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"Fondo per l’editoria: per la stampa di idee una boccata di ossigeno Ma restano i rischi", di Roberto Monteforte

Il governo Monti rifinanzia il Fondo per l’editoria «assistita» che sale a 120 milioni. Fammoni (Cgil): è solo una boccata d’ossigeno. Per Mediacoop il rischio chiusura resta. Siddi (Fnsi) chiede una riforma a tutela del pluralismo. Una boccata d’ossigeno. Questo rappresenta il rifinanziamento del Fondo per l’editoria deciso giovedì sera da Palazzo Chigi con il decreto della presidenza del Consiglio che ha portato a oltre 120 milioni le risorse disponibili per il 2012 e relative alle spese sostenute l’anno precedente. È solo il primo passo.
Lo scorso anno erano stati 150 i milioni disponibili. L’anno prima 180. Per quest’anno per l’editoria assistita erano previsti solo 47 milioni di euro. Con quella cifra sarebbe stata morte sicura per molte delle cento testate non profit, cooperative, politiche e di idee alle quali è indirizzato il finanziamento pubblico diretto. Sono oltre quattromila i dipendenti che avrebbero potuto perdere il posto del lavoro. Quanto l’allarme fosse vero lo testimonia la chiusura di Liberazione, di Terra, de L’Informazione-Il Domani di Bologna e di altre testate cooperative e non profit. Il Manifesto è sotto il controllo di un commissario liquidatore.
Malgrado quei 120 milioni il destino dell’intero settore è ancora a rischio, perché quell’importo va a copertura di quanto le aziende editoriali hanno già speso nel 2011, prevedendo finanziamenti almeno del 15 per cento superiori. Non compensano i tagli dragoniani già imposti dal governo Berlusconi e poi confermati dall’esecutivo del professor Monti. Sulle aziende del settore pesano, infatti, sia i tagli retroattivi ai bilanci 2010 che quelli ai bilanci 2011. «Era un provvedimento lungamente atteso che però ancora non allontana lo spetto della chiusura di un centinaio di testate, in quanto copre solo parzialmente spese già fatte nel 2011 e quindi costi non comprimibili», lo conferma Lelio Grassucci presidente onorario di Mediacoop, che rappresenta le testate cooperative. Certo, qualcosa si è mosso grazie all’iniziativa incessante delle redazioni coinvolte, dei loro direttori, del Comitato per la libertà di informazione e del pluralismo, della Federazione della Stampa e dei sindacati, della stessa Mediacoop e delle altre sigle del mondo cooperativo e grazie, soprattutto, all’intervento del capo dello Stato Napolitano sulla linea «il pluralismo va tutelato nel rigore».
Così finalmente si è dato seguito all’impegno assunto dal governo Monti durante il dibattito parlamentare sulla recente Finanziaria. Sono circa 50 i milioni che dal cosiddetto «Fondo Letta» vanno ad irrobustire quello per l’editoria. Lo aveva preannunciato il sottosegretario Paolo Peluffo che ha anche rastrellato altri 23 milioni da risparmi della pubblica amministrazione. Ma è solo il primo passo. Lo sottolinea Fulvio Fammoni (Cgil): «Deve essere chiaro che i problemi non sono risolti e che comunque non si è trattato di un regalo commenta -. Si è riparato piuttosto ad un grave problema economico e di libertà di informazione che avevamo ereditato dal governo precedente». Fammoni ricorda l’impegno di quanti «hanno continuato a tenere viva l’iniziativa, insieme a molti parlamentari, anche quando tutto sembrava compromesso». Insomma la «lotta paga». «Ora però conclude non ci si deve fermare. Dobbiamo subito rimetterci al lavoro affinché non ci si ritrovi alla fine del 2012 nelle stesse condizioni di quest’anno». Quello che serve è la riforma del settore e la definizione di criteri rigorosi nella ripartizione delle risorse che «garantisca la libertà di informazione e che elimini le tante distorsioni ancora esistenti».
ORA I NUOVI CRITERI
È su questo che insiste anche Mediacoop, che indica come prossima tappa «il decreto per la trasparenza e la migliore finalizzazione delle risorse». Tra i nuovi criteri vi saranno le vendite in edicola e il numero dei dipendenti regolarmente assunti. C’è chi ipotizza anche un sostegno agli investimenti sul web. Di finanziamento ancora «parziale» parla anche il segretario Fnsi, Franco Siddi, che insiste sull’esigenza di una «puntuale svolta nella definizione rapida dei nuovi criteri di finanziamento, affinché ciascun soggetto beneficiario possa fare i conti per tempo». Ciò che va evitato è quanto è avvenuto nel 2011, con aziende che hanno sospeso l’attività perché non sapevano fino a qual punto avrebbero potuto godere ancora dell’aiuto pubblico. La Fnsi chiede una riforma a tutela del pluralismo e che «i fondi pubblici vadano a giornali veri, con giornalisti veri, con un minimo di rapporto con il pubblico».

L’Unità 03.03.12

“Fondo per l’editoria: per la stampa di idee una boccata di ossigeno Ma restano i rischi”, di Roberto Monteforte

Il governo Monti rifinanzia il Fondo per l’editoria «assistita» che sale a 120 milioni. Fammoni (Cgil): è solo una boccata d’ossigeno. Per Mediacoop il rischio chiusura resta. Siddi (Fnsi) chiede una riforma a tutela del pluralismo. Una boccata d’ossigeno. Questo rappresenta il rifinanziamento del Fondo per l’editoria deciso giovedì sera da Palazzo Chigi con il decreto della presidenza del Consiglio che ha portato a oltre 120 milioni le risorse disponibili per il 2012 e relative alle spese sostenute l’anno precedente. È solo il primo passo.
Lo scorso anno erano stati 150 i milioni disponibili. L’anno prima 180. Per quest’anno per l’editoria assistita erano previsti solo 47 milioni di euro. Con quella cifra sarebbe stata morte sicura per molte delle cento testate non profit, cooperative, politiche e di idee alle quali è indirizzato il finanziamento pubblico diretto. Sono oltre quattromila i dipendenti che avrebbero potuto perdere il posto del lavoro. Quanto l’allarme fosse vero lo testimonia la chiusura di Liberazione, di Terra, de L’Informazione-Il Domani di Bologna e di altre testate cooperative e non profit. Il Manifesto è sotto il controllo di un commissario liquidatore.
Malgrado quei 120 milioni il destino dell’intero settore è ancora a rischio, perché quell’importo va a copertura di quanto le aziende editoriali hanno già speso nel 2011, prevedendo finanziamenti almeno del 15 per cento superiori. Non compensano i tagli dragoniani già imposti dal governo Berlusconi e poi confermati dall’esecutivo del professor Monti. Sulle aziende del settore pesano, infatti, sia i tagli retroattivi ai bilanci 2010 che quelli ai bilanci 2011. «Era un provvedimento lungamente atteso che però ancora non allontana lo spetto della chiusura di un centinaio di testate, in quanto copre solo parzialmente spese già fatte nel 2011 e quindi costi non comprimibili», lo conferma Lelio Grassucci presidente onorario di Mediacoop, che rappresenta le testate cooperative. Certo, qualcosa si è mosso grazie all’iniziativa incessante delle redazioni coinvolte, dei loro direttori, del Comitato per la libertà di informazione e del pluralismo, della Federazione della Stampa e dei sindacati, della stessa Mediacoop e delle altre sigle del mondo cooperativo e grazie, soprattutto, all’intervento del capo dello Stato Napolitano sulla linea «il pluralismo va tutelato nel rigore».
Così finalmente si è dato seguito all’impegno assunto dal governo Monti durante il dibattito parlamentare sulla recente Finanziaria. Sono circa 50 i milioni che dal cosiddetto «Fondo Letta» vanno ad irrobustire quello per l’editoria. Lo aveva preannunciato il sottosegretario Paolo Peluffo che ha anche rastrellato altri 23 milioni da risparmi della pubblica amministrazione. Ma è solo il primo passo. Lo sottolinea Fulvio Fammoni (Cgil): «Deve essere chiaro che i problemi non sono risolti e che comunque non si è trattato di un regalo commenta -. Si è riparato piuttosto ad un grave problema economico e di libertà di informazione che avevamo ereditato dal governo precedente». Fammoni ricorda l’impegno di quanti «hanno continuato a tenere viva l’iniziativa, insieme a molti parlamentari, anche quando tutto sembrava compromesso». Insomma la «lotta paga». «Ora però conclude non ci si deve fermare. Dobbiamo subito rimetterci al lavoro affinché non ci si ritrovi alla fine del 2012 nelle stesse condizioni di quest’anno». Quello che serve è la riforma del settore e la definizione di criteri rigorosi nella ripartizione delle risorse che «garantisca la libertà di informazione e che elimini le tante distorsioni ancora esistenti».
ORA I NUOVI CRITERI
È su questo che insiste anche Mediacoop, che indica come prossima tappa «il decreto per la trasparenza e la migliore finalizzazione delle risorse». Tra i nuovi criteri vi saranno le vendite in edicola e il numero dei dipendenti regolarmente assunti. C’è chi ipotizza anche un sostegno agli investimenti sul web. Di finanziamento ancora «parziale» parla anche il segretario Fnsi, Franco Siddi, che insiste sull’esigenza di una «puntuale svolta nella definizione rapida dei nuovi criteri di finanziamento, affinché ciascun soggetto beneficiario possa fare i conti per tempo». Ciò che va evitato è quanto è avvenuto nel 2011, con aziende che hanno sospeso l’attività perché non sapevano fino a qual punto avrebbero potuto godere ancora dell’aiuto pubblico. La Fnsi chiede una riforma a tutela del pluralismo e che «i fondi pubblici vadano a giornali veri, con giornalisti veri, con un minimo di rapporto con il pubblico».

L’Unità 03.03.12

"L’ira dei sindaci. Pronti alla rivolta sul Patto di stabilità e sull’Imu", di Marco Tedeschi

Incontro a Milano organizzato dal Pd con Delrio, Pisapia, Fassino. Attesa per l’incontro con Monti della prossima settimana e richiesta di modificare l’ipotesi di trasferimento dei fondi alla Tesoreria unica. I sindaci non ci stanno. Sono pronti a scendere in piazza a protestare, a marciare, a consegnare simbolicamente le fasce tricolori per chiedere di cancellare il trasferimento del 50% delle risorse dei Comuni alla tesoreria dello Stato se il governo non metterà mano rapidamente al patto di stabilità e ai criteri di ripartizione dei proventi dell’Imu.
Ha il sapore dell’ultimatum quello lanciato ieri durante un incontro sul rapporto Stato-Enti locali organizzato dal Pd a Milano,
cui hanno partecipato, fra gli altri, il presidente nazionale dell’Anci e sindaco di Reggio Emilia, Graziano Delrio, e i sindaci di Milano e Torino, Giuliano Pisapia e Piero Fassino. Il primo banco di prova, per comprendere le intenzioni dell’esecutivo, sarà l’incontro in programma la prossima settimana fra il premier Mario Monti e l’Associazione dei comuni italiani. «Il grido delle comunità locali non è per scassare i conti del Paese, ma per avere più coesione sociale e per aiutare il Paese a crescere
in questo momento difficile» ha dichiarato Delrio.
CALCOLI DA CAMBIARE
Fra le proposte presentate e discusse ieri quella di calcolare in modo diverso le spese per investimenti rispetto a quelle crrenti, privilegiando le prime. Quindi l’esclusione dal Patto di Stabilità delle spese per le ondate di maltempo eccezionale, per l’edilizia scolastica e per il riassetto idrogeologico; lo studio di un diverso riparto dell’Imu, aumentando la quota lasciata al Comune dal 50% al 70% (da 12,2 a 15,8 miliardi di euro) operando una riduzione di pari importo dei trasferimenti
dallo Stato ai Comuni; il permesso ai Comuni di riaccendere mutui per investimenti e, infine, sbloccare i pagamenti verso i fornitori.
«Il Patto di stabilità si è trasformato in una prigione per i Comuni perché non consente di fare investimenti, riduce erogazioni
servizi, e mette in ginocchio le nostre amministrazione», ha detto Fassino. Dal primo cittadino di Milano Pisapia, invece, è arrivata la proposta radicale di bloccare i trasferimenti del 50% dei fondi dei Comuni, inclusi i proventi Imu, allo Stato come previsto dal decreto sulle liberalizzazioni.
IL GOVERNO CAMBI IDEA
«Spero che il governo ci ripensi e faccia autocritica su un provvedimento che è iniquo e incostituzionale», ha argomentato Pisapia
ricordando però che il Comune non può sollevare l’ipotesi di incostituzionalità. «L’ipotesi di incostituzionalità potrebbe essere
sollevata solo nell’ipotesi di contenzioso giudiziario e questo lo valuteremo», ha concluso Pisapia, lasciando intendere che il
Comune di Milano è pronto a non versare i soldi allo Stato. Più cauto si è dimostrato Fassino che ha sottolineato come le proposte
come quella avanzata da Pisapia «vengono fatte giusto per sottolineare la nostra richiesta che il negoziato si apra. Pisapia,
come me e come tutti gli altri sindaci, è consapevole che bisogna agire rispettando le leggi. Non è in causa il rispetto della
legalità, ma chiediamo al governo di aprire un negoziato». Sull’ipotesi di una marcia di protesta dei sindaci italiani con
la consegna simbolica delle fasce tricolori, il sindaco di Milano Pisapia ha dichiarato che «è una proposta da discutere, deve decidere l’Anci»

da L’Unità

“L’ira dei sindaci. Pronti alla rivolta sul Patto di stabilità e sull’Imu”, di Marco Tedeschi

Incontro a Milano organizzato dal Pd con Delrio, Pisapia, Fassino. Attesa per l’incontro con Monti della prossima settimana e richiesta di modificare l’ipotesi di trasferimento dei fondi alla Tesoreria unica. I sindaci non ci stanno. Sono pronti a scendere in piazza a protestare, a marciare, a consegnare simbolicamente le fasce tricolori per chiedere di cancellare il trasferimento del 50% delle risorse dei Comuni alla tesoreria dello Stato se il governo non metterà mano rapidamente al patto di stabilità e ai criteri di ripartizione dei proventi dell’Imu.
Ha il sapore dell’ultimatum quello lanciato ieri durante un incontro sul rapporto Stato-Enti locali organizzato dal Pd a Milano,
cui hanno partecipato, fra gli altri, il presidente nazionale dell’Anci e sindaco di Reggio Emilia, Graziano Delrio, e i sindaci di Milano e Torino, Giuliano Pisapia e Piero Fassino. Il primo banco di prova, per comprendere le intenzioni dell’esecutivo, sarà l’incontro in programma la prossima settimana fra il premier Mario Monti e l’Associazione dei comuni italiani. «Il grido delle comunità locali non è per scassare i conti del Paese, ma per avere più coesione sociale e per aiutare il Paese a crescere
in questo momento difficile» ha dichiarato Delrio.
CALCOLI DA CAMBIARE
Fra le proposte presentate e discusse ieri quella di calcolare in modo diverso le spese per investimenti rispetto a quelle crrenti, privilegiando le prime. Quindi l’esclusione dal Patto di Stabilità delle spese per le ondate di maltempo eccezionale, per l’edilizia scolastica e per il riassetto idrogeologico; lo studio di un diverso riparto dell’Imu, aumentando la quota lasciata al Comune dal 50% al 70% (da 12,2 a 15,8 miliardi di euro) operando una riduzione di pari importo dei trasferimenti
dallo Stato ai Comuni; il permesso ai Comuni di riaccendere mutui per investimenti e, infine, sbloccare i pagamenti verso i fornitori.
«Il Patto di stabilità si è trasformato in una prigione per i Comuni perché non consente di fare investimenti, riduce erogazioni
servizi, e mette in ginocchio le nostre amministrazione», ha detto Fassino. Dal primo cittadino di Milano Pisapia, invece, è arrivata la proposta radicale di bloccare i trasferimenti del 50% dei fondi dei Comuni, inclusi i proventi Imu, allo Stato come previsto dal decreto sulle liberalizzazioni.
IL GOVERNO CAMBI IDEA
«Spero che il governo ci ripensi e faccia autocritica su un provvedimento che è iniquo e incostituzionale», ha argomentato Pisapia
ricordando però che il Comune non può sollevare l’ipotesi di incostituzionalità. «L’ipotesi di incostituzionalità potrebbe essere
sollevata solo nell’ipotesi di contenzioso giudiziario e questo lo valuteremo», ha concluso Pisapia, lasciando intendere che il
Comune di Milano è pronto a non versare i soldi allo Stato. Più cauto si è dimostrato Fassino che ha sottolineato come le proposte
come quella avanzata da Pisapia «vengono fatte giusto per sottolineare la nostra richiesta che il negoziato si apra. Pisapia,
come me e come tutti gli altri sindaci, è consapevole che bisogna agire rispettando le leggi. Non è in causa il rispetto della
legalità, ma chiediamo al governo di aprire un negoziato». Sull’ipotesi di una marcia di protesta dei sindaci italiani con
la consegna simbolica delle fasce tricolori, il sindaco di Milano Pisapia ha dichiarato che «è una proposta da discutere, deve decidere l’Anci»

da L’Unità

"Il PD all'esame del riformismo", di Miguel Gotor

DOPO il governo Monti nulla sarà come prima, cantilenano i gattopardi italiani. Dal momento che siamo un Paese gerontocratico dobbiamo però chiederci a quale “prima” si vuol fare riferimento. L´impressione è che ci sia in giro una gran voglia di riesumare un reperto archeologico, gli anni Settanta, con il suo inevitabile rosario di citazioni pasoliniane: a destra l´antagonismo è ridotto a terrorismo in base a un´inedita strategia del rancore, mentre tra i radicali il movimento No Tav è cavalcato per nuocere al Partito democratico, all´eterno grido del tradimento a sinistra. Riflessi antichi, quelli di un sistema anchilosato che si regge solo per il suo irrigidimento da paralitico, avrebbe detto Antonio Gramsci.
Spia di questa convergenza è la sottovalutazione di un fatto grave in una democrazia, ossia l´occupazione della sede nazionale del Pd da parte di un gruppo di No Tav, una distrazione che vela un evidente compiacimento: quello di vedere ancora una volta quel partito, proprio come il Pci che fu, in balia di «opposti estremismi», vittima della sua presunta ambiguità costitutiva.
Eppure la difficoltà del tempo presente può rivelarsi per il Pd una formidabile occasione per liberare il proprio profilo riformista, che anzitutto significa non farsi invischiare in queste provocazioni, basate sui meccanismi di un´Italia vecchia e immobile che teorizza il palingenetico cambiamento di ogni cosa, affinché tutto alla fine rimanga uguale.
Anzitutto però il Pd deve accettare l´esistenza di un radicalismo alla propria sinistra. È questa la conseguenza inevitabile della sua aspirazione a essere un partito nazionale di governo. All´atto della fondazione quel partito ha scelto di impugnare la bandiera del riformismo, ma non può limitarsi a sventolarla e deve trarne delle conseguenze sul piano dell´azione politica: guidare e non essere guidati è il compito, diciamo pure la responsabilità nazionale, del primo partito italiano in una crisi scivolosa come questa, dove la possibilità di un precipitare dello scontro tra forconi di destra ed estremismi di sinistra, leghismi del nord e del sud è a un passo e la politica nel suo insieme non è mai stata tanto debole.
«Pas d´ennemis à gauche» era il complesso atavico del vecchio Pci e non può esserlo anche per il nuovo Pd, in quanto proprio su questo punto deve misurarsi una discontinuità. Quella formula era il risultato di un mondo bloccato e di una democrazia zoppa, ove la Dc aveva il monopolio del governo e il Pci l´egemonia dell´opposizione, senza alcuna possibilità di realizzare l´alternanza. Un quadro statico che induceva quel partito a demonizzare qualunque fermento radicale alla sua sinistra: l´egemonia era una sorta di premio di consolazione che imponeva di sfidare, sviluppando una continua dialettica tra volontà di inglobamento e resistenza, ogni fermento vitale al di fuori di essa.
Allo stesso modo in quell´Italia lontana, che in tanti ricordano ancora bene con la sua speciale miscela di crisi economica, solidarietà nazionale, movimenti sociali e terrorismo, si andò sviluppando un´eterogenesi dei fini tra moderati e gruppi extraparlamentari: il ruolo «antipiccista» di quella sinistra radicale è stato la maggiore garanzia della sua sopravvivenza culturale, ben al di là del reale consenso politico che nel Paese non ha mai superato il 3%. Eppure l´influenza è stata assai maggiore perché era funzionale al consolidamento in senso moderato del quadro italiano: si soffiava sul fuoco del radicalismo di destra e di sinistra e ne usciva un miracoloso incenso conservatore, destabilizzando per stabilizzare come recitavano seguitissimi manuali.
I comportamenti di Bersani in questi giorni meritano di essere sottolineati perché lasciano prefigurare la consapevolezza di non cadere nelle trappole di quel passato. Sulla questione No Tav, ad esempio, nell´arena di Santoro, è stato assai efficace: solo contro tutti, le gambe larghe e la cravatta slacciata a rispondere colpo su colpo al moralismo di alcuni e alla demagogia di altri. La questione della Tav è stata tenuta al livello che merita, ossia una sfida democratica: ogni violenza deve essere bandita, non è vero che non si è dialogato con associazioni e comuni che hanno deliberato a maggioranza la loro decisione favorevole; discutere non può significare bloccare i lavori, ma piuttosto affrontare temi assai concreti come evitare le infiltrazioni mafiose nella gestione degli appalti, mantenere la massima sicurezza nei cantieri, dislocare risorse a vantaggio delle popolazioni danneggiate dai disagi. Ma la Tav va fatta perché risponde a un interesse italiano ed europeo e così è stato deliberato a ogni istanza rappresentativa: una democrazia che non realizza le sue decisioni non fa altro che aumentare il proprio discredito.
Sempre nelle stesse ore bene ha fatto il segretario del Pd a rispedire al mittente la proposta di una grande coalizione anche dopo le elezioni del 2013 rivendicando per l´Italia un destino normale, quello di una democrazia che respira con due polmoni e attraverso le elezioni confronta proposte alternative garantendo l´alternanza. Ma la confusione delle lingue ormai ha raggiunto livelli enormi e c´è chi considera un segno di riformismo prospettare l´eventualità di continuare a governare con Cicchitto e Gasparri, a prescindere dal risultato delle elezioni, anzi ritagliando su misura una legge elettorale nuova che possa favorire tale esito. Tutto questo i gattopardi italiani lo sanno bene e per questa ragione il Pd di Bersani disturba e dà fastidio. Continui pure a farlo elevando il senso riformista della sua sfida, che oggi significa proseguire a fare politica nel solco di rinnovamento e rigenerazione tracciato dal governo Monti, ma a testa alta, con lo sguardo rivolto all´Italia di oggi e a quella di domani.

da La Repubblica

“Il PD all’esame del riformismo”, di Miguel Gotor

DOPO il governo Monti nulla sarà come prima, cantilenano i gattopardi italiani. Dal momento che siamo un Paese gerontocratico dobbiamo però chiederci a quale “prima” si vuol fare riferimento. L´impressione è che ci sia in giro una gran voglia di riesumare un reperto archeologico, gli anni Settanta, con il suo inevitabile rosario di citazioni pasoliniane: a destra l´antagonismo è ridotto a terrorismo in base a un´inedita strategia del rancore, mentre tra i radicali il movimento No Tav è cavalcato per nuocere al Partito democratico, all´eterno grido del tradimento a sinistra. Riflessi antichi, quelli di un sistema anchilosato che si regge solo per il suo irrigidimento da paralitico, avrebbe detto Antonio Gramsci.
Spia di questa convergenza è la sottovalutazione di un fatto grave in una democrazia, ossia l´occupazione della sede nazionale del Pd da parte di un gruppo di No Tav, una distrazione che vela un evidente compiacimento: quello di vedere ancora una volta quel partito, proprio come il Pci che fu, in balia di «opposti estremismi», vittima della sua presunta ambiguità costitutiva.
Eppure la difficoltà del tempo presente può rivelarsi per il Pd una formidabile occasione per liberare il proprio profilo riformista, che anzitutto significa non farsi invischiare in queste provocazioni, basate sui meccanismi di un´Italia vecchia e immobile che teorizza il palingenetico cambiamento di ogni cosa, affinché tutto alla fine rimanga uguale.
Anzitutto però il Pd deve accettare l´esistenza di un radicalismo alla propria sinistra. È questa la conseguenza inevitabile della sua aspirazione a essere un partito nazionale di governo. All´atto della fondazione quel partito ha scelto di impugnare la bandiera del riformismo, ma non può limitarsi a sventolarla e deve trarne delle conseguenze sul piano dell´azione politica: guidare e non essere guidati è il compito, diciamo pure la responsabilità nazionale, del primo partito italiano in una crisi scivolosa come questa, dove la possibilità di un precipitare dello scontro tra forconi di destra ed estremismi di sinistra, leghismi del nord e del sud è a un passo e la politica nel suo insieme non è mai stata tanto debole.
«Pas d´ennemis à gauche» era il complesso atavico del vecchio Pci e non può esserlo anche per il nuovo Pd, in quanto proprio su questo punto deve misurarsi una discontinuità. Quella formula era il risultato di un mondo bloccato e di una democrazia zoppa, ove la Dc aveva il monopolio del governo e il Pci l´egemonia dell´opposizione, senza alcuna possibilità di realizzare l´alternanza. Un quadro statico che induceva quel partito a demonizzare qualunque fermento radicale alla sua sinistra: l´egemonia era una sorta di premio di consolazione che imponeva di sfidare, sviluppando una continua dialettica tra volontà di inglobamento e resistenza, ogni fermento vitale al di fuori di essa.
Allo stesso modo in quell´Italia lontana, che in tanti ricordano ancora bene con la sua speciale miscela di crisi economica, solidarietà nazionale, movimenti sociali e terrorismo, si andò sviluppando un´eterogenesi dei fini tra moderati e gruppi extraparlamentari: il ruolo «antipiccista» di quella sinistra radicale è stato la maggiore garanzia della sua sopravvivenza culturale, ben al di là del reale consenso politico che nel Paese non ha mai superato il 3%. Eppure l´influenza è stata assai maggiore perché era funzionale al consolidamento in senso moderato del quadro italiano: si soffiava sul fuoco del radicalismo di destra e di sinistra e ne usciva un miracoloso incenso conservatore, destabilizzando per stabilizzare come recitavano seguitissimi manuali.
I comportamenti di Bersani in questi giorni meritano di essere sottolineati perché lasciano prefigurare la consapevolezza di non cadere nelle trappole di quel passato. Sulla questione No Tav, ad esempio, nell´arena di Santoro, è stato assai efficace: solo contro tutti, le gambe larghe e la cravatta slacciata a rispondere colpo su colpo al moralismo di alcuni e alla demagogia di altri. La questione della Tav è stata tenuta al livello che merita, ossia una sfida democratica: ogni violenza deve essere bandita, non è vero che non si è dialogato con associazioni e comuni che hanno deliberato a maggioranza la loro decisione favorevole; discutere non può significare bloccare i lavori, ma piuttosto affrontare temi assai concreti come evitare le infiltrazioni mafiose nella gestione degli appalti, mantenere la massima sicurezza nei cantieri, dislocare risorse a vantaggio delle popolazioni danneggiate dai disagi. Ma la Tav va fatta perché risponde a un interesse italiano ed europeo e così è stato deliberato a ogni istanza rappresentativa: una democrazia che non realizza le sue decisioni non fa altro che aumentare il proprio discredito.
Sempre nelle stesse ore bene ha fatto il segretario del Pd a rispedire al mittente la proposta di una grande coalizione anche dopo le elezioni del 2013 rivendicando per l´Italia un destino normale, quello di una democrazia che respira con due polmoni e attraverso le elezioni confronta proposte alternative garantendo l´alternanza. Ma la confusione delle lingue ormai ha raggiunto livelli enormi e c´è chi considera un segno di riformismo prospettare l´eventualità di continuare a governare con Cicchitto e Gasparri, a prescindere dal risultato delle elezioni, anzi ritagliando su misura una legge elettorale nuova che possa favorire tale esito. Tutto questo i gattopardi italiani lo sanno bene e per questa ragione il Pd di Bersani disturba e dà fastidio. Continui pure a farlo elevando il senso riformista della sua sfida, che oggi significa proseguire a fare politica nel solco di rinnovamento e rigenerazione tracciato dal governo Monti, ma a testa alta, con lo sguardo rivolto all´Italia di oggi e a quella di domani.

da La Repubblica

"Violenza: Perché il posto più pericolo per una donna è casa sua", di Paola Zanuttini

Tutti uguali, gli uomini che fanno male alle loro donne. Che sia male fisico o psicologico, non cambia, perché chi picchia e massacra comincia sempre dalle violenze più subdole, quelle mentali. «Quando mi picchiava attraverso la coperta, pensavo che lo facesse per non farmi troppo male. Poi ho capito che era solo per non lasciarmi i segni: nessuno doveva sapere». La storia di Cinzia e di tante altre che subiscono per venti, trent’anni, ha dell’incredibile. Perché l’escalation della cattiveria e della manipolazione sembra regolata da un meccanismo a orologeria, come se questi uomini avessero letto lo stesso manuale di crudeltà. Ma i referti medici, i rapporti di polizia, le sentenze dimostrano che è tutto vero. Cinzia, 52 anni, è la moglie separata di un ufficiale dell’Aeronautica militare. Dice che la moglie del soldato, se il soldato è di quelli che alzano le mani, è una vittima predestinata. «Lo segui ovunque e tagli i ponti con parenti e amici. Non lavori. Vivi in un ambiente chiuso, conformista e, visti i continui trasferimenti, non stabilisci
l’intimità che consente di confidarti con le altre mogli. Se chiami i carabinieri dopo l’ennesima aggressione, quelli, militari pure loro, minimizzano, ti sconsigliano di fare scandali». L’ho incontrata a Roma, nella sede di Differenza Donna, organizzazione che, da più di vent’anni, si occupa delle vittime della violenza di genere. Lei ci è arrivata grazie a un poliziotto del pronto soccorso di Anzio: la vedeva sempre in ospedale, reduce dai soliti incidenti domestici, e l’ha convinta a sporgere denuncia. Cinzia aveva conosciuto il marito agli esami di maturità: «All’inizio mi faceva pena: si vergognava dei genitori mezzadri. Appena entrato in Aeronautica, l’insicurezza è diventata arroganza: io ero lo zero assoluto. Si era preso i miei soldi guadagnati prima del matrimonio, aveva un bello stipendio, ma mi dava giusto il necessario per la spesa, giorno per giorno. E controllava gli scontrini.
Diceva che era normale. Se obiettavo, botte. Però invisibili. Colpiva la testa, mi schiacciava le costole, mi torceva i polsi, mi soffocava. L’ho sposato perché mi aveva convinto che senza lui non esistevo. Ma prima delle nozze non era così feroce. Non sembrava violento come mio padre». In primo grado, il top gun è stato condannato per maltrattamenti e violenza sessuale. E per detenzione di armi da guerra e munizioni. Che non utilizzava a norma di regolamento: «Dopo il cesareo, non gli andavo più bene, fisicamente. Il sesso è diventato sempre più violento. E, visto che era anche insoddisfatto delle sue dimensioni, usava i proiettili. Diceva che tutte le coppie li usavano e che, se mi davano dolore o disturbi, era colpa mia. Perché ero marcia». Tutto questo si potrebbe liquidare con la follia. Ma allora siamo in pieno Comma 22: o i bombardieri vengono messi in mano a dei
pazzi o imporre queste mostruosità a una moglie non è un comportamento da pazzi. Infatti dalla perizia psichiatrica del marito di Cinzia non è emerso nulla. E, statisticamente, solo il venti per cento dei mariti violenti risulta avere disturbi mentali.
«Non c’entrano l’alcolismo, la follia, il disagio sociale o la disperazione: troppe volte la stampa giustifica un uxoricida sostenendo che era depresso perché lei l’aveva lasciato. Questi elementi possono acutizzare la violenza, che però è già lì» dice l’avvocato Titti Carrano, presidente di D.i.re, rete nazionale
di sessanta centri antiviolenza. E Laura Maffre, responsabile della casa Maree di Roma, aggiunge: «Non sono le menti degli uomini violenti a essere malate, ma la cultura patriarcale, che reputa la donna cosa sua». Seppur dato per morto e sepolto, il patriarcato continua a far danni: secondo una ricerca della Casa delle donne per non subire violenza di Bologna, su 127 morte ammazzate del 2010, oltre la metà risultano uccise dal partner o dall’ex partner; quasi un quarto dal padre, dal fratello o dal figlio; e solo il quattro per cento da sconosciuti. Come dire che il tetto famigliare non è tanto sicuro. Lo aveva già dimostrato l’indagine Istat del 2007: nel 67 per cento dei casi, la violenza ripetuta è inflitta dai partner. Ora l’indagine riparte e vedremo cosa hanno prodotto questi anni di Bunga Bunga. Nei centri antiviolenza di tutta Italia ripetono tutte la stessa cosa: può
capitare a ogni donna, in ogni ambiente, in ogni area geografica. In Inghilterra, il massimo delle violenze si verificano la domenica sera, dopo le partite. E avere un’istruzione, un lavoro, un’autonomia economica può aiutarti a uscirne, ma non ti evita di finirci dentro. «Ho visto un sacco di infermiere che ci sono cascate: il lavoro di cura se lo portano anche negli affetti» dice Orietta Paciucci, del Centro antiviolenza dell’Aquila, molto preoccupata che i fondi post terremoto per le donne maltrattate finiscano alla Curia, «più interessata a salvare la famiglia che le vittime». Al centro Safiya di Polignano a Mare ho incontrato
tre donne: due sui cinquanta, senza grandi titoli di studio, inguaiate coi soldi, ma finalmente libere dai loro carnefici; l’altra, giovane, borghese, laureata, ancora impigliata in un matrimonio violento. Quando raccontava il suo caso, le cinquantenni annuivano: quella storia, con poche varianti, era la loro. Il Safiya rischia di chiudere. A Polignano, con i fondi della regione amministrata da Nichi Vendola, il comune di centrodestra ha aperto un centro antiviolenza. Il Safiya non ha partecipato al bando perché non ha la struttura gigantistica richiesta. C’è il rischio che «l’antiviolenza» diventi un business
per le cooperative più inserite o finisca tra le paterne braccia della Chiesa o di quelle amministrazioni pubbliche che trattano la violenza di genere come un disagio sociale qualsiasi. A Belluno,
la casa rifugio è smantellata per mancanza di fondi. E mentre il Consiglio d’Europa raccomanda all’Italia di garantire 5.700 posti letto alle donne maltrattate, ce ne sono solo 500.
«La prima volta che mi ha dato due schiaffi gli avevo chiesto di tenere in braccio la nostra prima figlia, perché ero stanca morta. Rimasi senza parole» racconta Marianna, 36 anni, rumena, assunta
in una coop di pulizie, a lungo ospite della casa rifugio di Differenza Donna. Non fu uno scatto di rabbia, ma l’inizio di un calvario. Che, in tribunale, il marito spiegò al giudice sostenendo l’inferiorità della donna. Violentava Marianna davanti ai figli per insegnarle il vero ruolo delle mogli. Succede spesso, durante le gravidanze (soprattutto precoci) o dopo la nascita del primo figlio, che certi mariti mostrino la loro vera faccia. La fragilità della madre, l’antagonismo con il neonato, i dubbi sulla paternità e la certezza di avere la donna in pugno sono il lasciapassare. Ma perché il copione è sempre lo stesso? Dove l’hanno imparato? I figli e le figlie di famiglie violente hanno una maggiore possibilità di riprodurre quello che hanno visto.
Ma perché anche chi viene da una famiglia normale diventa una vittima o un carnefice?
Patrizia Romito, psicologo sociale dell’Università di Trieste, un’autorità sulla violenza di genere, dice che ci sono diverse interpretazioni e nessuna esclude l’altra. E approfondisce: «La cultura della colonizzazione è organizzata in modo che chi è dominato non percepisca fino in fondo la sua oppressione, anche perché il dominatore fa di tutto per impedirglielo. E la cultura coinvolge fenomeni lontani fra loro. Una ricerca sulla distribuzione dei serial killer negli Stati Uniti dimostra che varia in base alla legittimazione della violenza nei diversi Stati: cresce dove ci sono tifoserie agguerrite, o punizioni corporali consentite. Ma la cultura si cambia, con l’educazione. All’Università, abbiamo un sito per adolescenti, www2.units.it/noallaviolenza, dove smontiamo gli stereotipi maschili e femminili». Per esempio? «La gelosia del fidanzato o la reputazione femminile. Valori in rimonta, fra le ragazze».

DA Venerdì di Repubblica 02.03.12