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“Violenza: Perché il posto più pericolo per una donna è casa sua”, di Paola Zanuttini

Tutti uguali, gli uomini che fanno male alle loro donne. Che sia male fisico o psicologico, non cambia, perché chi picchia e massacra comincia sempre dalle violenze più subdole, quelle mentali. «Quando mi picchiava attraverso la coperta, pensavo che lo facesse per non farmi troppo male. Poi ho capito che era solo per non lasciarmi i segni: nessuno doveva sapere». La storia di Cinzia e di tante altre che subiscono per venti, trent’anni, ha dell’incredibile. Perché l’escalation della cattiveria e della manipolazione sembra regolata da un meccanismo a orologeria, come se questi uomini avessero letto lo stesso manuale di crudeltà. Ma i referti medici, i rapporti di polizia, le sentenze dimostrano che è tutto vero. Cinzia, 52 anni, è la moglie separata di un ufficiale dell’Aeronautica militare. Dice che la moglie del soldato, se il soldato è di quelli che alzano le mani, è una vittima predestinata. «Lo segui ovunque e tagli i ponti con parenti e amici. Non lavori. Vivi in un ambiente chiuso, conformista e, visti i continui trasferimenti, non stabilisci
l’intimità che consente di confidarti con le altre mogli. Se chiami i carabinieri dopo l’ennesima aggressione, quelli, militari pure loro, minimizzano, ti sconsigliano di fare scandali». L’ho incontrata a Roma, nella sede di Differenza Donna, organizzazione che, da più di vent’anni, si occupa delle vittime della violenza di genere. Lei ci è arrivata grazie a un poliziotto del pronto soccorso di Anzio: la vedeva sempre in ospedale, reduce dai soliti incidenti domestici, e l’ha convinta a sporgere denuncia. Cinzia aveva conosciuto il marito agli esami di maturità: «All’inizio mi faceva pena: si vergognava dei genitori mezzadri. Appena entrato in Aeronautica, l’insicurezza è diventata arroganza: io ero lo zero assoluto. Si era preso i miei soldi guadagnati prima del matrimonio, aveva un bello stipendio, ma mi dava giusto il necessario per la spesa, giorno per giorno. E controllava gli scontrini.
Diceva che era normale. Se obiettavo, botte. Però invisibili. Colpiva la testa, mi schiacciava le costole, mi torceva i polsi, mi soffocava. L’ho sposato perché mi aveva convinto che senza lui non esistevo. Ma prima delle nozze non era così feroce. Non sembrava violento come mio padre». In primo grado, il top gun è stato condannato per maltrattamenti e violenza sessuale. E per detenzione di armi da guerra e munizioni. Che non utilizzava a norma di regolamento: «Dopo il cesareo, non gli andavo più bene, fisicamente. Il sesso è diventato sempre più violento. E, visto che era anche insoddisfatto delle sue dimensioni, usava i proiettili. Diceva che tutte le coppie li usavano e che, se mi davano dolore o disturbi, era colpa mia. Perché ero marcia». Tutto questo si potrebbe liquidare con la follia. Ma allora siamo in pieno Comma 22: o i bombardieri vengono messi in mano a dei
pazzi o imporre queste mostruosità a una moglie non è un comportamento da pazzi. Infatti dalla perizia psichiatrica del marito di Cinzia non è emerso nulla. E, statisticamente, solo il venti per cento dei mariti violenti risulta avere disturbi mentali.
«Non c’entrano l’alcolismo, la follia, il disagio sociale o la disperazione: troppe volte la stampa giustifica un uxoricida sostenendo che era depresso perché lei l’aveva lasciato. Questi elementi possono acutizzare la violenza, che però è già lì» dice l’avvocato Titti Carrano, presidente di D.i.re, rete nazionale
di sessanta centri antiviolenza. E Laura Maffre, responsabile della casa Maree di Roma, aggiunge: «Non sono le menti degli uomini violenti a essere malate, ma la cultura patriarcale, che reputa la donna cosa sua». Seppur dato per morto e sepolto, il patriarcato continua a far danni: secondo una ricerca della Casa delle donne per non subire violenza di Bologna, su 127 morte ammazzate del 2010, oltre la metà risultano uccise dal partner o dall’ex partner; quasi un quarto dal padre, dal fratello o dal figlio; e solo il quattro per cento da sconosciuti. Come dire che il tetto famigliare non è tanto sicuro. Lo aveva già dimostrato l’indagine Istat del 2007: nel 67 per cento dei casi, la violenza ripetuta è inflitta dai partner. Ora l’indagine riparte e vedremo cosa hanno prodotto questi anni di Bunga Bunga. Nei centri antiviolenza di tutta Italia ripetono tutte la stessa cosa: può
capitare a ogni donna, in ogni ambiente, in ogni area geografica. In Inghilterra, il massimo delle violenze si verificano la domenica sera, dopo le partite. E avere un’istruzione, un lavoro, un’autonomia economica può aiutarti a uscirne, ma non ti evita di finirci dentro. «Ho visto un sacco di infermiere che ci sono cascate: il lavoro di cura se lo portano anche negli affetti» dice Orietta Paciucci, del Centro antiviolenza dell’Aquila, molto preoccupata che i fondi post terremoto per le donne maltrattate finiscano alla Curia, «più interessata a salvare la famiglia che le vittime». Al centro Safiya di Polignano a Mare ho incontrato
tre donne: due sui cinquanta, senza grandi titoli di studio, inguaiate coi soldi, ma finalmente libere dai loro carnefici; l’altra, giovane, borghese, laureata, ancora impigliata in un matrimonio violento. Quando raccontava il suo caso, le cinquantenni annuivano: quella storia, con poche varianti, era la loro. Il Safiya rischia di chiudere. A Polignano, con i fondi della regione amministrata da Nichi Vendola, il comune di centrodestra ha aperto un centro antiviolenza. Il Safiya non ha partecipato al bando perché non ha la struttura gigantistica richiesta. C’è il rischio che «l’antiviolenza» diventi un business
per le cooperative più inserite o finisca tra le paterne braccia della Chiesa o di quelle amministrazioni pubbliche che trattano la violenza di genere come un disagio sociale qualsiasi. A Belluno,
la casa rifugio è smantellata per mancanza di fondi. E mentre il Consiglio d’Europa raccomanda all’Italia di garantire 5.700 posti letto alle donne maltrattate, ce ne sono solo 500.
«La prima volta che mi ha dato due schiaffi gli avevo chiesto di tenere in braccio la nostra prima figlia, perché ero stanca morta. Rimasi senza parole» racconta Marianna, 36 anni, rumena, assunta
in una coop di pulizie, a lungo ospite della casa rifugio di Differenza Donna. Non fu uno scatto di rabbia, ma l’inizio di un calvario. Che, in tribunale, il marito spiegò al giudice sostenendo l’inferiorità della donna. Violentava Marianna davanti ai figli per insegnarle il vero ruolo delle mogli. Succede spesso, durante le gravidanze (soprattutto precoci) o dopo la nascita del primo figlio, che certi mariti mostrino la loro vera faccia. La fragilità della madre, l’antagonismo con il neonato, i dubbi sulla paternità e la certezza di avere la donna in pugno sono il lasciapassare. Ma perché il copione è sempre lo stesso? Dove l’hanno imparato? I figli e le figlie di famiglie violente hanno una maggiore possibilità di riprodurre quello che hanno visto.
Ma perché anche chi viene da una famiglia normale diventa una vittima o un carnefice?
Patrizia Romito, psicologo sociale dell’Università di Trieste, un’autorità sulla violenza di genere, dice che ci sono diverse interpretazioni e nessuna esclude l’altra. E approfondisce: «La cultura della colonizzazione è organizzata in modo che chi è dominato non percepisca fino in fondo la sua oppressione, anche perché il dominatore fa di tutto per impedirglielo. E la cultura coinvolge fenomeni lontani fra loro. Una ricerca sulla distribuzione dei serial killer negli Stati Uniti dimostra che varia in base alla legittimazione della violenza nei diversi Stati: cresce dove ci sono tifoserie agguerrite, o punizioni corporali consentite. Ma la cultura si cambia, con l’educazione. All’Università, abbiamo un sito per adolescenti, www2.units.it/noallaviolenza, dove smontiamo gli stereotipi maschili e femminili». Per esempio? «La gelosia del fidanzato o la reputazione femminile. Valori in rimonta, fra le ragazze».

DA Venerdì di Repubblica 02.03.12

"Tre anni da precari per i Bronzi di Riace", di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

Se finisce come con la vecchia cartolina che celebrava il ponte di Messina, stiamo freschi: addio ponte, resta solo la cartolina. Anche i Bronzi di Riace hanno avuto la loro cartolina celebrativa: per i 150 anni dell’Unità. Ma sono ancora sdraiati nell’androne del Consiglio regionale perché il «loro» museo, che doveva essere riaperto il 17 marzo 2011, è ancora chiuso.
Mancano i soldi e l’impresa se ne è andata. Ieri pomeriggio il governatore Giuseppe Scopelliti ha diffuso un comunicato rasserenante. Titolo: «Finalmente saranno completati i lavori del Museo Nazionale della Magna Grecia». Esordio: «Abbiamo reperito, in un gioco di squadra con il Governo Nazionale, i fondi necessari per ultimare i lavori…». Due righe sotto, il ritocco: «il Cipe valuterà nei prossimi giorni l’assegnazione di 6 milioni di euro che si aggiungeranno ai 5 milioni già previsti dalla Regione…» Cosa vuol dire «valuterà»? Cosa vuol dire «previsti»? Ci sono o non ci sono, i soldi?
In riva allo Stretto non è che si fidino più molto degli impegni. La stessa sovrintendente Simonetta Bonomi, una padovana che ha seguito passo passo il restauro dell’edificio progettato dall’architetto del Duce Marcello Piacentini, dopo tante delusioni è scettica quanto San Tommaso: «Spero che stavolta sia vero. Dopo avere visto tanti rinvii, però, insomma…».
Ma cominciamo dall’inizio. Quelle che diversi studiosi considerano come Salvatore Settis «le più belle statue greche di bronzo del mondo, al punto che neppure al museo di Atene c’è niente di simile», sono da tempo al centro di un dibattito che ha assunto spesso i toni di uno scontro frontale. Di qua chi li considera un patrimonio dell’umanità appartenente allo Stato italiano (il più brusco è Vittorio Sgarbi: «Sono di tutti, mica dei reggini!») e dunque da mettere a disposizione con le cautele del caso di una platea più vasta di visitatori («È inutile lasciarli lì, sotto la polvere», si è avventurato a dire il direttore generale del ministero Mario Resca) di là i calabresi che, davanti alla sola ipotesi che il «loro» Bronzi potessero essere spostati, per esempio alla Maddalena per il G8 come avrebbe voluto Silvio Berlusconi, si sentono rizzare i capelli in testa: «Giù le mani!»
Fatto sta che dopo essere stati visti, ammirati, venerati a Firenze e a Roma da un milione di visitatori subito dopo il restauro che li aveva restituiti alla loro solenne bellezza dopo il fortunoso recupero di due sub nel mare di Riace (il soprintendente toscano fu costretto a un appello tv per arginare le folle giacché il personale era «sottoposto a turni di lavoro massacranti in condizioni disumane») i due «wonderful bronzes» sono stati via via un po’ dimenticati.
Troppo «lontana» Reggio Calabria, troppo scarsi e scadenti i collegamenti aerei e ferroviari, troppo caotica e pericolosa l’autostrada Salerno-Reggio ingombra di cantieri che non si chiudono mai. Fatto sta che, come scoprì Antonietta
Catanese sul Quotidiano, in tutto il 2008 le due statue avevano avuto 130 mila visitatori di cui solo 50.085 a pagamento: un terzo dello zoo di Pistoia. Numero calato ulteriormente nel 2009, chiuso alla vigilia di Natale con il trasferimento dei due guerrieri a palazzo Campanella, sede del «Consiglio» calabrese.
Era sembrata quella, alla Bonomi, la soluzione giusta: no a prestiti al Louvre, a Roma o Napoli e men che meno a Palazzo Chigi per una passarella internazionale. Meglio l’offerta dell’allora presidente dell’assemblea regionale, Giuseppe Bova: allestire nel grande androne di palazzo Campanella una sala dalla parete di vetro dietro la quale i due Bronzi, sdraiati come pazienti ricoverati all’ospedale, fossero insieme sottoposti a un check-up ed esposti per il tempo strettamente necessario, un anno, alle visite dei turisti.
Il check-up è andato bene: nonostante alcune micro-fratture e i danni provocati, spiega la sovrintendente, «dall’aria di Reggio Calabria, che tiene insieme il salso del mare, lo smog del traffico automobilistico e certe polveri dell’Etna», i magnifici guerrieri sono in forma. Ciò che è andato male è il restauro dell’edificio che avrebbe dovuto essere completato in tempi strettissimi così da riaprire come dicevamo, alla presenza forse di Napolitano, il 17 marzo 2011, 150° della proclamazione dell’Unità.
Sulle prime, sembrò andare tutto benissimo. Traslocati i dipendenti in 7 appartamenti sparsi per la città, trasferiti i Bronzi e il resto della splendida collezione a palazzo Campanella (il meglio) e in un deposito, l’impresa incaricata di ristrutturare il palazzo e consolidarlo con tutte le garanzie antisismiche, la Cobar, lavorò a ritmo forsennato. Fino a 250 operai, geometri, manovali, capi mastri, trafficavano febbrili per mesi per tre turni al giorno, notti comprese, spesso anche il sabato e la domenica, a costo di pagare astronomici straordinari.
Pareva fatta. Pareva che stavolta la maledizione del Sud incapace di rispettare i tempi fosse sconfitta. Poi, di colpo, finirono i soldi. Dice qualche (altissima) linguaccia ministeriale che «è successo quel che succede sempre: rincari, rincari, rincari». Dice la Bonomi che no, su consiglio degli esperti convocati proprio per evitare errori, «sono state via via aggiunte opere non previste. La bellissima copertura di vetro del cortile interno, la climatizzazione speciale che offra alle statue la massima garanzia, la camera dove i visitatori dovranno fermarsi un minuto per essere igienizzati prima di entrare nella stanza…».
Fatto sta che i quasi 18 milioni di euro iniziali sono finiti, l’impresa si è trovata in rosso per 6 milioni e a un certo punto, visto che i soldi non arrivavano, ha piantato lì tutto e se n’è andata. Risultato: mentre i Bronzi continuavano ad essere sfruttati come simbolo della Calabria anche con uno spot tivù contestatissimo dal «Quotidiano di Calabria» e poi dal «Corriere della Calabria» e da intellettuali calabresi come Settis o Battista Sangineto (che se la prese con l’«uso» delle statue per la reclame della Renault, come marchio di uova e addirittura per un fumetto porno) la riapertura del museo è stata via via spostata. Prima a maggio 2011 e poi in autunno e poi al 2012 e via così.
Al punto che, per chiudere il cantiere e preparare l’allestimento con quei 5 milioni promessi dalla Regione, se anche i soldi arrivassero davvero domani mattina (auguri!) come pare sia stato promesso anche dal ministro Fabrizio Barca, la stessa sovrintendente ammette che per aprir le porte al primo visitatore ci vorrebbero «almeno sei mesi». Per capirci: minimo minimo si va all’autunno. Anniversario del francobollo che celebrava la riapertura.
E a questo punto, quali che siano le responsabilità (la Regione, il ministero, il governo…) si torna al tema: possibile che non si riesca mai a rispettare i tempi? Valeva la pena, per rispetto dei timori calabresi d’uno «scippo», di tenere per tre lunghi, interminabili anni quelle due statue che sarebbero venerate non solo a Roma o a Napoli ma al Louvre e all’Ermitage di San Pietroburgo, al British Museum e al Metropolitan di New York, sdraiate nell’androne del consiglio regionale calabrese?

Il Corriere della Sera 02.03.12

“Tre anni da precari per i Bronzi di Riace”, di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

Se finisce come con la vecchia cartolina che celebrava il ponte di Messina, stiamo freschi: addio ponte, resta solo la cartolina. Anche i Bronzi di Riace hanno avuto la loro cartolina celebrativa: per i 150 anni dell’Unità. Ma sono ancora sdraiati nell’androne del Consiglio regionale perché il «loro» museo, che doveva essere riaperto il 17 marzo 2011, è ancora chiuso.
Mancano i soldi e l’impresa se ne è andata. Ieri pomeriggio il governatore Giuseppe Scopelliti ha diffuso un comunicato rasserenante. Titolo: «Finalmente saranno completati i lavori del Museo Nazionale della Magna Grecia». Esordio: «Abbiamo reperito, in un gioco di squadra con il Governo Nazionale, i fondi necessari per ultimare i lavori…». Due righe sotto, il ritocco: «il Cipe valuterà nei prossimi giorni l’assegnazione di 6 milioni di euro che si aggiungeranno ai 5 milioni già previsti dalla Regione…» Cosa vuol dire «valuterà»? Cosa vuol dire «previsti»? Ci sono o non ci sono, i soldi?
In riva allo Stretto non è che si fidino più molto degli impegni. La stessa sovrintendente Simonetta Bonomi, una padovana che ha seguito passo passo il restauro dell’edificio progettato dall’architetto del Duce Marcello Piacentini, dopo tante delusioni è scettica quanto San Tommaso: «Spero che stavolta sia vero. Dopo avere visto tanti rinvii, però, insomma…».
Ma cominciamo dall’inizio. Quelle che diversi studiosi considerano come Salvatore Settis «le più belle statue greche di bronzo del mondo, al punto che neppure al museo di Atene c’è niente di simile», sono da tempo al centro di un dibattito che ha assunto spesso i toni di uno scontro frontale. Di qua chi li considera un patrimonio dell’umanità appartenente allo Stato italiano (il più brusco è Vittorio Sgarbi: «Sono di tutti, mica dei reggini!») e dunque da mettere a disposizione con le cautele del caso di una platea più vasta di visitatori («È inutile lasciarli lì, sotto la polvere», si è avventurato a dire il direttore generale del ministero Mario Resca) di là i calabresi che, davanti alla sola ipotesi che il «loro» Bronzi potessero essere spostati, per esempio alla Maddalena per il G8 come avrebbe voluto Silvio Berlusconi, si sentono rizzare i capelli in testa: «Giù le mani!»
Fatto sta che dopo essere stati visti, ammirati, venerati a Firenze e a Roma da un milione di visitatori subito dopo il restauro che li aveva restituiti alla loro solenne bellezza dopo il fortunoso recupero di due sub nel mare di Riace (il soprintendente toscano fu costretto a un appello tv per arginare le folle giacché il personale era «sottoposto a turni di lavoro massacranti in condizioni disumane») i due «wonderful bronzes» sono stati via via un po’ dimenticati.
Troppo «lontana» Reggio Calabria, troppo scarsi e scadenti i collegamenti aerei e ferroviari, troppo caotica e pericolosa l’autostrada Salerno-Reggio ingombra di cantieri che non si chiudono mai. Fatto sta che, come scoprì Antonietta
Catanese sul Quotidiano, in tutto il 2008 le due statue avevano avuto 130 mila visitatori di cui solo 50.085 a pagamento: un terzo dello zoo di Pistoia. Numero calato ulteriormente nel 2009, chiuso alla vigilia di Natale con il trasferimento dei due guerrieri a palazzo Campanella, sede del «Consiglio» calabrese.
Era sembrata quella, alla Bonomi, la soluzione giusta: no a prestiti al Louvre, a Roma o Napoli e men che meno a Palazzo Chigi per una passarella internazionale. Meglio l’offerta dell’allora presidente dell’assemblea regionale, Giuseppe Bova: allestire nel grande androne di palazzo Campanella una sala dalla parete di vetro dietro la quale i due Bronzi, sdraiati come pazienti ricoverati all’ospedale, fossero insieme sottoposti a un check-up ed esposti per il tempo strettamente necessario, un anno, alle visite dei turisti.
Il check-up è andato bene: nonostante alcune micro-fratture e i danni provocati, spiega la sovrintendente, «dall’aria di Reggio Calabria, che tiene insieme il salso del mare, lo smog del traffico automobilistico e certe polveri dell’Etna», i magnifici guerrieri sono in forma. Ciò che è andato male è il restauro dell’edificio che avrebbe dovuto essere completato in tempi strettissimi così da riaprire come dicevamo, alla presenza forse di Napolitano, il 17 marzo 2011, 150° della proclamazione dell’Unità.
Sulle prime, sembrò andare tutto benissimo. Traslocati i dipendenti in 7 appartamenti sparsi per la città, trasferiti i Bronzi e il resto della splendida collezione a palazzo Campanella (il meglio) e in un deposito, l’impresa incaricata di ristrutturare il palazzo e consolidarlo con tutte le garanzie antisismiche, la Cobar, lavorò a ritmo forsennato. Fino a 250 operai, geometri, manovali, capi mastri, trafficavano febbrili per mesi per tre turni al giorno, notti comprese, spesso anche il sabato e la domenica, a costo di pagare astronomici straordinari.
Pareva fatta. Pareva che stavolta la maledizione del Sud incapace di rispettare i tempi fosse sconfitta. Poi, di colpo, finirono i soldi. Dice qualche (altissima) linguaccia ministeriale che «è successo quel che succede sempre: rincari, rincari, rincari». Dice la Bonomi che no, su consiglio degli esperti convocati proprio per evitare errori, «sono state via via aggiunte opere non previste. La bellissima copertura di vetro del cortile interno, la climatizzazione speciale che offra alle statue la massima garanzia, la camera dove i visitatori dovranno fermarsi un minuto per essere igienizzati prima di entrare nella stanza…».
Fatto sta che i quasi 18 milioni di euro iniziali sono finiti, l’impresa si è trovata in rosso per 6 milioni e a un certo punto, visto che i soldi non arrivavano, ha piantato lì tutto e se n’è andata. Risultato: mentre i Bronzi continuavano ad essere sfruttati come simbolo della Calabria anche con uno spot tivù contestatissimo dal «Quotidiano di Calabria» e poi dal «Corriere della Calabria» e da intellettuali calabresi come Settis o Battista Sangineto (che se la prese con l’«uso» delle statue per la reclame della Renault, come marchio di uova e addirittura per un fumetto porno) la riapertura del museo è stata via via spostata. Prima a maggio 2011 e poi in autunno e poi al 2012 e via così.
Al punto che, per chiudere il cantiere e preparare l’allestimento con quei 5 milioni promessi dalla Regione, se anche i soldi arrivassero davvero domani mattina (auguri!) come pare sia stato promesso anche dal ministro Fabrizio Barca, la stessa sovrintendente ammette che per aprir le porte al primo visitatore ci vorrebbero «almeno sei mesi». Per capirci: minimo minimo si va all’autunno. Anniversario del francobollo che celebrava la riapertura.
E a questo punto, quali che siano le responsabilità (la Regione, il ministero, il governo…) si torna al tema: possibile che non si riesca mai a rispettare i tempi? Valeva la pena, per rispetto dei timori calabresi d’uno «scippo», di tenere per tre lunghi, interminabili anni quelle due statue che sarebbero venerate non solo a Roma o a Napoli ma al Louvre e all’Ermitage di San Pietroburgo, al British Museum e al Metropolitan di New York, sdraiate nell’androne del consiglio regionale calabrese?

Il Corriere della Sera 02.03.12

"Liberalizzazioni ancora a favore dei consumatori", di Anna Rita Fioroni*

E’ stato approvato l’emendamento PD che prevede la cancellazione automatica senza oneri per il cittadino delle ipoteche perenti, ovvero di quelle ipoteche che rimangono formalmente iscritte nei registri immobiliari anche se non sono state rinnovate dal creditore perche’ il debito si e’ estinto. Questo vale anche per i casi in cui rimane l’ iscrizione formale nonostante sia trascorso il termine ventennale. Sempre per imprese e consumatori, è passato l’emendamento che introduce la nullita’ delle clausole che prevedono in favore delle Banche commissioni aggiuntive per la concessione di linee di credito e per il loro mantenimento, il loro utilizzo anche nel caso di sconfinamento in assenza di affidamento o oltre i limiti del fido. Questo significa che verranno eliminate tutte le clausole che introducono in modo non trasparente balzelli ed oneri impropri a carico dei clienti. E ancora nel senso della maggior tutela per i consumatori, e’ stato approvato il nostro emendamento che prevede la restituzione dei premi delle polizze vita pagati e relativi al periodo residuo del mutuo nel caso in cui lo stesso e’ stato estinto anticipatamente.

*Senatrice PD

******

“Chi ha paura della concorrenza” di ALBERTO BISIN

Il comitato di presidenza dell´Abi, l´Associazione Bancaria Italiana, si è dimesso in protesta contro il decreto liberalizzazioni passato ieri al Senato. L´Abi è il sindacato del sistema bancario e fa il proprio mestiere. Combatte quelle liberalizzazioni che colpiscono le rendite del sistema bancario. In questo particolare caso, la norma che ha scatenato la reazione dell´Abi è quella che cancella le commissioni sugli affidamenti. Come la norma che impone conti correnti gratuiti e senza spese per alcune categorie di pensionati, questa norma agisce direttamente sul sistema dei prezzi dell´industria bancaria. Non vi è alcun dubbio che interventi diretti sui prezzi non siano lo strumento di politica industriale più efficiente. Questa è certamente una norma migliorabile, probabilmente dettata dalla fretta.
Reagire come ha fatto l´Abi, però, suggerendo con velata minaccia, che la norma “costringerà a rivedere il sistema del credito a imprese e famiglie” e che essa mette in discussione “la salvaguardia dell´occupazione” di 300 mila bancari, a me pare francamente inaccettabile. È ben vero che taxisti e farmacisti, per non parlare di professionisti e altre lobby, hanno ottenuto vari gradi di ripensamento delle norme di liberalizzazione che li riguardano alzando la voce. L´associazione delle banche deve aver pensato che giovasse alla tutela delle rendite del sistema bancario accodarsi all´alzata di toni generale nel caravanserraglio.
Ma la reazione dell´associazione delle banche è, se possibile ancora più inaccettabile di quella delle altre categorie. Prima di tutto, infatti, il buon funzionamento del sistema bancario è assolutamente fondamentale nel processo di risanamento dell´economia del Paese che il governo Monti ha intrapreso. E, soprattutto, il settore bancario italiano è molto lontano dalla competitività necessaria perché possa contribuire al risanamento e alla crescita del Paese.
È bene essere chiari e diretti su questo punto: le banche italiane sono protette da vari meccanismi formali e sostanziali di controllo che garantiscono gli azionisti di maggioranza e gli amministratori, indipendentemente dai risultati di gestione, in cambio di una commistione incestuosa con la politica. La situazione del sistema bancario non è poi così cambiata dai tempi del Governatore Fazio, della scalata Unipol, e del «Abbiamo una nostra banca». Le Fondazioni bancarie, con vari accordi di sindacato e partecipazioni incrociate, continuano a controllare la maggior parte degli istituti di credito, sostanzialmente senza che il proprio operato sia sindacabile dagli (altri) azionisti. La storia recente di Unicredit, dalla cacciata di Alessandro Profumo alle notizie di questi giorni sull´avvicendamento al vertice dell´istituto, non può essere letta che come una serie di colpi di mano delle Fondazioni per garantire a sé il controllo della banca a qualunque costo. Un costo enorme, infatti, sotto gli occhi disattenti ed inattivi del Tesoro.
Non per nulla il sistema bancario italiano, nel corso della crisi, è andato in fibrillazione nel tentativo di ricapitalizzarsi sul mercato senza diluire la posizione dell´azionariato di controllo. Un buon esempio, a questo proposito, sono le manovre del Monte dei Paschi e della politica clientelare che intorno ad esso gira da tempo immemorabile, dopo che la banca ha perso 4 miliardi di euro ed accumulato più di un miliardo di debiti dal 2010; sempre sotto gli occhi disattenti ed inattivi del Tesoro.
La gestione ed il controllo del sistema bancario, al riparo dalla concorrenza sui mercati dei capitali, ha effetti negativi importanti sul sistema economico del Paese. Non bisogna immaginare solo una questione di potere, di poltrone, e di cattiva politica. Tutt´altro. Un sistema bancario come il nostro non fa bene il proprio lavoro: invece di distribuire il credito alle imprese sulla base del loro rendimento atteso, tenderà a farlo con un occhio a vari meccanismi clientelari; invece di investire nelle imprese private, tenderà a favorire investimenti nel pubblico (oggi, ad esempio, nel debito pubblico del Paese), per ingraziarsi la politica. Ma soprattutto, la mancanza di concorrenza del sistema bancario permette che operazioni poco trasparenti e poco corrette, contro gli interessi dei clienti, siano pratica comune nell´industria. Senza bisogno di tornare ai casi Cirio e Parmalat, o ai bond Argentini, casi in cui le banche rifilano ai propri clienti titoli di cui esse desiderano liberarsi o derivati e cartolarizzazioni a rendimenti inferiori a quelli di mercato, sono all´ordine del giorno. Alessandro Penati ne ha recentemente documentati vari e con dovizia di particolari, su queste colonne. Uno degli ultimi esempi è il caso di Unicredit che ha «caricato una commissione dell´1% all´anno per una semplice obbligazione, quando si paga solo lo 0,2% di commissioni annue per investire nell´indice dei bond europei con un Etf». In effetti i conti tornano: proteggere rendite di questo tipo val bene le dimissioni del comitato di presidenza dell´associazione di categoria.

La Stampa 02.03.12

“Liberalizzazioni ancora a favore dei consumatori”, di Anna Rita Fioroni*

E’ stato approvato l’emendamento PD che prevede la cancellazione automatica senza oneri per il cittadino delle ipoteche perenti, ovvero di quelle ipoteche che rimangono formalmente iscritte nei registri immobiliari anche se non sono state rinnovate dal creditore perche’ il debito si e’ estinto. Questo vale anche per i casi in cui rimane l’ iscrizione formale nonostante sia trascorso il termine ventennale. Sempre per imprese e consumatori, è passato l’emendamento che introduce la nullita’ delle clausole che prevedono in favore delle Banche commissioni aggiuntive per la concessione di linee di credito e per il loro mantenimento, il loro utilizzo anche nel caso di sconfinamento in assenza di affidamento o oltre i limiti del fido. Questo significa che verranno eliminate tutte le clausole che introducono in modo non trasparente balzelli ed oneri impropri a carico dei clienti. E ancora nel senso della maggior tutela per i consumatori, e’ stato approvato il nostro emendamento che prevede la restituzione dei premi delle polizze vita pagati e relativi al periodo residuo del mutuo nel caso in cui lo stesso e’ stato estinto anticipatamente.

*Senatrice PD

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“Chi ha paura della concorrenza” di ALBERTO BISIN

Il comitato di presidenza dell´Abi, l´Associazione Bancaria Italiana, si è dimesso in protesta contro il decreto liberalizzazioni passato ieri al Senato. L´Abi è il sindacato del sistema bancario e fa il proprio mestiere. Combatte quelle liberalizzazioni che colpiscono le rendite del sistema bancario. In questo particolare caso, la norma che ha scatenato la reazione dell´Abi è quella che cancella le commissioni sugli affidamenti. Come la norma che impone conti correnti gratuiti e senza spese per alcune categorie di pensionati, questa norma agisce direttamente sul sistema dei prezzi dell´industria bancaria. Non vi è alcun dubbio che interventi diretti sui prezzi non siano lo strumento di politica industriale più efficiente. Questa è certamente una norma migliorabile, probabilmente dettata dalla fretta.
Reagire come ha fatto l´Abi, però, suggerendo con velata minaccia, che la norma “costringerà a rivedere il sistema del credito a imprese e famiglie” e che essa mette in discussione “la salvaguardia dell´occupazione” di 300 mila bancari, a me pare francamente inaccettabile. È ben vero che taxisti e farmacisti, per non parlare di professionisti e altre lobby, hanno ottenuto vari gradi di ripensamento delle norme di liberalizzazione che li riguardano alzando la voce. L´associazione delle banche deve aver pensato che giovasse alla tutela delle rendite del sistema bancario accodarsi all´alzata di toni generale nel caravanserraglio.
Ma la reazione dell´associazione delle banche è, se possibile ancora più inaccettabile di quella delle altre categorie. Prima di tutto, infatti, il buon funzionamento del sistema bancario è assolutamente fondamentale nel processo di risanamento dell´economia del Paese che il governo Monti ha intrapreso. E, soprattutto, il settore bancario italiano è molto lontano dalla competitività necessaria perché possa contribuire al risanamento e alla crescita del Paese.
È bene essere chiari e diretti su questo punto: le banche italiane sono protette da vari meccanismi formali e sostanziali di controllo che garantiscono gli azionisti di maggioranza e gli amministratori, indipendentemente dai risultati di gestione, in cambio di una commistione incestuosa con la politica. La situazione del sistema bancario non è poi così cambiata dai tempi del Governatore Fazio, della scalata Unipol, e del «Abbiamo una nostra banca». Le Fondazioni bancarie, con vari accordi di sindacato e partecipazioni incrociate, continuano a controllare la maggior parte degli istituti di credito, sostanzialmente senza che il proprio operato sia sindacabile dagli (altri) azionisti. La storia recente di Unicredit, dalla cacciata di Alessandro Profumo alle notizie di questi giorni sull´avvicendamento al vertice dell´istituto, non può essere letta che come una serie di colpi di mano delle Fondazioni per garantire a sé il controllo della banca a qualunque costo. Un costo enorme, infatti, sotto gli occhi disattenti ed inattivi del Tesoro.
Non per nulla il sistema bancario italiano, nel corso della crisi, è andato in fibrillazione nel tentativo di ricapitalizzarsi sul mercato senza diluire la posizione dell´azionariato di controllo. Un buon esempio, a questo proposito, sono le manovre del Monte dei Paschi e della politica clientelare che intorno ad esso gira da tempo immemorabile, dopo che la banca ha perso 4 miliardi di euro ed accumulato più di un miliardo di debiti dal 2010; sempre sotto gli occhi disattenti ed inattivi del Tesoro.
La gestione ed il controllo del sistema bancario, al riparo dalla concorrenza sui mercati dei capitali, ha effetti negativi importanti sul sistema economico del Paese. Non bisogna immaginare solo una questione di potere, di poltrone, e di cattiva politica. Tutt´altro. Un sistema bancario come il nostro non fa bene il proprio lavoro: invece di distribuire il credito alle imprese sulla base del loro rendimento atteso, tenderà a farlo con un occhio a vari meccanismi clientelari; invece di investire nelle imprese private, tenderà a favorire investimenti nel pubblico (oggi, ad esempio, nel debito pubblico del Paese), per ingraziarsi la politica. Ma soprattutto, la mancanza di concorrenza del sistema bancario permette che operazioni poco trasparenti e poco corrette, contro gli interessi dei clienti, siano pratica comune nell´industria. Senza bisogno di tornare ai casi Cirio e Parmalat, o ai bond Argentini, casi in cui le banche rifilano ai propri clienti titoli di cui esse desiderano liberarsi o derivati e cartolarizzazioni a rendimenti inferiori a quelli di mercato, sono all´ordine del giorno. Alessandro Penati ne ha recentemente documentati vari e con dovizia di particolari, su queste colonne. Uno degli ultimi esempi è il caso di Unicredit che ha «caricato una commissione dell´1% all´anno per una semplice obbligazione, quando si paga solo lo 0,2% di commissioni annue per investire nell´indice dei bond europei con un Etf». In effetti i conti tornano: proteggere rendite di questo tipo val bene le dimissioni del comitato di presidenza dell´associazione di categoria.

La Stampa 02.03.12

"Una Rai nuova e pubblica", di Licia Conte

La Rai è di nuovo e sempre all’attenzione dei media, ma l’aria è cambiata: e non solo perché non si trova più chi la difenda. La novità è semmai un’altra: sulla grande stampa non si chiede più la privatizzazione come unica medicina per la grande malata.
Non la chiede in un editoriale sul Corriere della sera di qualche giorno fa Massimo Mucchetti, che sull’esempio francese sembra invitare la mano pubblica a «far da levatrice all’iniziativa privata nella fiction, nei format e nell’animazione». Non la chiedono gli investitori pubblicitari che dicono (conta la proposta ma anche il luogo in cui viene avanzata) di volere una Rai ancora pubblica, ma retta da una Fondazione che la preservi dalla lottizzazione partitica e con un canale senza spot pagato dal canone. Altra importante novità: il Pd si chiama fuori dalle nomine, sconfessa la lottizzazione. Che faranno Pdl e altri? E che cosa possono fare se davvero il Pd si ritira? Comincia a delinearsi così un quadro nel quale è possibile ripensare un vero servizio pubblico della comunicazione. Le donne di Se non ora quando lo hanno chiesto per prime dal palco di piazza del Popolo l’11 dicembre scorso e le giornaliste di Giulia lo hanno ribadito in una lettera aperta alla ministra Fornero. Non vogliamo entrare nel merito per definire l’architettura della nuova possibile azienda radiotelevisiva pubblica: quanti canali, e quanti senza spot, e come organizzati. Ribadiamo però quel che abbiamo detto a piazza del Popolo: un servizio pubblico deve avere una missione. Deve avere cioè un nucleo profondo e forte di identità. Solo così potrà preservarsi, difendendosi dall’invadenza degli innumerevoli soggetti interessati a utilizzarne la forza comunicativa a fini di per sé leciti, ma sentiti in fin dei conti come impropri da chi paga il canone. Avere una missione significa avere il mandato ineludibile a introdurre nella programmazione valori e idee che non sono correnti, che non si trovano sul mercato. Insomma, valori e idee inediti. Se quei valori e quelle idee fossero moneta corrente, ossia già senso comune, che bisogno ci sarebbe del servizio pubblico? Ci fa piacere registrare anche qui una consonanza con chi ha certamente grande esperienza sulla questione. Con Lorenzo Sassoli De Bianchi, presidente Upa, diciamo (e non sapremmo dirlo meglio) che nel servizio pubblico servono: «Format e contenuti liberi dagli obiettivi commerciali e che di conseguenza sappiano far evolvere l’immaginario collettivo esattamente così come la Rai fece alle origini della sua storia».
Si tratta di individuare la missione, una mission – si dice ora – all’altezza di quella che negli anni Cinquanta e Sessanta regalò una lingua agli italiani. Al servizio pubblico, dunque, a quella parte della comunicazione di massa che continuerà a parlare in italiano e che deve essere fabbricata in Italia, le donne dal palco di piazza del Popolo hanno chiesto di azzerare tutto e ripartire per una nuova avventura. Attraverso informazione, educazione, divertimento, attraverso tutte le forme della moderna comunicazione, il servizio pubblico faccia vivere l’idea non più neutra di popolo.
Promuova una cultura che affermi e faccia diventare senso comune ciò che già esiste ma non viene né visto, né elaborato: una società composta da due generi, donne e uomini: con le vite vere, i desideri, i progetti degli uni e delle altre. Dal governo Monti, che si appresta a metter mano alla governance della Rai, ci si attende fin da subito nomine di donne di alto presigio e che sentano l’urgenza di ridefinire la missione di quell’azienda.

L’Unità 02.03.12

“Una Rai nuova e pubblica”, di Licia Conte

La Rai è di nuovo e sempre all’attenzione dei media, ma l’aria è cambiata: e non solo perché non si trova più chi la difenda. La novità è semmai un’altra: sulla grande stampa non si chiede più la privatizzazione come unica medicina per la grande malata.
Non la chiede in un editoriale sul Corriere della sera di qualche giorno fa Massimo Mucchetti, che sull’esempio francese sembra invitare la mano pubblica a «far da levatrice all’iniziativa privata nella fiction, nei format e nell’animazione». Non la chiedono gli investitori pubblicitari che dicono (conta la proposta ma anche il luogo in cui viene avanzata) di volere una Rai ancora pubblica, ma retta da una Fondazione che la preservi dalla lottizzazione partitica e con un canale senza spot pagato dal canone. Altra importante novità: il Pd si chiama fuori dalle nomine, sconfessa la lottizzazione. Che faranno Pdl e altri? E che cosa possono fare se davvero il Pd si ritira? Comincia a delinearsi così un quadro nel quale è possibile ripensare un vero servizio pubblico della comunicazione. Le donne di Se non ora quando lo hanno chiesto per prime dal palco di piazza del Popolo l’11 dicembre scorso e le giornaliste di Giulia lo hanno ribadito in una lettera aperta alla ministra Fornero. Non vogliamo entrare nel merito per definire l’architettura della nuova possibile azienda radiotelevisiva pubblica: quanti canali, e quanti senza spot, e come organizzati. Ribadiamo però quel che abbiamo detto a piazza del Popolo: un servizio pubblico deve avere una missione. Deve avere cioè un nucleo profondo e forte di identità. Solo così potrà preservarsi, difendendosi dall’invadenza degli innumerevoli soggetti interessati a utilizzarne la forza comunicativa a fini di per sé leciti, ma sentiti in fin dei conti come impropri da chi paga il canone. Avere una missione significa avere il mandato ineludibile a introdurre nella programmazione valori e idee che non sono correnti, che non si trovano sul mercato. Insomma, valori e idee inediti. Se quei valori e quelle idee fossero moneta corrente, ossia già senso comune, che bisogno ci sarebbe del servizio pubblico? Ci fa piacere registrare anche qui una consonanza con chi ha certamente grande esperienza sulla questione. Con Lorenzo Sassoli De Bianchi, presidente Upa, diciamo (e non sapremmo dirlo meglio) che nel servizio pubblico servono: «Format e contenuti liberi dagli obiettivi commerciali e che di conseguenza sappiano far evolvere l’immaginario collettivo esattamente così come la Rai fece alle origini della sua storia».
Si tratta di individuare la missione, una mission – si dice ora – all’altezza di quella che negli anni Cinquanta e Sessanta regalò una lingua agli italiani. Al servizio pubblico, dunque, a quella parte della comunicazione di massa che continuerà a parlare in italiano e che deve essere fabbricata in Italia, le donne dal palco di piazza del Popolo hanno chiesto di azzerare tutto e ripartire per una nuova avventura. Attraverso informazione, educazione, divertimento, attraverso tutte le forme della moderna comunicazione, il servizio pubblico faccia vivere l’idea non più neutra di popolo.
Promuova una cultura che affermi e faccia diventare senso comune ciò che già esiste ma non viene né visto, né elaborato: una società composta da due generi, donne e uomini: con le vite vere, i desideri, i progetti degli uni e delle altre. Dal governo Monti, che si appresta a metter mano alla governance della Rai, ci si attende fin da subito nomine di donne di alto presigio e che sentano l’urgenza di ridefinire la missione di quell’azienda.

L’Unità 02.03.12