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“Più poteri al capo del governo deputati e senatori tagliati del 20% e addio al bicameralismo perfetto”, di Giovanni Casadio

L´obiettivo è di rafforzare la rappresentanza e favorire la governabilità. La bozza gode di una vasta maggioranza. I neo-maggiorenni voteranno per palazzo Madama. Trovato l´accordo su regole bipartisan dopo vent´anni di scontri sulle modifiche istituzionali. Il Senato federale non c´è. È stato lasciato a decantare negli uffici dei segretari di Pdl, Pd e Udc Alfano, Bersani e Casini, a cui è stato consegnato il documento sulle riforme istituzionali da varare prima della fine del governo Monti. Saranno loro, che si incontreranno probabilmente a metà settimana, a dire l´ultima parola sulla cosiddetta Camera delle Regioni. Gli sherpa – Violante, Adornato, Quagliariello, Pisicchio, Bocchino – hanno ultimato il lavoro giovedì scorso e trovato l´intesa bipartisan sulle nuove regole per la prima volta dopo vent´anni di scontri. Le definiscono «il minimo indispensabile senza inseguire il meglio possibile». Quindi, taglio dei parlamentari (508 deputati e 254 senatori), un bicameralismo “eventuale”, più poteri al premier, sfiducia costruttiva, una forma di “potere d´agenda” del governo che potrà chiedere alcune corsie veloci senza bisogno di ricorrere a decreti o alla fiducia. Ma soprattutto il ringiovanimento della politica: a 18 anni si potrà votare sia per la Camera che per il Senato (ora a 25) e essere eletti deputati a 21 e senatori a 35 (ora rispettivamente a 25 e 40 anni). Quagliariello mette le mani avanti: «Non c´è ancora il lasciapassare del Pdl». Adornato: «Vedremo cosa diranno i partiti ma di certo segna la fine delle guerre ideologiche».

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Il premier può cadere in aula solo se si indica un´alternativa

Sfiducia costruttiva. È un´altra delle novità introdotte nel “pacchetto riforme istituzionali” e che ha messo d´accordo tutti le forze politiche, almeno al tavolo dei “tecnici”. Prevede la possibilità di presentare in Parlamento una mozione sottoscritta da almeno un terzo dei componenti di ciascuna Camera e deve contenere l´indicazione del nuovo premier e non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione. Deve essere approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera (mentre per la fiducia iniziale al governo basta la maggioranza semplice).
In pratica il governo può cadere solo se ne nasce un altro. La sfiducia costruttiva rappresenta un rafforzamento del ruolo del Parlamento. Se la mozione passa in una Camera e nell´altra no, la crisi comunque resta e il capo dello Stato mantiene nelle sue mani il potere di scioglimento.
Da segnalare inoltre che a Palazzo Madama si istituisce la Commissione paritetica per le questioni regionali che sarà composte dai presidenti delle assemblee rappresentative delle Regioni e delle Province autonome di Trento e Bolzano, oltre che da un numero di senatori che rispecchi la proporzione dei membri dell´assemblea. Darà parere obbligatorio sulle materie di cui si occupa il Senato.

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Alla Camera saranno 508 gli eletti al Senato 254, resta la circoscrizione estera

Il taglio dei parlamentari è stato uno dei leit-motiv della fase istruttoria di queste riforme istituzionali. L´intesa prevede che si passi dagli attuali 630 deputati a 500 e dai 315 senatori a 250. A questi vanno però aggiunti rispettivamente 8 eletti alla Camera per il collegio estero e 4 eletti al Senato. Pertanto saranno 508 deputati e 254 senatori. Una sforbiciata che, quando è trapelata nei giorni scorsi, ha fatto discutere: è intorno al 20%, da alcuni è ritenuta ancora insufficiente.
Evidente che il numero dei parlamentari è un elemento decisivo per potere mettere mano alla legge elettorale. Se prevalesse il modello ispano-tedesco – di cui gli sherpa Violante, Adornato, Pisicchio, Quagliarello e Bocchino hanno già iniziato a parlare – allora sarebbero alla Camera 464 i deputati eletti con il sistema misto uninominale-proporzionale e uno sbarramento del 4-5 per cento. Altri 14 seggi potrebbero andare ai partiti minori come diritto di tribuna, mentre resterebbe in palio un piccolo premio di maggioranza. Dodici appunto i seggi attribuiti dalla circoscrizione estero. Anche per il Senato dovrebbe essere usata la stessa ripartizione. Sempre che non rispunti l´ipotesi Camera delle Regioni.

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Anche i diciottenni voteranno per il Senato cala l´età minima per entrare in Parlamento

Scenderà l´età minima per diventare parlamentari. Si tenta così un ringiovanimento della politica. Con una modifica degli articoli 56 e 58 della Costituzione si potrà essere eletti deputati a 21 anni (attualmente è a 25) e senatori a 35 (oggi a 40). E si va a votare a 18 anni non solo per la Camera, ma anche per il Senato. Pino Pisicchio, il “tecnico” che ha seguito i lavori per conto dell´Api di Rutelli, ha quantificato il numero di giovani elettori che con questa riforma andranno alle urne nel 2013: cinque milioni e mezzo in più. Può rappresentare una mini-rivoluzione del voto, una ventata di nuove esigenze e istanze da porre alla politica e anche un antidoto anti-casta.
Se scetticismo c´è, è stato espresso dal Pdl che soprattutto vorrebbe conservare i 40 anni per essere eletti senatori. Comunque, saranno gli organismi dei partiti a ritoccare, emendare e infine approvare le nuove regole prima che queste comincino il loro cammino in Parlamento. L´obiettivo resta quello della massima accelerazione. La road map, discussa dagli sherpa, prevede infatti che solo dopo la prima lettura parlamentare del “pacchetto riforme istituzionali” si agganci il vagone legge elettorale.

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Potrà nominare e revocare i ministri e chiedere lo scioglimento delle Camere

Rafforzati i poteri del premier in un delicato equilibrio che non vada a scapito del modello parlamentare della nostra democrazia. Il presidente del Consiglio avrà sempre la facoltà di indicare i ministri, che sono poi nominati dal capo dello Stato, ma avrà anche il potere di revoca dei ministri. Con questa riforma per dire, Berlusconi avrebbe potuto dare il benservito al ministro dell´Economia, Giulio Tremonti. Al nuovo governo la fiducia sarà votata da entrambe le Camere, però non in seduta congiunta, come era stato inizialmente ipotizzato. La fiducia è data al solo premier a maggioranza semplice.
Il presidente del Consiglio ha la facoltà di chiedere al capo dello Stato di sciogliere le Camere. Nella relazione dei “tecnici” al documento viene segnalato come questo tipo di modifiche vada nella direzione del modello istituzionale tedesco. Gli sherpa parlano di un buon punto di sintesi che «rafforza sia il governo che il Parlamento», in pratica di un potenziamento del ruolo del presidente del Consiglio e di un consolidamento del governo che non danneggi le prerogative del Parlamento dove viene introdotto l´istituto della sfiducia costruttiva.

La Repubblica 05.03.12

"Italiani al lavoro fino a 67 anni record europeo nella previdenza", di Roberto Mania

Stiamo diventando il paese europeo più virtuoso per le pensioni. Per la prima volta la Commissione di Bruxelles non ha più raccomandazioni destinate all´Italia. Di più: il nostro modello sta diventando un esempio per il vecchio continente. Nel 2020 gli italiani, uomini e donne, andranno in pensione con almeno 66 anni e undici mesi. Meglio della Germania di Angela Merkel (65 anni e nove mesi) che sta dettando le rigidissime regole per l´equilibrio dei conti pubblici per fronteggiare la crisi dei debiti sovrani; meglio della piccola Danimarca (66 anni), dove è nata quella flexsecurity che anche noi vorremmo adottare. Nel 2060, legando l´età per la pensione alle speranze di vita, raggiungeremo per entrambi i sessi addirittura i 70 anni e tre mesi. Un record. Tutti gli altri paesi si fermeranno prima. Sta scritto nel Libro Bianco della Commissione europea (“Un´agenda dedicata a pensioni adeguate, sicure e sostenibili”) appena pubblicato.
L´EFFETTO “RIFORMA FORNERO”
Le nostre performance sono dovute all´ultima riforma pensionistica, firmata dal ministro del Lavoro, Elsa Fornero, che ha deciso di accelerare senza più tentennamenti nel passaggio al metodo contributivo per il calcolo della pensione e di innalzare progressivamente l´età pensionabile, superando di fatto i prepensionamenti. La riforma italiana sembra, almeno per tre quarti, quasi un´applicazione in laboratorio di tutti i suggerimenti che Bruxelles ha per i sistemi pensionistici continentali: allungamento dell´età in rapporto alla speranza di vita (nel 2050 gli europei over 65 saranno la metà della popolazione); ridurre il ricorso ai prepensionamenti; estendere la formazione a tutto il ciclo della vita lavorativa e non solo alla fase iniziale (qui l´Italia è molto deficitaria); equiparare l´età di donne e uomini; incrementare i fondi pensionistici integrativi.
IL MERCATO DEL LAVORO
VA CAMBIATO
L´altro lato della medaglia, però, raffigura il lavoro. E qui arrivano anche le note dolenti per il nostro paese. Siamo in fondo alla classifica dell´Unione europea relativa al tasso di occupazione dei lavoratori anziani, cioè quelli compresi tra 55 e 64 anni. Appena il 36,6 per cento contro il 57,1 per cento della Gran Bretagna o il 57,7 per cento della Germania, fino al 70,5 per cento della Svezia. A colmare questo nostro divario dovrebbe servire proprio la riforma del mercato del lavoro in discussione tra il governo e le parti sociali: meno lavoro precario, più formazione per poter passare da un lavoro ad un altro, ma soprattutto da una mansione ad un´altra anche nella stessa azienda. Proprio il modello (la flessibilità interna) su cui ha investito la Germania con le riforme contenute nel “pacchetto Hartz” varato all´inizio di questo secolo. E non è un caso che il ministro Fornero guardi al caso tedesco come a un esempio da seguire: «Gli interventi hanno consentito alla Germania – ha scritto ieri il ministro sulla Stampa – di cogliere più rapidamente ed efficacemente che in precedenza l´onda positiva della congiuntura avviatasi nella seconda metà dello scorso decennio».
Il passaggio dal retributivo al contributivo avrà effetti non secondari sul tasso di sostituzione (rapporto tra la pensione e l´ultima retribuzione) delle future pensioni: la Commissione stima, per gli italiani, un calo del 15 per cento tra il 2008 e il 2048 che sarà compensato però dall´allungamento del periodo di lavoro e dall´eventuale adesione ai fondi complementari.

La Repubblica 05.03.02

“Italiani al lavoro fino a 67 anni record europeo nella previdenza”, di Roberto Mania

Stiamo diventando il paese europeo più virtuoso per le pensioni. Per la prima volta la Commissione di Bruxelles non ha più raccomandazioni destinate all´Italia. Di più: il nostro modello sta diventando un esempio per il vecchio continente. Nel 2020 gli italiani, uomini e donne, andranno in pensione con almeno 66 anni e undici mesi. Meglio della Germania di Angela Merkel (65 anni e nove mesi) che sta dettando le rigidissime regole per l´equilibrio dei conti pubblici per fronteggiare la crisi dei debiti sovrani; meglio della piccola Danimarca (66 anni), dove è nata quella flexsecurity che anche noi vorremmo adottare. Nel 2060, legando l´età per la pensione alle speranze di vita, raggiungeremo per entrambi i sessi addirittura i 70 anni e tre mesi. Un record. Tutti gli altri paesi si fermeranno prima. Sta scritto nel Libro Bianco della Commissione europea (“Un´agenda dedicata a pensioni adeguate, sicure e sostenibili”) appena pubblicato.
L´EFFETTO “RIFORMA FORNERO”
Le nostre performance sono dovute all´ultima riforma pensionistica, firmata dal ministro del Lavoro, Elsa Fornero, che ha deciso di accelerare senza più tentennamenti nel passaggio al metodo contributivo per il calcolo della pensione e di innalzare progressivamente l´età pensionabile, superando di fatto i prepensionamenti. La riforma italiana sembra, almeno per tre quarti, quasi un´applicazione in laboratorio di tutti i suggerimenti che Bruxelles ha per i sistemi pensionistici continentali: allungamento dell´età in rapporto alla speranza di vita (nel 2050 gli europei over 65 saranno la metà della popolazione); ridurre il ricorso ai prepensionamenti; estendere la formazione a tutto il ciclo della vita lavorativa e non solo alla fase iniziale (qui l´Italia è molto deficitaria); equiparare l´età di donne e uomini; incrementare i fondi pensionistici integrativi.
IL MERCATO DEL LAVORO
VA CAMBIATO
L´altro lato della medaglia, però, raffigura il lavoro. E qui arrivano anche le note dolenti per il nostro paese. Siamo in fondo alla classifica dell´Unione europea relativa al tasso di occupazione dei lavoratori anziani, cioè quelli compresi tra 55 e 64 anni. Appena il 36,6 per cento contro il 57,1 per cento della Gran Bretagna o il 57,7 per cento della Germania, fino al 70,5 per cento della Svezia. A colmare questo nostro divario dovrebbe servire proprio la riforma del mercato del lavoro in discussione tra il governo e le parti sociali: meno lavoro precario, più formazione per poter passare da un lavoro ad un altro, ma soprattutto da una mansione ad un´altra anche nella stessa azienda. Proprio il modello (la flessibilità interna) su cui ha investito la Germania con le riforme contenute nel “pacchetto Hartz” varato all´inizio di questo secolo. E non è un caso che il ministro Fornero guardi al caso tedesco come a un esempio da seguire: «Gli interventi hanno consentito alla Germania – ha scritto ieri il ministro sulla Stampa – di cogliere più rapidamente ed efficacemente che in precedenza l´onda positiva della congiuntura avviatasi nella seconda metà dello scorso decennio».
Il passaggio dal retributivo al contributivo avrà effetti non secondari sul tasso di sostituzione (rapporto tra la pensione e l´ultima retribuzione) delle future pensioni: la Commissione stima, per gli italiani, un calo del 15 per cento tra il 2008 e il 2048 che sarà compensato però dall´allungamento del periodo di lavoro e dall´eventuale adesione ai fondi complementari.

La Repubblica 05.03.02

"Catricalà: "Gli ammortizzatori? Dobbiamo trovare i soldi", di Luigi Grassia

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio sulla proposta del ministro Elsa Fornero: «Non c’è nessun tesoretto»

Elsa Fornero in una lettera alla Stampa invocava ieri una riforma profonda (ma anche veloce) del mercato del lavoro. Ma c’è un problema di soldi. «I fondi per i nuovi ammortizzatori vanno trovati», dice il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Antonio Catricalà: «Non abbiamo un’idea precisa di come finanziarli. Non ci sono tesoretti, non ci sono grandi disponibilità di bilancio». Circolano varie ipotesi: sull’idea di usare i risparmi derivanti dalla riforma delle pensioni, Catricalà osserva che «quei risparmi hanno già parecchie destinazioni». Si può sperare nei «buoni risultati da una lotta all’evasione fiscale, che ci consentirà di creare quel cosiddetto tesoretto che attualmente non c’è. Questo è bene che si sappia: la nostra è una politica di ristrettezze economiche».

Un’altra reazione alla lettera della Fornero è arrivata in giornata da Susanna Camusso: secondo il segretario della Cgil, la riforma degli ammortizzatori sociali «deve allargare le tutele per tutti, non togliere a qualcuno per non dare quasi nulla agli altri. La ministra Fornero sa bene quali sono le questioni sul tavolo: ridurre la precarietà e avere uno schema di risorse per allargare la copertura degli ammortizzatori». La Camusso aggiunge che in Germania, presa a modello dalla Fornero, «esiste il reintegro per i licenziamenti discriminatori, ed è un Paese in cui si investe moltissimo in formazione, ha una cassa integrazione che protegge i lavoratori e ha la riduzione di orario come strumento per intervenire rispetto ai processi di riorganizzazione».

Rispondendo alla lettera del ministro Fornero alla Stampa, il segretario generale del sindacato Ugl, Giovanni Centrella, dice: «Vogliamo credere che il governo abbia ascoltato il sindacato e che stia cercando risorse vere per la riforma del lavoro. L’Ugl vuole farla insieme, ma preferisce sia buona piuttosto che veloce». Per Centrella «in piena crisi non si può chiedere ai lavoratori di accettare altra flessibilità per quanto “buona” e di pagarsi anche ammortizzatori meno generosi di quelli attuali».

Inoltre, incalza Centrella, «senza un parallelo piano di sviluppo per il Paese la “flessibilità buona” rischia di non contribuire a creare nuova occupazione e di produrre solo altra precarietà».
Nella lettera alla Stampa, Elsa Fornero per dare concretezza alle sue proposte cita come esempio quello che si fa in Germania. Cesare Damiano, capogruppo del Pd in commissione Lavoro alla Camera, accoglie lo spunto del ministro ma in una nota argomenta che «il modello tedesco ci sta bene, però prendiamolo tutto, sia pure con gradualità. In Germania nelle grandi imprese i lavoratori partecipano alle decisioni strategiche di investimento. In quel Paese sanno distinguere la buona internazionalizzazione dalla cattiva delocalizzazione che in Italia chiude le imprese e uccide il made in Italy». Damiano insiste: «In Germania la diminuzione dell’orario di lavoro viene utilizzata come strumento che salvaguarda l’occupazione. Infine non dimentichiamo che in Germania per le protezioni sociali lo Stato spende più del 5% del Pil, mentre da noi non si arriva al 2%. Siamo ansiosi di vedere le risorse che il governo metterà sul tavolo del confronto con le parti sociali per aiutare i due modelli ad assomigliarsi».

Chiusura totale da Antonio Di Pietro sull’articolo 18: «I lavoratori non possono essere cornuti e mazziati. La crescita è sotto zero. Che il governo metta questa riforma in testa alle urgenze equivale a una dichiarazione pubblica d’incapacità e di impotenza».

da www.lastampa.it

“Catricalà: “Gli ammortizzatori? Dobbiamo trovare i soldi”, di Luigi Grassia

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio sulla proposta del ministro Elsa Fornero: «Non c’è nessun tesoretto»

Elsa Fornero in una lettera alla Stampa invocava ieri una riforma profonda (ma anche veloce) del mercato del lavoro. Ma c’è un problema di soldi. «I fondi per i nuovi ammortizzatori vanno trovati», dice il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Antonio Catricalà: «Non abbiamo un’idea precisa di come finanziarli. Non ci sono tesoretti, non ci sono grandi disponibilità di bilancio». Circolano varie ipotesi: sull’idea di usare i risparmi derivanti dalla riforma delle pensioni, Catricalà osserva che «quei risparmi hanno già parecchie destinazioni». Si può sperare nei «buoni risultati da una lotta all’evasione fiscale, che ci consentirà di creare quel cosiddetto tesoretto che attualmente non c’è. Questo è bene che si sappia: la nostra è una politica di ristrettezze economiche».

Un’altra reazione alla lettera della Fornero è arrivata in giornata da Susanna Camusso: secondo il segretario della Cgil, la riforma degli ammortizzatori sociali «deve allargare le tutele per tutti, non togliere a qualcuno per non dare quasi nulla agli altri. La ministra Fornero sa bene quali sono le questioni sul tavolo: ridurre la precarietà e avere uno schema di risorse per allargare la copertura degli ammortizzatori». La Camusso aggiunge che in Germania, presa a modello dalla Fornero, «esiste il reintegro per i licenziamenti discriminatori, ed è un Paese in cui si investe moltissimo in formazione, ha una cassa integrazione che protegge i lavoratori e ha la riduzione di orario come strumento per intervenire rispetto ai processi di riorganizzazione».

Rispondendo alla lettera del ministro Fornero alla Stampa, il segretario generale del sindacato Ugl, Giovanni Centrella, dice: «Vogliamo credere che il governo abbia ascoltato il sindacato e che stia cercando risorse vere per la riforma del lavoro. L’Ugl vuole farla insieme, ma preferisce sia buona piuttosto che veloce». Per Centrella «in piena crisi non si può chiedere ai lavoratori di accettare altra flessibilità per quanto “buona” e di pagarsi anche ammortizzatori meno generosi di quelli attuali».

Inoltre, incalza Centrella, «senza un parallelo piano di sviluppo per il Paese la “flessibilità buona” rischia di non contribuire a creare nuova occupazione e di produrre solo altra precarietà».
Nella lettera alla Stampa, Elsa Fornero per dare concretezza alle sue proposte cita come esempio quello che si fa in Germania. Cesare Damiano, capogruppo del Pd in commissione Lavoro alla Camera, accoglie lo spunto del ministro ma in una nota argomenta che «il modello tedesco ci sta bene, però prendiamolo tutto, sia pure con gradualità. In Germania nelle grandi imprese i lavoratori partecipano alle decisioni strategiche di investimento. In quel Paese sanno distinguere la buona internazionalizzazione dalla cattiva delocalizzazione che in Italia chiude le imprese e uccide il made in Italy». Damiano insiste: «In Germania la diminuzione dell’orario di lavoro viene utilizzata come strumento che salvaguarda l’occupazione. Infine non dimentichiamo che in Germania per le protezioni sociali lo Stato spende più del 5% del Pil, mentre da noi non si arriva al 2%. Siamo ansiosi di vedere le risorse che il governo metterà sul tavolo del confronto con le parti sociali per aiutare i due modelli ad assomigliarsi».

Chiusura totale da Antonio Di Pietro sull’articolo 18: «I lavoratori non possono essere cornuti e mazziati. La crescita è sotto zero. Che il governo metta questa riforma in testa alle urgenze equivale a una dichiarazione pubblica d’incapacità e di impotenza».

da www.lastampa.it

"Università, sul 3+2 l’Ue non torna indietro", di Flavia Amabile

«L’obiettivo che si poneva la riforma, entrata in vigore in Italia quasi 12 anni fa era innanzittuto quello di favorire le iscrizioni universitarie formando un maggior numero di laureati». L’ex ministro Berlinguer: “Incentivi agli atenei che si adeguano”

La riforma contesa Il sistema del «3+2» ha ricevuto negli ultimi tempo molte critiche Ma l’Europa non ha dubbi e si è detta contraria a cancellare l’esperienza mentre sono possibili aggiustamenti
Il 3+2? Rafforzarlo, diffonderlo, e addirittura trasformarlo in un 3+2 +n anni di master. Se in Italia dal governo Berlusconi in poi ha acquistato peso il partito dei contrari alla nuova laurea formata da 3 anni di studi generali più altri due di studi specialistici introdotta nel 1980, l’Europa non ha dubbi: non si torna indietro, la riforma delle lauree è irreversibile.

Il 13 marzo arriverà nell’aula del Parlamento a Strasburgo una risoluzione scritta da Luigi Berlinguer ora parlamentare europeo ma ministro dell’Istruzione alla fine degli anni Novanta e padre del famigerato 3+2 che solo in Italia viene chiamato così ma nei Paesi dell’Unione Europea viene chiamato «processo di Bologna» Il testo è molto chiaro e ha già ottenuto il via libera della commissione Cultura con il consenso di tutte le forze politiche. Non potrà essere modificato perché il regolamento non lo prevede e, avendo già superato senza alcuna obiezione politica l’esame della Commissione, nessuno si aspetta che la risoluzione venga respinta dall’aula.

Quando sarà approvata il partito degli scettici dovrà rassegnarsi: per dare ai ragazzi europei una preparazione in grado di assicurare a tutti la possibilità di trovare lavoro non solo nel proprio Paese ma anche nel resto d’Europa, bisogna andare avanti con la formula del 3+2 e rafforzarla, adeguando i processi formativi come è scritto nella risoluzione.

«Certo, anche l’Ue si rende conto che non tutto ha funzionato da quando si è deciso di adottare questo nuovo sistema – ammette Berlinguer – è evidente che dei correttivi vanno previsti ma nessuna inversione di tendenza, anzi, l’Ue chiede ai governi dei Paesi membri un maggiore impegno nel sostegno del 3+2 e invita la commissione esecutiva dell’Ue a prevedere incentivi alle Università che si attiveranno».

L’Unione, infatti, metterà a disposizione nuovi fondi per i sistemi di istruzione di ogni Paese ma in cambio ogni Paese dovrà mettere in atto politiche per armonizzare il riconoscimento dei titoli di studio a livello europeo e quindi unificare ancora di più i percorsi universitari rafforzando il 3+2 e lavorando per un 3+2+n aggiungendo anche i master di specializzazione necessari per trovare lavoro in settori come la tecnologia, la ricerca scientifica.

Il dottorato di ricerca non è solo un titolo accademico ma soprattutto un titolo professionale: l’Ue incentiverà le università che faranno accordi multilaterali che permetteranno un riconoscimento dei titoli. Anche i curricula dovranno essere validi in tutti i Paesi dell’Ue: sarà necessario quindi realizzare una valutazione del risultato didattico di ciascun alunno e del corso complessivo. Il compito sarà affidato ai sistemi di valutazione ufficiali e riconosciuti dagli altri Paesi come l’Anvur in Italia.

Inoltre il sistema dei crediti presente nelle università dovrà diventare il principale strumento di comparazione negli scambi tra studenti finanziati da risorse europee.

Come sintetizza Luigi Berlinguer: «Si può anche scegliere di rimanere fuori dal 3+2 e tornare indietro ma si lasciano fuori dal mercato europeo del lavoro i ragazzi di un intero Paese che avranno titoli di studio che nessun Paese riconoscerà».

da La Stampa

161 mila laureati nel 2000
208 mila laureati nel 2010
Dopo un decennio, l’obiettivo principale delle riforma pare centrato Un risultato destinato a dare frutti anche in futuro: i figli di genitori laureati, infatti, sono quelli che investono di più nella loro formazione

-9% immatricolati a 19 anni
È una delle ombre della riforma su cui l’Europa intende intervenire: dopo un iniziale entusiasmo, da 7 anni si registra un calo nel numero di giovani immatricolati, al netto delle dinamiche demografiche

“Università, sul 3+2 l’Ue non torna indietro”, di Flavia Amabile

«L’obiettivo che si poneva la riforma, entrata in vigore in Italia quasi 12 anni fa era innanzittuto quello di favorire le iscrizioni universitarie formando un maggior numero di laureati». L’ex ministro Berlinguer: “Incentivi agli atenei che si adeguano”

La riforma contesa Il sistema del «3+2» ha ricevuto negli ultimi tempo molte critiche Ma l’Europa non ha dubbi e si è detta contraria a cancellare l’esperienza mentre sono possibili aggiustamenti
Il 3+2? Rafforzarlo, diffonderlo, e addirittura trasformarlo in un 3+2 +n anni di master. Se in Italia dal governo Berlusconi in poi ha acquistato peso il partito dei contrari alla nuova laurea formata da 3 anni di studi generali più altri due di studi specialistici introdotta nel 1980, l’Europa non ha dubbi: non si torna indietro, la riforma delle lauree è irreversibile.

Il 13 marzo arriverà nell’aula del Parlamento a Strasburgo una risoluzione scritta da Luigi Berlinguer ora parlamentare europeo ma ministro dell’Istruzione alla fine degli anni Novanta e padre del famigerato 3+2 che solo in Italia viene chiamato così ma nei Paesi dell’Unione Europea viene chiamato «processo di Bologna» Il testo è molto chiaro e ha già ottenuto il via libera della commissione Cultura con il consenso di tutte le forze politiche. Non potrà essere modificato perché il regolamento non lo prevede e, avendo già superato senza alcuna obiezione politica l’esame della Commissione, nessuno si aspetta che la risoluzione venga respinta dall’aula.

Quando sarà approvata il partito degli scettici dovrà rassegnarsi: per dare ai ragazzi europei una preparazione in grado di assicurare a tutti la possibilità di trovare lavoro non solo nel proprio Paese ma anche nel resto d’Europa, bisogna andare avanti con la formula del 3+2 e rafforzarla, adeguando i processi formativi come è scritto nella risoluzione.

«Certo, anche l’Ue si rende conto che non tutto ha funzionato da quando si è deciso di adottare questo nuovo sistema – ammette Berlinguer – è evidente che dei correttivi vanno previsti ma nessuna inversione di tendenza, anzi, l’Ue chiede ai governi dei Paesi membri un maggiore impegno nel sostegno del 3+2 e invita la commissione esecutiva dell’Ue a prevedere incentivi alle Università che si attiveranno».

L’Unione, infatti, metterà a disposizione nuovi fondi per i sistemi di istruzione di ogni Paese ma in cambio ogni Paese dovrà mettere in atto politiche per armonizzare il riconoscimento dei titoli di studio a livello europeo e quindi unificare ancora di più i percorsi universitari rafforzando il 3+2 e lavorando per un 3+2+n aggiungendo anche i master di specializzazione necessari per trovare lavoro in settori come la tecnologia, la ricerca scientifica.

Il dottorato di ricerca non è solo un titolo accademico ma soprattutto un titolo professionale: l’Ue incentiverà le università che faranno accordi multilaterali che permetteranno un riconoscimento dei titoli. Anche i curricula dovranno essere validi in tutti i Paesi dell’Ue: sarà necessario quindi realizzare una valutazione del risultato didattico di ciascun alunno e del corso complessivo. Il compito sarà affidato ai sistemi di valutazione ufficiali e riconosciuti dagli altri Paesi come l’Anvur in Italia.

Inoltre il sistema dei crediti presente nelle università dovrà diventare il principale strumento di comparazione negli scambi tra studenti finanziati da risorse europee.

Come sintetizza Luigi Berlinguer: «Si può anche scegliere di rimanere fuori dal 3+2 e tornare indietro ma si lasciano fuori dal mercato europeo del lavoro i ragazzi di un intero Paese che avranno titoli di studio che nessun Paese riconoscerà».

da La Stampa

161 mila laureati nel 2000
208 mila laureati nel 2010
Dopo un decennio, l’obiettivo principale delle riforma pare centrato Un risultato destinato a dare frutti anche in futuro: i figli di genitori laureati, infatti, sono quelli che investono di più nella loro formazione

-9% immatricolati a 19 anni
È una delle ombre della riforma su cui l’Europa intende intervenire: dopo un iniziale entusiasmo, da 7 anni si registra un calo nel numero di giovani immatricolati, al netto delle dinamiche demografiche