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«Tav, è una questione di democrazia. Attenti ai fuochi pericolosi», intervista a Pier Luigi Bersani di Simone Collini

Bene la «prima risposta» arrivata dal governo, «ora bisogna leggere la realtà un po’ più nel profondo». E poi, guardando al 2013, nessuna grande coalizione: «Democrazia significa confronto politico, con i cittadini che scelgono chi debba governare». E democrazia, dice Pier Luigi Bersani, significa anche «rispettare le decisioni prese attraverso meccanismi di rappresentanza e partecipazione». Parole non casuali. Il segretario del Pd parla mentre sono in corso manifestazioni dei No Tav in tutta Italia: «Si stanno accendendo fuochi pericolosi. Su questo tema il Parlamento deve discutere, va pronunciata una parola chiara».
Altra spina per un governo che deve affrontare non poche emergenze: un primo bilancio, dopo 100 giorni? «Una prima risposta è venuta, basta guardare alla credibilità internazionale di cui ora gode l’Italia, al linguaggio di verità a cui si ricorre, alle misure coerenti con la situazione da affrontare. Ora bisogna leggere la realtà un po’ più nel profondo». Cosa intende dire?
«La crisi picchia duro, nel corpo sociale ci sono paure e tensioni molto forti. Con lo stesso piglio con cui il governo è intervenuto sulle regole, sulle pensioni, intervenga per dare stimoli all’economia. Sugli esodati, persone che non avranno né stipendio né ammortizzatori sociali né pensione, il governo deve dire una parola chiara. Ci sono problemi da affrontare che riguardano la crisi industriale, le piccole imprese, gli enti locali. Pur nell’equlibrio dei conti pubblici, servono iniziative per lo sviluppo, con un occhio sempre attento alla questione sociale».
A proposito di enti locali, sindaci chiedono al governo di rivedere il patto di stabilità: cosa ne pensa? «Che è una battaglia sacrosanta. I sindaci sanno benissimo che c’è un problema di rigore ma sanno anche che il patto di stabilità contiene delle irrazionalità evidenti. I Comuni andrebbero vincolati su saldi di bilancio, non sulle singole voci. Bisogna dar loro la possibilità di far partire un po’ di investimenti. Di fronte alla crisi, i Comuni possono essere una parte della medicina, non li si può considerare la malattia».
I comuni come la “medicina” ma avete più volte affermato che il problema si affronta in una dimensione tutt’altro che locale, quella europea. «E continuiamo a pensarlo. Ma va rivista la politica europea. Anche la firma del Fiscal compact lo dimostra: appena è stata siglata l’intesa due paesi, uno comprensibilmente, la Spagna, e uno inaspettatamente, l’Olanda, hanno dovuto registrare che l’equilibrio dei conti economici non è compatibile con l’acuta recessione in atto. Il problema di fondo è attuare politiche economiche che diano il via a dinamiche antirecessione e per lo sviluppo. La crescita è il punto, ma non basta dirlo a parole, servono politiche concrete».
Il 17 lei firma a Parigi insieme a Hollande e a Gabriel una piattaforma programmatica comune sulle politiche europee: il senso dell’operazione?
«Lavorare per un’Europa che metta al centro equità, solidarietà, crescita e che abbia più fondamento democratico. Non si può solo puntare su politiche di contenimento e rigore senza mettere in moto dinamiche positive, espropriare i poteri nazionali senza basarsi su meccanismi di rappresentanza democratica. Se si continua così la questione diventa molto seria». C’è chi ha visto in questa operazione condotta con i vertici dei socialisti francesi e tedeschi il tentativo di fare del Pd un partito socialdemocratico.
«Il Pd va a Parigi con la sua voce, quella di un partito che riassume in sé culture socialiste, cattoliche, ambientaliste, liberaldemocratiche. E va lì e discute dando un impulso ad allargare la prospettiva progressista europea, sapendo che noi siamo portatori di una sensibilità particolare sui temi ambientali, del lavoro, sulle liberalizzazioni, sulla partecipazione e sul rapporto aperto con i movimenti. Noi vogliamo una piattaforma progressista firmata da tutti quelli che combattono contro la destra liberista, che in questi anni ha massacrato i singoli stati e l’Europa, una piattaforma che metta assieme culture anche diverse, senza settarismi, per inaugurare una battaglia elettorale che si giocherà in Francia, Italia, Germania».
In Italia c’è chi non vorrebbe nel 2013 una battaglia ma una grande coalizione guidata da Monti: il suo giudizio? «Il Pd in nome dell’Italia ha sostenuto un passaggio di transizione e di emergenza e in nome dell’Italia il Pd con altrettanta convinzione vuole costruire una democrazia riformata sì ma normale, dove il confronto politico possa esserci, i cittadini possano scegliere e la politica abbia il suo ruolo. Naturalmente, e questa è una novità che è molto coerente col Pd, dobbiamo immaginare una politica che parli di un progetto per il paese e abbia la capacità di sostenere una maggioranza e un governo in modo stabile, solido e univoco e non di una politica che produca il Cencelli o l’incompetenza al governo».
Qual è il progetto per il paese con cui il Pd si candida a governare?
«Per noi al centro del programma c’è il lavoro e un equilibrio sociale basato sulla redistribuzione. E c’è un’idea di democrazia rappresentativa riformata, non populista, saldamente costituzionale».
E gli alleati con cui vi candidate a sostenere il governo in modo “stabile, solido, univoco” chi sarebbero?
«Il baricentro è un centrosinistra di governo, che non si fa a tutti i costi. Deve avere coerenza sul programma e dare garanzia di stabilità. Chiederemo poi che questo centrosinistra si rivolga a forze civiche, moderate, che abbiano un’altra idea rispetto a quella populista mostrata dal centrodestra in tutti questi anni».
Il centrosinistra è Pd più Di Pietro e Vendola. Che sulla Tav hanno espresso posizioni diverse dalle vostre…
«Il problema non sono temi che dividono, ma avere dei meccanismi che garantiscano una soluzione. Se si pretende di governare insieme si possono anche avere opinioni diverse ma poi ci vuole una regola vincolante». Ad esempio?
«Dei gruppi parlamentari che su alcuni temi decidano a maggioranza e si comportino di conseguenza». Rimanendo alla Tav: perché non la convince la proposta di moratoria sostenuta da Vendola e Di Pietro?
«Qui c’è un problema che non riguarda una ferrovia ma cosa intendiamo per democrazia. Che è un sistema inventato per decidere attraverso meccanismi di rappresentanza e di partecipazione. Sulla Tav c’è stata un’ab-
bondanza di passaggi istituzionali democratici che vanno rispettati. Tutto il paese è investito da fenomeni che vanno sorvegliati e su cui va pronunciata una parola chiara. Non si può non vedere che è in corso sotto il titolo Tav, che c’entra fino a un certo punto, una sequenza che abbiamo già conosciuto».
Quale?
«Davanti a un problema, o in buona fede o per opportunismi più o meno pelosi, si mette in scena una battaglia alla Davide contro Golia. Da lì si passa alla sopraffazione del potere e quindi alla giustificazione della violenza cosiddetta resistente. A questo punto si inseriscono organizzazioni violente che non sanno nulla di ferrovie ma che hanno il loro folle disegno, che naturalmente si scagliano contro i riformisti. L’esito finale è che nell’opinione pubblica si determinano riflessi conservatori e autoritari. Questa sequenza l’abbiamo già vista, e ha portato anche a drammi sanguinosi. Si stanno accendendo fuochi molto pericolosi. Per questo abbiamo chiesto che il Parlamento discuta e pronunci una parola chiara».
A proposito di Davide contro Golia: è lo slogan di chi sfida la Borsellino… «Ho girato per Palermo e di Davide ne ho visti pochi. Ho visto una campagna molto impegnata, con visibilità da parte di tutti i candidati. Mi aspetto una grande partecipazione e i cittadini decideranno per il meglio. L’obiettivo sono le amministrative e il Sud e Palermo hanno bisogno di una riscossa civica e di dare un messaggio al resto d’Italia di forte impegno civico. Per questo ho chiesto a Rita Borsellino di partecipare alle primarie».
La Magneti Marelli ha smantellato le bacheche con l’Unità: la cosa che più l’ha colpita, passata una settimana? «A parte l’atto in sé, inconcepibile, trovo consolante la reazione molto larga che c’è stata, mentre mi sarei aspettato di sentire il pensiero di qualche liberale come De Bortoli, come Padellaro. Che venga impedito a dei lavoratori di esprimersi e di informarsi è una questione che non riguarda solo i sindacati o un singolo giornale».

L’Unità 04.03.12

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Bersani: “Bloccare la Tav non è democratico”, di Giovanna Casadio

«Attenzione a non accendere fuochi pericolosi». Bersani è preoccupato. Il segretario del Pd sulla protesta no-Tav lancia l´allarme e chiede il rispetto dei passaggi democratici e istituzionali che sull´opera in Val di Susa «ci sono già stati».
Parole scelte con cautela. Però per nulla accondiscendenti con il movimento. «C´è un problema che non riguarda la ferrovia – avverte Bersani – ma cosa intendiamo per democrazia, che è sì quel sistema inventato per decidere attraverso meccanismi di rappresentanza e partecipazione. Tutti passaggi che sulla Tav ci sono già stati». Aggiunge: «C´è una protesta legittima, ma se da lì si passa alla giustificazione della violenza cosiddetta resistente, c´è il rischio che si inseriscano organizzazioni violente che non sanno nulla di ferrovia ma hanno il disegno di scagliarsi contro i riformisti». I Democratici chiedono poi che si discuta una mozione in Parlamento sulla Tav: non per riparlare daccapo del progetto, bensì per stabilire le compensazioni per tutta l´area. E affinché «si dica una parola chiara».
Nessuna tentazione di moratoria, comunque. Ironizza Roberto Della Seta: «La Tav è l´unico argomento su cui il Pd va d´accordo». Della Seta con gli altri ecodem ha una posizione filo moratoria. Alle manifestazioni del movimento no-Tav non è andato e anzi lo critica come «inaccettabile». Ma ribadisce: «La Tav non è un atto di fede, è legittimo dissentire, anche nel Pd che fino a prova contraria non è una chiesa. Mi auguro che il governo faccia un passo di saggezza e sottoponga a una nuova verifica il progetto». Pensata un decennio fa, è ancora utile? O non rischia di essere più uno spreco che un beneficio? È la posizione dell´appello per la moratoria promosso da don Ciotti e firmato da Vendola, da De Magistris, dal sindaco di Bari, Emiliano (Pd), dall´Arci e Legambiente. Anche Di Pietro chiede di riaprire un tavolo tecnico fermando i lavori.
Non ce n´è motivo. Di certo, non per ragioni ambientali, secondo il ministro dell´Ambiente, Claudio Clini. «Non sono le ragioni ambientali all´origine della protesta – sostiene – il tracciato drasticamente modificato rispetto alla versione originale grazie ai suggerimenti e alle pressioni delle popolazioni». Sostiene che «si è tenuto conto in maniera puntuale, quasi ossessiva, di tutte le precauzioni ambientali che erano state indicate per evitare un impatto negativo». Contrattaccano i Verdi di Bonelli: «Clini non conosce gli atti del suo ministero». Ricordano i due ricorsi al Tar da parte delle associazioni ambientaliste. Denunciano la progettazione deficitaria.

La Repubblica 04.03.12

"La dittatura dell'incuria", di Gian Antonio Stella

«La bellezza è un valore morale». Era un tormentone quello dell’allora vescovo di Locri Giancarlo Bregantini. Non perdeva occasione per raccomandare di intonacare le case, sistemare le strade, curare i giardini, perché «in un posto brutto è facile che i ragazzi crescano brutti». Insomma, insiste nel libro Non possiamo tacere, l’estetica è etica: «i paesi più brutti e trascurati sono quelli segnati dalla mafia».
«Niente cultura, niente sviluppo», ha titolato Il Sole 24 Ore lanciando un appello per fare ripartire il Paese puntando su una «costituente» che «riattivi il circolo virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela e occupazione». I confronti su 125 nazioni, stando ai dati dell’Università di Costanza, non lasciano dubbi: dove c’è più cultura c’è più innovazione, più sviluppo, più ricchezza e meno corruzione.
Rovesciamo: dove c’è meno cultura c’è meno innovazione, meno sviluppo, meno ricchezza, più corruzione. Nel 2001 investivamo sul nostro tesoro d’arte e paesaggi solo lo 0,39% del Pil, siamo precipitati a un miserabile 0,19%: è stato saggio? Colpa della crisi, dicono. Ma investendo nel «Guggenheim», spiega uno studio di Kea European Affairs per la Ue, Bilbao ha recuperato in 7 anni i soldi spesi «moltiplicati per 18», con la parallela creazione di migliaia di posti di lavoro. Al punto d’esser presa a modello dalla Francia, che per rianimare l’agonizzante area di Lens ha deciso di fare lì, tra le fabbriche dismesse, un nuovo «Louvre» col calcolo che, per ogni euro investito, ne torneranno «come minimo sette».
Dice uno spot girato da Berlusconi che l’Italia ha «il 50% dei beni artistici tutelati dall’Unesco». Magari! Ma è vero che su 911 ne abbiamo più di tutti nel pianeta: 45. Molti più di Francia o Stati Uniti che ci staccano nelle classifiche turistiche. Il guaio è che questo patrimonio, accusa un dossier PwC, lo usiamo male, ricavandone la metà rispetto a Gran Bretagna, Germania e Francia e un terzo rispetto alla Cina.
Ci vorrebbe più testa, per usarlo. E una classe politica più interessata, curiosa, colta. Alla Costituente, pur avendo la guerra ostacolato i percorsi universitari, era laureato il 92% dei parlamentari: oggi la quota si è inabissata al 64%. Ma è il Paese tutto ad arrancare: dai sindaci ai governatori, dagli assessori ai consiglieri regionali. E giù giù ai cittadini che, sempre più indifferenti al bello e al brutto, arrivano a costruire pattume cementizio abusivo sul promontorio di capo Vaticano o sul basolato della via Domiziana accanto alla tomba di Scipione l’Africano.
Da dove ripartire, per fermare la dittatura dell’incuria? Dalla scuola: da lì occorre ricominciare. Se è vero che la nostra stessa identità è definita dai nostri tesori artistici e paesaggistici al punto che noi italiani per gli altri «siamo» la torre di Pisa e Rialto e Pompei, la storia dell’arte via via più maltrattata («sarà possibile diplomarsi in Moda, Grafica e Turismo senza sapere chi sono Giotto, Leonardo o Michelangelo», si indigna Tomaso Montanari sull’ultimo bollettino di Italia Nostra) deve essere materia di interesse nazionale. E permeare i nostri figli fin dalle elementari. Investiamo sulla bellezza e sulle teste: è un affare.

Il Corriere della Sera 04.03.12

“La dittatura dell’incuria”, di Gian Antonio Stella

«La bellezza è un valore morale». Era un tormentone quello dell’allora vescovo di Locri Giancarlo Bregantini. Non perdeva occasione per raccomandare di intonacare le case, sistemare le strade, curare i giardini, perché «in un posto brutto è facile che i ragazzi crescano brutti». Insomma, insiste nel libro Non possiamo tacere, l’estetica è etica: «i paesi più brutti e trascurati sono quelli segnati dalla mafia».
«Niente cultura, niente sviluppo», ha titolato Il Sole 24 Ore lanciando un appello per fare ripartire il Paese puntando su una «costituente» che «riattivi il circolo virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela e occupazione». I confronti su 125 nazioni, stando ai dati dell’Università di Costanza, non lasciano dubbi: dove c’è più cultura c’è più innovazione, più sviluppo, più ricchezza e meno corruzione.
Rovesciamo: dove c’è meno cultura c’è meno innovazione, meno sviluppo, meno ricchezza, più corruzione. Nel 2001 investivamo sul nostro tesoro d’arte e paesaggi solo lo 0,39% del Pil, siamo precipitati a un miserabile 0,19%: è stato saggio? Colpa della crisi, dicono. Ma investendo nel «Guggenheim», spiega uno studio di Kea European Affairs per la Ue, Bilbao ha recuperato in 7 anni i soldi spesi «moltiplicati per 18», con la parallela creazione di migliaia di posti di lavoro. Al punto d’esser presa a modello dalla Francia, che per rianimare l’agonizzante area di Lens ha deciso di fare lì, tra le fabbriche dismesse, un nuovo «Louvre» col calcolo che, per ogni euro investito, ne torneranno «come minimo sette».
Dice uno spot girato da Berlusconi che l’Italia ha «il 50% dei beni artistici tutelati dall’Unesco». Magari! Ma è vero che su 911 ne abbiamo più di tutti nel pianeta: 45. Molti più di Francia o Stati Uniti che ci staccano nelle classifiche turistiche. Il guaio è che questo patrimonio, accusa un dossier PwC, lo usiamo male, ricavandone la metà rispetto a Gran Bretagna, Germania e Francia e un terzo rispetto alla Cina.
Ci vorrebbe più testa, per usarlo. E una classe politica più interessata, curiosa, colta. Alla Costituente, pur avendo la guerra ostacolato i percorsi universitari, era laureato il 92% dei parlamentari: oggi la quota si è inabissata al 64%. Ma è il Paese tutto ad arrancare: dai sindaci ai governatori, dagli assessori ai consiglieri regionali. E giù giù ai cittadini che, sempre più indifferenti al bello e al brutto, arrivano a costruire pattume cementizio abusivo sul promontorio di capo Vaticano o sul basolato della via Domiziana accanto alla tomba di Scipione l’Africano.
Da dove ripartire, per fermare la dittatura dell’incuria? Dalla scuola: da lì occorre ricominciare. Se è vero che la nostra stessa identità è definita dai nostri tesori artistici e paesaggistici al punto che noi italiani per gli altri «siamo» la torre di Pisa e Rialto e Pompei, la storia dell’arte via via più maltrattata («sarà possibile diplomarsi in Moda, Grafica e Turismo senza sapere chi sono Giotto, Leonardo o Michelangelo», si indigna Tomaso Montanari sull’ultimo bollettino di Italia Nostra) deve essere materia di interesse nazionale. E permeare i nostri figli fin dalle elementari. Investiamo sulla bellezza e sulle teste: è un affare.

Il Corriere della Sera 04.03.12

La mobilitazione a Pisa:«Il giornale dei lavoratori non si può sbullonare», di Gabriele Masiero

L’Unità in mano,sfogliata con orgoglio. Ostentata fuori dalla Camera del Lavoro di Pisa, «consumata» per intero con attenzione e ingordigia perché, dice un pensionato, «fa bene la Cgil a sostenerla oggi,ma io con questo giornale, che qualche padrone del vapore vorrebbe invece “sbullonare” ci sono cresciuto e mi ci sono formato la coscienza». «Micaho sempre condiviso i suoi articoli e gli editoriali – prosegue – ma mi fa paura un Paese dove si pensa che la cultura dominante passi dall’espulsione dai luoghi di democrazia di chi la pensa diversamente da me». La giornata di diffusione straordinaria a Pisa, promossa dalla Cgil e alla quale ha partecipato anche il direttore Claudio Sardo, non è però stata solo un’iniziativa di sostegno al giornale è stato soprattutto un modo per riflettere sulla libertà di pensiero e d’informazione. Sul primato della politica, come sottolinea lo stesso Sardo, «in un momento in cui il Paese rischia la “tecnocrazia” perché c’è qualcuno che vuole provare a convincere l’opinione pubblica che si può fare a meno dei partiti e dei politici». Un concetto ripreso dal deputato pisano del Pd, Paolo Fontanelli, che ricorda come il governo Monti sia «un governo di tecnici che fa scelte politiche » che passano dal Parlamento, comunque «un’esperienza destinata a finire», e per questo, «i partiti devono elaborare idee e proposte – come la legge sulla cittadinanza – , per evitare il rischio delle grandi coalizioni, derive autoritarie od oligarchiche e che Bersani ha ben definito come esperienze impossibili in natura». Maè il tema della circolazione delle idee, della libertà d’espressione a tenere banco in questa giornata pisana. Soprattutto quando parla dal palco Giorgio Vecchiani, presidente dell’Anpi di Pisa, chenon si abbandona all’amarcord, ma richiama tutti a mettersi in guardia dal pericolo presente di un «Paese fatto anche di Casa Pound che festeggia la morte di Giorgio Bocca e anzi ne auspica altre a breve». È proprio «di questa Italia fatta di manager che vogliono “sbullonare” le idee che dobbiamo avere paura – spiega Vecchiani – e che dobbiamo continuare a combattere, rivendicando il nostro passato e le libertà conquistate e fissate nella Costituzione grazie alla Resistenza». È l’Unità che il babbo di Giuliano ha diffuso per più di quarant’anni che deve essere difesa, per poter difendere le ragioni dei lavoratori e dei pensionati, dei giovani e dei precari. «Perché – aggiunge il sindaco Marco Filippeschi – è forse proprio il suo dare voce al lavoro a disturbare Marchionne e gli altri. È il punto di vista di un giornale che in questi anni ha saputo ritagliare nel mondo dell’informazione uno spazio sui temi del lavoro come forse nessun’altro ha fatto. E che ha saputo dare voce ai lavoratori in un momento dove la grande informazione sembrava volerli rappresentare sempre meno e sempre nello stesso modo». L’episodio di Bologna, quanto accaduto alla Magneti Marelli, dice Pasqualino Albi, docente di Diritto del lavoro, «è fuori della storia, ci riporta agli anni Cinquanta, a un modello senza regole e senza rappresentanza per i lavoratori».

LO SCIOPERO DEL 9 MARZO E «è per tutti questi motivi – conclude il segretario della Cgil, Gianfranco Francese – che la Fiom e la Cgil hanno proclamato lo sciopero del 9». Per difendere ancora le idee, «contro chi vorrebbe un Paese dove si espellono i diritti e si azzera la contrattazione » e si denigra l’articolo 18 «la cui difesa è invece una battaglia di civiltà. Per dire no a industriali come Marchionne che intendono far passare il ricatto della chiusura delle fabbriche come una ricetta per rilanciare l’economia nazionale. Per tutto questo noi oggi e sempre stiamo con l’Unità ».

L’Unità 04.03.12

L’invasione degli edili «Vogliamo più tutele», di Jolanda Buffalini

È antico e smart il corteo unitario degli edili che si snoda dalla Bocca della verità al Colosseo, il primo di una giornata campale per Roma. Antico per i volti con l’abbronzatura del cantiere, le bandiere sindacali ed i fischietti, smart perché se smart-city significa sviluppo eco sostenibile e green-economy, inclusione sociale e interetnica, allora gli edili sono protagonisti: italiani e albanesi, tunisini, romeni, moldavi, africani dalla pelle nera, l’Italia dei lavori faticosi è la più integrata: il 23% del settore è straniero, tanti i delegati sindacali che hanno imparato l’italiano come seconda lingua. E nella loro piattaformac’è la crescita sostenibile, la riqualificazione energetica degli edifici, la messa in sicurezza delle scuole, non la cementificazione e il consumo del territorio. La loro è «una manifestazione di proposta non di protesta». E insieme ai sindacati di categorie ci sono Cgil, Cisl, Uil con i segretari generali, Susanna Camusso, Raffaele Bonanni, Luigi Angeletti. Per dare più forza alle richieste di un settore che per uscire dalla crisi ha bisogno dell’impegno del governo: per sbloccare il patto di stabilità e consentire ai comuni di pagare le imprese che hanno già lavorato e non riescono a pagare i loro operai. Perché, spiega Walter Schiavella, segretario Fillea Cgil, ci vogliono «investimenti per legare il Nord e il Sud del Paese, per contrastare il dissesto idrogeologico». «Va bene – dice Antonio Corneale (Feneal Uil) – la Tav in Val di Susa, ma perché è ferma la Salerno Reggio Calabria? ». Soprattutto, stanno a cuore due questioni: il lavoro edile è precario e discontinuo per sua natura, ed è un lavoro usurante. Tutto questo influisce su ammortizzatori sociali e pensioni. Susanna Camusso parla della trattativa in corso con il governo: «Vaunpo’ meglio, avevano cominciato con il dire che non ci sono risorse, ora le stanno cercando. I soldi per gli ammortizzatori si potrebbero prendere dai patrimoni». «Come si fa – chiede Schiavella – a pretendere che l’edile stia sulle impalcature a 67 anni, mettendo a repentaglio la sicurezza sua e quella degli altri?».Ec’è la discontinuità, chiuso un cantiere l’edile è disoccupato, spiega Domenico Pesenti (Filca), «gli edili che fanno un alvoro pesante finiscono per pagare la pensione a chi ha fatto un lavoro più leggero». In testa al corteo le bandiere sono listate a lutto in ricordo di Luigi Termano, 26 anni, morto alla vigilia della manifestazione per la caduta in un pozzo di 30 metri, nel cantiere del Metrò C a Roma, lo ricorda Giuseppe Scavello, che come Luigi lavora alla Cogedi, nel cantiere della metropolitana, e gli sale un singhiozzo quando dice «fino a due giorni fa scherzava con noi» e chiede un minuto di silenzio. Quando la testa si avvicina al palco, ancora tanti sono in fondo all’altezza del Velabro, dove la colonna sonora sono le canzoni di Lucio Dalla: Anna e Marco indossano un caschetto rosso da edili. Sono arrivati da tutta Italia, Rimini e Palermo, Salerno e il Nord Est, muratori e cavatori, oppure quelli che arrivano dalle fabbriche del cemento e degli arredi. Un mondo in crisi che ha perso negli ultimi anni 300.000 posti di lavoro. La Filca del Veneto ha fatto un volantino che rappresenta con delle lapidi le aziende che hanno chiuso nell’indifferenza nel ricco locomotore dell’economia italiana; ne hanno contate 25, fra cui la ditta Giacomelli che aveva 82 anni di attività e 110 dipendenti, la ditta Grande arredo, 52 anni di attività e 103dipendenti mandati a casa, Salviato, 170 dipendenti, M2, Europan. Sono le aziende più strutturate, quelle che rispettano le regole, «quelle che soffrono di più la crisi», dirà il segretario generale di Filca CislDomenico Pesenti. Monica Bessaro (Treviso): «Il problema non è l’articolo18mala corruzione, l’evasione, le tangenti, il fisco troppo pesante sulla busta paga». In edilizia si licenzia ad ogni «fine cantiere», dice Schiavella, «è la prova provata che non è l’articolo 18 a impedire la crescita, ma la mancanza di tutele, la deregulation che favorisce caporalato e lavoro nero». Parla dal palco il disoccupato (cantiere Tav Napoli) Mautone e si rivolge al quasi omonimo viceministro Martone: «Da questo umile operaio edile è nata una principessa, mia figlia ha due lauree e 28 anni. Sulla carta non è una sfigata ma rischia di non trovare lavoro, forse a causa di una consonante che fa la differenza». Parla un operaio albanese delegato dell’Umbria e ricorda qual è l’essenza del razzismo: le braccia da sfruttare. E chiede, per contrastare il caporalato, l’abolizione della Bossi-Fini e dei Cie, la patente a punti per le imprese che rispettano le regole. Chiude citando Che Guevara: «Fino a quando il colore della pelle non sarà come il colore degli occhi continueremo a lottare ».

L’Unità 04.03.12

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“L’edilizia in piazza contro la crisi”, di R. GI.

Erano trentamila (numeri «veri», non gonfiati come si fa di solito, hanno detto gli organizzatori) i lavoratori edili che hanno partecipato alla manifestazione nazionale a Roma, organizzata dai sindacati di categoria Fillea-Cgil, Filca-Cisl, Feneal-Uil. Una giornata di protesta indetta per denunciare la gravissima crisi che da quattro anni sta annientando il settore delle costruzioni, che dal 2008 ha perso quasi 400.000 posti di lavoro e ha registrato migliaia di fallimenti di imprese. Una protesta di fatto condivisa anche dalle imprese, che con una nota dell’Ance ha espresso il suo appoggio alle richieste delle organizzazioni sindacali, affermando che «stiamo denunciando da tempo la gravissima crisi nella quale ormai versa senza alcun segnale di ripresa uno dei settori più importanti dell’economia del Paese», e che dunque «l’Ance condivide i motivi che hanno spinto Filca-Cisl, Fillea-Cgil e Feneal-Uil a indire una manifestazione di protesta».

Alla testa del corteo – che ha percorso un breve tratto il centro storico di Roma concludendosi al Colosseo – i rappresentanti dei lavoratori della Metro C di Roma, che con il lutto al braccio hanno ricordato Luigi, il giovane lavoratore morto venerdì, l’ennesima vittima delle morti bianche sul lavoro. Più dietro – a simboleggiare la morte del lavoro edile, strangolato dalla crisi e dal taglio degli investimenti da parte dei governi di questi anni una specie di corteo funebre con tanto di bara e lumini. Ancora dietro, delegazioni provenienti da tutta Italia.

«Come noto, il settore delle costruzioni è sempre stato il classico settore anticiclico ha detto nel comizio finale il segretario generale Cgil Susanna Camusso – Per questo, se non riparte questo settore non è vero che riparte la crescita. Ed è questa la ragione per cui chiediamo che si riparta con gli investimenti». Anche perché secondo Camusso con il governo Monti «si continua in una politica fatta di rigore monetario e politiche di bilancio e non di politiche per la crescita. Chi pensa che da situazione crisi come questa si possa uscire senza uno sforzo pubblico che orienti e determini gli investimenti dice una cosa che non è vera». Insomma, liberalizzazioni e nuovo mercato del lavoro «sono cose necessarie ma – ha concluso non quello che mette in moto il paese». Per il leader della Cisl Raffaele Bonanni «quando l’edilizia va, il paese va. È la leva per riprendere l’economia». E al premier Mario Monti, «che vuole essere europeo», la richiesta «di fare una norma europea: abolisca il sistema del massimo ribasso, che è l’anticamera degli interessi mafiosi». «Questo governo ha cambiato l’immagine del Paese ma non la sua realtà – ha detto il numero uno Uil Luigi Angeletti – l’immagine è importante perché devono prestarci i soldi ma la sostanza non è per nulla cambiata. Ora serve una politica per la crescita che non può non partire dal settore edile».

La Stampa 04.03.12

"Un Paese che fa la guerra alle donne", di Lorenzo Mondo

Sei ancora quello della pietra e della fionda/ uomo del mio tempo…». Il poeta scriveva sotto l’impressione di una guerra devastante e da poco conclusa. Ma la sua apostrofe sconsolata si può estendere ai nostri tempi, anche dove la guerra è assente o si manifesta in forme intestine e subdole. Parlo della «guerra» alle donne che è in atto nel nostro Paese. Mentre incombe l’8 marzo, ci si preoccupa di «quote rosa», di una equilibrata rappresentanza femminile nelle professioni, nelle istituzioni e nell’arengo politico; si prova magari compiacimento per qualche risultato di alto valore simbolico (le tre donne ministro nel governo Monti). Ma in Italia le donne continuano a morire in sequenze agghiaccianti. Rashida Manjoo, che per conto delle Nazioni Unite si occupa di violenza contro il «sesso debole», parla di femminicidio. Brutto il neologismo, ma più brutta la situazione che denuncia.

Nel 2010 le donne assassinate sono state 127, solo nei primi mesi del 2011 salgono a 97. Semplificando la macabra contabilità, si rileva che ogni tre giorni in Italia viene uccisa una donna. Il crimine, nella maggior parte dei casi, viene compiuto all’interno della famiglia, da mariti, partner, parenti e perfino figli. Le vittime scontano la loro fisica fragilità, ma anche la persistenza di una mentalità che le considera esseri inferiori, fatti oggetto di un possesso inalienabile. Ed a moltiplicare l’orrore, si danno casi di «punizioni» trasversali, esercitate sugli affetti più radicati di una madre. È di ieri la storia dell’uomo che, per vendicarsi dell’abbandono da parte della moglie, ha ucciso a martellate il figlio adolescente. Un altro, non molto tempo fa, ha scagliato nel Tevere una tenera creatura. Accade in un Paese che si fa vanto di una cultura che ha reso un inarrivabile omaggio all’essenza femminile.

Prima delle effimere e futili vallette televisive, vengono Beatrice e Laura e Silvia che hanno segnato nell’arte e nell’immaginario collettivo un luminoso percorso. E non si può eludere il culto diffuso, non soltanto superstizioso e miracolistico, della Madonna. Questo non basta, certo, a vanificare l’eredità del «mal seme d’Adamo» e le pulsioni di una crassa ignoranza. Ma occorre porre un argine -di coscienza e di civile sollecitudine- a così gravi misfatti. Attraverso un infaticabile lavoro di educazione (anche gli assassini, vivaddio, sono andati a scuola), centrato sulla dignità di ogni persona, di ogni specifica attitudine e vocazione. Attraverso una più severa, e dissuasiva, sanzione delle leggi. Deprecando, ad esempio, la recente pronuncia della Cassazione che non ha ritenuto meritevoli del carcere i sozzi responsabili d’uno stupro di gruppo.

La Stampa 04.03.12

“Un Paese che fa la guerra alle donne”, di Lorenzo Mondo

Sei ancora quello della pietra e della fionda/ uomo del mio tempo…». Il poeta scriveva sotto l’impressione di una guerra devastante e da poco conclusa. Ma la sua apostrofe sconsolata si può estendere ai nostri tempi, anche dove la guerra è assente o si manifesta in forme intestine e subdole. Parlo della «guerra» alle donne che è in atto nel nostro Paese. Mentre incombe l’8 marzo, ci si preoccupa di «quote rosa», di una equilibrata rappresentanza femminile nelle professioni, nelle istituzioni e nell’arengo politico; si prova magari compiacimento per qualche risultato di alto valore simbolico (le tre donne ministro nel governo Monti). Ma in Italia le donne continuano a morire in sequenze agghiaccianti. Rashida Manjoo, che per conto delle Nazioni Unite si occupa di violenza contro il «sesso debole», parla di femminicidio. Brutto il neologismo, ma più brutta la situazione che denuncia.

Nel 2010 le donne assassinate sono state 127, solo nei primi mesi del 2011 salgono a 97. Semplificando la macabra contabilità, si rileva che ogni tre giorni in Italia viene uccisa una donna. Il crimine, nella maggior parte dei casi, viene compiuto all’interno della famiglia, da mariti, partner, parenti e perfino figli. Le vittime scontano la loro fisica fragilità, ma anche la persistenza di una mentalità che le considera esseri inferiori, fatti oggetto di un possesso inalienabile. Ed a moltiplicare l’orrore, si danno casi di «punizioni» trasversali, esercitate sugli affetti più radicati di una madre. È di ieri la storia dell’uomo che, per vendicarsi dell’abbandono da parte della moglie, ha ucciso a martellate il figlio adolescente. Un altro, non molto tempo fa, ha scagliato nel Tevere una tenera creatura. Accade in un Paese che si fa vanto di una cultura che ha reso un inarrivabile omaggio all’essenza femminile.

Prima delle effimere e futili vallette televisive, vengono Beatrice e Laura e Silvia che hanno segnato nell’arte e nell’immaginario collettivo un luminoso percorso. E non si può eludere il culto diffuso, non soltanto superstizioso e miracolistico, della Madonna. Questo non basta, certo, a vanificare l’eredità del «mal seme d’Adamo» e le pulsioni di una crassa ignoranza. Ma occorre porre un argine -di coscienza e di civile sollecitudine- a così gravi misfatti. Attraverso un infaticabile lavoro di educazione (anche gli assassini, vivaddio, sono andati a scuola), centrato sulla dignità di ogni persona, di ogni specifica attitudine e vocazione. Attraverso una più severa, e dissuasiva, sanzione delle leggi. Deprecando, ad esempio, la recente pronuncia della Cassazione che non ha ritenuto meritevoli del carcere i sozzi responsabili d’uno stupro di gruppo.

La Stampa 04.03.12