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“Aumentare i consumi e creare lavoro. Serve la Patrimoniale”, di Laura Pennacchi

Il dibattito sul «dopo Monti», e sull’auspicabilità di una grande coalizione centrista alla guida dell’Italia anche dal 2013 in avanti, dovrebbe incorporare la riflessione sul futuro deflazionista preparato per l’Europa dalla filosofia rigorista del Fiscal Compact, insufficientemente contrastabile con la prospettiva di rilancio della crescita, basata solo sull’estensione delle liberalizzazioni e l’approfondimento concorrenziale del mercato interno, contenuta nella lettera sottoscritta in febbraio da dodici capi di Stato europei tra cui Monti e Cameron, leader conservatore inglese. Dal Fiscal Compact e dalla lettera dei dodici, infatti, si vede quanto conti quella discriminante destra/sinistra che i sostenitori della «Grande coalizione» pretenderebbero non essere più operante, tutti i partiti essendo costretti secondo loro, nelle condizioni dell’eccezionale risanamento imposto all’Italia e della necessaria «seconda ricostruzione », a «non differenziarsi molto nell’attività di governo» (così Salvati sul Corriere della sera del 5 marzo). Invece l’alternatività delle ispirazioni è cruciale. Non a caso una discriminante destra/sinistra a scala europea verrà ribadita con la Dichiarazione di Parigi del 14 marzo promossa da Bersani (che come segretario del Pd denunzia l’angustia delle attuali visioni europee), Hollande (che se vincerà le presidenziali francesi chiederà di rinegoziare il Fiscal Compact), Gabriel (che da leader della Spd da tempo chiede un rovesciamento delle politiche della Merkel, a partire dalla europeizzazione del debito con l’emissione di eurobonds per lo sviluppo). E non a caso politiche espansive “di sinistra” chiaramente modellate sul pensiero keynesiano ed esplicitamente ispirate al New Deal di Roosvelt vengono praticate da Obama negli Usa. D’altro canto è indubbio che la recessione e la disoccupazione che minacciano l’Europa saranno aggravate dalla persistenza di politiche di austerità draconiane sancita dal Fiscal Compact. La flessione del Pil – che già da due trimestri affligge l’Italia – sta coinvolgendo tutti i Paesi europei. La disoccupazione è senza precedenti: dei 27 milioni di persone senza lavoro nel mondo per diretta conseguenza della crisi (su un totale di una disoccupazione mondiale di 200 milioni di unità), a cui vanno aggiunti 29 milioni di persone uscite dalle forze di lavoro perché scoraggiate per un complesso di 56milioni di unità, più della meta si concentra in Europa, dove più di un terzo è disoccupato da oltre 12 mesi. Sono queste le drammatiche conseguenze della simultaneità, la rapidità, la profondità con cui le politiche di austerità sono state e sono imposte all’Europa dal duo Merkel-Sarkozy, a cui un solo parziale rimedio è fornito dalle aggressive e non ortodosse iniezioni di liquidità della Bce. Ma anche il binomio «austerità più liberalizzazioni», fulcro della lettera dei dodici, non offre molto soccorso. Infatti, oltre alle liberalizzazioni, l’«ordoliberalismo» che la pervade – variante di destra dell’«economia sociale di mercato» – ripropone una visione a la Hayek secondo cui l’imputata – che spiazzerebbe l’investimento privato – è sempre la spesa pubblica specie sociale, ridurre la quale sarebbe il prerequisito primario per liberare l’offerta, sollecitare la concorrenza e la competizione, stimolare l’investimento privato e così alla fine attivare – magari dopo una ventina d’anni – la crescita. Per questa impostazione le divergenze di competitività vanno recuperate, non essendo possibile svalutare una valuta nazionale di cui non si dispone più, mediante “svalutazioni interne” affidate alla compressione dei salari derivante da ulteriori flessibilizzazioni del mercato del lavoro. I problemi della domanda sono fuori dell’attenzione, il modello sociale europeo viene decretato defunto, gli investimenti pubblici non vengono nemmeno presi in considerazione. La condotta di Obama – che rinvia al 2017 il conseguimento di un rapporto defici/Pil del3%e mantiene per il 2012 un deficit al 5,5% – è opposta a quella qui ricostruita, ma è anche quanto di più lontano dal mantra repubblicano «meno tasse, meno spese, meno regole». La manovra di rilancio presentata al Congresso americano con il budget 2012-2013 destina 350 miliardi di dollari a misure immediate per sostenere e creare occupazione e 476 miliardi di dollari per strade, ferrovie, trasporti, impone un tasso di crescita del 5% annuo alla spesa in Ricerca e Sviluppo incamponon militare, incrementa del 19% la spesa per uno speciale progetto di sviluppo manifatturiero ad alto contenuto tecnologico. Al tempo stesso la manovra democratica abolisce i 1500 miliardi di dollari di sgravi fiscali di George Bush, alza l’aliquota per i capital gains, instaura un’aliquota del 30% per i milionari (la famosa “regola Buffet”), elimina le agevolazioni per l’industria petrolifera e per i profitti degli hedge funds e della società di private equity e così via. Si dirà:mal’Italia non è un Paese grande e potente come gli Usa, utilizzanti tra l’altro la forza del signoraggio del dollaro. Ma non è un’obiezione valida. Intanto il rilancio di politiche espansive rinnovate volte a creare un nuovo modello di sviluppo – agenti congiuntamente sulla domanda e sull’offerta e sollecitanti i consumi collettivi più dei consumi individuali, la domanda interna più delle esportazioni – deve avvenire a scala europea: l’Europa è la dimensione cruciale. Che cosa impedirebbe oggi all’Italia, se non una diversa visione segnata dalla discriminante destra/ sinistra, di destinare una parte dei proventi di unaeventuale tassazione patrimoniale a finanziare un grande Piano per la creazione di lavoro per giovani e donne basato sulla green economy, i beni comuni, i beni sociali?❖

L’Unità 09.03.12