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Bersani: il governo ascolti di più la gente «No alle ammucchiate», di Maria Zegarelli

Tornare alla normalità. Questo il messaggio di Pier Luigi Bersani, prima nel corso di un’iniziativa a Gorizia e poi a “Che tempo che fa”. Basta formule di emergenza, nel 2013 destra e sinistra torneranno a confrontarsi. A tutti quelli che dopo Monti auspicano ancora Monti, una sorta di grande coalizione ad oltranza, Pier Luigi Bersani pressato non soltanto dai desiderata centristi ma anche da una buona fetta dei suoi, a partire da Letta e Veltroni risponde che no, non riesce a immaginare «che si possa andare alle elezioni proponendo l’eccezionalità».
No all’eccezionalità senza fine in un Paese sempre in emergenza e no all’accordo che attraverso «un autorevolissimo ambasciatore» Silvio Berlusconi gli ha proposto sulla gestione della Rai. «Recedi dalle tue posizioni intransigenti sulla riforma della governance e troviamo una soluzione, fa tu i nomi che vuoi nel Consiglio di amministrazione», questo il senso del discorso, fatto per interposta persona. «Ringrazio Berlusconi, considerato che potremmo anche avere la maggioranza, ma il Pd non cambia idea: la politica deve uscire dalla Rai», è stata la risposta del segretario Pd.
Tornare alla «normalità», davanti agli elettori, «pretendendo una democrazia normale, dove ci siano progetti alternativi, e poi le figure tecniche sceglieranno, vedranno. Per l’amor di Dio, grande apertura, non ci sarà il manuale Cencelli, quando candidammo Prodi era un tecnico, quando Ciampi era nel nostro governo era un tecnico», ma il punto resta politico. C’è bisogno, dice, di una maggioranza politica, coerente, in grado di sostenere le riforme che il governo che verrà dovrà fare. Tornare alla normalità in politica ma conquistare la normalità in Rai, dove a decidere non possono più essere i partiti e la logica spartitoria che fino a oggi ha caratterizzato le sorti del servizio pubblico.
E a chi gli chiede a margine di un’iniziativa a Gorizia se ci sarà il Monti bis, Bersani risponde con domande che sembrano rivolte ai leader di Terzo Polo e Pdl, ma anche a molti democratici da tempo alla ricerca del nuovo leader da giocarsi alle politiche del 2013. «Nel 2013 ci sarà consentito di essere una democrazia come le altre? Ci sarà consentito di vedere un sistema politico riformato, con le riforme elettorale e istituzionale, e dopo i due polmoni della democrazia che si confrontino, come avviene negli Usa, in Francia e in Germania?».
«TUTTI FACCIANO UNO SFORZO»
Ma intanto bisogna arrivarci a quell’appuntamento e il segretario Pd sa che è da questo momento in poi che l’appoggio al governo Monti diventa gioco di alta acrobazia per il suo partito: la riforma del lavoro sarà il banco di prova. Bersani, dopo il colloquio con il premier, si è mostrato cautamente ottimista, eppure puntualizza: «Il governo deve non solo asupicare, ma lavorare per l’accordo, francamente se guardo al merito della discussione, penso ci siano le condizioni per fare un buon accordo, di innovazione. Vorrei essere sicuro, però, che tutti facciano lo sforzo necessario in questa direzione, perché in qualche momento mi sembra che non tutti ci puntino con determinazione». Evidente il riferimento al ministro Elsa Fornero e a molti colleghi in Parlamento: «Sull’articolo 18 mi sono permesso di alzare un po’ la voce, lo faccio quando vedo che i binari cominciano ad andare fuori asse. Per giorni ho sentito dire che se l’accordo non ci fosse stato lo avrebbe fatto comunque il governo. Mi sono detto:
ma vogliamo scherzare?». Il punto, spiega, non è se l’esecutivo ascolta o no il Pd: il punto è che «qualche volta si ha l’impressione che l’orecchio sulla vita comune dei cittadini non sia sufficiente da parte di questo governo, ma spero che questa cosa nelle prossime settimane si possa correggere». Perché, in fase di recessione ha ribadito Bersani ieri sera ospite di Fabio Fazio a “Che tempo che fa” le riforme «devono essere frutto di un accordo», per garantire la coesione sociale. Partire dalla precarietà, aggiunge, fare una riforma degli ammortizzatori sociali trovando le risorse necessarie e poi, dato che l’appoggio a Monti «è leale» ma critico, bene lo sviluppo, «ma bisogna abbassare il prelievo fiscale sul lavoro, sulle imprese che investono e sulle famiglie che hanno consumi così bassi». Sarebbe stata «una notizia positiva» sapere che il ricavato dell’evasione sarebbe andato all’abbattimento della pressione fiscale.

L’Unità 26.02.12

"Non solo una bacheca", di Claudio Sardo

Le bacheche de l’Unità smantellate negli stabilimenti Magneti Marelli di Bologna e Bari non sono purtroppo un accidente. Sono parte di uno scontro politico, di un’involuzione culturale, di una crisi che non è soltanto economica. L’Unità è uno degli strumenti attraverso cui si esprime il pluralismo sociale.
Ma è anche una delle radici che affondano nella storia nazionale e nelle passioni civili e democratiche della nostra comunità.
Certo, l’espulsione de l’Unità da queste fabbriche del gruppo Fiat non ha un valore sindacale paragonabile al gravissimo vulnus nella rappresentanza provocato dall’esclusione della Fiom, oppure alle discriminazioni subite dai lavoratori iscritti alla Cgil, o ancora al rifiuto di rispettare la sentenza del giudice sul reintegro dei tre operai di Melfi. Eppure contiene un significato che non è solo simbolico. La questione riguarda la considerazione dei lavoratori nella realtà aziendale, riguarda il loro spazio di libertà e di autonomia, insomma i loro mondi vitali.
La crisi di competitività che ha investito l’Italia e l’Europa ci induce quotidianamente a parlare delle regole del mercato del lavoro, degli strumenti di flessibilità e di protezione sociale, delle norme che devono presiedere ai rapporti tra chi dà lavoro e chi lo presta. È il terreno di una battaglia sulla distribuzione dei redditi e dei sacrifici, oltre che sulle opportunità per il Paese e sulla giustizia sociale. Ma al fondo il conflitto riguarda l’idea stessa di persona, in particolare il diritto di uscire dalla dimensione individuale di cittadino o di lavoratore per essere parte attiva di quelle «formazioni sociali» che la nostra Costituzione considera l’orizzonte inalienabile della personalità umana.
Si può e si deve discutere dei piani industriali di Sergio Marchionne, dei suoi impegni non mantenuti, delle aspettative che il nostro Paese ripone verso una delle sue più grandi industrie. Tuttavia lo stesso Marchionne non nasconde la propria
ragione politica, la propria visione, il desiderio di mutare profondamente i rapporti di forza. E, a dispetto di compiacenti narrazioni, la sua strategia non ha nulla di eccentrico. Anzi, è Marchionne ad additare come eccentrici, come dannosi, tutti i condizionamenti alla libera dialettica tra le forze del mercato. Che sia la politica, che sia il sindacato, che sia chiunque altro provi a segnalare un interesse generale colpito o minacciato, questi vanno zittiti in ossequio al primato dell’impresa. Serve a poco replicare che la politica è il solo strumento in mano ai popoli per ridurre gli squilibri e che il primato dell’impresa è seriamente minacciato dal primato della finanza. Purtroppo è tornato di moda il ritornello dei regimi autoritari: la politica è sporca, cattiva, pericolosa.
Dalla crisi non usciremo come siamo entrati. Non tornerà il mondo di prima. Dovremo cambiare, rischiare, anche compiere rinunce. Ma ciò che è inaccettabile per un democratico è la condanna dell’uomo alla solitudine davanti al mercato, allo Stato, ai poteri globali. Rischia di essere travolta quell’idea di persona che i costituenti hanno posto al centro della nostra Carta fondamentale. Le bacheche de l’Unità saranno pure una piccola cosa. Ma alludono a valori più grandi. Al desiderio, appunto, di andare oltre la dimensione individuale. Di sviluppare un pensiero critico. Di costruire una rete di solidarietà umana, e dunque politica. Non è un’alternativa alla solitudine essere audience o generica moltitudine. È nelle relazioni tra gli uomini che nascono la solidarietà e il cambiamento.
Ringraziamo con grande amicizia e fraternità i tantissimi lettori che in queste ore ci hanno manifestato solidarietà e affetto. Non lo hanno fatto per un riflesso antico. L’Unità oggi è cambiata. Ma la storia di una comunità reca impronte indelebili. Noi siamo quelli che credono che la politica possa rinnovarsi, siamo quelli che si battono per rinnovarla e che sanno che sono indispensabili le persone e i corpi intermedi per costruire politiche di uguaglianza e di sviluppo sociale. In fondo, è questa la vera sfida che abbiamo di fronte. Costruire un nuovo patto sociale e riportare in Europa un’Italia europeista, solidale, innovativa. È lo stesso bivio che ha di fronte il governo: non segua Mario Monti le sirene della rottura sociale.
Un ringraziamento di cuore anche a tutte le personalità politiche e sindacali che ci hanno dimostrato la loro simpatia. Un grazie particolare al segretario della Cisl di Bologna, che si è impegnato ad ospitare l’Unità nelle bacheche della sua organizzazione, dove i lavoratori vorranno. È un riconoscimento che vale molto per chi come noi considera l’unità sindacale un valore prezioso.

L’Unità 26.02.12

******

“Schiaffo alla democrazia”, di Luciano Gallino

Dinanzi all´ordine di rimuovere le bacheche che espongono l´Unità, sulle prime uno pensa che Fiat abbia deciso di estromettere la democrazia dai suoi stabilimenti. Un segno non da poco. Il cammino era già tracciato con i contratti ferrei di Pomigliano e Mirafiori, il licenziamento di alcuni operai che avrebbero disturbato la produzione a Melfi, infine l´esclusione della Fiom dai reparti. Ora si aggiunge il divieto di esporre un quotidiano. Il che fa pensare ad altro. Infatti la democrazia non è morta sempre con un gran botto. In diversi casi è morta anche a piccoli passi, compiuti nelle fabbriche, nelle scuole, in piccole città, fino a che ci si è accorti che era scomparsa in un intero Paese. Per questo motivo il segnale che arriva da Bologna e altrove preoccupa sotto il profilo politico più che sotto quello delle relazioni industriali.
D´altra parte è possibile che Fiat non abbia affatto intrapreso i passi anzidetti per cancellare la democrazia industriale. Magari ha già deciso di lasciare l´Italia, come parrebbe anche dai contraddittori annunci circa i modelli da costruire o forse no nel quadro del fantomatico piano Fabbrica Italia e dai milioni di ore di CIG a Torino e Pomigliano. E vuol mostrare che vi è costretta perché con la Fiom non si ragiona, troppi osano criticare il Piano che non c´è mentre gli americani lo ammirano, e qualcuno pretendeva pure di esporre nei suoi impianti un quotidiano che in un angolo reca tuttora la scritta “fondato da Antonio Gramsci nel 1924”.

L’Unità 26.02.12

“Non solo una bacheca”, di Claudio Sardo

Le bacheche de l’Unità smantellate negli stabilimenti Magneti Marelli di Bologna e Bari non sono purtroppo un accidente. Sono parte di uno scontro politico, di un’involuzione culturale, di una crisi che non è soltanto economica. L’Unità è uno degli strumenti attraverso cui si esprime il pluralismo sociale.
Ma è anche una delle radici che affondano nella storia nazionale e nelle passioni civili e democratiche della nostra comunità.
Certo, l’espulsione de l’Unità da queste fabbriche del gruppo Fiat non ha un valore sindacale paragonabile al gravissimo vulnus nella rappresentanza provocato dall’esclusione della Fiom, oppure alle discriminazioni subite dai lavoratori iscritti alla Cgil, o ancora al rifiuto di rispettare la sentenza del giudice sul reintegro dei tre operai di Melfi. Eppure contiene un significato che non è solo simbolico. La questione riguarda la considerazione dei lavoratori nella realtà aziendale, riguarda il loro spazio di libertà e di autonomia, insomma i loro mondi vitali.
La crisi di competitività che ha investito l’Italia e l’Europa ci induce quotidianamente a parlare delle regole del mercato del lavoro, degli strumenti di flessibilità e di protezione sociale, delle norme che devono presiedere ai rapporti tra chi dà lavoro e chi lo presta. È il terreno di una battaglia sulla distribuzione dei redditi e dei sacrifici, oltre che sulle opportunità per il Paese e sulla giustizia sociale. Ma al fondo il conflitto riguarda l’idea stessa di persona, in particolare il diritto di uscire dalla dimensione individuale di cittadino o di lavoratore per essere parte attiva di quelle «formazioni sociali» che la nostra Costituzione considera l’orizzonte inalienabile della personalità umana.
Si può e si deve discutere dei piani industriali di Sergio Marchionne, dei suoi impegni non mantenuti, delle aspettative che il nostro Paese ripone verso una delle sue più grandi industrie. Tuttavia lo stesso Marchionne non nasconde la propria
ragione politica, la propria visione, il desiderio di mutare profondamente i rapporti di forza. E, a dispetto di compiacenti narrazioni, la sua strategia non ha nulla di eccentrico. Anzi, è Marchionne ad additare come eccentrici, come dannosi, tutti i condizionamenti alla libera dialettica tra le forze del mercato. Che sia la politica, che sia il sindacato, che sia chiunque altro provi a segnalare un interesse generale colpito o minacciato, questi vanno zittiti in ossequio al primato dell’impresa. Serve a poco replicare che la politica è il solo strumento in mano ai popoli per ridurre gli squilibri e che il primato dell’impresa è seriamente minacciato dal primato della finanza. Purtroppo è tornato di moda il ritornello dei regimi autoritari: la politica è sporca, cattiva, pericolosa.
Dalla crisi non usciremo come siamo entrati. Non tornerà il mondo di prima. Dovremo cambiare, rischiare, anche compiere rinunce. Ma ciò che è inaccettabile per un democratico è la condanna dell’uomo alla solitudine davanti al mercato, allo Stato, ai poteri globali. Rischia di essere travolta quell’idea di persona che i costituenti hanno posto al centro della nostra Carta fondamentale. Le bacheche de l’Unità saranno pure una piccola cosa. Ma alludono a valori più grandi. Al desiderio, appunto, di andare oltre la dimensione individuale. Di sviluppare un pensiero critico. Di costruire una rete di solidarietà umana, e dunque politica. Non è un’alternativa alla solitudine essere audience o generica moltitudine. È nelle relazioni tra gli uomini che nascono la solidarietà e il cambiamento.
Ringraziamo con grande amicizia e fraternità i tantissimi lettori che in queste ore ci hanno manifestato solidarietà e affetto. Non lo hanno fatto per un riflesso antico. L’Unità oggi è cambiata. Ma la storia di una comunità reca impronte indelebili. Noi siamo quelli che credono che la politica possa rinnovarsi, siamo quelli che si battono per rinnovarla e che sanno che sono indispensabili le persone e i corpi intermedi per costruire politiche di uguaglianza e di sviluppo sociale. In fondo, è questa la vera sfida che abbiamo di fronte. Costruire un nuovo patto sociale e riportare in Europa un’Italia europeista, solidale, innovativa. È lo stesso bivio che ha di fronte il governo: non segua Mario Monti le sirene della rottura sociale.
Un ringraziamento di cuore anche a tutte le personalità politiche e sindacali che ci hanno dimostrato la loro simpatia. Un grazie particolare al segretario della Cisl di Bologna, che si è impegnato ad ospitare l’Unità nelle bacheche della sua organizzazione, dove i lavoratori vorranno. È un riconoscimento che vale molto per chi come noi considera l’unità sindacale un valore prezioso.

L’Unità 26.02.12

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“Schiaffo alla democrazia”, di Luciano Gallino

Dinanzi all´ordine di rimuovere le bacheche che espongono l´Unità, sulle prime uno pensa che Fiat abbia deciso di estromettere la democrazia dai suoi stabilimenti. Un segno non da poco. Il cammino era già tracciato con i contratti ferrei di Pomigliano e Mirafiori, il licenziamento di alcuni operai che avrebbero disturbato la produzione a Melfi, infine l´esclusione della Fiom dai reparti. Ora si aggiunge il divieto di esporre un quotidiano. Il che fa pensare ad altro. Infatti la democrazia non è morta sempre con un gran botto. In diversi casi è morta anche a piccoli passi, compiuti nelle fabbriche, nelle scuole, in piccole città, fino a che ci si è accorti che era scomparsa in un intero Paese. Per questo motivo il segnale che arriva da Bologna e altrove preoccupa sotto il profilo politico più che sotto quello delle relazioni industriali.
D´altra parte è possibile che Fiat non abbia affatto intrapreso i passi anzidetti per cancellare la democrazia industriale. Magari ha già deciso di lasciare l´Italia, come parrebbe anche dai contraddittori annunci circa i modelli da costruire o forse no nel quadro del fantomatico piano Fabbrica Italia e dai milioni di ore di CIG a Torino e Pomigliano. E vuol mostrare che vi è costretta perché con la Fiom non si ragiona, troppi osano criticare il Piano che non c´è mentre gli americani lo ammirano, e qualcuno pretendeva pure di esporre nei suoi impianti un quotidiano che in un angolo reca tuttora la scritta “fondato da Antonio Gramsci nel 1924”.

L’Unità 26.02.12

"Il nemico occidentale", di Gilles Kepel

Le violenze che da cinque giorni scuotono l´Afghanistan dopo che nella base militare americana di Bagram alcune copie del Corano sono state bruciate per errore, possono sembrare assolutamente paradossali da uno sguardo occidentale. Dopo tutto, i Paesi della Nato che hanno inviato donne e uomini a morire in Afghanistan, attraversando per questo gravi crisi politiche interne e sopportando un notevole costo economico, hanno cercato di ricostruire un Paese devastato dalla dittatura dei Taliban.Nella visione occidentale è paradossale che l´incenerimento incidentale di opere seppur sacre possa tradursi in manifestazioni violente e nell´omicidio di quelli che sono stati mandati in quel Paese per ristabilire la pace.
L´episodio può ora provocare un incendio ancora più vasto in tutta l´area, come accadde già per altre vicende legate a libri: basti ricordare la scia di sangue seguita oltre venti anni fa alla pubblicazione dei Versetti satanici di Salman Rushdie. L´attuale contesto regionale è infatti estremamente teso. S´intuiscono i preparativi di un più vasto conflitto, successivo alle rivoluzioni arabe e di cui la prima tappa potrebbe svolgersi intorno al Golfo Persico nel caso che l´Iran sia attaccato da una coalizione formata da Israele, gli Stati della penisola arabica e i Paesi occidentali, con diverse modalità ma con l´obiettivo comune di far cadere il regime al potere a Teheran. D´altra parte, si ricevono ogni giorno notizie di massacri ad Homs e i Paesi occidentali, appoggiati da governi della penisola arabica, tra cui Qatar e Arabia Saudita, fanno pressione per accelerare l´uscita di Bashar al Assad.
L´alleanza tra l´Occidente, guidato dagli Stati Uniti, e il processo di democratizzazione nel mondo arabo è oggi molto più complicato di quel che sembrava qualche mese fa, quando da Washington, a Parigi e Roma si era diffuso allora l´entusiasmo per la rivoluzione di Twitter e Facebook, con la convinzione che gli arabi erano diventati esattamente come noi, avidi di diritti e libertà, e che Osama Bin Laden e Al Qaeda erano solo un vecchio incubo, ormai scacciato via da un nuovo risveglio. In realtà, negli sconvolgimenti che attraversano i paesi arabi e, per effetto di rimbalzo, il resto del mondo, è in gioco appunto la relazione con l´Occidente, tesa e complessa. In Egitto, ad esempio, delle Ong americane e tedesche che incoraggiavano la democrazia sono state chiuse da un apparato militare che non vuole lasciare potere. Il processo al Cairo contro i responsabili di queste Ong è stato il pretesto per una rinnovata propaganda nazionalista da parte di alcuni dirigenti politici legati ai militari, cercando così di superare nei toni i fratelli musulmani e i salafiti che hanno vinto le elezioni. Anche in Tunisia si registrano segnali preoccupanti, sebbene non ancora nella stessa intensità che altrove. Le diverse forze che all´interno del mondo arabo e musulmano tentano di assumere il controllo dell´immensa transizione in corso, vogliono colpevolizzare o sminuire i propri avversari, accusandoli di essere alleati degli americani e dell´Occidente, non più percepiti come sostegno della democrazia ma come antichi alleati dei precedenti regimi dittatoriali, cleptocrati e anti-islamici.
I primi beneficiari delle manifestazioni in corso in Afghanistan sono ovviamente i Taliban. Ma la cristalizzazione delle proteste intorno all´accusa di profanazione del Corano è un´opportunità per mobilitare ben al di là della loro tradizionale base. Ne ho avuto la dimostrazione in Tunisia, due giorni fa, osservando da vicino un corteo organizzato dai salafiti contro una televisione tunisina accusata di deturpare la loro immagine. Eppure, dietro alle bandiere e ai proclami, ho visto che gran parte dei manifestanti non erano salafiti ma semplici persone che chiedevano un ricambio in un´emittente che ha conservato gli stessi dirigenti e giornalisti dai tempi di Ben Ali. I salafiti, in pratica, erano stati capaci di intercettare una richiesta più vasta di liberalizzazione dell´informazione e dei media. Così in Afghanistan, intorno a una manifestazione radicale, si riesce a mobilitare una base molto più ampia in nome della difesa della libertà e dell´identità, individuando come nemico comune gli Stati Uniti e l´Europa. Ricordiamoci che quando in Tunisia è stato diffuso il film “Persepolis”, nel quale l´iraniana Marjane Satrapi mette in scena un dialogo con Dio, ci sono state violente proteste dei salafiti contro l´Occidente, riunendo folle molto più numerose dei loro abituali raduni. Nel mondo musulmano esiste oggi una forte suscettibilità. Anche una piccola scintilla può mettere fuoco alle polveri. È bene rammentare che l´intervento in Libia che ha evitato l´invio di truppe a terra si è concluso con un certo successo, mentre in Iraq e Afghanistan dopo una conclusione positiva delle operazioni militari si sono verificate delle catastrofi politiche. Ed è per questo che la prospettiva di un intervento militare in Siria appare come un incubo assoluto per tutte le cancellerie occidentali.

La Repubblica 26.02.12

“Il nemico occidentale”, di Gilles Kepel

Le violenze che da cinque giorni scuotono l´Afghanistan dopo che nella base militare americana di Bagram alcune copie del Corano sono state bruciate per errore, possono sembrare assolutamente paradossali da uno sguardo occidentale. Dopo tutto, i Paesi della Nato che hanno inviato donne e uomini a morire in Afghanistan, attraversando per questo gravi crisi politiche interne e sopportando un notevole costo economico, hanno cercato di ricostruire un Paese devastato dalla dittatura dei Taliban.Nella visione occidentale è paradossale che l´incenerimento incidentale di opere seppur sacre possa tradursi in manifestazioni violente e nell´omicidio di quelli che sono stati mandati in quel Paese per ristabilire la pace.
L´episodio può ora provocare un incendio ancora più vasto in tutta l´area, come accadde già per altre vicende legate a libri: basti ricordare la scia di sangue seguita oltre venti anni fa alla pubblicazione dei Versetti satanici di Salman Rushdie. L´attuale contesto regionale è infatti estremamente teso. S´intuiscono i preparativi di un più vasto conflitto, successivo alle rivoluzioni arabe e di cui la prima tappa potrebbe svolgersi intorno al Golfo Persico nel caso che l´Iran sia attaccato da una coalizione formata da Israele, gli Stati della penisola arabica e i Paesi occidentali, con diverse modalità ma con l´obiettivo comune di far cadere il regime al potere a Teheran. D´altra parte, si ricevono ogni giorno notizie di massacri ad Homs e i Paesi occidentali, appoggiati da governi della penisola arabica, tra cui Qatar e Arabia Saudita, fanno pressione per accelerare l´uscita di Bashar al Assad.
L´alleanza tra l´Occidente, guidato dagli Stati Uniti, e il processo di democratizzazione nel mondo arabo è oggi molto più complicato di quel che sembrava qualche mese fa, quando da Washington, a Parigi e Roma si era diffuso allora l´entusiasmo per la rivoluzione di Twitter e Facebook, con la convinzione che gli arabi erano diventati esattamente come noi, avidi di diritti e libertà, e che Osama Bin Laden e Al Qaeda erano solo un vecchio incubo, ormai scacciato via da un nuovo risveglio. In realtà, negli sconvolgimenti che attraversano i paesi arabi e, per effetto di rimbalzo, il resto del mondo, è in gioco appunto la relazione con l´Occidente, tesa e complessa. In Egitto, ad esempio, delle Ong americane e tedesche che incoraggiavano la democrazia sono state chiuse da un apparato militare che non vuole lasciare potere. Il processo al Cairo contro i responsabili di queste Ong è stato il pretesto per una rinnovata propaganda nazionalista da parte di alcuni dirigenti politici legati ai militari, cercando così di superare nei toni i fratelli musulmani e i salafiti che hanno vinto le elezioni. Anche in Tunisia si registrano segnali preoccupanti, sebbene non ancora nella stessa intensità che altrove. Le diverse forze che all´interno del mondo arabo e musulmano tentano di assumere il controllo dell´immensa transizione in corso, vogliono colpevolizzare o sminuire i propri avversari, accusandoli di essere alleati degli americani e dell´Occidente, non più percepiti come sostegno della democrazia ma come antichi alleati dei precedenti regimi dittatoriali, cleptocrati e anti-islamici.
I primi beneficiari delle manifestazioni in corso in Afghanistan sono ovviamente i Taliban. Ma la cristalizzazione delle proteste intorno all´accusa di profanazione del Corano è un´opportunità per mobilitare ben al di là della loro tradizionale base. Ne ho avuto la dimostrazione in Tunisia, due giorni fa, osservando da vicino un corteo organizzato dai salafiti contro una televisione tunisina accusata di deturpare la loro immagine. Eppure, dietro alle bandiere e ai proclami, ho visto che gran parte dei manifestanti non erano salafiti ma semplici persone che chiedevano un ricambio in un´emittente che ha conservato gli stessi dirigenti e giornalisti dai tempi di Ben Ali. I salafiti, in pratica, erano stati capaci di intercettare una richiesta più vasta di liberalizzazione dell´informazione e dei media. Così in Afghanistan, intorno a una manifestazione radicale, si riesce a mobilitare una base molto più ampia in nome della difesa della libertà e dell´identità, individuando come nemico comune gli Stati Uniti e l´Europa. Ricordiamoci che quando in Tunisia è stato diffuso il film “Persepolis”, nel quale l´iraniana Marjane Satrapi mette in scena un dialogo con Dio, ci sono state violente proteste dei salafiti contro l´Occidente, riunendo folle molto più numerose dei loro abituali raduni. Nel mondo musulmano esiste oggi una forte suscettibilità. Anche una piccola scintilla può mettere fuoco alle polveri. È bene rammentare che l´intervento in Libia che ha evitato l´invio di truppe a terra si è concluso con un certo successo, mentre in Iraq e Afghanistan dopo una conclusione positiva delle operazioni militari si sono verificate delle catastrofi politiche. Ed è per questo che la prospettiva di un intervento militare in Siria appare come un incubo assoluto per tutte le cancellerie occidentali.

La Repubblica 26.02.12

"Il Paese scommetta sulle donne", di Roberta Agostini

Da tutte le regioni del Sud sono arrivate a Napoli lo scorso fine settimana centinaia di donne – amministratrici parlamentari, sindacaliste, esponenti dell’associazionismo- per discutere intorno ad alcune parole chiave (lavoro, welfare, legalità, democrazia) di nuovo sviluppo e buona politica con l’ambizione di rilanciare una proposta per la ricostruzione, per chiudere definitivamente la stagione del berlusconismo e avviareun ciclo riformatore nel Paese. L’occupazione femminile al Sud è inferiore di 30 punti percentuali agli obiettivi fissati a Lisbona, meno di una su tre lavora. Il tasso di attività femminile si è ridotto, cioè si è prodotto un allontanamento delle donne disponibili a lavorare, soprattutto di quelle con basso titolo di studio. A un’occupazione modesta quasi sempre corrisponde una retribuzione
insufficiente a compensare il lavoro domestico a cui si dovrebbe
rinunciare per lavorare in un contesto di servizi insufficienti o
assenti. Per questo un numero sempre più alto di donne sceglie di restare a casa. La flessibilizzazione del lavoro in atto negli ultimi anni ha dato vita ad un’area estesa di instabilità occupazionale che nel sud è diventata ampia, persistente e diffusa. I nodi centrali che frenano la partecipazione femminile sono di tipo strutturale e sono legati alla domanda di lavoro e alla carente offerta di servizi. Nessuna riforma può eludere questi dati drammatici, che ci dicono che puntare alla crescita vuol dire leggere il Sud come parte di una grande questione nazionale e insieme assumere il punto di vista, le potenzialità ed i problemi delle donne. Non si tratta di problemi di parte – geografici, di genere o anche generazionali – ma di istanze che chiedono di rimodulare complessivamente la strategia e la qualità dello sviluppo, puntando anche sulle infrastrutture immateriali, su una robusta quota di beni comuni, rilanciando la costruzione di un welfare moderno (pensiamo al caso degli asili nido e di quanto sarebbe necessario che questi investimenti uscissero dal patto di stabilità), lavorando sulle condizioni non economiche dello sviluppo, sul terreno dei diritti, della legalità, della sicurezza.
La crisi non è un incidente di percorso, ma il frutto diuna impostazione sbagliata, di riforme mancate, degli errori della destra. Serve una strategia complessiva che possa combattere la recessione e rilanciare l’occupazione ripensando a modelli alternativi e differenti di vita e di consumo. Non c’è una bacchetta magica,ma ci possono essere azioni utili a sostenere il lavoro ed il welfare. Le donne hanno pagato il prezzo della crisi e delle politiche della destra e stanno sostenendo i costi del risanamento. Per questo sarebbe importante che il governo affronti il capitolo del lavoro delle donne, a partire dal Mezzogiorno, attraverso la convocazione di un tavolo con le forze sociali, sindacati, enti locali e aprendo una grande discussione politica.
Perché non provare a costruire una vera conferenza nazionale
sul lavoro delle donne in grado di andare oltre le analisi e capace di offrire strumenti concreti capaci di aggredire il nodo dell’occupazione?
Noi mettiamo a disposizione le nostre proposte. A noi, alla politica ed ai partiti, spetta il compito di accompagnare, orientare e costruire partecipazione e consenso intorno a questo processo, recuperando innanzitutto credibilità e reagendo così al clima di antipolitica che si è diffuso nel Paese, e che è parte essenziale di quella crisi di sistema che stiamo vivendo. Questo è possibile investendo sul rafforzamento di meccanismi trasparenti di partecipazione e decisione politica, sul processo democratico di selezione e rinnovamento dei gruppi dirigenti, su una politica che ritrovi la sua capacità di rappresentare l’interesse generale del Paese.
Proprio a partire da territori nei quali non è raro che intere amministrazioni siano prive di presenza femminile, diciamo che per rinnovare la politica e la qualità della rappresentanza dobbiamo scommettere sulle donne. L’impegno uscito da Napoli è chiaro: che nella legge elettorale di cui si discute siano contenute norme e sanzioni per affermare la presenza femminile, che venga in fretta approvata la legge licenziata dalla Commissione affari costituzionali che contiene la doppia preferenza di genere per i Comuni e che si dia seguito attraverso una legge all’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione che impone che la vita interna dei partiti sia regolata da quel metodo democratico così importante per le donne.
Il metodo democratico richiamato e richiesto dalla nostra carta
costituzionale infatti non può che riguardare anche il tema di una
presenza paritaria nei partiti e nelle istituzioni. È un traguardo che può essere raggiunto cominciando a fare passi significativi in avanti a partire da regole stringenti e conseguenti sanzioni per chi non candida e non elegge donne nelle assemblee rappresentative e negando il riconoscimento di personalità giuridica a chi non prevede una presenza paritaria nei propri organismi.
Su questi temi continueremo a discutere nelle diverse regioni del
mezzogiorno per collegare sempre meglio il lavoro che stiamo facendo alle singole realtà territoriali (vorremmo preparare una prossima tappa di questo viaggio al Nord) favorendo una partecipazione sempre più diffusa.
Vogliamo attraversare questa difficile fase di passaggio e di ricostruzione del Paese segnandola con la nostra forza e il nostro pensiero.

L’Unità 26.02.12

“Il Paese scommetta sulle donne”, di Roberta Agostini

Da tutte le regioni del Sud sono arrivate a Napoli lo scorso fine settimana centinaia di donne – amministratrici parlamentari, sindacaliste, esponenti dell’associazionismo- per discutere intorno ad alcune parole chiave (lavoro, welfare, legalità, democrazia) di nuovo sviluppo e buona politica con l’ambizione di rilanciare una proposta per la ricostruzione, per chiudere definitivamente la stagione del berlusconismo e avviareun ciclo riformatore nel Paese. L’occupazione femminile al Sud è inferiore di 30 punti percentuali agli obiettivi fissati a Lisbona, meno di una su tre lavora. Il tasso di attività femminile si è ridotto, cioè si è prodotto un allontanamento delle donne disponibili a lavorare, soprattutto di quelle con basso titolo di studio. A un’occupazione modesta quasi sempre corrisponde una retribuzione
insufficiente a compensare il lavoro domestico a cui si dovrebbe
rinunciare per lavorare in un contesto di servizi insufficienti o
assenti. Per questo un numero sempre più alto di donne sceglie di restare a casa. La flessibilizzazione del lavoro in atto negli ultimi anni ha dato vita ad un’area estesa di instabilità occupazionale che nel sud è diventata ampia, persistente e diffusa. I nodi centrali che frenano la partecipazione femminile sono di tipo strutturale e sono legati alla domanda di lavoro e alla carente offerta di servizi. Nessuna riforma può eludere questi dati drammatici, che ci dicono che puntare alla crescita vuol dire leggere il Sud come parte di una grande questione nazionale e insieme assumere il punto di vista, le potenzialità ed i problemi delle donne. Non si tratta di problemi di parte – geografici, di genere o anche generazionali – ma di istanze che chiedono di rimodulare complessivamente la strategia e la qualità dello sviluppo, puntando anche sulle infrastrutture immateriali, su una robusta quota di beni comuni, rilanciando la costruzione di un welfare moderno (pensiamo al caso degli asili nido e di quanto sarebbe necessario che questi investimenti uscissero dal patto di stabilità), lavorando sulle condizioni non economiche dello sviluppo, sul terreno dei diritti, della legalità, della sicurezza.
La crisi non è un incidente di percorso, ma il frutto diuna impostazione sbagliata, di riforme mancate, degli errori della destra. Serve una strategia complessiva che possa combattere la recessione e rilanciare l’occupazione ripensando a modelli alternativi e differenti di vita e di consumo. Non c’è una bacchetta magica,ma ci possono essere azioni utili a sostenere il lavoro ed il welfare. Le donne hanno pagato il prezzo della crisi e delle politiche della destra e stanno sostenendo i costi del risanamento. Per questo sarebbe importante che il governo affronti il capitolo del lavoro delle donne, a partire dal Mezzogiorno, attraverso la convocazione di un tavolo con le forze sociali, sindacati, enti locali e aprendo una grande discussione politica.
Perché non provare a costruire una vera conferenza nazionale
sul lavoro delle donne in grado di andare oltre le analisi e capace di offrire strumenti concreti capaci di aggredire il nodo dell’occupazione?
Noi mettiamo a disposizione le nostre proposte. A noi, alla politica ed ai partiti, spetta il compito di accompagnare, orientare e costruire partecipazione e consenso intorno a questo processo, recuperando innanzitutto credibilità e reagendo così al clima di antipolitica che si è diffuso nel Paese, e che è parte essenziale di quella crisi di sistema che stiamo vivendo. Questo è possibile investendo sul rafforzamento di meccanismi trasparenti di partecipazione e decisione politica, sul processo democratico di selezione e rinnovamento dei gruppi dirigenti, su una politica che ritrovi la sua capacità di rappresentare l’interesse generale del Paese.
Proprio a partire da territori nei quali non è raro che intere amministrazioni siano prive di presenza femminile, diciamo che per rinnovare la politica e la qualità della rappresentanza dobbiamo scommettere sulle donne. L’impegno uscito da Napoli è chiaro: che nella legge elettorale di cui si discute siano contenute norme e sanzioni per affermare la presenza femminile, che venga in fretta approvata la legge licenziata dalla Commissione affari costituzionali che contiene la doppia preferenza di genere per i Comuni e che si dia seguito attraverso una legge all’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione che impone che la vita interna dei partiti sia regolata da quel metodo democratico così importante per le donne.
Il metodo democratico richiamato e richiesto dalla nostra carta
costituzionale infatti non può che riguardare anche il tema di una
presenza paritaria nei partiti e nelle istituzioni. È un traguardo che può essere raggiunto cominciando a fare passi significativi in avanti a partire da regole stringenti e conseguenti sanzioni per chi non candida e non elegge donne nelle assemblee rappresentative e negando il riconoscimento di personalità giuridica a chi non prevede una presenza paritaria nei propri organismi.
Su questi temi continueremo a discutere nelle diverse regioni del
mezzogiorno per collegare sempre meglio il lavoro che stiamo facendo alle singole realtà territoriali (vorremmo preparare una prossima tappa di questo viaggio al Nord) favorendo una partecipazione sempre più diffusa.
Vogliamo attraversare questa difficile fase di passaggio e di ricostruzione del Paese segnandola con la nostra forza e il nostro pensiero.

L’Unità 26.02.12