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"La nostra colonna sonora", di Massimo Gramellini

La magia della grande musica si scopre quando i grandi cantanti se ne vanno. Ieri milioni di italiani hanno ripercorso in un attimo la propria vita con la colonna sonora di Lucio Dalla, così come avevano fatto alla morte dell’altro Lucio nazionale. Caro amico ti scrivo che nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino e se è una femmina si chiamerà Futura…

Ci sono cascato anch’io ed è stato facile, oltre che bellissimo. Il mio Dalla non è quello che avrei conosciuto di persona in anni recenti, e con il quale ho presentato libri, riso, scherzato, persino polemizzato. Il mio Dalla è la notte prima degli esami. Estate 1979, vigilia della maturità, Dalla e De Gregori in concerto con «Banana Republic» allo stadio Comunale di Torino, davanti a casa mia. Durante il giorno coi miei compagni avevamo studiato in cucinino, dove per un curioso gioco di rimbombi si potevano sentire le prove dei musicisti: sembrava che il sax di Dalla fosse in cortile. Ho il ricordo nettissimo di noi che interrompiamo una poesia del Leopardi per affacciarci al balcone e lasciarci trasportare da un suo assolo di jazz. La sera i compagni telefonarono alle mamme per dire che si sarebbero fermati da me a ripassare. Invece andammo allo stadio, confusi fra altri settantamila, ma col cuore che ballava di paura per il giudizio imminente e dei biglietti particolarmente meschini.

Eravamo nel settore più lontano dal palco e ancora non esistevano i maxischermi: De Gregori era un puntino, Dalla la metà di un puntino. Ma appena abbracciava il sax e ci soffiava dentro si trasformava in un gigante.

E poi, e soprattutto, c’erano le sue canzoni sparate nella notte: «Com’è profondo il mare», «Piazza grande», «Stella di mare» («Tuuuu come me», e quell’uuu gli usciva dalla cassa toracica come un’orchestra di cento elementi), «L’anno che verrà». Le sapevo tutte a memoria, a differenza delle poesie del Leopardi. Quando partì «Cosa sarà» («che ci fa morire a vent’anni anche se vivi fino a cento») guardai il cielo sopra lo stadio e giurai alle stelle che non sarei mai stato un ventenne morto, anzi, avrei fatto di tutto per diventare un centenario vivo. Quella frase cantata a squarciagola alla vigilia dell’esame di maturità segnò a tal punto la mia formazione che il giorno in cui, da adulto, conobbi De Gregori gli dissi che era la più bella che avesse mai scritto. De Gregori concordò sulla bellezza della canzone e aggiunse con un sorriso che purtroppo non era sua, ma di Ron e Lucio: lui l’aveva solo cantata. È stato uno dei momenti più imbarazzanti della mia vita e anche questo lo devo a Dalla.

Chi non lo ha già fatto ieri, può provarci adesso con me. Raccontarsi la vita in un minuto, attraverso le sue canzoni. «4 marzo 1943» (era l’unico cantante di cui tutti sapevamo la data di nascita) e mi rivedo bambino triste e solo davanti alla tv in bianco e nero che trasmette il festival di Sanremo. «Disperato erotico stomp» accompagnò i primi viaggi individuali al centro del sesso, con quella mano che «partiva» e non si sapeva mai bene dove ci avrebbe portato. «Anna e Marco», uno dei lenti-cardine dell’adolescenza, l’importante era tenersi stretti alla ragazza fino a quando Dalla diceva «Anna avrebbe voluto morire, Marco voleva andarsene lontano»: a quel punto si poteva tentare l’affondo. «Balla balla ballerino» e ogni volta che la cantavo mi veniva da piangere, persino adesso, chissà perché. «Futura» vantava un posto d’onore nella Definitiva, la C90 verde in cui avevo condensato le canzoni da infilare nell’autoradio, quando a bordo saliva una certa persona. E ancora un vecchio album, «Il giorno aveva cinque teste», difficile e bellissimo, da ascoltare nei momenti duri, quelli che servono a crescere. «Caruso» è un bagno di notte, un bacio sotto la luna, uno spaghetto divorato sul mare. Chiuderei con «Attenti al lupo», che a trent’anni mi salvò da un principio di depressione: non ho più trovato una canzone capace di trasmettermi tanta incomprensibile allegria.

Pensavo che questo genere di ricordi non potesse estendersi ai più giovani. Poi verso sera mi è arrivata la mail di una ragazza, si chiama Francesca. «Sto piangendo come una fontana per Lucio Dalla. Mi sento come se fosse morto un vecchio amico. Lui sicuramente non sapeva chi fossi. È ovvio. Credo che questo genere di rapporti emotivi a distanza siderale si possa creare solo con i musicisti. Che tu sia triste, felice, stanca, sola, in compagnia, quando loro cantano hai l’impressione che vogliano tirarti su il morale, partecipare alla tua gioia, cullarti prima che tu dorma, farti compagnia. Ti sembra che parlino proprio con te. Magari esagero, ma per me è stato così. Mi mancherà molto». Anche a me.

La Stampa 02.03.12

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“L´artista imprendibile”, di MICHELE SERRA

Ieri in Italia, verso le undici del mattino, improvvisamente Lucio Dalla ha cominciato a cantare ovunque: nelle case, negli uffici, nelle automobili, per strada. Non è una metafora. È accaduto davvero.
La sua voce che sa essere insieme roca e limpida, negra e pucciniana, invadeva le città. Minuto dopo minuto, mentre la notizia della sua morte si irradiava per capillarità in tutto il paese, dai computer, dai palmari, dagli iPod, dai milioni di minime scatole che custodiscono in pochi centimetri tutta la musica del mondo, le canzoni di Dalla hanno cominciato a sgorgare come acqua, come lacrime. Senti che bella questa, questa non me la ricordavo, guarda che la migliore è questa, ora ti faccio sentire io la più bella di tutte. Caro amico ti scrivo, la sera dei miracoli, com´è profondo il mare, Anna bellosguardo e Marco cuore in allarme, Nuvolari che è basso di statura, quattro marzo, piazza grande, la casa in riva al mare, titoli e strofe, parole e ritornelli, pezzi di vita che scompaiono e tornano, scompaiono e tornano, scompaiono e tornano fino a che la vita non va in pezzi.
Il lutto per un grande artista popolare è anche questo risentirsi comunità, ritrovare memoria, confrontarla con la memoria degli altri, e sorprendersi di quante cose, in questo disperso e faticoso evo, ancora ci legano e ci fanno commuovere (muovere insieme). Nessuno e niente, come un cantante e le sue canzoni, è arte popolare ed è memoria. Uno come Dalla, poi, ha avuto il rarissimo talento di riuscire a essere “alto” e “basso”, colto e popolare, sperimentale e classico, difficile e facile come nessun altro. Così da toccare il pubblico tutto intero, dalla testa ai piedi. Critica e grande pubblico. Intellettuali e popolo. Gusti raffinati e bocche buone.
Proprio per questo, tra i nostri grandi cantautori, Dalla è il più imprendibile, il meno classificabile. Artisticamente. Politicamente. Umanamente. Era curioso di tutto e non si è negato niente. Dal lavoro con un poeta di vaglia come Roversi ai sabato sera televisivi, dal jazz da clubbino notturno al festival di Sanremo, dalle scritture musicali complicate al ballabile ruffiano, dallo scherzo alla cantata lirica, dallo sketch televisivo al concertone memorabile, dalle accoppiate vincenti con Morandi e De Gregori alla tutela artistica di tanti giovani talenti sconosciuti, Lucio ha voluto e saputo calpestare palcoscenici davvero di ogni calibro. L´assenza totale di snobismo (era troppo sicuro di sé per temere la banalità) gli consentiva una libertà di scelta davvero unica, un naturale anticonformismo. Poteva scrivere una canzone pensando a come l´avrebbe ascoltata Claudio Abbado e un´altra pensando a come l´avrebbe ascoltata un operaio su un´impalcatura.
Anche in privato, sapeva passare dal sublime al goliardico con una destrezza sconcertante: l´aggettivo che gli si adatta di meno, nell´arte come nella vita, è “noioso”. Non lo è stato mai.
Parte integrante di questa duttilità fantastica, di questo inesauribile sperimentare ma sempre al riparo da ogni sperimentalismo, era il suo tratto umano. Lucio era forte della sua curiosità per gli altri, la vita degli altri, l´arte degli altri. Sentiva molta musica, andava a teatro, leggeva, parlava poco del proprio lavoro, molto di quello altrui. Questa estroversione, nel mondo dello spettacolo che è parecchio narciso, è materia molto rara. Non si contano i cantanti, gli artisti di teatro e di cinema, gli scrittori che hanno ricevuto una telefonata di Lucio che aveva urgenza di comunicare interesse, gratitudine o entusiasmo per il loro lavoro.
Appassionato di mille cose – dall´arte contemporanea agli studi michelangioleschi – è morto senza che la sua vita di uomo e artista avesse dato segno alcuno di flessione o di resa. Era vivo, febbrile, entusiasta, più forte delle sue malinconie e dei suoi complessi, vincitore (di gran lunga) anche di se stesso, della sua infanzia difficile, di una lunghissima gavetta (il successo vero arrivò quasi a quarant´anni), di un´identità sessuale complicata, di una malattia invalidante, di un aspetto fisico non aitante spesso da lui rivoltato in scherzo e in gioco (i parrucchini assurdi, la trasandatezza ostentata).
Giorgio Bocca, cogliendone l´energia creatrice, lo descrisse “simile al dio Efesto, peloso, fuligginoso, gradevolmente deforme, che si muove rapido, come il grande fabbro, fra le macchine da lui create, gli scatoloni magici da cui escono le voci”. Che Lucio non ci sia più è sorprendente, ingiusto come ogni morte, ma più ingiusto ancora se si considera che il piccolo uomo irsuto, intelligente, fantasioso, generoso, amichevole, ci era così prossimo da non riuscire proprio a immaginarlo così lontano. Le sue canzoni sono rimaste qui, per nostra fortuna e privilegio, e nessuno riuscirà a strapparcele mai di mano. Le mie preferite sono “La sera dei miracoli” e “Com´è profondo il mare”. Ma certo ne dimentico qualcuna di formidabile, che ora sta veleggiando da qualche parte, tra i muri di Roma o di Bologna o di Palermo o di Trento o di altrove.

La Repubblica 02.03.12

“La nostra colonna sonora”, di Massimo Gramellini

La magia della grande musica si scopre quando i grandi cantanti se ne vanno. Ieri milioni di italiani hanno ripercorso in un attimo la propria vita con la colonna sonora di Lucio Dalla, così come avevano fatto alla morte dell’altro Lucio nazionale. Caro amico ti scrivo che nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino e se è una femmina si chiamerà Futura…

Ci sono cascato anch’io ed è stato facile, oltre che bellissimo. Il mio Dalla non è quello che avrei conosciuto di persona in anni recenti, e con il quale ho presentato libri, riso, scherzato, persino polemizzato. Il mio Dalla è la notte prima degli esami. Estate 1979, vigilia della maturità, Dalla e De Gregori in concerto con «Banana Republic» allo stadio Comunale di Torino, davanti a casa mia. Durante il giorno coi miei compagni avevamo studiato in cucinino, dove per un curioso gioco di rimbombi si potevano sentire le prove dei musicisti: sembrava che il sax di Dalla fosse in cortile. Ho il ricordo nettissimo di noi che interrompiamo una poesia del Leopardi per affacciarci al balcone e lasciarci trasportare da un suo assolo di jazz. La sera i compagni telefonarono alle mamme per dire che si sarebbero fermati da me a ripassare. Invece andammo allo stadio, confusi fra altri settantamila, ma col cuore che ballava di paura per il giudizio imminente e dei biglietti particolarmente meschini.

Eravamo nel settore più lontano dal palco e ancora non esistevano i maxischermi: De Gregori era un puntino, Dalla la metà di un puntino. Ma appena abbracciava il sax e ci soffiava dentro si trasformava in un gigante.

E poi, e soprattutto, c’erano le sue canzoni sparate nella notte: «Com’è profondo il mare», «Piazza grande», «Stella di mare» («Tuuuu come me», e quell’uuu gli usciva dalla cassa toracica come un’orchestra di cento elementi), «L’anno che verrà». Le sapevo tutte a memoria, a differenza delle poesie del Leopardi. Quando partì «Cosa sarà» («che ci fa morire a vent’anni anche se vivi fino a cento») guardai il cielo sopra lo stadio e giurai alle stelle che non sarei mai stato un ventenne morto, anzi, avrei fatto di tutto per diventare un centenario vivo. Quella frase cantata a squarciagola alla vigilia dell’esame di maturità segnò a tal punto la mia formazione che il giorno in cui, da adulto, conobbi De Gregori gli dissi che era la più bella che avesse mai scritto. De Gregori concordò sulla bellezza della canzone e aggiunse con un sorriso che purtroppo non era sua, ma di Ron e Lucio: lui l’aveva solo cantata. È stato uno dei momenti più imbarazzanti della mia vita e anche questo lo devo a Dalla.

Chi non lo ha già fatto ieri, può provarci adesso con me. Raccontarsi la vita in un minuto, attraverso le sue canzoni. «4 marzo 1943» (era l’unico cantante di cui tutti sapevamo la data di nascita) e mi rivedo bambino triste e solo davanti alla tv in bianco e nero che trasmette il festival di Sanremo. «Disperato erotico stomp» accompagnò i primi viaggi individuali al centro del sesso, con quella mano che «partiva» e non si sapeva mai bene dove ci avrebbe portato. «Anna e Marco», uno dei lenti-cardine dell’adolescenza, l’importante era tenersi stretti alla ragazza fino a quando Dalla diceva «Anna avrebbe voluto morire, Marco voleva andarsene lontano»: a quel punto si poteva tentare l’affondo. «Balla balla ballerino» e ogni volta che la cantavo mi veniva da piangere, persino adesso, chissà perché. «Futura» vantava un posto d’onore nella Definitiva, la C90 verde in cui avevo condensato le canzoni da infilare nell’autoradio, quando a bordo saliva una certa persona. E ancora un vecchio album, «Il giorno aveva cinque teste», difficile e bellissimo, da ascoltare nei momenti duri, quelli che servono a crescere. «Caruso» è un bagno di notte, un bacio sotto la luna, uno spaghetto divorato sul mare. Chiuderei con «Attenti al lupo», che a trent’anni mi salvò da un principio di depressione: non ho più trovato una canzone capace di trasmettermi tanta incomprensibile allegria.

Pensavo che questo genere di ricordi non potesse estendersi ai più giovani. Poi verso sera mi è arrivata la mail di una ragazza, si chiama Francesca. «Sto piangendo come una fontana per Lucio Dalla. Mi sento come se fosse morto un vecchio amico. Lui sicuramente non sapeva chi fossi. È ovvio. Credo che questo genere di rapporti emotivi a distanza siderale si possa creare solo con i musicisti. Che tu sia triste, felice, stanca, sola, in compagnia, quando loro cantano hai l’impressione che vogliano tirarti su il morale, partecipare alla tua gioia, cullarti prima che tu dorma, farti compagnia. Ti sembra che parlino proprio con te. Magari esagero, ma per me è stato così. Mi mancherà molto». Anche a me.

La Stampa 02.03.12

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“L´artista imprendibile”, di MICHELE SERRA

Ieri in Italia, verso le undici del mattino, improvvisamente Lucio Dalla ha cominciato a cantare ovunque: nelle case, negli uffici, nelle automobili, per strada. Non è una metafora. È accaduto davvero.
La sua voce che sa essere insieme roca e limpida, negra e pucciniana, invadeva le città. Minuto dopo minuto, mentre la notizia della sua morte si irradiava per capillarità in tutto il paese, dai computer, dai palmari, dagli iPod, dai milioni di minime scatole che custodiscono in pochi centimetri tutta la musica del mondo, le canzoni di Dalla hanno cominciato a sgorgare come acqua, come lacrime. Senti che bella questa, questa non me la ricordavo, guarda che la migliore è questa, ora ti faccio sentire io la più bella di tutte. Caro amico ti scrivo, la sera dei miracoli, com´è profondo il mare, Anna bellosguardo e Marco cuore in allarme, Nuvolari che è basso di statura, quattro marzo, piazza grande, la casa in riva al mare, titoli e strofe, parole e ritornelli, pezzi di vita che scompaiono e tornano, scompaiono e tornano, scompaiono e tornano fino a che la vita non va in pezzi.
Il lutto per un grande artista popolare è anche questo risentirsi comunità, ritrovare memoria, confrontarla con la memoria degli altri, e sorprendersi di quante cose, in questo disperso e faticoso evo, ancora ci legano e ci fanno commuovere (muovere insieme). Nessuno e niente, come un cantante e le sue canzoni, è arte popolare ed è memoria. Uno come Dalla, poi, ha avuto il rarissimo talento di riuscire a essere “alto” e “basso”, colto e popolare, sperimentale e classico, difficile e facile come nessun altro. Così da toccare il pubblico tutto intero, dalla testa ai piedi. Critica e grande pubblico. Intellettuali e popolo. Gusti raffinati e bocche buone.
Proprio per questo, tra i nostri grandi cantautori, Dalla è il più imprendibile, il meno classificabile. Artisticamente. Politicamente. Umanamente. Era curioso di tutto e non si è negato niente. Dal lavoro con un poeta di vaglia come Roversi ai sabato sera televisivi, dal jazz da clubbino notturno al festival di Sanremo, dalle scritture musicali complicate al ballabile ruffiano, dallo scherzo alla cantata lirica, dallo sketch televisivo al concertone memorabile, dalle accoppiate vincenti con Morandi e De Gregori alla tutela artistica di tanti giovani talenti sconosciuti, Lucio ha voluto e saputo calpestare palcoscenici davvero di ogni calibro. L´assenza totale di snobismo (era troppo sicuro di sé per temere la banalità) gli consentiva una libertà di scelta davvero unica, un naturale anticonformismo. Poteva scrivere una canzone pensando a come l´avrebbe ascoltata Claudio Abbado e un´altra pensando a come l´avrebbe ascoltata un operaio su un´impalcatura.
Anche in privato, sapeva passare dal sublime al goliardico con una destrezza sconcertante: l´aggettivo che gli si adatta di meno, nell´arte come nella vita, è “noioso”. Non lo è stato mai.
Parte integrante di questa duttilità fantastica, di questo inesauribile sperimentare ma sempre al riparo da ogni sperimentalismo, era il suo tratto umano. Lucio era forte della sua curiosità per gli altri, la vita degli altri, l´arte degli altri. Sentiva molta musica, andava a teatro, leggeva, parlava poco del proprio lavoro, molto di quello altrui. Questa estroversione, nel mondo dello spettacolo che è parecchio narciso, è materia molto rara. Non si contano i cantanti, gli artisti di teatro e di cinema, gli scrittori che hanno ricevuto una telefonata di Lucio che aveva urgenza di comunicare interesse, gratitudine o entusiasmo per il loro lavoro.
Appassionato di mille cose – dall´arte contemporanea agli studi michelangioleschi – è morto senza che la sua vita di uomo e artista avesse dato segno alcuno di flessione o di resa. Era vivo, febbrile, entusiasta, più forte delle sue malinconie e dei suoi complessi, vincitore (di gran lunga) anche di se stesso, della sua infanzia difficile, di una lunghissima gavetta (il successo vero arrivò quasi a quarant´anni), di un´identità sessuale complicata, di una malattia invalidante, di un aspetto fisico non aitante spesso da lui rivoltato in scherzo e in gioco (i parrucchini assurdi, la trasandatezza ostentata).
Giorgio Bocca, cogliendone l´energia creatrice, lo descrisse “simile al dio Efesto, peloso, fuligginoso, gradevolmente deforme, che si muove rapido, come il grande fabbro, fra le macchine da lui create, gli scatoloni magici da cui escono le voci”. Che Lucio non ci sia più è sorprendente, ingiusto come ogni morte, ma più ingiusto ancora se si considera che il piccolo uomo irsuto, intelligente, fantasioso, generoso, amichevole, ci era così prossimo da non riuscire proprio a immaginarlo così lontano. Le sue canzoni sono rimaste qui, per nostra fortuna e privilegio, e nessuno riuscirà a strapparcele mai di mano. Le mie preferite sono “La sera dei miracoli” e “Com´è profondo il mare”. Ma certo ne dimentico qualcuna di formidabile, che ora sta veleggiando da qualche parte, tra i muri di Roma o di Bologna o di Palermo o di Trento o di altrove.

La Repubblica 02.03.12

"Il lavoro non c’è più. Cresce ancora la disoccupazione", di Massimo Franchi

Puntuale come la miseria. Ogni primo del mese, da un anno a questa parte, arriva la notizia del nuovo picco toccato dalla disoccupazione e, ancor di più, da quella giovanile. I record di ieri sono: 9,2 per cento di disoccupazione; 31,1 per cento di disoccupazione giovanile che si avvicina sempre di più alla fatidica quota “uno su tre”. Percentuali a parte, i dati netti fanno più impressione. Il numero dei disoccupati in Italia è pari a 2 milioni e 312mila e aumenta del 2,8 per cento rispetto a dicembre (64 mila persone in più). Su base annua l’aumento è addirittura del 14,1 per cento (286mila persone in più). Il tutto mentre l’occupazione, anche se timidamente, cresce: il tasso di occupazione è pari al 57,0 per cento, in aumento nel confronto congiunturale di 0,1 punti percentuali e di 0,2 punti in termini tendenziali, pari a 8mila persone in più. Ciò significa però che il numero di licenziamenti, rispetto ai mesi scorsi, ha iniziato a correre molto più velocemente. Ed è questo che denunciano i sindacati, senza eccezione.
SINDACATI: FERMARE LICENZIAMENTI «I dati mostrano con tutta evidenza che il problema dovrebbe essere fermare i licenziamenti e non facilitare la flessibilità in uscita», attacca il segretario confederale della Cgil, Fulvio Fammoni, mentre per il segretario generale aggiunto della Cisl Giorgio Santini «si tratta di dati che rendono ancor più necessario chiudere positivamente la trattativa sul mercato del lavoro». Per il segretario confederale della Uil Guglielmo Loy «i dati non fanno altro che avallare l’emergenza di risposte ad un mercato del lavoro che ha bisogno sia di buoni strumenti di ingresso soprattutto per i più giovani sia di altri strumenti che incentivino e incoraggino una ripresa occupazionale », mentre il segretario generale dell’Ugl Giovanni Centrella sottolinea come «il governo deve convincersi che gli ammortizzatori sociali vanno rafforzati, quantitativamente e qualitativamente, con risorse vere». La notizia sulla disoccupazione è arrivata il giorno dopo lo stop al tavolo sulla riforma del lavoro. Il tema della ricerca di risorse per finanziare la riforma degli ammortizzatori sociali è stato fatto proprio dalla ministra Elsa Fornero. Ora tocca al viceministro all’Economia Vittorio Grilli trovarle. Ma è sull’entità che ora si concentra la “battaglia”: da Palazzo Chigi filtrano stime da 1-2 miliardi di euro. Numeri che lasciano molto perplessi i sindacati: «Mi pare una cifra bassa – spiega Fulvio Fammoni -ma finché Fornero non ci illustrerà i criteri dei nuovi ammortizzatori nessuna stima può essere fatta: va stabilita la platea delle persone da coprire, la durata di cassa integrazione e disoccupazione e il livello di copertura. Senza questi punti fermi sono tutti numeri a caso», conclude Fammoni.
AUMENTA ANCHE L’INFLAZIONE A completare una giornata negativa arriva poi il dato sull’inflazione. Le stime preliminari sul mese di febbraio parlano di un aumento del 3,3%, dal 3,2% di gennaio mentre su base mensile l’aumento è dello 0,4%. In un solo mese il carrello della spesa costa lo 0,7% in più: il rialzo maggiore dall’ottobre 2008. Dall’Europa intanto non giungono notizie migliori. Nell’area Euro a gennaio si sono registrati 185 mila disoccupati in più, rispetto al mese precedente, con cui il totale è salito a 16 milioni 925 mila. In questo modo, ha riferito Eurostat, il tasso di disoccupazione ha stabilito un nuovo massimo dal lancio dell’Euro, al 10,7 per cento dal 10,6 per cento di dicembre. Rispetto al gennaio del 2011 risultano 1 milione 221 mila disoccupati in più nell’area Euro, che accusa una dinamica peggiore rispetto a tutta l’Unione europea a 27, dove la disoccupazione è al 10,1 per cento.
CONVEGNO SUL WELFARE DEL FUTURO Il tema è dunque quello di rilanciare lo Stato sociale. E proprio di nuovo welfare si è parlato ieri (e si parlerà oggi) a Roma.«Cresce il Welfare, cresce l’Italia» è il titolo del convegno organizzato da Cgil e tantissime associazioni del Terzo Settore al centro congressi Frentani a Roma. La prima giornata è stata caratterizzata dagli interventi di Paolo Leon, Chiara Saraceno e Stefano Rodotà. Per Chiara Saraceno «in Grecia, Italia e Portogallo aumentano i poveri per le decisioni dei governi» mentre «i servizi spariti dall’agenda nazionale sono relegati solo a scelte dei Comuni». ❖

La Repubblica 02.03.12

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“La disoccupazione sale ancora Ai livelli del 2001”, di Francesco Semprini

In Italia il tasso di disoccupazione cresce a livelli mai visti negli ultimi due lustri e a farne le spese sono sempre di più i giovani che vedono la quota di senza lavoro spingersi a picchi da brivido. Una quadro definito «preoccupante» dalla Confindustria, mentre i sindacati chiedono risposte concrete e immediate per fermare l’emorragia di posti di lavoro. Ma che non appare affatto in controtendenza rispetto all’Europa nel suo complesso dove anzi l’Italia tiene a fronte delle medie continentali.

A gennaio, secondo l’Istat, il tasso di disoccupazione si è attestato al 9,2%, in rialzo dello 0,2% rispetto a dicembre e di un punto su base annua. Si tratta della percentuale più pronunciata da quando sono iniziate le serie storiche mensili, ovvero dal 2004, ma guardando quelle trimestrali si deve tornare indietro al 2001 per vedere un dato tanto allarmante. La disoccupazione maschile, in particolare, segna l’8,7%, mentre quella femminile sfiora le due cifre. In termini assoluti, le persone senza lavoro sono 2,312 milioni, il 2,8% in più rispetto a dicembre, mentre su base annua si registra un balzo del 14,1%. Quello di gennaio, inoltre, è il massimo dall’autunno del 2000 quando il dato si era attestato a 2,369 milioni di unità. L’allargamento – spiega l’Ufficio di statistica – riguarda sia gli uomini che le donne».

Drammatico il capitolo «giovani», ovvero l’incidenza dei senza posto compresi tra 15 e 24 anni, sul totale di quelli occupati o in cerca di lavoro. L’Istituto di statistica ha stimato per gennaio una quota pari al 31,1%, in rialzo di 0,1 punti su base congiunturale e di 2,6 punti su base tendenziale. Al netto del 31,2% registrato in novembre, si tratta del picco storico, che consente di mantenere l’indice oltre quota 30% per il quinto mese consecutivo.

In controtendenza il dato sull’occupazione ovvero il rapporto tra le persone con un posto di lavoro e la popolazione di riferimento. I primi 31 giorni dell’anno in corso la percentuale ha registrato una variazione positiva pari allo 0,1% (+18 mila) a quota 57% segnando sull’anno un incremento dello 0,2% (+40 mila), con uno spiccato incremento su base tendenziale delle donne rispetto agli uomini. Ricapitolando, a fronte di una modesta crescita dell’occupazione si è verificato un sensibile aumento della disoccupazione, indice di una maggiore partecipazione al mercato del lavoro. Il dato trova una sponda nel decremento di inattivi persone che non non sono classificate come occupate o disoccupate – tra i 15 e i 64 anni registrato a gennaio col tasso sceso al 37,3%. In sostanza si cerca di più lavoro ma in proporzione se ne trova di meno.

Una situazione definita «molto preoccupante» dal presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia: «Certo, dobbiamo fare equilibrio di bilancio ma se non ricominciamo a crescere i problemi saranno molto forti». La Cgil spiega che l’obiettivo del Governo «dovrebbe essere fermare i licenziamenti e non facilitare la flessibilità in uscita», mentre la Uil chiede una risposta immediata all’emergenza», con buoni strumenti di ingresso soprattutto per i più giovani».

Ma se l’Italia inizia il 2012 arrancando, non va meglio per l’Europa nel suo complesso. Il tasso di disoccupazione nella zona dell’euro, a gennaio 2012, è salito al 10,7% rispetto al 10,6% di dicembre 2011. Era al 10% nel gennaio 2011. Un po’ meglio, secondo Eurostat, nell’Unione a 27, dove si registra un tasso al 10,1% rispetto al 10% di dicembre 2011, e al 9,5% di dodici mesi prima. In entrambi i casi l’Italia si trova al di sotto della media anche se il dato non può essere consolatorio, specie per il pericolo rappresentato dai Paesi a lei più vicini. La Spagna svetta al 23,3%, segue la Grecia al 19,9%, (dato precedente all’intervento europeo), Irlanda e Portogallo entrambe al 14,8%. Il presidente della Commissione Ue, Josè Barroso parla di livelli «drammatici», e sottolinea come ora la priorità «sia creare occupazione». Il messaggio è chiaro per tutti, Italia compresa.

La Stampa 02.03.12

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“I prezzi non si fermano ed è record disoccupati: 2,3 milioni senza lavoro”, di Alessandro Trocino

Disoccupazione record a gennaio, mentre non si arresta la corsa dell’inflazione. Segnali preoccupanti arrivano dall’Istat, secondo il quale il tasso di disoccupazione a gennaio sale ancora e si attesta al 9,2%, in aumento di 0,2 punti percentuali in termini congiunturali e di un punto rispetto all’anno precedente. È il livello massimo dal 2004. Con un dato ancora più preoccupante: tra i giovani attivi uno su tre è senza lavoro. Cifre che allarmano governo, partiti e parti sociali. Anche perché è stato rinviato il tavolo di discussione previsto per ieri: il governo ha preso atto della mancanza di risorse per finanziare l’annunciata modifica degli ammortizzatori sociali.
Il ministro del Welfare Elsa Fornero ha chiesto al premier Mario Monti e al viceministro dell’Economia Vittorio Grilli di reperire le risorse (intorno ai due miliardi di euro) da destinare agli ammortizzatori sociali. In attesa del via libera, Fornero ha deciso di rimandare il prossimo round di incontri con le parti sociali alla prossima settimana. I sindacati, compresa la Cgil, hanno accolto con favore il rinvio del confronto, perché finalizzato al reperimento delle risorse.
Ma sono soprattutto i dati Istat a preoccupare. Il tasso di disoccupazione giovanile, ovvero l’incidenza dei 15-24enni disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca di lavoro, è pari al 31,1%, in aumento di 0,1 punti percentuali rispetto a dicembre 2011. Livello record da gennaio 2004, inizio delle serie storiche mensili. La crescita della disoccupazione interessa sia gli uomini sia le donne. Quella maschile cresce del 2,6% rispetto al mese precedente e del 18,7% su base annua; il numero di donne disoccupate aumenta del 3,2% rispetto a dicembre 2011 e dell’8,9% in termini tendenziali.
Unica nota positiva, il calo dell’inattività, che diminuisce dello 0,4% in confronto al mese precedente. Rispetto a dodici mesi prima, gli inattivi diminuiscono del 2,1%. Il numero dei disoccupati a gennaio scorso è stato pari a 2 milioni 312 mila, in aumento del 2,8% rispetto a dicembre (64 mila unità). Su base annua si registra una crescita del 14,1% (286 mila unità).
Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, si dice «molto preoccupata»: «Dobbiamo fare equilibrio di bilancio, ma se non ricominciamo a crescere i problemi saranno molto forti». Sulla stessa linea il leader della Cisl, Raffaele Bonanni: «I numeri dell’occupazione saranno sempre più disastrosi senza investimenti esteri e italiani e senza un lavorio costante e una riconfigurazione della politica economica del nostro Paese». Anche per la Cgil l’esecutivo deve puntare sulla crescita: «Sono dati — dice il segretario confederale Fulvio Fammoni — che mostrano con tutta evidenza che il problema dovrebbe essere fermare i licenziamenti e non facilitare la flessibilità in uscita». Per la Uil, la riforma del mercato del lavoro deve intervenire sui giovani e sulla disoccupazione.
Male, a gennaio, anche la disoccupazione in Europa: il dato Eurostat segnala un tasso del 10,7% nell’eurozona (era 10,6% in dicembre) e del 10,1% nell’Ue a 27 Paesi (10% in dicembre). I disoccupati sono 24,325 milioni nell’Unione Europea, di cui 16,925 in eurozona. Il presidente della Commissione Ue Josè Barroso parla di livelli «drammatici», sottolineando come ora la priorità «sia creare occupazione».
Intanto corrono i prezzi al consumo: l’inflazione è salita a febbraio al 3,3%, dal 3,2% di gennaio, mentre su base mensile è aumentata dello 0,4%. L’inflazione acquisita per il 2012 è pari all’1,9%. In un solo mese, il carrello della spesa costa lo 0,7% in più: si tratta del rialzo maggiore dall’ottobre del 2008. A febbraio i prezzi dei prodotti acquistati con maggiore frequenza aumentano infatti dello 0,7% su base mensile e del 4,5% su base annua (+4,2% a gennaio). Rialzo record per la verdura ma corrono anche i prezzi della pasta, della carne e del caffè. Il rialzo congiunturale dei prezzi degli alimentari non lavorati è principalmente imputabile all’aumento dei prezzi dei vegetali freschi (+8,6%, -0,1% in termini tendenziali).

Il Corriere della Sera 02.03.12

“Il lavoro non c’è più. Cresce ancora la disoccupazione”, di Massimo Franchi

Puntuale come la miseria. Ogni primo del mese, da un anno a questa parte, arriva la notizia del nuovo picco toccato dalla disoccupazione e, ancor di più, da quella giovanile. I record di ieri sono: 9,2 per cento di disoccupazione; 31,1 per cento di disoccupazione giovanile che si avvicina sempre di più alla fatidica quota “uno su tre”. Percentuali a parte, i dati netti fanno più impressione. Il numero dei disoccupati in Italia è pari a 2 milioni e 312mila e aumenta del 2,8 per cento rispetto a dicembre (64 mila persone in più). Su base annua l’aumento è addirittura del 14,1 per cento (286mila persone in più). Il tutto mentre l’occupazione, anche se timidamente, cresce: il tasso di occupazione è pari al 57,0 per cento, in aumento nel confronto congiunturale di 0,1 punti percentuali e di 0,2 punti in termini tendenziali, pari a 8mila persone in più. Ciò significa però che il numero di licenziamenti, rispetto ai mesi scorsi, ha iniziato a correre molto più velocemente. Ed è questo che denunciano i sindacati, senza eccezione.
SINDACATI: FERMARE LICENZIAMENTI «I dati mostrano con tutta evidenza che il problema dovrebbe essere fermare i licenziamenti e non facilitare la flessibilità in uscita», attacca il segretario confederale della Cgil, Fulvio Fammoni, mentre per il segretario generale aggiunto della Cisl Giorgio Santini «si tratta di dati che rendono ancor più necessario chiudere positivamente la trattativa sul mercato del lavoro». Per il segretario confederale della Uil Guglielmo Loy «i dati non fanno altro che avallare l’emergenza di risposte ad un mercato del lavoro che ha bisogno sia di buoni strumenti di ingresso soprattutto per i più giovani sia di altri strumenti che incentivino e incoraggino una ripresa occupazionale », mentre il segretario generale dell’Ugl Giovanni Centrella sottolinea come «il governo deve convincersi che gli ammortizzatori sociali vanno rafforzati, quantitativamente e qualitativamente, con risorse vere». La notizia sulla disoccupazione è arrivata il giorno dopo lo stop al tavolo sulla riforma del lavoro. Il tema della ricerca di risorse per finanziare la riforma degli ammortizzatori sociali è stato fatto proprio dalla ministra Elsa Fornero. Ora tocca al viceministro all’Economia Vittorio Grilli trovarle. Ma è sull’entità che ora si concentra la “battaglia”: da Palazzo Chigi filtrano stime da 1-2 miliardi di euro. Numeri che lasciano molto perplessi i sindacati: «Mi pare una cifra bassa – spiega Fulvio Fammoni -ma finché Fornero non ci illustrerà i criteri dei nuovi ammortizzatori nessuna stima può essere fatta: va stabilita la platea delle persone da coprire, la durata di cassa integrazione e disoccupazione e il livello di copertura. Senza questi punti fermi sono tutti numeri a caso», conclude Fammoni.
AUMENTA ANCHE L’INFLAZIONE A completare una giornata negativa arriva poi il dato sull’inflazione. Le stime preliminari sul mese di febbraio parlano di un aumento del 3,3%, dal 3,2% di gennaio mentre su base mensile l’aumento è dello 0,4%. In un solo mese il carrello della spesa costa lo 0,7% in più: il rialzo maggiore dall’ottobre 2008. Dall’Europa intanto non giungono notizie migliori. Nell’area Euro a gennaio si sono registrati 185 mila disoccupati in più, rispetto al mese precedente, con cui il totale è salito a 16 milioni 925 mila. In questo modo, ha riferito Eurostat, il tasso di disoccupazione ha stabilito un nuovo massimo dal lancio dell’Euro, al 10,7 per cento dal 10,6 per cento di dicembre. Rispetto al gennaio del 2011 risultano 1 milione 221 mila disoccupati in più nell’area Euro, che accusa una dinamica peggiore rispetto a tutta l’Unione europea a 27, dove la disoccupazione è al 10,1 per cento.
CONVEGNO SUL WELFARE DEL FUTURO Il tema è dunque quello di rilanciare lo Stato sociale. E proprio di nuovo welfare si è parlato ieri (e si parlerà oggi) a Roma.«Cresce il Welfare, cresce l’Italia» è il titolo del convegno organizzato da Cgil e tantissime associazioni del Terzo Settore al centro congressi Frentani a Roma. La prima giornata è stata caratterizzata dagli interventi di Paolo Leon, Chiara Saraceno e Stefano Rodotà. Per Chiara Saraceno «in Grecia, Italia e Portogallo aumentano i poveri per le decisioni dei governi» mentre «i servizi spariti dall’agenda nazionale sono relegati solo a scelte dei Comuni». ❖

La Repubblica 02.03.12

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“La disoccupazione sale ancora Ai livelli del 2001”, di Francesco Semprini

In Italia il tasso di disoccupazione cresce a livelli mai visti negli ultimi due lustri e a farne le spese sono sempre di più i giovani che vedono la quota di senza lavoro spingersi a picchi da brivido. Una quadro definito «preoccupante» dalla Confindustria, mentre i sindacati chiedono risposte concrete e immediate per fermare l’emorragia di posti di lavoro. Ma che non appare affatto in controtendenza rispetto all’Europa nel suo complesso dove anzi l’Italia tiene a fronte delle medie continentali.

A gennaio, secondo l’Istat, il tasso di disoccupazione si è attestato al 9,2%, in rialzo dello 0,2% rispetto a dicembre e di un punto su base annua. Si tratta della percentuale più pronunciata da quando sono iniziate le serie storiche mensili, ovvero dal 2004, ma guardando quelle trimestrali si deve tornare indietro al 2001 per vedere un dato tanto allarmante. La disoccupazione maschile, in particolare, segna l’8,7%, mentre quella femminile sfiora le due cifre. In termini assoluti, le persone senza lavoro sono 2,312 milioni, il 2,8% in più rispetto a dicembre, mentre su base annua si registra un balzo del 14,1%. Quello di gennaio, inoltre, è il massimo dall’autunno del 2000 quando il dato si era attestato a 2,369 milioni di unità. L’allargamento – spiega l’Ufficio di statistica – riguarda sia gli uomini che le donne».

Drammatico il capitolo «giovani», ovvero l’incidenza dei senza posto compresi tra 15 e 24 anni, sul totale di quelli occupati o in cerca di lavoro. L’Istituto di statistica ha stimato per gennaio una quota pari al 31,1%, in rialzo di 0,1 punti su base congiunturale e di 2,6 punti su base tendenziale. Al netto del 31,2% registrato in novembre, si tratta del picco storico, che consente di mantenere l’indice oltre quota 30% per il quinto mese consecutivo.

In controtendenza il dato sull’occupazione ovvero il rapporto tra le persone con un posto di lavoro e la popolazione di riferimento. I primi 31 giorni dell’anno in corso la percentuale ha registrato una variazione positiva pari allo 0,1% (+18 mila) a quota 57% segnando sull’anno un incremento dello 0,2% (+40 mila), con uno spiccato incremento su base tendenziale delle donne rispetto agli uomini. Ricapitolando, a fronte di una modesta crescita dell’occupazione si è verificato un sensibile aumento della disoccupazione, indice di una maggiore partecipazione al mercato del lavoro. Il dato trova una sponda nel decremento di inattivi persone che non non sono classificate come occupate o disoccupate – tra i 15 e i 64 anni registrato a gennaio col tasso sceso al 37,3%. In sostanza si cerca di più lavoro ma in proporzione se ne trova di meno.

Una situazione definita «molto preoccupante» dal presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia: «Certo, dobbiamo fare equilibrio di bilancio ma se non ricominciamo a crescere i problemi saranno molto forti». La Cgil spiega che l’obiettivo del Governo «dovrebbe essere fermare i licenziamenti e non facilitare la flessibilità in uscita», mentre la Uil chiede una risposta immediata all’emergenza», con buoni strumenti di ingresso soprattutto per i più giovani».

Ma se l’Italia inizia il 2012 arrancando, non va meglio per l’Europa nel suo complesso. Il tasso di disoccupazione nella zona dell’euro, a gennaio 2012, è salito al 10,7% rispetto al 10,6% di dicembre 2011. Era al 10% nel gennaio 2011. Un po’ meglio, secondo Eurostat, nell’Unione a 27, dove si registra un tasso al 10,1% rispetto al 10% di dicembre 2011, e al 9,5% di dodici mesi prima. In entrambi i casi l’Italia si trova al di sotto della media anche se il dato non può essere consolatorio, specie per il pericolo rappresentato dai Paesi a lei più vicini. La Spagna svetta al 23,3%, segue la Grecia al 19,9%, (dato precedente all’intervento europeo), Irlanda e Portogallo entrambe al 14,8%. Il presidente della Commissione Ue, Josè Barroso parla di livelli «drammatici», e sottolinea come ora la priorità «sia creare occupazione». Il messaggio è chiaro per tutti, Italia compresa.

La Stampa 02.03.12

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“I prezzi non si fermano ed è record disoccupati: 2,3 milioni senza lavoro”, di Alessandro Trocino

Disoccupazione record a gennaio, mentre non si arresta la corsa dell’inflazione. Segnali preoccupanti arrivano dall’Istat, secondo il quale il tasso di disoccupazione a gennaio sale ancora e si attesta al 9,2%, in aumento di 0,2 punti percentuali in termini congiunturali e di un punto rispetto all’anno precedente. È il livello massimo dal 2004. Con un dato ancora più preoccupante: tra i giovani attivi uno su tre è senza lavoro. Cifre che allarmano governo, partiti e parti sociali. Anche perché è stato rinviato il tavolo di discussione previsto per ieri: il governo ha preso atto della mancanza di risorse per finanziare l’annunciata modifica degli ammortizzatori sociali.
Il ministro del Welfare Elsa Fornero ha chiesto al premier Mario Monti e al viceministro dell’Economia Vittorio Grilli di reperire le risorse (intorno ai due miliardi di euro) da destinare agli ammortizzatori sociali. In attesa del via libera, Fornero ha deciso di rimandare il prossimo round di incontri con le parti sociali alla prossima settimana. I sindacati, compresa la Cgil, hanno accolto con favore il rinvio del confronto, perché finalizzato al reperimento delle risorse.
Ma sono soprattutto i dati Istat a preoccupare. Il tasso di disoccupazione giovanile, ovvero l’incidenza dei 15-24enni disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca di lavoro, è pari al 31,1%, in aumento di 0,1 punti percentuali rispetto a dicembre 2011. Livello record da gennaio 2004, inizio delle serie storiche mensili. La crescita della disoccupazione interessa sia gli uomini sia le donne. Quella maschile cresce del 2,6% rispetto al mese precedente e del 18,7% su base annua; il numero di donne disoccupate aumenta del 3,2% rispetto a dicembre 2011 e dell’8,9% in termini tendenziali.
Unica nota positiva, il calo dell’inattività, che diminuisce dello 0,4% in confronto al mese precedente. Rispetto a dodici mesi prima, gli inattivi diminuiscono del 2,1%. Il numero dei disoccupati a gennaio scorso è stato pari a 2 milioni 312 mila, in aumento del 2,8% rispetto a dicembre (64 mila unità). Su base annua si registra una crescita del 14,1% (286 mila unità).
Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, si dice «molto preoccupata»: «Dobbiamo fare equilibrio di bilancio, ma se non ricominciamo a crescere i problemi saranno molto forti». Sulla stessa linea il leader della Cisl, Raffaele Bonanni: «I numeri dell’occupazione saranno sempre più disastrosi senza investimenti esteri e italiani e senza un lavorio costante e una riconfigurazione della politica economica del nostro Paese». Anche per la Cgil l’esecutivo deve puntare sulla crescita: «Sono dati — dice il segretario confederale Fulvio Fammoni — che mostrano con tutta evidenza che il problema dovrebbe essere fermare i licenziamenti e non facilitare la flessibilità in uscita». Per la Uil, la riforma del mercato del lavoro deve intervenire sui giovani e sulla disoccupazione.
Male, a gennaio, anche la disoccupazione in Europa: il dato Eurostat segnala un tasso del 10,7% nell’eurozona (era 10,6% in dicembre) e del 10,1% nell’Ue a 27 Paesi (10% in dicembre). I disoccupati sono 24,325 milioni nell’Unione Europea, di cui 16,925 in eurozona. Il presidente della Commissione Ue Josè Barroso parla di livelli «drammatici», sottolineando come ora la priorità «sia creare occupazione».
Intanto corrono i prezzi al consumo: l’inflazione è salita a febbraio al 3,3%, dal 3,2% di gennaio, mentre su base mensile è aumentata dello 0,4%. L’inflazione acquisita per il 2012 è pari all’1,9%. In un solo mese, il carrello della spesa costa lo 0,7% in più: si tratta del rialzo maggiore dall’ottobre del 2008. A febbraio i prezzi dei prodotti acquistati con maggiore frequenza aumentano infatti dello 0,7% su base mensile e del 4,5% su base annua (+4,2% a gennaio). Rialzo record per la verdura ma corrono anche i prezzi della pasta, della carne e del caffè. Il rialzo congiunturale dei prezzi degli alimentari non lavorati è principalmente imputabile all’aumento dei prezzi dei vegetali freschi (+8,6%, -0,1% in termini tendenziali).

Il Corriere della Sera 02.03.12

"Un penoso dèjà-vu", di Lucia Annunziata

La libertà di stampa che per la lunga stagione del berlusconismo è stata la bandiera della definizione della democrazia, può tornare ad essere tranquillamente stracciata? Da quella stessa area sociale che l’aveva impugnata? Finito Berlusconi, insomma, torneremo alle passate macerie? Alle vecchie diatribe sui giornalisti servi dei padroni?
In Italia esponenti di un movimento che si richiama allo Stato di diritto, insultano poliziotti (quello del casco, di cui non abbiamo nome), magistrati (uno per tutti, Giancarlo Caselli) e attaccano i giornalisti (sappiamo della troupe del Corriere, e sappiamo anche di altre aggressioni che nell’ambiente dei media si evita di denunciare per non attizzare gli animi). Imbarbarimento, si dice. Ma quale? In questi gesti c’è un penoso déjà-vu, un nulla di nuovo, che risulta, alla fine, essere l’elemento più inquietante.

Per il «confronto» fra celerini e manifestanti abbiamo sufficiente memoria collettiva da (iper)citare (come ricorda Adriano Sofri su Repubblica) Pasolini. Ma anche sul resto, le linee di connessione con il passato sono, a dir poco, sorprendenti.

Basta riprendere in mano proprio il caso più discusso di queste settimane, quello del procuratore Caselli. Il magistrato che oggi è conosciuto soprattutto come il servitore dello Stato in prima linea a Palermo contro la mafia, negli Anni Settanta, in un’altra sua vita, era attaccato esattamente come oggi. Anche allora era un Servitore dello Stato, ma in quel caso in prima linea contro le Brigate Rosse.

Ugualmente sorprendenti le somiglianze fra quegli anni e il rapporto che i vari movimenti hanno stabilito con i giornalisti, definiti oggi come allora «spie», «porci», «servi del padrone», espulsi dalle assemblee, ed eventualmente finiti nel mirino. Qualcuno ricorderà quella sfida raccolta a muso duro da alcuni di questi reporter, come il non dimenticato Carlo Rivolta, che per primo scrisse senza remore, per l’ancora nuovissima la Repubblica, delle minacce dei bulli della Sapienza. E nessuno certo ha mai dimenticato quello che maturò poi in quel clima: Montanelli, Casalegno e Tobagi.

Tempo dopo, con qualche anno e qualche lettura in più sulle spalle (nonché qualche incarico pubblico), molti di coloro che avevano sostenuto quell’atteggiamento si fecero alfieri di un ripensamento, ammettendo che quel modo di trattare i giornalisti svelava tutto l’integralismo, il settarismo di una visione illiberale del mondo, secondo la quale il metro di misura della bontà dell’informazione è quanto sia dalla tua parte. L’opinione pubblica del Paese più in generale si è orientata nel corso degli ultimi decenni verso la riscoperta dei valori «anglosassoni» dell’indipendenza dei poteri – magistratura e media compresi. Che l’arrivo di Silvio Berlusconi al potere nella Seconda Repubblica sia stato combattuto dalla sua opposizione sotto la bandiera di «Libera stampa in libero Stato» è sembrato dunque solo una naturale evoluzione dei tempi, una crescita generale della società in una direzione diversa dal passato.

Ma forse ci siamo ancora una volta sbagliati, viene da dire, osservando una nuova sorta di mutismo riemergere dalle macerie della Seconda Repubblica. L’area «democratica» così pronta ad indignarsi nell’epoca di Berlusconi, sembra accettare oggi senza emozione sommarie critiche alla giustizia: il giudizio sui giudici torna ad essere una variabile dipendente della sentenza. L’eroe Caselli torna nelle vesti del cattivo, così come il giudice che difende la Fiat e condanna Formigli, mentre va bene il giudice che condanna la Fiat e dà ragione alla Fiom.

E come non considerare ancora ingarbugliatamente simbolico il caso Celentano?

Un grande artista che davanti a una formidabile platea di quindici milioni (un numero che nessun premier si è mai sognato di radunare) chiede che chiudano dei giornali (Avvenire e Famiglia Cristiana), dà del deficiente a un giornalista del Corriere, e rincara poi la dose nella trasmissione di Santoro chiamando cretini quelli di Repubblica, e sostenendo, senza nessun intento ironico, che la «Corporazione della stampa si è unita per attaccarmi», parole molto care all’ex premier. Il diritto di Celentano a dire quello che vuole è stato difeso, giustamente. Ma quella stessa area democratica che lo ha difeso non ha avuto nessun sobbalzo etico di fronte a quei contenuti. Vero è che Celentano, come si è detto, «non ha il potere di chiudere i giornali». Ma ha quello – non di poco conto – di creare un clima culturale.

Di questo clima vale la pena oggi parlare. La libertà di informazione, brandita come principio assoluto in quasi due decenni di berlusconismo, rischia di tornare esattamente come era prima: identificata solo con il proprio interesse?

La Stampa 02.03.12

“Un penoso dèjà-vu”, di Lucia Annunziata

La libertà di stampa che per la lunga stagione del berlusconismo è stata la bandiera della definizione della democrazia, può tornare ad essere tranquillamente stracciata? Da quella stessa area sociale che l’aveva impugnata? Finito Berlusconi, insomma, torneremo alle passate macerie? Alle vecchie diatribe sui giornalisti servi dei padroni?
In Italia esponenti di un movimento che si richiama allo Stato di diritto, insultano poliziotti (quello del casco, di cui non abbiamo nome), magistrati (uno per tutti, Giancarlo Caselli) e attaccano i giornalisti (sappiamo della troupe del Corriere, e sappiamo anche di altre aggressioni che nell’ambiente dei media si evita di denunciare per non attizzare gli animi). Imbarbarimento, si dice. Ma quale? In questi gesti c’è un penoso déjà-vu, un nulla di nuovo, che risulta, alla fine, essere l’elemento più inquietante.

Per il «confronto» fra celerini e manifestanti abbiamo sufficiente memoria collettiva da (iper)citare (come ricorda Adriano Sofri su Repubblica) Pasolini. Ma anche sul resto, le linee di connessione con il passato sono, a dir poco, sorprendenti.

Basta riprendere in mano proprio il caso più discusso di queste settimane, quello del procuratore Caselli. Il magistrato che oggi è conosciuto soprattutto come il servitore dello Stato in prima linea a Palermo contro la mafia, negli Anni Settanta, in un’altra sua vita, era attaccato esattamente come oggi. Anche allora era un Servitore dello Stato, ma in quel caso in prima linea contro le Brigate Rosse.

Ugualmente sorprendenti le somiglianze fra quegli anni e il rapporto che i vari movimenti hanno stabilito con i giornalisti, definiti oggi come allora «spie», «porci», «servi del padrone», espulsi dalle assemblee, ed eventualmente finiti nel mirino. Qualcuno ricorderà quella sfida raccolta a muso duro da alcuni di questi reporter, come il non dimenticato Carlo Rivolta, che per primo scrisse senza remore, per l’ancora nuovissima la Repubblica, delle minacce dei bulli della Sapienza. E nessuno certo ha mai dimenticato quello che maturò poi in quel clima: Montanelli, Casalegno e Tobagi.

Tempo dopo, con qualche anno e qualche lettura in più sulle spalle (nonché qualche incarico pubblico), molti di coloro che avevano sostenuto quell’atteggiamento si fecero alfieri di un ripensamento, ammettendo che quel modo di trattare i giornalisti svelava tutto l’integralismo, il settarismo di una visione illiberale del mondo, secondo la quale il metro di misura della bontà dell’informazione è quanto sia dalla tua parte. L’opinione pubblica del Paese più in generale si è orientata nel corso degli ultimi decenni verso la riscoperta dei valori «anglosassoni» dell’indipendenza dei poteri – magistratura e media compresi. Che l’arrivo di Silvio Berlusconi al potere nella Seconda Repubblica sia stato combattuto dalla sua opposizione sotto la bandiera di «Libera stampa in libero Stato» è sembrato dunque solo una naturale evoluzione dei tempi, una crescita generale della società in una direzione diversa dal passato.

Ma forse ci siamo ancora una volta sbagliati, viene da dire, osservando una nuova sorta di mutismo riemergere dalle macerie della Seconda Repubblica. L’area «democratica» così pronta ad indignarsi nell’epoca di Berlusconi, sembra accettare oggi senza emozione sommarie critiche alla giustizia: il giudizio sui giudici torna ad essere una variabile dipendente della sentenza. L’eroe Caselli torna nelle vesti del cattivo, così come il giudice che difende la Fiat e condanna Formigli, mentre va bene il giudice che condanna la Fiat e dà ragione alla Fiom.

E come non considerare ancora ingarbugliatamente simbolico il caso Celentano?

Un grande artista che davanti a una formidabile platea di quindici milioni (un numero che nessun premier si è mai sognato di radunare) chiede che chiudano dei giornali (Avvenire e Famiglia Cristiana), dà del deficiente a un giornalista del Corriere, e rincara poi la dose nella trasmissione di Santoro chiamando cretini quelli di Repubblica, e sostenendo, senza nessun intento ironico, che la «Corporazione della stampa si è unita per attaccarmi», parole molto care all’ex premier. Il diritto di Celentano a dire quello che vuole è stato difeso, giustamente. Ma quella stessa area democratica che lo ha difeso non ha avuto nessun sobbalzo etico di fronte a quei contenuti. Vero è che Celentano, come si è detto, «non ha il potere di chiudere i giornali». Ma ha quello – non di poco conto – di creare un clima culturale.

Di questo clima vale la pena oggi parlare. La libertà di informazione, brandita come principio assoluto in quasi due decenni di berlusconismo, rischia di tornare esattamente come era prima: identificata solo con il proprio interesse?

La Stampa 02.03.12

"L'opa ostile sul professore", di Massimo Giannini

È partita l´Opa su Monti. Ed è più ostile di quanto non sembri. Dopo Casini, anche il Cavaliere lancia dunque la sua offerta pubblica d´acquisto sul Professore. Silvio Berlusconi ha avvelenato i pozzi per un quasi ventennio, costruendo un «bipolarismo di guerra» fondato sull´aggressione e la delegittimazione dell´avversario. E adesso, come per miracolo, si concede una folgorazione tardiva: la Grosse Koalition all´italiana, o all´amatriciana. Pdl, Pd e Terzo Polo, secondo l´ex premier, dovrebbero accordarsi per candidare Mario Monti a Palazzo Chigi anche per la prossima legislatura. Sulla carta, una proposta tutt´altro che peregrina. L´ipotesi di un «Monti bis» riflette un sentimento diffuso. Prima di tutto nella testa vuota di una politica che non ha più molto da offrire agli elettori, e che per questo si affida al governo tecnico come ad uno scudo dietro al quale ripararsi, in attesa di ricostruire una piattaforma programmatica accettabile e autosufficiente. E poi soprattutto nella pancia disillusa di un Paese che invece ha molto da chiedere, e che per questo guarda al governo tecnico come a un punto di non ritorno, una riserva imperdibile di competenza e di credibilità alla quale attingere finchè si può. Letta in questa chiave, la mossa di Berlusconi è allo stesso tempo astuta e disperata.
L´astuzia consiste nell´ennesima operazione di mimesi politica e di trasformismo mediatico. Il Cavaliere vuol far credere agli italiani che il governo montiano è la prosecuzione naturale, sia pure con altri mezzi, del governo berlusconiano. «Lo sosteniamo, perché sta portando avanti il nostro programma». Questo ripete l´uomo di Arcore, per spiegare il suo endorsement nei confronti del Professore. Per questo può restare a Palazzo Chigi altri cinque anni. «È uno di noi»: questo è il messaggio implicito che la propaganda berlusconiana tenta di trasmettere all´opinione pubblica.
Ma a dispetto della banale vulgata arcoriana, a muovere il Cavaliere non è un improbabile «spirito costituente». È invece la solita intenzione di confondere le acque e nascondere i problemi. Lo dicono i fatti. In questi lunghi anni di avventura cesarista e populista, Berlusconi non ha mai neanche provato a fare una seria riforma delle pensioni (che la Lega gli ha sempre bloccato) né un pacchetto serio di liberalizzazioni (che la ex An gli ha sempre avversato). Non ha mai neanche provato a far pagare le tasse agli evasori, né a far pagare l´Ici alla Chiesa. Dunque, non si vede proprio in cosa consista la presunta «continuità» di azione e di ideazione tra il governo forzaleghista di ieri e quello «di impegno nazionale» di oggi. Il «decisionismo» moderato di Monti non è in alcun modo assimilabile al radicalismo inconcludente di Berlusconi.
Ma al Cavaliere, oggi, conviene azzardare l´Opa sul Professore per due ragioni. La prima ragione riguarda il centrodestra. Tutti i sondaggi lo dimostrano: senza la Persona che l´ha inventato e costruito a sua immagine e somiglianza, il partito personale si dissolve nel Paese, scivolando verso un drammatico 20% di consensi. Se le condizioni non mutano, il Pdl è condannato a una sconfitta sicura, sia alle amministrative di primavera sia alle politiche dell´anno prossimo. Non solo: senza il collante del leader onnipotente e carismatico, il partito si disgrega al suo interno, confermando il fallimento della Rivoluzione del Predellino e la natura «mercenaria» di una destra tenuta assieme non dagli ideali, ma solo dagli interessi. Con l´annessione unilaterale di Monti, il Cavaliere da un lato annega l´inevitabile disfatta elettorale dentro uno schema di Grande Coalizione dove non vince e non perde nessuno, e dall´altro lato rappattuma i cocci di un partito altrimenti destinato a una serie di scissioni a catena. La seconda ragione riguarda il centrosinistra. Con questo «audace colpo», Berlusconi cerca di rimandare la palla avvelenata nel campo di un Pd già diviso, costretto a dire no, per il 2013, ad un patto per un «governo di salute pubblica» di cui è oggi il principale contraente e garante.
Qui, dunque, sta la disperazione della «svolta» berlusconiana. Una scelta imposta dall´istinto di sopravvivenza, e non certo dal «senso di responsabilità». Fa bene Bersani a sottrarsi immediatamente all´«alleanza innaturale». Farebbe bene Monti a sottrarsi gradualmente all´«abbraccio mortale». Il Professore deciderà tra un anno se e come «capitalizzare» la sua esperienza politico-istituzionale. Ma una cosa è certa: il «montismo», per come lo stiamo imparando a conoscere, non è e non sarà mai riducibile a una «variante mite» del berlusconismo.

La repubblica 02.03.12