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“C´è democrazia senza i partiti?”, di Ilvo Diamanti

Il proscioglimento di Silvio Berlusconi dall´accusa di corruzione nel caso Mills, per prescrizione del reato, ha sollevato, inevitabilmente, polemiche. E un sottile senso di inquietudine. Non solo perché, in questo modo, il Cavaliere è riuscito a sottrarsi, di nuovo, al giudizio. Ma soprattutto perché ha rammentato a tutti che Berlusconi non se n´è andato, ma è sempre lì. Anzi, qui. Con gli stessi vizi di sempre. Da ciò l´altro motivo di preoccupazione (o, per alcuni, di speranza). Potrebbe rientrare in scena. Da protagonista. Visto che il ruolo di comprimario al Cavaliere non si addice. D´altronde, Berlusconi resta il leader del Pdl. Tuttora il primo partito in Parlamento. E, insieme, la principale forza politica della maggioranza che sostiene il governo Monti.
Tuttavia, anche questa vicenda suggerisce che il vento è cambiato. Che il tempo di Berlusconi e del berlusconismo è finito.
Anzitutto, l´attenzione intorno al caso appare meno accesa rispetto al passato. Quando Berlusconi era il capo del governo o dell´opposizione. Quando era il dominus della scena politica. Il conflitto di interessi che si portava – e si porta dietro – appariva, allora, insopportabile, sul piano pubblico. Oggi è altrettanto intollerabile, ma la posizione politica del Cavaliere, passato dalla ribalta al retroscena, ha sdrammatizzato le tensioni. Peraltro, i principali attori politici (e istituzionali) che sostengono il governo temono episodi e fratture che possano minare la tenuta della legislatura.
Un´eventualità avversata, per primo, da Berlusconi. Al quale conviene che Monti governi almeno fino alla scadenza naturale della legislatura. E magari oltre. Per una ragione su tutte le altre: se si votasse oggi, il centrodestra non avrebbe speranze. Il Pdl (citiamo le stime di Ipsos dell´ultima settimana) galleggia intorno al 22%. L´alleanza con la Lega, inoltre, appare complicata, logorata dal sostegno di Berlusconi al governo Monti. E, comunque, i partiti del centrodestra (Pdl, Lega e Destra), tutti insieme, sono accreditati di poco più del 33% dei voti. Quattro punti meno del centrosinistra (Pd con Idv e Sel). Ma in una competizione a tre, con il Terzo Polo in campo (stimato intorno al 20%), la distanza fra i due poli principali salirebbe a 10 punti percentuali. Troppi per rischiare il ricorso anticipato alle urne in questo momento. Tanto più perché, da quando ha avuto avvio il governo Monti, il divario fra centrodestra e centrosinistra si è stabilizzato e, anzi, un po´ ridotto. Morale: l´esperienza del governo tecnico non fa male a Berlusconi. Gli permette di riorganizzare le fila. In un periodo politicamente difficile, per lui e per il Pdl.
Ma il ritorno di Berlusconi è improbabile soprattutto perché è cambiato il clima d´opinione. Il berlusconismo è fuori moda, inattuale. Come Berlusconi. Verso il quale il grado di fiducia dei cittadini è basso quanto mai, in passato. Poco sopra il 20%. Come i consensi verso il Pdl. Il suo partito “personale”.
È arduo, d´altronde, distinguere e dissociare il destino del partito da quello dell´inventore. Lo testimoniano le difficoltà del Pdl in questa fase congressuale. Lacerato da tensioni e accuse interne: di corruzione, tessere false, condizionamenti. A Sud e a Nord. D´altronde: quale identità può assumere un partito identificato “da” e “in” Berlusconi senza Berlusconi alla testa?
Il mutamento del clima d´opinione riflette, a sua volta, il mutamento sociale. Berlusconi ha interpretato e impersonato una fase “affluente” della società italiana. A cui ha imposto, con l´amplificatore dei media, la propria biografia e la propria immagine come riferimenti e modelli. Ha, così, accompagnato e segnato una fase, lunga quasi vent´anni. Ben raffigurata dall´infotainment televisivo. I programmi che mixano informazione e intrattenimento, nei quali ogni distinzione di ruoli è saltata. Politici, cuochi, personaggi della fiction, ballerine, calciatori, veline, criminologi e criminali. Tutti insieme. Appassionatamente. A parlare di tutto.
Quella stagione è finita. La crisi ha spezzato il legame tra immagine e realtà. Ha reso l´immagine in-credibile. Il mondo rutilante e a-morale espresso da Berlusconi è divenuto troppo lontano rispetto al senso comune. I suoi valori: in contrasto con gli interessi degli elettori. Soprattutto e tanto più per quelli, fino a ieri, attratti da Berlusconi. In larga misura appartenenti ai ceti popolari. Si pensi alla crescente impopolarità dell´evasione fiscale, socialmente tollerata, negli anni scorsi – e giustificata dallo stesso Berlusconi. Ma guardata – oggi – con ostilità. Perché la crisi ha trasformato la furbizia in un vizio dannoso: per i conti dello Stato e per i bilanci delle famiglie.
La crisi ha, inoltre, delegittimato il modello del politico-senza-qualità. Non migliore di noi ma come noi. Anzi: peggio di noi. Reclutato per meriti estetici, piuttosto che etici. O per fedeltà al capo.
Per questo è difficile – a mio avviso improponibile – un ritorno di Berlusconi. Il quale è, semmai, alla ricerca di uno spazio nel quale “difendersi”. Negli affari ma anche nelle questioni giudiziarie in cui è ancora coinvolto.
Il Paese, d´altronde, ha voltato pagina. L´esperienza di Monti – “promossa” da Napolitano – ha rivelato e trainato una domanda di rappresentanza politica diversa. Non parlo dei contenuti della sua azione di governo – per alcuni versi discutibili, a mio avviso. Parlo, invece, dello “stile”. Che in quest´epoca, è “sostanza”. Monti esprime un nuovo modello: il Tecnico che fa Politica. E viceversa: il Politico Competente. Che si misura con i partiti ma non ne fa parte. Ne è fuori e, al contempo, al di sopra. Monti annuncia e interpreta il post-berlusconismo, che si traduce in una sorta di “Populismo Aristocratico”. Dove il premier si rivolge e risponde agli elettori direttamente, attraverso i media. In modo sobrio. Mentre i partiti – e i loro leader – restano sullo sfondo. Defilati. Monti: è un leader di successo, i cui consensi appaiono in continua crescita. Oggi superano il 60%.
Berlusconi non tornerà: perché il berlusconismo è finito. Ma anche l´antiberlusconismo lo è. Il che induce a spostare le nostre preoccupazioni “oltre” Berlusconi.
In questo Paese: dove i partiti – privi di credito – contano molto meno dei leader. E dove i leader dei partiti dispongono di un livello di fiducia molto scarso. La questione vera è se sia possibile una democrazia rappresentativa senza partiti.
Io ne dubito. Anzi: lo escludo.
Neppure se al berlusconismo succedesse il montismo.

La Repubblica 27.02.12

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“TUTTI GLI SCUDI DEL CAVALIERE”, di FRANCO CORDERO
L´ex-premier è imputato a Milano quale corruttore in atti giudiziari: una parte congeniale, visti i precedenti, stavolta tintinnano 600mila dollari all´avvocato londinese David Mills, esperto in labirinti fiscali nonché servizievole testimone. Lo racconta il predetto, confesso in Inghilterra e Italia, sicché alla difesa resta solo l´arma del perditempo, tanto da estinguere i reati. Monsieur B. aveva ricusato l´intero collegio: è la nona volta e soccombe ancora, impassibile. Le sue guerre forensi sono materia da stomaco forte, dove onore, verità, belle figure dialettiche contano poco. Se l´asserito reato esista e sia ancora punibile, doveva dirlo il Tribunale. L´ha detto: esiste e nei suoi calcoli risulta estinto dal tempo; era punto controverso. In lingua meno tecnica, l´impenitente corruttore schiva la pena e gli resta il marchio: fosse dubbio il fatto, sarebbe assolto; non se ne vanti, quindi. Avere schernito Dike con i versi della scimmia è titolo da compagnia equivoca: infatti vi gode un meritato culto, patrono con aureola; Kronos mangia i delitti.
L´analisi comincia dalla persona. Esistono italiani intolleranti della serietà: preferiscono Crispi a Cavour; detestano Giolitti; liquidano De Gasperi; amano i buffoni, specie quando emergano aspetti sinistri. Mussolini li incanta con le smorfie al balcone e sotto la divisa da primo maresciallo dell´Impero: vola, nuota, balla, scia, miete, batte il passo romano, farnetica glorie militari; dopo vent´anni resterebbe a vita nella sala del mappamondo se non muovesse guerra a tre imperi. Berlusco Magnus è catafratto nella sicumera degl´ignoranti: sguaiato megalomane, ha fantasia fraudolenta, menzogna estrosa, occhio sicuro nel distinguere i lati peggiori dell´animale umano; vìola allegramente ogni limite. Le sue gesta stanno in quattro verbi: corrompe, falsifica, froda, plagia (mediante ipnosi televisiva, allevandosi una massa adoperabile); cervelli e midolla sono materia plastica. Due mosse strategiche dicono cos´abbia in mente: appena salito al potere, homo novus, propone guardasigilli l´avvocato che gli combinava ricchi affari loschi (il capolavoro è la baratteria con cui s´impadronisce della Mondadori comprando una sentenza); e degrada a bagatella il falso in bilancio, importantissimo nella diagnostica penale. In due legislature, padrone delle Camere, attua quel che sarebbe appena immaginabile in monarchie piratesche: governo personale, quasi lo Stato fosse roba sua; brulicano voraci faune; i convitati spolpano l´Italia. L´effetto non tarda. Fanno testo i numeri forniti dalla Corte dei conti: 60 miliardi l´anno nel giro d´affari corrotti; e un´evasione fiscale calcolabile in 100-120 miliardi; invano il Consiglio d´Europa raccomanda misure contro la tenia economica (verme nient´affatto solitario, visto come gavazzano P3, P4 et ceterae); il governo non batte ciglio. Metà dell´intera patologia europea fiorisce qui. Dove porti la politica del laissez manger, è presto detto: traslocando nel novembre 2011, sotto l´assalto dei mercati, l´Olonese lascia un debito pubblico pari a 1.905.012 (miliardi d´euro) ossia il decuplo dell´annua emorragia malaffaristica; aveva governato otto anni e mezzo, «uomo del fare». I conti tornano.
Estinzione del reato, dunque, e se l´è sudata: incasserebbe i quattro anni inflitti a Mr Mills da Tribunale e Corte d´appello se le Camere affollate da uomini e donne del sì non votassero un malfamato lodo che vieta i giudizi penali nei suoi confronti, quia nominatur leo, strapotente capo del governo; quando va in fumo, dichiarato invalido, gli servono un privilegio dell´impedimento d´ufficio a comparire nell´aula. Così passano settimane, mesi, anni. Era latta anche questo scudo: finalmente compare ma nominor leo, quindi concede al massimo un giorno alla settimana e il dibattimento, illo tempore sospeso, deve ripartire davanti a un collegio diverso; il tutto basta appena, essendosi Sua Maestà accorciati i termini della prescrizione, con relativa amnistia occulta. Caso mai non bastasse, aveva pronte due leggi da manicomio: l´imputato ricco allunga finché vuole i dibattimenti arruolando testimoni a migliaia, e sul processo pende una mannaia; scaduto il termine, gli affari penali svaniscono. Sembrano incubi d´un cattivo sonno. No, è vergognosa storia recente. Come Dio vuole, sabato 12 novembre 2011 esce dal Palazzo avendo condotto l´Italia a due dita dalla bancarotta, ma non pensiamolo depresso: cova revanche; arrotano i denti dignitari, sgherri, domestici d´ambo i sessi, infuriati dalla prospettiva d´una ricaduta nel nulla. Mercoledì 22 febbraio nelle tre ore del colloquio col successore tocca argomenti caldi quali Rai e giustizia: le cosiddette «carriere separate» ossia un pubblico ministero governativo, che dorma o azzanni, secondo gli ordini; non dimentichiamo chi voleva installare in via Arenula. Gli spiriti animali restano integri. Lo confermava l´energico sostegno al piano delle Olimpiadi, come se opere colossali, talora finte, non avessero divorato abbastanza denaro; particolare pittoresco, sedeva a banchetto qualche gentiluomo del papa. La Corte dei conti (16 febbraio) chiede due misure dal senso chiaro: riconfigurare comme il faut il falso in bilancio; e un regime equo della prescrizione, l´attuale essendo criminofilo.
Ogni tanto lamenta d´avere speso somme enormi in parcelle. Parliamone: ai bei tempi penalisti d´alta classe giostravano nel merito delle cause, fatto e diritto, sdegnando i cavilli procedurali; dura il ricordo d´avvocati giuristi quali Arturo Carlo Jemolo o Alfredo De Marsico, morti quasi poveri dopo una lunga vita in cattedra e sui banchi giudiziari. Erano sapienti ma disadatti al mestiere, commentano eroi del Brave New World, scambiando sogghigni porcini. L´immagine viene da Orwell, nella cui molto istruttiva Fattoria degli animali comandano maiali umanoidi dal freddo aplomb manageriale: una specie importante; chiamiamola verres erectus. Siamo salvi dal default. Deo gratias. Rimane una questione grave: quanto mordano nel codice genetico gli ultimi vent´anni; anzi, trenta, se v´includiamo l´antipedagogia televisiva.

La Repubblica 27.02.12

"Il ritorno delle docenze a un euro", di Luca Schiaffino

In una dichiarazione rilasciata nelle prime settimane del proprio mandato il ministro Profumo ha affermato che il nuovo governo non sarebbe intervenuto sulla legge 240, ma si sarebbe limitato ad “oliare il sistema”. Questa dichiarazione ha ovviamente deluso chi si augurava che il cambio di governo avrebbe reso possibile una rapida uscita dallo stato di paralisi nel quale i meccanismi sabotatori e bizantini della “riforma” hanno gettato l’università italiana, ma questa scelta è probabilmente obbligata per un governo tecnico che per di più ha come principale partito della propria maggioranza parlamentare la stessa forza politica che ha promosso e approvato la nuova legge. Ciononostante, nel cosiddetto “decreto semplificazioni” approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 3 febbraio, si trovano alcune misure in materia di università che modificano alcune parti della legge 240.

Gli interventi sulla “riforma” sono per lo più correzioni di natura formale o piccole modifiche destinate ad avere impatto su situazioni molto specifiche, ma fra di essi si annida una serie di cambiamenti nella disciplina dei contratti per attività di insegnamento destinati a riaprire le porte ai contratti di insegnamento a 1 euro e quindi ad avere un impatto notevole sul funzionamento di molti corsi di laurea e su quelle “condizioni di lavoro dei giovani” che il governo continuamente dichiara di aver messo in testa alla propria agenda di priorità.

Per comprendere la natura di tali cambiamenti occorre fare un passo indietro: le “docenze a contratto” nascono (articolo 25 del D.P.R. 11 luglio 1980, n. 382) con il fine dichiarato della “acquisizione di significative esperienze teorico-pratiche di tipo specialistico provenienti dal mondo extrauniversitario ovvero di risultati di particolari ricerche, o studi di alta qualificazione scientifica o professionale”, ma in breve tempo si trasformano in uno strumento per affidare incarichi di insegnamento più o meno retribuiti a qualunque “volenteroso”, tanto che 18 anni più tardi (D.M. 21 maggio 1998, n. 242) diventano ufficialmente uno strumento per “sopperire a particolari e motivate esigenze didattiche” e 9 anni dopo sono de facto riconosciute come un istituto pressoché indispensabile per il funzionamento dell’Università italiana tanto che l’ex-ministro Mussi ritiene di dover porre il tetto (astronomico!) del 50% al numero di docenti a contratto in ciascun corso di laurea.

A quel punto la proliferazione dei contratti di docenza è diventata uno degli scandali del nostro sistema universitario, tanto più che si moltiplicano i casi di corsi affidati a titolo gratuito o a 1 euro.

Occorre dire che in ambito accademico non tutti ritengono che la questione delle docenze a contratto, comprese quelle gratuite o a compenso simbolico, debba essere considerata uno scandalo. In diversi commenti o interventi capita di trovare argomentazioni che sostanzialmente si rifanno alla libera scelta di accettare incarichi di docenza da parte dei destinatari dei contratti. Si tratta di un punto di vista fortemente criticabile per almeno due ragioni, una legata alla qualità dei corsi di studio, l’altra alla condizione di intrinseca ricattabilità di molti destinatari di contratti di docenza, spesso titolari di altre forme di contratti precari (assegni di ricerca e altro).

Per quanto riguarda la prima questione, è evidente che le procedure di scelta dei destinatari di contratti di docenza sono estremamente lasche e non offrono alcuna tutela reale agli studenti, fruitori ultimi dell’attività formativa (anche se, senza dubbio, la maggioranza dei contratti di docenza finisce comunque per essere assegnata a persone validissime).

Per quanto riguarda la ricattabilità, poiché frequentemente i contratti sono assegnati a soggetti che intrattengono altre forme di rapporto lavorativo con l’ateneo (spesso come precari della ricerca) occorre considerare la situazione di oggettiva debolezza del destinatario, spesso spinto ad accettare un insegnamento a titolo gratuito semplicemente dalla necessità di “mantenere buoni rapporti” con la struttura che dovrà in seguito rinnovargli il contratto (si tratta di una situazione non dissimile da quella che la nostra Costituzione vuole impedire nel momento in cui vieta al lavoratore di rinunziare alle proprie ferie retribuite). Spesso inoltre si stabilisce anche un meccanismo nel quale il precario cerca egli stesso di ricevere un contratto di insegnamento per inserire “titoli didattici” nel proprio curriculum: si tratta in effetti di una spirale perversa, nella quale i presunti vantaggi curricolari dei futuri candidati in una prova concorsuale si elidono a vicenda e alla fine gli unici a guadagnarci sono gli atenei, che beneficiano del lavoro gratuito di tutti.

La legge 240 ha rinormato completamente i contratti di insegnamento mediante una nuova disciplina che, fra le altre cose, introduce una distinzione fra i contratti per “esperti di alta qualificazione in possesso di un significativo curriculum scientifico o professionale” e i contratti per “soggetti in possesso di adeguati requisiti scientifici e professionali” (per semplicità in seguito indicherò la prima tipologia come “docenze 1” e la seconda tipologia come “docenze 2”). Le docenze 1 sono stipulate direttamente dal rettore e possono essere a compenso liberamente fissato dall’ateneo o a titolo gratuito, mentre le docenze 2 prevedono una valutazione comparativa e un compenso minimo, che un decreto ministeriale ha fissato in 25 euro l’ora. Nelle apparenti intenzioni degli estensori della norma è evidente che le docenze 1 dovrebbero essere affidate a grandi personalità, professionisti esterni qualificati e figure analoghe, seguendo un po’ le intenzioni della vecchia 382 (acquisizione di significative esperienze di tipo specialistico provenienti dal mondo extrauniversitario, di risultati di particolari ricerche, di studi di alta qualificazione), mentre le docenze 2 dovrebbero essere assegnate a tutti gli altri soggetti al fine di sopperire alle esigenze didattiche degli atenei secondo la filosofia del D.M. del 1998.

E’ però evidente che, in assenza di norme che in qualche maniera definiscano cosa si debba intendere per “esperto di alta qualificazione”, la distinzione fra le due tipologie di contratto è solo una foglia di fico e fatalmente, come già accaduto con la 382, molti atenei ricorreranno esclusivamente a docenze 1 assegnandole a qualsiasi soggetto. Durante la discussione parlamentare due emendamenti provenienti dal PD sono riusciti a mettere qualche paletto più sostanziale alla preventivabile proliferazione di docenze 1 gratuite, imponendo che i contratti gratuiti non possano superare il 5% del totale degli insegnamenti impartiti da ciascun ateneo e stabilendo che le docenze 1 (ma non le docenze 2) possano essere affidate esclusivamente a lavoratori dipendenti, a pensionati o a lavoratori autonomi (questi ultimi purché in possesso di un reddito annuo non inferiore a 40000 euro). La prima disposizione, pur stabilendo un principio importante, è purtroppo facilmente aggirabile, in quanto i contratti a 1 euro sono gratuiti di fatto, ma non formalmente, e non ricadono quindi nel tetto del 5%. La seconda disposizione ha avuto invece effetti ben più sostanziali e ha finalmente costretto le università a ricorrere alle docenze 2 per affidare incarichi di insegnamento ai propri precari, riconoscendo loro il compenso, sia pure ancora troppo basso, di 25 euro l’ora. Poiché però l’introduzione di requisiti legati al reddito può creare situazioni discriminatorie, tanto che il Presidente della Repubblica nella lettera con la quale accompagnò la promulgazione della legge 240 parlò di “dubbia ragionevolezza”, è stato fin dall’inizio evidente che fosse in qualche modo necessario introdurre dei cambiamenti. Questi cambiamenti sono adesso arrivati con il “decreto semplificazioni”, ma purtroppo per come il testo è stato scritto è chiaro che si è buttato via il bambino con l’acqua sporca, dal momento che l’abolizione del requisito del reddito da lavoro dipendente, da pensione o da lavoro autonomo superiore a 40000 euro è stata accompagnata dalla mera precisazione, assolutamente non vincolante, che le docenze 1 possono essere a titolo gratuito o oneroso “di importo coerente con i parametri stabiliti” per le docenze 2. E’ evidente che la parola “coerente” può significare tutto o niente: perché proprio quel termine? Basterebbe sostituirla con “non inferiore ai” per eliminare definitivamente le docenze a 1 euro dal nostro panorama universitario e limitare il ricorso a contratti sottopagati a quel 5% di docenze gratuite ammesse dalla legge 240.

Spetta ora al Ministro ed al Parlamento proporre e approvare una piccolissima modifica che fughi definitivamente il dubbio che, mentre da un lato si lavora per “offrire prospettive ai giovani”, dall’altro si offra un assist agli atenei per mantenere aperti corsi di laurea privi di docenti ricorrendo al lavoro gratuito o sottopagato proprio dei più giovani. Nell’attesa, sperabilmente, che prima o poi si arrivi alla conclusione che se servono docenti si devono fare concorsi e non tenere in piedi il sistema universitario attraverso il ricorso sistematico a contratti di insegnamento temporanei.

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“Il ritorno delle docenze a un euro”, di Luca Schiaffino

In una dichiarazione rilasciata nelle prime settimane del proprio mandato il ministro Profumo ha affermato che il nuovo governo non sarebbe intervenuto sulla legge 240, ma si sarebbe limitato ad “oliare il sistema”. Questa dichiarazione ha ovviamente deluso chi si augurava che il cambio di governo avrebbe reso possibile una rapida uscita dallo stato di paralisi nel quale i meccanismi sabotatori e bizantini della “riforma” hanno gettato l’università italiana, ma questa scelta è probabilmente obbligata per un governo tecnico che per di più ha come principale partito della propria maggioranza parlamentare la stessa forza politica che ha promosso e approvato la nuova legge. Ciononostante, nel cosiddetto “decreto semplificazioni” approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 3 febbraio, si trovano alcune misure in materia di università che modificano alcune parti della legge 240.

Gli interventi sulla “riforma” sono per lo più correzioni di natura formale o piccole modifiche destinate ad avere impatto su situazioni molto specifiche, ma fra di essi si annida una serie di cambiamenti nella disciplina dei contratti per attività di insegnamento destinati a riaprire le porte ai contratti di insegnamento a 1 euro e quindi ad avere un impatto notevole sul funzionamento di molti corsi di laurea e su quelle “condizioni di lavoro dei giovani” che il governo continuamente dichiara di aver messo in testa alla propria agenda di priorità.

Per comprendere la natura di tali cambiamenti occorre fare un passo indietro: le “docenze a contratto” nascono (articolo 25 del D.P.R. 11 luglio 1980, n. 382) con il fine dichiarato della “acquisizione di significative esperienze teorico-pratiche di tipo specialistico provenienti dal mondo extrauniversitario ovvero di risultati di particolari ricerche, o studi di alta qualificazione scientifica o professionale”, ma in breve tempo si trasformano in uno strumento per affidare incarichi di insegnamento più o meno retribuiti a qualunque “volenteroso”, tanto che 18 anni più tardi (D.M. 21 maggio 1998, n. 242) diventano ufficialmente uno strumento per “sopperire a particolari e motivate esigenze didattiche” e 9 anni dopo sono de facto riconosciute come un istituto pressoché indispensabile per il funzionamento dell’Università italiana tanto che l’ex-ministro Mussi ritiene di dover porre il tetto (astronomico!) del 50% al numero di docenti a contratto in ciascun corso di laurea.

A quel punto la proliferazione dei contratti di docenza è diventata uno degli scandali del nostro sistema universitario, tanto più che si moltiplicano i casi di corsi affidati a titolo gratuito o a 1 euro.

Occorre dire che in ambito accademico non tutti ritengono che la questione delle docenze a contratto, comprese quelle gratuite o a compenso simbolico, debba essere considerata uno scandalo. In diversi commenti o interventi capita di trovare argomentazioni che sostanzialmente si rifanno alla libera scelta di accettare incarichi di docenza da parte dei destinatari dei contratti. Si tratta di un punto di vista fortemente criticabile per almeno due ragioni, una legata alla qualità dei corsi di studio, l’altra alla condizione di intrinseca ricattabilità di molti destinatari di contratti di docenza, spesso titolari di altre forme di contratti precari (assegni di ricerca e altro).

Per quanto riguarda la prima questione, è evidente che le procedure di scelta dei destinatari di contratti di docenza sono estremamente lasche e non offrono alcuna tutela reale agli studenti, fruitori ultimi dell’attività formativa (anche se, senza dubbio, la maggioranza dei contratti di docenza finisce comunque per essere assegnata a persone validissime).

Per quanto riguarda la ricattabilità, poiché frequentemente i contratti sono assegnati a soggetti che intrattengono altre forme di rapporto lavorativo con l’ateneo (spesso come precari della ricerca) occorre considerare la situazione di oggettiva debolezza del destinatario, spesso spinto ad accettare un insegnamento a titolo gratuito semplicemente dalla necessità di “mantenere buoni rapporti” con la struttura che dovrà in seguito rinnovargli il contratto (si tratta di una situazione non dissimile da quella che la nostra Costituzione vuole impedire nel momento in cui vieta al lavoratore di rinunziare alle proprie ferie retribuite). Spesso inoltre si stabilisce anche un meccanismo nel quale il precario cerca egli stesso di ricevere un contratto di insegnamento per inserire “titoli didattici” nel proprio curriculum: si tratta in effetti di una spirale perversa, nella quale i presunti vantaggi curricolari dei futuri candidati in una prova concorsuale si elidono a vicenda e alla fine gli unici a guadagnarci sono gli atenei, che beneficiano del lavoro gratuito di tutti.

La legge 240 ha rinormato completamente i contratti di insegnamento mediante una nuova disciplina che, fra le altre cose, introduce una distinzione fra i contratti per “esperti di alta qualificazione in possesso di un significativo curriculum scientifico o professionale” e i contratti per “soggetti in possesso di adeguati requisiti scientifici e professionali” (per semplicità in seguito indicherò la prima tipologia come “docenze 1” e la seconda tipologia come “docenze 2”). Le docenze 1 sono stipulate direttamente dal rettore e possono essere a compenso liberamente fissato dall’ateneo o a titolo gratuito, mentre le docenze 2 prevedono una valutazione comparativa e un compenso minimo, che un decreto ministeriale ha fissato in 25 euro l’ora. Nelle apparenti intenzioni degli estensori della norma è evidente che le docenze 1 dovrebbero essere affidate a grandi personalità, professionisti esterni qualificati e figure analoghe, seguendo un po’ le intenzioni della vecchia 382 (acquisizione di significative esperienze di tipo specialistico provenienti dal mondo extrauniversitario, di risultati di particolari ricerche, di studi di alta qualificazione), mentre le docenze 2 dovrebbero essere assegnate a tutti gli altri soggetti al fine di sopperire alle esigenze didattiche degli atenei secondo la filosofia del D.M. del 1998.

E’ però evidente che, in assenza di norme che in qualche maniera definiscano cosa si debba intendere per “esperto di alta qualificazione”, la distinzione fra le due tipologie di contratto è solo una foglia di fico e fatalmente, come già accaduto con la 382, molti atenei ricorreranno esclusivamente a docenze 1 assegnandole a qualsiasi soggetto. Durante la discussione parlamentare due emendamenti provenienti dal PD sono riusciti a mettere qualche paletto più sostanziale alla preventivabile proliferazione di docenze 1 gratuite, imponendo che i contratti gratuiti non possano superare il 5% del totale degli insegnamenti impartiti da ciascun ateneo e stabilendo che le docenze 1 (ma non le docenze 2) possano essere affidate esclusivamente a lavoratori dipendenti, a pensionati o a lavoratori autonomi (questi ultimi purché in possesso di un reddito annuo non inferiore a 40000 euro). La prima disposizione, pur stabilendo un principio importante, è purtroppo facilmente aggirabile, in quanto i contratti a 1 euro sono gratuiti di fatto, ma non formalmente, e non ricadono quindi nel tetto del 5%. La seconda disposizione ha avuto invece effetti ben più sostanziali e ha finalmente costretto le università a ricorrere alle docenze 2 per affidare incarichi di insegnamento ai propri precari, riconoscendo loro il compenso, sia pure ancora troppo basso, di 25 euro l’ora. Poiché però l’introduzione di requisiti legati al reddito può creare situazioni discriminatorie, tanto che il Presidente della Repubblica nella lettera con la quale accompagnò la promulgazione della legge 240 parlò di “dubbia ragionevolezza”, è stato fin dall’inizio evidente che fosse in qualche modo necessario introdurre dei cambiamenti. Questi cambiamenti sono adesso arrivati con il “decreto semplificazioni”, ma purtroppo per come il testo è stato scritto è chiaro che si è buttato via il bambino con l’acqua sporca, dal momento che l’abolizione del requisito del reddito da lavoro dipendente, da pensione o da lavoro autonomo superiore a 40000 euro è stata accompagnata dalla mera precisazione, assolutamente non vincolante, che le docenze 1 possono essere a titolo gratuito o oneroso “di importo coerente con i parametri stabiliti” per le docenze 2. E’ evidente che la parola “coerente” può significare tutto o niente: perché proprio quel termine? Basterebbe sostituirla con “non inferiore ai” per eliminare definitivamente le docenze a 1 euro dal nostro panorama universitario e limitare il ricorso a contratti sottopagati a quel 5% di docenze gratuite ammesse dalla legge 240.

Spetta ora al Ministro ed al Parlamento proporre e approvare una piccolissima modifica che fughi definitivamente il dubbio che, mentre da un lato si lavora per “offrire prospettive ai giovani”, dall’altro si offra un assist agli atenei per mantenere aperti corsi di laurea privi di docenti ricorrendo al lavoro gratuito o sottopagato proprio dei più giovani. Nell’attesa, sperabilmente, che prima o poi si arrivi alla conclusione che se servono docenti si devono fare concorsi e non tenere in piedi il sistema universitario attraverso il ricorso sistematico a contratti di insegnamento temporanei.

www.roars.it

"Mosaici ridotti a cubetti. I crolli nascosti di Pompei", di Alessandra Arachi

Per ognuno di cui si ha notizia 9 restano nell’ombra L’architetto: «Qui non esiste più la figura del mosaicista». Lentamente muore, Pompei. Al di là del clamore di crolli imponenti e fragorosi. Lentamente muoiono, gli scavi archeologici più famosi del mondo. Guardare, per credere. Le tre foto che pubblichiamo basterebbero da sole. Ma purtroppo sono soltanto un esempio. Appartengono ad un album fin troppo documentato e cospicuo. Sono state scattate qualche giorno fa. Obiettivi implacabili sopra un patrimonio dell’umanità gettato alle ortiche. Allo sbando. La parola manutenzione ordinaria non esiste nel vocabolario di chi gestisce oggi il patrimonio di Pompei.

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Guardare per credere. Cosa c’è di più famoso a Pompei del rosso «pompeiano»? Oggi c’è la pioggia, che massacra il patrimonio. Perché nessuno si è premurato di mettere un tetto sopra l’affresco della domus nella zona dei teatri (rappresentata nella foto). Ma nessuno ha pensato neanche di proteggere il mosaico della Casa del Fauno: è sommerso dall’acqua, da quasi due settimane. E le tessere salteranno come birilli, ora che l’acqua sta divorando la malta. Lentamente muore, Pompei. Camminare per le rovine, per capire. I mosaici ridotti a cubetti, neanche fossero i pezzi di costruzioni per bambini. Nella regio VI, nella via di Mercurio, quei cubetti del mosaico stanno lì abbandonati e divelti chissà più da quanto tempo, ormai.

Dimenticati come i mosaici della casa di Cecilio Giocondo dove il muschio ha preso possesso di un affresco che non potremo vedere mai più. E dire che questa domus era stata inserita nel progetto di restauro dei fondi europei. Sei anni fa furono spesi quasi nove milioni di euro per sistemare la casa di Cecilio Giocondo insieme ad altre quattro case. Dopo il restauro la domus non è mai più stata aperta al pubblico. Del resto oggi si contano sulla punta delle dita le domus che possono essere visitate. C’è la domus del Menandro, fra queste. Entrate dentro e guardate le pitture delle sue sale: sembrano essere rimaste vittime di un vandalo incallito. Semplicemente non sono mai state protette. Curate.
Dimenticate, come i mosaici, tanti, che a Pompei sono in balia di tutti gli eventi. Nella Casa del Fauno nemmeno la copia della bellissima «Battaglia di Alessandro», in uno dei saloni laterali, è rimasta indenne, attraversata com’è longitudinalmente da una lesione piuttosto profonda. Semplicemente nessuno si è mai premurato di proteggerla.

«Semplicemente a Pompei non esiste più da tempo la figura professionale del mosaicista», dice Antonio Irlando, architetto, responsabile dell’Osservatorio culturale della Regione. Poi spiega, scuotendo la testa: «La verità è che a Pompei fino a due mesi fa non esistevano altro se non quattro operai non specializzati che dovevano badare a tutti e 66 ettari di scavi. Oggi sono state fatte 22 assunzioni: 10 archeologi, 8 architetti, 2 amministrativi. Ma oltre Pompei devono occuparsi di Ercolano, Napoli e tutti gli altri beni della Provincia». In attesa dei nuovi fondi europei (davvero i 105 milioni saranno tutti per questi scavi, alla fine?) a Pompei non si riesce a capire perché i tanti milioni di fondi annunciati con spot negli anni scorsi durante le varie fasi di commissariamento non sono mai finiti nelle domus, o nei teatri, o sulle pitture o sugli affreschi. Dove sono finiti, invece? Nella casa dei Casti Amanti 4 milioni ci sono finiti. L’allora commissario Marcello Fiori definì questo il «cantiere evento». Sono passati due anni. L’evento oggi è che il cantiere non si ancora mosso da lì.

Lentamente muore, Pompei. Al di là del clamore dei crolli. «La verità è che a voler essere ottimisti negli scavi ad ogni crollo di cui si ha notizia ne corrispondono almeno nove che rimangono nell’ombra», garantisce l’architetto Irlando, facendo i suoi calcoli drammatici: «Un crollo per ogni Regio in cui è suddivisa l’antica città romana. Un vero strazio».

www.corriere.it

“Mosaici ridotti a cubetti. I crolli nascosti di Pompei”, di Alessandra Arachi

Per ognuno di cui si ha notizia 9 restano nell’ombra L’architetto: «Qui non esiste più la figura del mosaicista». Lentamente muore, Pompei. Al di là del clamore di crolli imponenti e fragorosi. Lentamente muoiono, gli scavi archeologici più famosi del mondo. Guardare, per credere. Le tre foto che pubblichiamo basterebbero da sole. Ma purtroppo sono soltanto un esempio. Appartengono ad un album fin troppo documentato e cospicuo. Sono state scattate qualche giorno fa. Obiettivi implacabili sopra un patrimonio dell’umanità gettato alle ortiche. Allo sbando. La parola manutenzione ordinaria non esiste nel vocabolario di chi gestisce oggi il patrimonio di Pompei.

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Guardare per credere. Cosa c’è di più famoso a Pompei del rosso «pompeiano»? Oggi c’è la pioggia, che massacra il patrimonio. Perché nessuno si è premurato di mettere un tetto sopra l’affresco della domus nella zona dei teatri (rappresentata nella foto). Ma nessuno ha pensato neanche di proteggere il mosaico della Casa del Fauno: è sommerso dall’acqua, da quasi due settimane. E le tessere salteranno come birilli, ora che l’acqua sta divorando la malta. Lentamente muore, Pompei. Camminare per le rovine, per capire. I mosaici ridotti a cubetti, neanche fossero i pezzi di costruzioni per bambini. Nella regio VI, nella via di Mercurio, quei cubetti del mosaico stanno lì abbandonati e divelti chissà più da quanto tempo, ormai.

Dimenticati come i mosaici della casa di Cecilio Giocondo dove il muschio ha preso possesso di un affresco che non potremo vedere mai più. E dire che questa domus era stata inserita nel progetto di restauro dei fondi europei. Sei anni fa furono spesi quasi nove milioni di euro per sistemare la casa di Cecilio Giocondo insieme ad altre quattro case. Dopo il restauro la domus non è mai più stata aperta al pubblico. Del resto oggi si contano sulla punta delle dita le domus che possono essere visitate. C’è la domus del Menandro, fra queste. Entrate dentro e guardate le pitture delle sue sale: sembrano essere rimaste vittime di un vandalo incallito. Semplicemente non sono mai state protette. Curate.
Dimenticate, come i mosaici, tanti, che a Pompei sono in balia di tutti gli eventi. Nella Casa del Fauno nemmeno la copia della bellissima «Battaglia di Alessandro», in uno dei saloni laterali, è rimasta indenne, attraversata com’è longitudinalmente da una lesione piuttosto profonda. Semplicemente nessuno si è mai premurato di proteggerla.

«Semplicemente a Pompei non esiste più da tempo la figura professionale del mosaicista», dice Antonio Irlando, architetto, responsabile dell’Osservatorio culturale della Regione. Poi spiega, scuotendo la testa: «La verità è che a Pompei fino a due mesi fa non esistevano altro se non quattro operai non specializzati che dovevano badare a tutti e 66 ettari di scavi. Oggi sono state fatte 22 assunzioni: 10 archeologi, 8 architetti, 2 amministrativi. Ma oltre Pompei devono occuparsi di Ercolano, Napoli e tutti gli altri beni della Provincia». In attesa dei nuovi fondi europei (davvero i 105 milioni saranno tutti per questi scavi, alla fine?) a Pompei non si riesce a capire perché i tanti milioni di fondi annunciati con spot negli anni scorsi durante le varie fasi di commissariamento non sono mai finiti nelle domus, o nei teatri, o sulle pitture o sugli affreschi. Dove sono finiti, invece? Nella casa dei Casti Amanti 4 milioni ci sono finiti. L’allora commissario Marcello Fiori definì questo il «cantiere evento». Sono passati due anni. L’evento oggi è che il cantiere non si ancora mosso da lì.

Lentamente muore, Pompei. Al di là del clamore dei crolli. «La verità è che a voler essere ottimisti negli scavi ad ogni crollo di cui si ha notizia ne corrispondono almeno nove che rimangono nell’ombra», garantisce l’architetto Irlando, facendo i suoi calcoli drammatici: «Un crollo per ogni Regio in cui è suddivisa l’antica città romana. Un vero strazio».

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"Una tenaglia di leggi ad personam e il Cavaliere soffoca la sentenza Mills", di Liana Milella

Il primo colpo dalla Cirielli, poi Lodo e legittimo impedimento
La prescrizione per la corruzione in origine scattava dopo 10 anni. Ma nel 2005 il tempo è stato limitato a 7 anni
Alfano firmò lo “scudo” che bloccò per mesi la causa. Norma bocciata dalla Consulta come quella sulle assenze in udienza. Grazie Cirielli. O per essere più precisi ex Cirielli, visto che il suo estensore, l´ex An oggi presidente della Provincia di Salerno, nel 2005 scaricò la sua creatura proprio quando diventò il contenitore, per mano del forzista Luigi Vitali, della più micidiale delle leggi ad personam, il killer della prescrizione. La ridusse dal massimo della pena più la metà ad un quarto. Il miracolo era fatto. La corruzione, dai dieci anni di tempo in cui la magistratura poteva perseguire il delitto, scendeva a poco più di sette. Le proteste, pur dure, non valsero a nulla. Se oggi non c´è una sentenza sul caso Mills lo si deve a quella legge.
IL METODO SALVA-SILVIO
Incassato il grosso risultato, il Cavaliere e i suoi esperti giuridici, l´avvocato Niccolò Ghedini in primis, non si sono messi tranquilli. Superata la pausa forzata del governo Prodi hanno ripreso con il massimo vigore nel disperato tentativo di cancellare i processi. Per tre anni la fabbrica delle leggi «Salva Silvio» ha funzionato di continuo. Ghedini, Longo, Paniz, al contempo autori e sponsor, le menti giuridiche. A Milano arrancavano i processi Mills, Mediaset, Mediatrade, Ruby, a Roma spuntavano le leggine per tentare di bloccarli. Una rincorsa continua. Indifferenti al fatto che per salvare Silvio si buttano a mare centinaia di altre inchieste. Con aspetti grotteschi come l´exploit dell´anno scorso quando, nel disperato tentativo di stoppare la sentenza Mills, tra Camera e Senato continuavano a rincorrersi la prescrizione breve, il processo lungo, la blocca-Ruby. Un delirio in cui finivano per confondersi pure gli addetti ai lavori. La fabbrica è entrata in funzione con la nascita del quarto governo del Cavaliere, l´8 maggio del 2008. Ha chiuso i battenti un paio di settimane prima del 16 novembre quando Berlusconi ha gettato la spugna.
SI PARTE CON LA BLOCCA-PROCESSI
Il governo è in carica da nemmeno due mesi ed ecco la prima mossa. Quella che prosegue la tradizione del precedente esecutivo del Cavaliere, il quinquennio 2001-2006 quando, per azzerare i processi Sme, Imi-Sir, lodo Mondadori, si rimpallano le leggi capestro su rogatorie, falso in bilancio, legittimo sospetto (la famosa Cirami), la Cirielli, la Pecorella per cancellare l´appello, il lodo Schifani (il primo scudo congela processi). Nel 2008 lo scatto è felino. Nel decreto sulla sicurezza, firmato dal titolare dell´Interno Bobo Maroni, c´è la norma blocca-processi. Prevede che siano «immediatamente sospesi per un anno quelli relativi a fatti commessi fino al 30 giugno 2002 e che si trovino in uno stato compreso tra la fissazione dell´udienza preliminare e la chiusura del dibattimento di primo grado». È un “lodino Schifani”, ma con la prescrizione bloccata. Esplode la collera dell´Anm («Qui muoiono 100mila processi») e a ruota quella di Napolitano. Si mette di traverso la presidente della commissione Giustizia Giulia Bongiorno, che diventerà la spina nel fianco del collega Ghedini. Lui escogita leggi per salvare il suo assistito, lei individua il tranello e lo ferma. I due saranno protagonisti dello scontro epocale sulle intercettazioni, la legge per imbavagliare la stampa.
L´INUTILE CORSA DEL LODO ALFANO
Sulla blocca processi si tratta disperatamente. Berlusconi strappa la promessa di varare un nuovo scudo per congelare i dibattimenti delle alte cariche. Dentro i presidenti della Repubblica, del Consiglio, di Camera e Senato. Resta fuori quello della Consulta. Il Guardasigilli Angelino Alfano firma l´unica legge per cui finirà nei libri di storia, il lodo Alfano. Il 23 luglio 2008 lo scudo viene licenziato da Napolitano con una nota che cita la sentenza 24 del 2004 con cui la Consulta bocciava lo scudo Schifani del 2003. Il presidente, preoccupato, previene le critiche di chi, come Di Pietro, avrebbe preteso lo stop del Colle. Il Quirinale sostiene che, pur senza varare una legge costituzionale come scrive la Corte, esiste «un apprezzabile interesse a garantire il sereno svolgimento delle funzioni». Berlusconi può dormire tranquillo, i suoi processi si fermano. Ma un appello di cento costituzionalisti, il milione di firme per il referendum messo insieme da Di Pietro che le deposita il 7 gennaio 2009, il ricorso alla Corte dei giudici di Milano, producono la bocciatura del lodo, che la Consulta cassa il 7 ottobre 2009.
LA SFIDA DEL PROCESSO BREVE
È durata poco la «pace» del Cavaliere. Che ricomincia ad agitarsi. La sfida di un lodo costituzionale appare irrealistica, tant´è che un nuovo testo viene presentato solo a maggio 2010. Ben altro ha in mente il Pdl. Si scopre quando al Senato, è il 12 novembre 2009, i capigruppo Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello formalizzano il ddl sul processo breve, bizzarra alchimia per cui i dibattimenti devono durare in tutto non più di sei anni e mezzo. Pure quelli già in corso, pur partiti in base alle vecchie regole. Il 20 gennaio il Senato lo approva. Fuori protesta il Popolo viola. La norma prevede di cancellare i processi in corso che, a far data dal maggio 2006, quello dell´indulto di Prodi, per pene fino a dieci anni, non abbiano rispettato i vincoli temporali, tre anni in primo grado, due in secondo, uno e mezzo nel terzo. Una regola costruita a pennello per le cause di Berlusconi. Falcidiati Mills e Mediaset. A rischio Mediatrade.
LA VIA DEL LEGITTIMO IMPEDIMENTO
Dal Colle trapela il chiaro messaggio che così il processo breve non sarà mai controfirmato. I processi premono, Mills soprattutto. Berlusconi tratta di nuovo, come prima del lodo Alfano. Promette di rinunciare al processo breve in cambio di un nuovo scudo. Si ripete la storia della blocca-processi. L´ancora di salvataggio gliela butta l´Udc che s´inventa il legittimo impedimento, legge a tempo per 18 mesi per congelare i processi del premier. L´esile «ponte tibetano», come lo battezza Michele Vietti, diventa legge il 7 aprile 2010. Ma i consiglieri giuridici del premier lo caricano troppo, ci mettono pure i ministri e un meccanismo di sospensione talmente automatico da ledere l´autonomia di decisione del giudice, che per giunta deve fidarsi di un´autocertificazione di palazzo Chigi. Tant´è che la Consulta lo azzoppa meno di un anno dopo, il 13 gennaio 2011.
MINACCIA PRESCRIZIONE BREVE
Berlusconi è di nuovo nudo. Non resta che l´offensiva finale. Il 17 marzo ecco il colpo di scena alla Camera, per mano di Maurizio Paniz ed Enrico Costa. Spunta la prescrizione breve, nuova invenzione della fabbrica Ghedini-Longo. È un emendamento al contestato processo breve, nel frattempo arenato alla Camera, cucito addosso al caso Mills. Si fa un regalo agli incensurati riducendo ancora la prescrizione dopo il «trattamento» Cirielli, dal massimo della pena più un quarto la si porta a un sesto per chi ha il casellario giudiziario pulito. Il Csm calcola fino a 15mila processi «defunti». L´Anm concorda. Ma la Camera lo vota il 13 aprile, Alfano lo difende pubblicamente, il presidente dell´Anm Luca Palamara parla di «amnistia mascherata».
NIENTE PROCESSO LUNGO
Il Pdl stavolta decide di giocare su più tavoli. Un ddl leghista per stoppare il rito abbreviato ai mafiosi diventa il contenitore per un´altra «Salva Silvio». Fa il suo ingresso sul proscenio il processo lungo. Che recita: il giudice deve per forza accettare la lista testi delle difese, non si possono utilizzare le sentenze passate in giudicato in nuovi processi. Giusto il caso Mills. Il Senato lo vota. Ma sulla testa di Silvio cade la tegola Ruby. Tentativi blocca RubyLa stagione delle leggi ad personam sta per chiuderesi, ma con i fuochi d´artificio finali. Ancora Paniz cerca di stoppare l´inchiesta della Boccassini con un conflitto di attribuzione votato dalla Camera il 5 aprile 2011 che sostiene la ministerialità del reato. Due settimane dopo, al Senato, spunta la norma del capogruppo Pdl Franco Mugnai per rendere obbligatoria la sospensione del dibattimento (oggi ne ha diritto solo il giudice) se la parte si rivolge alla Corte. Due conflitti, per Ruby e Mediaset, due stop. Per non lasciare niente d´intentato ecco perfino il tentativo di far passare la norma, nella ratifica della convenzione di Lanzarote, per far andare nelle piccole procure i reati sullo sfruttamento sessuale dei minori. Il Rubygate da Milano finirebbe a Monza. Tutto inutile. La maggioranza è sempre più in crisi. L´alternativa tra processo lungo e prescrizione breve diventa oggetto di vignette satiriche. Il governo cade. I processi vanno avanti.

La Repubblica 26.02.12

“Una tenaglia di leggi ad personam e il Cavaliere soffoca la sentenza Mills”, di Liana Milella

Il primo colpo dalla Cirielli, poi Lodo e legittimo impedimento
La prescrizione per la corruzione in origine scattava dopo 10 anni. Ma nel 2005 il tempo è stato limitato a 7 anni
Alfano firmò lo “scudo” che bloccò per mesi la causa. Norma bocciata dalla Consulta come quella sulle assenze in udienza. Grazie Cirielli. O per essere più precisi ex Cirielli, visto che il suo estensore, l´ex An oggi presidente della Provincia di Salerno, nel 2005 scaricò la sua creatura proprio quando diventò il contenitore, per mano del forzista Luigi Vitali, della più micidiale delle leggi ad personam, il killer della prescrizione. La ridusse dal massimo della pena più la metà ad un quarto. Il miracolo era fatto. La corruzione, dai dieci anni di tempo in cui la magistratura poteva perseguire il delitto, scendeva a poco più di sette. Le proteste, pur dure, non valsero a nulla. Se oggi non c´è una sentenza sul caso Mills lo si deve a quella legge.
IL METODO SALVA-SILVIO
Incassato il grosso risultato, il Cavaliere e i suoi esperti giuridici, l´avvocato Niccolò Ghedini in primis, non si sono messi tranquilli. Superata la pausa forzata del governo Prodi hanno ripreso con il massimo vigore nel disperato tentativo di cancellare i processi. Per tre anni la fabbrica delle leggi «Salva Silvio» ha funzionato di continuo. Ghedini, Longo, Paniz, al contempo autori e sponsor, le menti giuridiche. A Milano arrancavano i processi Mills, Mediaset, Mediatrade, Ruby, a Roma spuntavano le leggine per tentare di bloccarli. Una rincorsa continua. Indifferenti al fatto che per salvare Silvio si buttano a mare centinaia di altre inchieste. Con aspetti grotteschi come l´exploit dell´anno scorso quando, nel disperato tentativo di stoppare la sentenza Mills, tra Camera e Senato continuavano a rincorrersi la prescrizione breve, il processo lungo, la blocca-Ruby. Un delirio in cui finivano per confondersi pure gli addetti ai lavori. La fabbrica è entrata in funzione con la nascita del quarto governo del Cavaliere, l´8 maggio del 2008. Ha chiuso i battenti un paio di settimane prima del 16 novembre quando Berlusconi ha gettato la spugna.
SI PARTE CON LA BLOCCA-PROCESSI
Il governo è in carica da nemmeno due mesi ed ecco la prima mossa. Quella che prosegue la tradizione del precedente esecutivo del Cavaliere, il quinquennio 2001-2006 quando, per azzerare i processi Sme, Imi-Sir, lodo Mondadori, si rimpallano le leggi capestro su rogatorie, falso in bilancio, legittimo sospetto (la famosa Cirami), la Cirielli, la Pecorella per cancellare l´appello, il lodo Schifani (il primo scudo congela processi). Nel 2008 lo scatto è felino. Nel decreto sulla sicurezza, firmato dal titolare dell´Interno Bobo Maroni, c´è la norma blocca-processi. Prevede che siano «immediatamente sospesi per un anno quelli relativi a fatti commessi fino al 30 giugno 2002 e che si trovino in uno stato compreso tra la fissazione dell´udienza preliminare e la chiusura del dibattimento di primo grado». È un “lodino Schifani”, ma con la prescrizione bloccata. Esplode la collera dell´Anm («Qui muoiono 100mila processi») e a ruota quella di Napolitano. Si mette di traverso la presidente della commissione Giustizia Giulia Bongiorno, che diventerà la spina nel fianco del collega Ghedini. Lui escogita leggi per salvare il suo assistito, lei individua il tranello e lo ferma. I due saranno protagonisti dello scontro epocale sulle intercettazioni, la legge per imbavagliare la stampa.
L´INUTILE CORSA DEL LODO ALFANO
Sulla blocca processi si tratta disperatamente. Berlusconi strappa la promessa di varare un nuovo scudo per congelare i dibattimenti delle alte cariche. Dentro i presidenti della Repubblica, del Consiglio, di Camera e Senato. Resta fuori quello della Consulta. Il Guardasigilli Angelino Alfano firma l´unica legge per cui finirà nei libri di storia, il lodo Alfano. Il 23 luglio 2008 lo scudo viene licenziato da Napolitano con una nota che cita la sentenza 24 del 2004 con cui la Consulta bocciava lo scudo Schifani del 2003. Il presidente, preoccupato, previene le critiche di chi, come Di Pietro, avrebbe preteso lo stop del Colle. Il Quirinale sostiene che, pur senza varare una legge costituzionale come scrive la Corte, esiste «un apprezzabile interesse a garantire il sereno svolgimento delle funzioni». Berlusconi può dormire tranquillo, i suoi processi si fermano. Ma un appello di cento costituzionalisti, il milione di firme per il referendum messo insieme da Di Pietro che le deposita il 7 gennaio 2009, il ricorso alla Corte dei giudici di Milano, producono la bocciatura del lodo, che la Consulta cassa il 7 ottobre 2009.
LA SFIDA DEL PROCESSO BREVE
È durata poco la «pace» del Cavaliere. Che ricomincia ad agitarsi. La sfida di un lodo costituzionale appare irrealistica, tant´è che un nuovo testo viene presentato solo a maggio 2010. Ben altro ha in mente il Pdl. Si scopre quando al Senato, è il 12 novembre 2009, i capigruppo Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello formalizzano il ddl sul processo breve, bizzarra alchimia per cui i dibattimenti devono durare in tutto non più di sei anni e mezzo. Pure quelli già in corso, pur partiti in base alle vecchie regole. Il 20 gennaio il Senato lo approva. Fuori protesta il Popolo viola. La norma prevede di cancellare i processi in corso che, a far data dal maggio 2006, quello dell´indulto di Prodi, per pene fino a dieci anni, non abbiano rispettato i vincoli temporali, tre anni in primo grado, due in secondo, uno e mezzo nel terzo. Una regola costruita a pennello per le cause di Berlusconi. Falcidiati Mills e Mediaset. A rischio Mediatrade.
LA VIA DEL LEGITTIMO IMPEDIMENTO
Dal Colle trapela il chiaro messaggio che così il processo breve non sarà mai controfirmato. I processi premono, Mills soprattutto. Berlusconi tratta di nuovo, come prima del lodo Alfano. Promette di rinunciare al processo breve in cambio di un nuovo scudo. Si ripete la storia della blocca-processi. L´ancora di salvataggio gliela butta l´Udc che s´inventa il legittimo impedimento, legge a tempo per 18 mesi per congelare i processi del premier. L´esile «ponte tibetano», come lo battezza Michele Vietti, diventa legge il 7 aprile 2010. Ma i consiglieri giuridici del premier lo caricano troppo, ci mettono pure i ministri e un meccanismo di sospensione talmente automatico da ledere l´autonomia di decisione del giudice, che per giunta deve fidarsi di un´autocertificazione di palazzo Chigi. Tant´è che la Consulta lo azzoppa meno di un anno dopo, il 13 gennaio 2011.
MINACCIA PRESCRIZIONE BREVE
Berlusconi è di nuovo nudo. Non resta che l´offensiva finale. Il 17 marzo ecco il colpo di scena alla Camera, per mano di Maurizio Paniz ed Enrico Costa. Spunta la prescrizione breve, nuova invenzione della fabbrica Ghedini-Longo. È un emendamento al contestato processo breve, nel frattempo arenato alla Camera, cucito addosso al caso Mills. Si fa un regalo agli incensurati riducendo ancora la prescrizione dopo il «trattamento» Cirielli, dal massimo della pena più un quarto la si porta a un sesto per chi ha il casellario giudiziario pulito. Il Csm calcola fino a 15mila processi «defunti». L´Anm concorda. Ma la Camera lo vota il 13 aprile, Alfano lo difende pubblicamente, il presidente dell´Anm Luca Palamara parla di «amnistia mascherata».
NIENTE PROCESSO LUNGO
Il Pdl stavolta decide di giocare su più tavoli. Un ddl leghista per stoppare il rito abbreviato ai mafiosi diventa il contenitore per un´altra «Salva Silvio». Fa il suo ingresso sul proscenio il processo lungo. Che recita: il giudice deve per forza accettare la lista testi delle difese, non si possono utilizzare le sentenze passate in giudicato in nuovi processi. Giusto il caso Mills. Il Senato lo vota. Ma sulla testa di Silvio cade la tegola Ruby. Tentativi blocca RubyLa stagione delle leggi ad personam sta per chiuderesi, ma con i fuochi d´artificio finali. Ancora Paniz cerca di stoppare l´inchiesta della Boccassini con un conflitto di attribuzione votato dalla Camera il 5 aprile 2011 che sostiene la ministerialità del reato. Due settimane dopo, al Senato, spunta la norma del capogruppo Pdl Franco Mugnai per rendere obbligatoria la sospensione del dibattimento (oggi ne ha diritto solo il giudice) se la parte si rivolge alla Corte. Due conflitti, per Ruby e Mediaset, due stop. Per non lasciare niente d´intentato ecco perfino il tentativo di far passare la norma, nella ratifica della convenzione di Lanzarote, per far andare nelle piccole procure i reati sullo sfruttamento sessuale dei minori. Il Rubygate da Milano finirebbe a Monza. Tutto inutile. La maggioranza è sempre più in crisi. L´alternativa tra processo lungo e prescrizione breve diventa oggetto di vignette satiriche. Il governo cade. I processi vanno avanti.

La Repubblica 26.02.12