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"Il ritorno delle docenze a un euro", di Luca Schiaffino

In una dichiarazione rilasciata nelle prime settimane del proprio mandato il ministro Profumo ha affermato che il nuovo governo non sarebbe intervenuto sulla legge 240, ma si sarebbe limitato ad “oliare il sistema”. Questa dichiarazione ha ovviamente deluso chi si augurava che il cambio di governo avrebbe reso possibile una rapida uscita dallo stato di paralisi nel quale i meccanismi sabotatori e bizantini della “riforma” hanno gettato l’università italiana, ma questa scelta è probabilmente obbligata per un governo tecnico che per di più ha come principale partito della propria maggioranza parlamentare la stessa forza politica che ha promosso e approvato la nuova legge. Ciononostante, nel cosiddetto “decreto semplificazioni” approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 3 febbraio, si trovano alcune misure in materia di università che modificano alcune parti della legge 240.

Gli interventi sulla “riforma” sono per lo più correzioni di natura formale o piccole modifiche destinate ad avere impatto su situazioni molto specifiche, ma fra di essi si annida una serie di cambiamenti nella disciplina dei contratti per attività di insegnamento destinati a riaprire le porte ai contratti di insegnamento a 1 euro e quindi ad avere un impatto notevole sul funzionamento di molti corsi di laurea e su quelle “condizioni di lavoro dei giovani” che il governo continuamente dichiara di aver messo in testa alla propria agenda di priorità.

Per comprendere la natura di tali cambiamenti occorre fare un passo indietro: le “docenze a contratto” nascono (articolo 25 del D.P.R. 11 luglio 1980, n. 382) con il fine dichiarato della “acquisizione di significative esperienze teorico-pratiche di tipo specialistico provenienti dal mondo extrauniversitario ovvero di risultati di particolari ricerche, o studi di alta qualificazione scientifica o professionale”, ma in breve tempo si trasformano in uno strumento per affidare incarichi di insegnamento più o meno retribuiti a qualunque “volenteroso”, tanto che 18 anni più tardi (D.M. 21 maggio 1998, n. 242) diventano ufficialmente uno strumento per “sopperire a particolari e motivate esigenze didattiche” e 9 anni dopo sono de facto riconosciute come un istituto pressoché indispensabile per il funzionamento dell’Università italiana tanto che l’ex-ministro Mussi ritiene di dover porre il tetto (astronomico!) del 50% al numero di docenti a contratto in ciascun corso di laurea.

A quel punto la proliferazione dei contratti di docenza è diventata uno degli scandali del nostro sistema universitario, tanto più che si moltiplicano i casi di corsi affidati a titolo gratuito o a 1 euro.

Occorre dire che in ambito accademico non tutti ritengono che la questione delle docenze a contratto, comprese quelle gratuite o a compenso simbolico, debba essere considerata uno scandalo. In diversi commenti o interventi capita di trovare argomentazioni che sostanzialmente si rifanno alla libera scelta di accettare incarichi di docenza da parte dei destinatari dei contratti. Si tratta di un punto di vista fortemente criticabile per almeno due ragioni, una legata alla qualità dei corsi di studio, l’altra alla condizione di intrinseca ricattabilità di molti destinatari di contratti di docenza, spesso titolari di altre forme di contratti precari (assegni di ricerca e altro).

Per quanto riguarda la prima questione, è evidente che le procedure di scelta dei destinatari di contratti di docenza sono estremamente lasche e non offrono alcuna tutela reale agli studenti, fruitori ultimi dell’attività formativa (anche se, senza dubbio, la maggioranza dei contratti di docenza finisce comunque per essere assegnata a persone validissime).

Per quanto riguarda la ricattabilità, poiché frequentemente i contratti sono assegnati a soggetti che intrattengono altre forme di rapporto lavorativo con l’ateneo (spesso come precari della ricerca) occorre considerare la situazione di oggettiva debolezza del destinatario, spesso spinto ad accettare un insegnamento a titolo gratuito semplicemente dalla necessità di “mantenere buoni rapporti” con la struttura che dovrà in seguito rinnovargli il contratto (si tratta di una situazione non dissimile da quella che la nostra Costituzione vuole impedire nel momento in cui vieta al lavoratore di rinunziare alle proprie ferie retribuite). Spesso inoltre si stabilisce anche un meccanismo nel quale il precario cerca egli stesso di ricevere un contratto di insegnamento per inserire “titoli didattici” nel proprio curriculum: si tratta in effetti di una spirale perversa, nella quale i presunti vantaggi curricolari dei futuri candidati in una prova concorsuale si elidono a vicenda e alla fine gli unici a guadagnarci sono gli atenei, che beneficiano del lavoro gratuito di tutti.

La legge 240 ha rinormato completamente i contratti di insegnamento mediante una nuova disciplina che, fra le altre cose, introduce una distinzione fra i contratti per “esperti di alta qualificazione in possesso di un significativo curriculum scientifico o professionale” e i contratti per “soggetti in possesso di adeguati requisiti scientifici e professionali” (per semplicità in seguito indicherò la prima tipologia come “docenze 1” e la seconda tipologia come “docenze 2”). Le docenze 1 sono stipulate direttamente dal rettore e possono essere a compenso liberamente fissato dall’ateneo o a titolo gratuito, mentre le docenze 2 prevedono una valutazione comparativa e un compenso minimo, che un decreto ministeriale ha fissato in 25 euro l’ora. Nelle apparenti intenzioni degli estensori della norma è evidente che le docenze 1 dovrebbero essere affidate a grandi personalità, professionisti esterni qualificati e figure analoghe, seguendo un po’ le intenzioni della vecchia 382 (acquisizione di significative esperienze di tipo specialistico provenienti dal mondo extrauniversitario, di risultati di particolari ricerche, di studi di alta qualificazione), mentre le docenze 2 dovrebbero essere assegnate a tutti gli altri soggetti al fine di sopperire alle esigenze didattiche degli atenei secondo la filosofia del D.M. del 1998.

E’ però evidente che, in assenza di norme che in qualche maniera definiscano cosa si debba intendere per “esperto di alta qualificazione”, la distinzione fra le due tipologie di contratto è solo una foglia di fico e fatalmente, come già accaduto con la 382, molti atenei ricorreranno esclusivamente a docenze 1 assegnandole a qualsiasi soggetto. Durante la discussione parlamentare due emendamenti provenienti dal PD sono riusciti a mettere qualche paletto più sostanziale alla preventivabile proliferazione di docenze 1 gratuite, imponendo che i contratti gratuiti non possano superare il 5% del totale degli insegnamenti impartiti da ciascun ateneo e stabilendo che le docenze 1 (ma non le docenze 2) possano essere affidate esclusivamente a lavoratori dipendenti, a pensionati o a lavoratori autonomi (questi ultimi purché in possesso di un reddito annuo non inferiore a 40000 euro). La prima disposizione, pur stabilendo un principio importante, è purtroppo facilmente aggirabile, in quanto i contratti a 1 euro sono gratuiti di fatto, ma non formalmente, e non ricadono quindi nel tetto del 5%. La seconda disposizione ha avuto invece effetti ben più sostanziali e ha finalmente costretto le università a ricorrere alle docenze 2 per affidare incarichi di insegnamento ai propri precari, riconoscendo loro il compenso, sia pure ancora troppo basso, di 25 euro l’ora. Poiché però l’introduzione di requisiti legati al reddito può creare situazioni discriminatorie, tanto che il Presidente della Repubblica nella lettera con la quale accompagnò la promulgazione della legge 240 parlò di “dubbia ragionevolezza”, è stato fin dall’inizio evidente che fosse in qualche modo necessario introdurre dei cambiamenti. Questi cambiamenti sono adesso arrivati con il “decreto semplificazioni”, ma purtroppo per come il testo è stato scritto è chiaro che si è buttato via il bambino con l’acqua sporca, dal momento che l’abolizione del requisito del reddito da lavoro dipendente, da pensione o da lavoro autonomo superiore a 40000 euro è stata accompagnata dalla mera precisazione, assolutamente non vincolante, che le docenze 1 possono essere a titolo gratuito o oneroso “di importo coerente con i parametri stabiliti” per le docenze 2. E’ evidente che la parola “coerente” può significare tutto o niente: perché proprio quel termine? Basterebbe sostituirla con “non inferiore ai” per eliminare definitivamente le docenze a 1 euro dal nostro panorama universitario e limitare il ricorso a contratti sottopagati a quel 5% di docenze gratuite ammesse dalla legge 240.

Spetta ora al Ministro ed al Parlamento proporre e approvare una piccolissima modifica che fughi definitivamente il dubbio che, mentre da un lato si lavora per “offrire prospettive ai giovani”, dall’altro si offra un assist agli atenei per mantenere aperti corsi di laurea privi di docenti ricorrendo al lavoro gratuito o sottopagato proprio dei più giovani. Nell’attesa, sperabilmente, che prima o poi si arrivi alla conclusione che se servono docenti si devono fare concorsi e non tenere in piedi il sistema universitario attraverso il ricorso sistematico a contratti di insegnamento temporanei.

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