, tutti i partiti essendo costretti secondo loro, nelle condizioni dell’eccezionale risanamento imposto all’Italia e della necessaria «seconda ricostruzione », a «non differenziarsi molto nell’attività di governo» (così Salvati sul Corriere della sera del 5 marzo). Invece l’alternatività delle ispirazioni è cruciale. Non a caso una discriminante destra/sinistra a scala europea verrà ribadita con la Dichiarazione di Parigi del 14 marzo promossa da Bersani (che come segretario del Pd denunzia l’angustia delle attuali visioni europee), Hollande (che se vincerà le presidenziali francesi chiederà di rinegoziare il Fiscal Compact), Gabriel (che da leader della Spd da tempo chiede un rovesciamento delle politiche della Merkel, a partire dalla europeizzazione del debito con l’emissione di eurobonds per lo sviluppo). E non a caso politiche espansive “di sinistra” chiaramente modellate sul pensiero keynesiano ed esplicitamente ispirate al New Deal di Roosvelt vengono praticate da Obama negli Usa. D’altro canto è indubbio che la recessione e la disoccupazione che minacciano l’Europa saranno aggravate dalla persistenza di politiche di austerità draconiane sancita dal Fiscal Compact. La flessione del Pil – che già da due trimestri affligge l’Italia – sta coinvolgendo tutti i Paesi europei. La disoccupazione è senza precedenti: dei 27 milioni di persone senza lavoro nel mondo per diretta conseguenza della crisi (su un totale di una disoccupazione mondiale di 200 milioni di unità), a cui vanno aggiunti 29 milioni di persone uscite dalle forze di lavoro perché scoraggiate per un complesso di 56milioni di unità, più della meta si concentra in Europa, dove più di un terzo è disoccupato da oltre 12 mesi. Sono queste le drammatiche conseguenze della simultaneità, la rapidità, la profondità con cui le politiche di austerità sono state e sono imposte all’Europa dal duo Merkel-Sarkozy, a cui un solo parziale rimedio è fornito dalle aggressive e non ortodosse iniezioni di liquidità della Bce. Ma anche il binomio «austerità più liberalizzazioni», fulcro della lettera dei dodici, non offre molto soccorso. Infatti, oltre alle liberalizzazioni, l’«ordoliberalismo» che la pervade – variante di destra dell’«economia sociale di mercato» – ripropone una visione a la Hayek secondo cui l’imputata – che spiazzerebbe l’investimento privato – è sempre la spesa pubblica specie sociale, ridurre la quale sarebbe il prerequisito primario per liberare l’offerta, sollecitare la concorrenza e la competizione, stimolare l’investimento privato e così alla fine attivare – magari dopo una ventina d’anni – la crescita. Per questa impostazione le divergenze di competitività vanno recuperate, non essendo possibile svalutare una valuta nazionale di cui non si dispone più, mediante “svalutazioni interne” affidate alla compressione dei salari derivante da ulteriori flessibilizzazioni del mercato del lavoro. I problemi della domanda sono fuori dell’attenzione, il modello sociale europeo viene decretato defunto, gli investimenti pubblici non vengono nemmeno presi in considerazione. La condotta di Obama – che rinvia al 2017 il conseguimento di un rapporto defici/Pil del3%e mantiene per il 2012 un deficit al 5,5% – è opposta a quella qui ricostruita, ma è anche quanto di più lontano dal mantra repubblicano «meno tasse, meno spese, meno regole». La manovra di rilancio presentata al Congresso americano con il budget 2012-2013 destina 350 miliardi di dollari a misure immediate per sostenere e creare occupazione e 476 miliardi di dollari per strade, ferrovie, trasporti, impone un tasso di crescita del 5% annuo alla spesa in Ricerca e Sviluppo incamponon militare, incrementa del 19% la spesa per uno speciale progetto di sviluppo manifatturiero ad alto contenuto tecnologico. Al tempo stesso la manovra democratica abolisce i 1500 miliardi di dollari di sgravi fiscali di George Bush, alza l’aliquota per i capital gains, instaura un’aliquota del 30% per i milionari (la famosa “regola Buffet”), elimina le agevolazioni per l’industria petrolifera e per i profitti degli hedge funds e della società di private equity e così via. Si dirà:mal’Italia non è un Paese grande e potente come gli Usa, utilizzanti tra l’altro la forza del signoraggio del dollaro. Ma non è un’obiezione valida. Intanto il rilancio di politiche espansive rinnovate volte a creare un nuovo modello di sviluppo – agenti congiuntamente sulla domanda e sull’offerta e sollecitanti i consumi collettivi più dei consumi individuali, la domanda interna più delle esportazioni – deve avvenire a scala europea: l’Europa è la dimensione cruciale. Che cosa impedirebbe oggi all’Italia, se non una diversa visione segnata dalla discriminante destra/ sinistra, di destinare una parte dei proventi di unaeventuale tassazione patrimoniale a finanziare un grande Piano per la creazione di lavoro per giovani e donne basato sulla green economy, i beni comuni, i beni sociali?❖

L’Unità 09.03.12

“Aumentare i consumi e creare lavoro. Serve la Patrimoniale”, di Laura Pennacchi

Il dibattito sul «dopo Monti», e sull’auspicabilità di una grande coalizione centrista alla guida dell’Italia anche dal 2013 in avanti, dovrebbe incorporare la riflessione sul futuro deflazionista preparato per l’Europa dalla filosofia rigorista del Fiscal Compact, insufficientemente contrastabile con la prospettiva di rilancio della crescita, basata solo sull’estensione delle liberalizzazioni e l’approfondimento concorrenziale del mercato interno, contenuta nella lettera sottoscritta in febbraio da dodici capi di Stato europei tra cui Monti e Cameron, leader conservatore inglese. Dal Fiscal Compact e dalla lettera dei dodici, infatti, si vede quanto conti quella discriminante destra/sinistra che i sostenitori della «Grande coalizione» pretenderebbero non essere più operante, tutti i partiti essendo costretti secondo loro, nelle condizioni dell’eccezionale risanamento imposto all’Italia e della necessaria «seconda ricostruzione », a «non differenziarsi molto nell’attività di governo» (così Salvati sul Corriere della sera del 5 marzo). Invece l’alternatività delle ispirazioni è cruciale. Non a caso una discriminante destra/sinistra a scala europea verrà ribadita con la Dichiarazione di Parigi del 14 marzo promossa da Bersani (che come segretario del Pd denunzia l’angustia delle attuali visioni europee), Hollande (che se vincerà le presidenziali francesi chiederà di rinegoziare il Fiscal Compact), Gabriel (che da leader della Spd da tempo chiede un rovesciamento delle politiche della Merkel, a partire dalla europeizzazione del debito con l’emissione di eurobonds per lo sviluppo). E non a caso politiche espansive “di sinistra” chiaramente modellate sul pensiero keynesiano ed esplicitamente ispirate al New Deal di Roosvelt vengono praticate da Obama negli Usa. D’altro canto è indubbio che la recessione e la disoccupazione che minacciano l’Europa saranno aggravate dalla persistenza di politiche di austerità draconiane sancita dal Fiscal Compact. La flessione del Pil – che già da due trimestri affligge l’Italia – sta coinvolgendo tutti i Paesi europei. La disoccupazione è senza precedenti: dei 27 milioni di persone senza lavoro nel mondo per diretta conseguenza della crisi (su un totale di una disoccupazione mondiale di 200 milioni di unità), a cui vanno aggiunti 29 milioni di persone uscite dalle forze di lavoro perché scoraggiate per un complesso di 56milioni di unità, più della meta si concentra in Europa, dove più di un terzo è disoccupato da oltre 12 mesi. Sono queste le drammatiche conseguenze della simultaneità, la rapidità, la profondità con cui le politiche di austerità sono state e sono imposte all’Europa dal duo Merkel-Sarkozy, a cui un solo parziale rimedio è fornito dalle aggressive e non ortodosse iniezioni di liquidità della Bce. Ma anche il binomio «austerità più liberalizzazioni», fulcro della lettera dei dodici, non offre molto soccorso. Infatti, oltre alle liberalizzazioni, l’«ordoliberalismo» che la pervade – variante di destra dell’«economia sociale di mercato» – ripropone una visione a la Hayek secondo cui l’imputata – che spiazzerebbe l’investimento privato – è sempre la spesa pubblica specie sociale, ridurre la quale sarebbe il prerequisito primario per liberare l’offerta, sollecitare la concorrenza e la competizione, stimolare l’investimento privato e così alla fine attivare – magari dopo una ventina d’anni – la crescita. Per questa impostazione le divergenze di competitività vanno recuperate, non essendo possibile svalutare una valuta nazionale di cui non si dispone più, mediante “svalutazioni interne” affidate alla compressione dei salari derivante da ulteriori flessibilizzazioni del mercato del lavoro. I problemi della domanda sono fuori dell’attenzione, il modello sociale europeo viene decretato defunto, gli investimenti pubblici non vengono nemmeno presi in considerazione. La condotta di Obama – che rinvia al 2017 il conseguimento di un rapporto defici/Pil del3%e mantiene per il 2012 un deficit al 5,5% – è opposta a quella qui ricostruita, ma è anche quanto di più lontano dal mantra repubblicano «meno tasse, meno spese, meno regole». La manovra di rilancio presentata al Congresso americano con il budget 2012-2013 destina 350 miliardi di dollari a misure immediate per sostenere e creare occupazione e 476 miliardi di dollari per strade, ferrovie, trasporti, impone un tasso di crescita del 5% annuo alla spesa in Ricerca e Sviluppo incamponon militare, incrementa del 19% la spesa per uno speciale progetto di sviluppo manifatturiero ad alto contenuto tecnologico. Al tempo stesso la manovra democratica abolisce i 1500 miliardi di dollari di sgravi fiscali di George Bush, alza l’aliquota per i capital gains, instaura un’aliquota del 30% per i milionari (la famosa “regola Buffet”), elimina le agevolazioni per l’industria petrolifera e per i profitti degli hedge funds e della società di private equity e così via. Si dirà:mal’Italia non è un Paese grande e potente come gli Usa, utilizzanti tra l’altro la forza del signoraggio del dollaro. Ma non è un’obiezione valida. Intanto il rilancio di politiche espansive rinnovate volte a creare un nuovo modello di sviluppo – agenti congiuntamente sulla domanda e sull’offerta e sollecitanti i consumi collettivi più dei consumi individuali, la domanda interna più delle esportazioni – deve avvenire a scala europea: l’Europa è la dimensione cruciale. Che cosa impedirebbe oggi all’Italia, se non una diversa visione segnata dalla discriminante destra/ sinistra, di destinare una parte dei proventi di unaeventuale tassazione patrimoniale a finanziare un grande Piano per la creazione di lavoro per giovani e donne basato sulla green economy, i beni comuni, i beni sociali?❖

L’Unità 09.03.12

"L’annus horribilis di Mediaset", di Giovanni Cocconi

Bilancio 2011 il peggiore del decennio. I nodi: l’asta “aperta” e la nuova Agcom. Se sarà un’asta non andrà deserta. Quello che già a fine gennaio un report di Mediobanca avevo messo nero su bianco ormai lo pensano in tanti. Se il governo Monti deciderà di “smontare” il beauty contest delle frequenze tv, per ora congelato, e di bandire una vera e propria asta competitiva, anche gruppi media stranieri e operatori tlc potrebbero partecipare e la stessa Mediaset non potrebbe disertarla.
Il giorno dopo il colloquio tra Fedele Confalonieri e Mario Monti non è difficile spiegare il nervosismo del Biscione sulle possibili mosse del governo. Il bilancio che archivierà il 2011 sarà probabilmente per la Mediaset italiana il peggiore degli ultimi dieci anni, con un utile netto previsto attorno ai 200 milioni, molto al di sotto dei 350 del 2010 e dei 269 di due anni fa.
Un dato che si spiega con una flessione della pubblicità di circa il 4 per cento e una crescita dei costi del 3. L’allarme lanciato da Confalonieri sui possibili tagli all’occupazione è suonato come una sorta di ricatto a un governo che deve decidere se regalare o meno le frequenze tv al gruppo.
Ma le difficoltà di Mediaset non sono un’invenzione, anche se per gli analisti le responsabilità sono da attribuire anche al management che non ha mai saputo incidere sulla base dei costi come hanno fatto gli altri gruppi televisivi.
Il periodo delle vacche grasse è alle spalle, e in azienda già un paio di anni si fa maggiore attenzione ai costi su produzioni, diritti, compensi delle star.
L’austerity potrebbe scattare da quest’anno visto che i primi mesi del 2012 confermano il calo nella raccolta pubblicitaria. Di qui l’allarme sull’eventuale asta delle frequenze che Mediaset non vuole pagare ma che non può permettersi di regalare ai concorrenti, i quali potrebbero sfruttarle per i canali ad alta definizione, la nuova frontiera della competizione televisiva. «Sono passato undici anni e ancora siamo con il beauty contest sospeso» sono state le parole di un minaccioso Confalonieri al premier. Una partita al centro degli interessi di Silvio Berlusconi (più del rinnovo del cda Rai) e che spiega molto dello stop del Pdl al vertice con il governo. L’altra questione centrale è il rinnovo dell’Authority per le comunicazioni, che scade in primavera, vero e proprio crocevia legislativo delle decisioni in materia televisiva.
Si tratta di capire cosa intenda fare il governo alla scadenza dei novanta giorni che si è dato per risolvere il dossier frequenze, che scadono il prossimo 20 aprile. Confalonieri mercoledì ha perorato la causa dei cosiddetti “campioni nazionali” in contrapposizione ai media group stranieri. Quegli stessi che potrebbero essere attratti da un’eventuale asta con regole garantite da un governo tecnico. «La competizione dei media si è spostata a livello globale ed esistono dimensioni minime capaci di tenerci sul mercato: serve un legislatore attento agli interessi nazionali» pare abbia detto il presidente di Mediaset al capo del governo. Con l’addio di Berlusconi a palazzo Chigi l’azienda di famiglia ha perso anche il proprio garante nel Palazzo.
Ora si tratta di vedere se Monti, l’ex commissario europeo alla concorrenza, saprà dire di no agli interessi ad aziendam per fare cassa negli interessi di tutti. Si parla di due milioni e mezzo di incasso: anche la metà non sarebbe poco.

da Europa Quotidiano 08.03.12

“L’annus horribilis di Mediaset”, di Giovanni Cocconi

Bilancio 2011 il peggiore del decennio. I nodi: l’asta “aperta” e la nuova Agcom. Se sarà un’asta non andrà deserta. Quello che già a fine gennaio un report di Mediobanca avevo messo nero su bianco ormai lo pensano in tanti. Se il governo Monti deciderà di “smontare” il beauty contest delle frequenze tv, per ora congelato, e di bandire una vera e propria asta competitiva, anche gruppi media stranieri e operatori tlc potrebbero partecipare e la stessa Mediaset non potrebbe disertarla.
Il giorno dopo il colloquio tra Fedele Confalonieri e Mario Monti non è difficile spiegare il nervosismo del Biscione sulle possibili mosse del governo. Il bilancio che archivierà il 2011 sarà probabilmente per la Mediaset italiana il peggiore degli ultimi dieci anni, con un utile netto previsto attorno ai 200 milioni, molto al di sotto dei 350 del 2010 e dei 269 di due anni fa.
Un dato che si spiega con una flessione della pubblicità di circa il 4 per cento e una crescita dei costi del 3. L’allarme lanciato da Confalonieri sui possibili tagli all’occupazione è suonato come una sorta di ricatto a un governo che deve decidere se regalare o meno le frequenze tv al gruppo.
Ma le difficoltà di Mediaset non sono un’invenzione, anche se per gli analisti le responsabilità sono da attribuire anche al management che non ha mai saputo incidere sulla base dei costi come hanno fatto gli altri gruppi televisivi.
Il periodo delle vacche grasse è alle spalle, e in azienda già un paio di anni si fa maggiore attenzione ai costi su produzioni, diritti, compensi delle star.
L’austerity potrebbe scattare da quest’anno visto che i primi mesi del 2012 confermano il calo nella raccolta pubblicitaria. Di qui l’allarme sull’eventuale asta delle frequenze che Mediaset non vuole pagare ma che non può permettersi di regalare ai concorrenti, i quali potrebbero sfruttarle per i canali ad alta definizione, la nuova frontiera della competizione televisiva. «Sono passato undici anni e ancora siamo con il beauty contest sospeso» sono state le parole di un minaccioso Confalonieri al premier. Una partita al centro degli interessi di Silvio Berlusconi (più del rinnovo del cda Rai) e che spiega molto dello stop del Pdl al vertice con il governo. L’altra questione centrale è il rinnovo dell’Authority per le comunicazioni, che scade in primavera, vero e proprio crocevia legislativo delle decisioni in materia televisiva.
Si tratta di capire cosa intenda fare il governo alla scadenza dei novanta giorni che si è dato per risolvere il dossier frequenze, che scadono il prossimo 20 aprile. Confalonieri mercoledì ha perorato la causa dei cosiddetti “campioni nazionali” in contrapposizione ai media group stranieri. Quegli stessi che potrebbero essere attratti da un’eventuale asta con regole garantite da un governo tecnico. «La competizione dei media si è spostata a livello globale ed esistono dimensioni minime capaci di tenerci sul mercato: serve un legislatore attento agli interessi nazionali» pare abbia detto il presidente di Mediaset al capo del governo. Con l’addio di Berlusconi a palazzo Chigi l’azienda di famiglia ha perso anche il proprio garante nel Palazzo.
Ora si tratta di vedere se Monti, l’ex commissario europeo alla concorrenza, saprà dire di no agli interessi ad aziendam per fare cassa negli interessi di tutti. Si parla di due milioni e mezzo di incasso: anche la metà non sarebbe poco.

da Europa Quotidiano 08.03.12