attualità, pari opportunità | diritti

“Violenza: Perché il posto più pericolo per una donna è casa sua”, di Paola Zanuttini

Tutti uguali, gli uomini che fanno male alle loro donne. Che sia male fisico o psicologico, non cambia, perché chi picchia e massacra comincia sempre dalle violenze più subdole, quelle mentali. «Quando mi picchiava attraverso la coperta, pensavo che lo facesse per non farmi troppo male. Poi ho capito che era solo per non lasciarmi i segni: nessuno doveva sapere». La storia di Cinzia e di tante altre che subiscono per venti, trent’anni, ha dell’incredibile. Perché l’escalation della cattiveria e della manipolazione sembra regolata da un meccanismo a orologeria, come se questi uomini avessero letto lo stesso manuale di crudeltà. Ma i referti medici, i rapporti di polizia, le sentenze dimostrano che è tutto vero. Cinzia, 52 anni, è la moglie separata di un ufficiale dell’Aeronautica militare. Dice che la moglie del soldato, se il soldato è di quelli che alzano le mani, è una vittima predestinata. «Lo segui ovunque e tagli i ponti con parenti e amici. Non lavori. Vivi in un ambiente chiuso, conformista e, visti i continui trasferimenti, non stabilisci
l’intimità che consente di confidarti con le altre mogli. Se chiami i carabinieri dopo l’ennesima aggressione, quelli, militari pure loro, minimizzano, ti sconsigliano di fare scandali». L’ho incontrata a Roma, nella sede di Differenza Donna, organizzazione che, da più di vent’anni, si occupa delle vittime della violenza di genere. Lei ci è arrivata grazie a un poliziotto del pronto soccorso di Anzio: la vedeva sempre in ospedale, reduce dai soliti incidenti domestici, e l’ha convinta a sporgere denuncia. Cinzia aveva conosciuto il marito agli esami di maturità: «All’inizio mi faceva pena: si vergognava dei genitori mezzadri. Appena entrato in Aeronautica, l’insicurezza è diventata arroganza: io ero lo zero assoluto. Si era preso i miei soldi guadagnati prima del matrimonio, aveva un bello stipendio, ma mi dava giusto il necessario per la spesa, giorno per giorno. E controllava gli scontrini.
Diceva che era normale. Se obiettavo, botte. Però invisibili. Colpiva la testa, mi schiacciava le costole, mi torceva i polsi, mi soffocava. L’ho sposato perché mi aveva convinto che senza lui non esistevo. Ma prima delle nozze non era così feroce. Non sembrava violento come mio padre». In primo grado, il top gun è stato condannato per maltrattamenti e violenza sessuale. E per detenzione di armi da guerra e munizioni. Che non utilizzava a norma di regolamento: «Dopo il cesareo, non gli andavo più bene, fisicamente. Il sesso è diventato sempre più violento. E, visto che era anche insoddisfatto delle sue dimensioni, usava i proiettili. Diceva che tutte le coppie li usavano e che, se mi davano dolore o disturbi, era colpa mia. Perché ero marcia». Tutto questo si potrebbe liquidare con la follia. Ma allora siamo in pieno Comma 22: o i bombardieri vengono messi in mano a dei
pazzi o imporre queste mostruosità a una moglie non è un comportamento da pazzi. Infatti dalla perizia psichiatrica del marito di Cinzia non è emerso nulla. E, statisticamente, solo il venti per cento dei mariti violenti risulta avere disturbi mentali.
«Non c’entrano l’alcolismo, la follia, il disagio sociale o la disperazione: troppe volte la stampa giustifica un uxoricida sostenendo che era depresso perché lei l’aveva lasciato. Questi elementi possono acutizzare la violenza, che però è già lì» dice l’avvocato Titti Carrano, presidente di D.i.re, rete nazionale
di sessanta centri antiviolenza. E Laura Maffre, responsabile della casa Maree di Roma, aggiunge: «Non sono le menti degli uomini violenti a essere malate, ma la cultura patriarcale, che reputa la donna cosa sua». Seppur dato per morto e sepolto, il patriarcato continua a far danni: secondo una ricerca della Casa delle donne per non subire violenza di Bologna, su 127 morte ammazzate del 2010, oltre la metà risultano uccise dal partner o dall’ex partner; quasi un quarto dal padre, dal fratello o dal figlio; e solo il quattro per cento da sconosciuti. Come dire che il tetto famigliare non è tanto sicuro. Lo aveva già dimostrato l’indagine Istat del 2007: nel 67 per cento dei casi, la violenza ripetuta è inflitta dai partner. Ora l’indagine riparte e vedremo cosa hanno prodotto questi anni di Bunga Bunga. Nei centri antiviolenza di tutta Italia ripetono tutte la stessa cosa: può
capitare a ogni donna, in ogni ambiente, in ogni area geografica. In Inghilterra, il massimo delle violenze si verificano la domenica sera, dopo le partite. E avere un’istruzione, un lavoro, un’autonomia economica può aiutarti a uscirne, ma non ti evita di finirci dentro. «Ho visto un sacco di infermiere che ci sono cascate: il lavoro di cura se lo portano anche negli affetti» dice Orietta Paciucci, del Centro antiviolenza dell’Aquila, molto preoccupata che i fondi post terremoto per le donne maltrattate finiscano alla Curia, «più interessata a salvare la famiglia che le vittime». Al centro Safiya di Polignano a Mare ho incontrato
tre donne: due sui cinquanta, senza grandi titoli di studio, inguaiate coi soldi, ma finalmente libere dai loro carnefici; l’altra, giovane, borghese, laureata, ancora impigliata in un matrimonio violento. Quando raccontava il suo caso, le cinquantenni annuivano: quella storia, con poche varianti, era la loro. Il Safiya rischia di chiudere. A Polignano, con i fondi della regione amministrata da Nichi Vendola, il comune di centrodestra ha aperto un centro antiviolenza. Il Safiya non ha partecipato al bando perché non ha la struttura gigantistica richiesta. C’è il rischio che «l’antiviolenza» diventi un business
per le cooperative più inserite o finisca tra le paterne braccia della Chiesa o di quelle amministrazioni pubbliche che trattano la violenza di genere come un disagio sociale qualsiasi. A Belluno,
la casa rifugio è smantellata per mancanza di fondi. E mentre il Consiglio d’Europa raccomanda all’Italia di garantire 5.700 posti letto alle donne maltrattate, ce ne sono solo 500.
«La prima volta che mi ha dato due schiaffi gli avevo chiesto di tenere in braccio la nostra prima figlia, perché ero stanca morta. Rimasi senza parole» racconta Marianna, 36 anni, rumena, assunta
in una coop di pulizie, a lungo ospite della casa rifugio di Differenza Donna. Non fu uno scatto di rabbia, ma l’inizio di un calvario. Che, in tribunale, il marito spiegò al giudice sostenendo l’inferiorità della donna. Violentava Marianna davanti ai figli per insegnarle il vero ruolo delle mogli. Succede spesso, durante le gravidanze (soprattutto precoci) o dopo la nascita del primo figlio, che certi mariti mostrino la loro vera faccia. La fragilità della madre, l’antagonismo con il neonato, i dubbi sulla paternità e la certezza di avere la donna in pugno sono il lasciapassare. Ma perché il copione è sempre lo stesso? Dove l’hanno imparato? I figli e le figlie di famiglie violente hanno una maggiore possibilità di riprodurre quello che hanno visto.
Ma perché anche chi viene da una famiglia normale diventa una vittima o un carnefice?
Patrizia Romito, psicologo sociale dell’Università di Trieste, un’autorità sulla violenza di genere, dice che ci sono diverse interpretazioni e nessuna esclude l’altra. E approfondisce: «La cultura della colonizzazione è organizzata in modo che chi è dominato non percepisca fino in fondo la sua oppressione, anche perché il dominatore fa di tutto per impedirglielo. E la cultura coinvolge fenomeni lontani fra loro. Una ricerca sulla distribuzione dei serial killer negli Stati Uniti dimostra che varia in base alla legittimazione della violenza nei diversi Stati: cresce dove ci sono tifoserie agguerrite, o punizioni corporali consentite. Ma la cultura si cambia, con l’educazione. All’Università, abbiamo un sito per adolescenti, www2.units.it/noallaviolenza, dove smontiamo gli stereotipi maschili e femminili». Per esempio? «La gelosia del fidanzato o la reputazione femminile. Valori in rimonta, fra le ragazze».

DA Venerdì di Repubblica 02.03.12