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"Quanto ci costa la scuola?" Mila Spicola

Quanto ci costa la scuola in Sicilia? Lo dicono i dati: più della Lombardia. Però: le prove sui livelli cognitivi dei ragazzi siciliani li trovano ultimi nella classifica mentre primi risultano proprio i lombardi. Badate bene che riguarda tutti, per questo ho messo un titolo generale: sono gli ultimi in classifica che abbassano la media nazionale e dunque i costi siciliani riguardano la scuola intera. Da ragazzino lombardo potrebbe rodermi parecchio, è bene che le cose dunque si conoscano per come sono anche in Lombardia. Riferendo la cosa ai costi: soldi mal spesi, si potrebbe dire. E così è, ma per motivi diversi da quelli che si potrebbero supporre.

Ma allora cosa accade? La Gelmini disse subito “i docenti siciliani non sanno insegnare”. Eppure i miei colleghi precari che si sono spostati a Brescia, in Emilia, per avere il ruolo, mi pare che siano uguali uguali… Logicamente, quei risultati sono il combinato disposto di parecchi fattori, altrove analizzati e raccontati in modo ben più accurato e pertinente di quanto possa io fare adesso in poche note. Intanto il rapporto diretto con le condizioni socio-culturali-economiche non solo delle famiglie ma anche dei contesti geografici di appartenenza. Si può riassumere crudamente in un “più povero sei più i tuoi livelli cognitivi e i tuoi successi scolastici sono messi a rischio”. E infatti in Sicilia due dati corrono paralleli come i binari della ferrovia: da un lato l’ultimo rapporto di Save the Children ci dice che 44 bambini su 100 in Sicilia vivono sotto la soglia di povertà , dall’altro i dati sulla dispersione scolastica ci fotografano un 30% circa di dispersi. Entrambi i dati sono i più alti in Italia. E spesso si accaniscono sullo stesso ragazzino. O ragazzina

Ma non basta. Mettiamoci le ore di scuola in meno per i tagli, l’assenza di tempo pieno, la mancanza di misure regionali coordinate e continuative. Persino una legge sul diritto allo studio manca in Sicilia: unica regione in Italia a non averla.

E infine: in che scuole frequentano i ragazzi siciliani? Bella domanda.

In Sicilia esiste un fenomeno che altrove non si verifica. Un bel numero di locali destinati a edilizia scolastica sono edifici non di proprietà dello Stato ma bensì in affitto da privati. GIà, incredibile vero? Eppure è così da decenni. E’ una voce significativa rispetto al totale delle spese di cui sopra. Poco male, verrebbe da affermare, se la parolina “privato” corrispondesse a un miglioramento delle condizioni in cui vivono i nostri ragazzi e i nostri docenti per tante ore al giorno, tutti i giorni. Decisamente no. La maggior parte dei locali presi in affitto non hanno né le caratteristiche ottimali ad accogliere studenti né, tantomeno, le elementari certificazioni di rispetto delle norme. Appartamenti, scantinati, ex magazzini, edifici di altra destinazione, aule troppo strette, assenza di spazi, sia comuni, che di laboratori, le palestre spesso non esistono, e potrei continuare. In genere l’affitto è abbastanza sostanzioso. La mia scuola, un ex magazzino, costa allo Stato 265mila euro l’anno, un istituto alberghiero di Palermo ben 1milione e mezzo di euro l’anno. L’affitto viene pagato puntualemnte ma nessuno si preoccupai di capire a che qualità corrisponde quell’affitto. Quando tutto va male nessuno se ne prende carico, certamente non gli enti locali responsabili, cioè Comuni, Regione o Provincia, meno che mai i proprietari legittimi. E allora comincia il balletto delle richieste di presidi, genitori e studenti. Mai che gli venisse in testa di dire al proprietario di turno: o aggiusti quell’infisso o non ti pago l’affitto. Cose banali nella vita comune..non quando si tratta di scuole siciliane. In genere sono i ragazzi o i genitori a incatenarsi da qualche parte…

Non la faccio lunga. Vado al sodo e vi racconto dell’assurdo. Tutti sappiamo che in Italia , grazie alla legge Pio La Torre , è stato possibile confiscare i beni alla criminalità organizzata. Ebbene tra molti di questi beni in Sicilia ci sono scuole. Le perplessità che nascono sono in merito a due ordini di motivi. Il primo. I beni confiscati ancora non sono stati destinati. Sono confiscati e gestiti da “amministratori giudiziari” appunto. Significa che, laddove si tratta di beni immobili in cui ci sono in affitto uffici pubblici, e dunque anche scuole, noi paghiamo ancora l’affitto.. E sono beni confiscati da noi. E questa è la prima perplessità. La seconda: al 30 giugno 2009 il valore dei beni confiscati in Italia , di cui il 45% sono in Sicilia e che non sono ancora destinati è stimato in quasi 475 milioni di euro, a cui si andranno a sommare tutte le confische future.

Una bella somma. Pensate solo se una legge decidesse che i beni confiscati si potessero vendere e il ricavato dovesse essere destinato a costruire nuove scuole o a sistemare quelle esistenti. Però qualcuno giustamente viene e mi dice: e chi se le ricompra? E’ probabile che se le ricompri lo stesso mafioso.. Vero.

E se fossero date in gestione direttamente a Comuni e Province in modo da utilizzare le somme risparmiate dagli affitti per rimetterle in sesto? Per farne luoghi per servizi, per cooperative, per tutto..per scuole. E anche, poiché avanzerebbero ancora molti soldi, tra quelli risparmiati perchè non utilizzarli per misure a sostegno della lotta alla dispersione? O anche al funzionamento delle scuole? Manco per nulla. E infatti abbiamo il nulla.

E dunque tutta la vicenda che fa? Rimane in stand by? Eppure una legge del 2008, ma qualcuno queste cose le sa meglio di me e può chiarirmi le idee, sanciva la nascita delle Agenzie nazionali e regionali per la materia dei beni confiscati per seguire ed esitare queste vicende in tempi brevi. O mi sbaglio? In realtà io avevo già scritto di questo due anni fa. Riprendendo alcune notizie già pubblicate circa 20 anni fa (!!) e poi riprese nel 2009. E sempre 20 anni fa un deputato regionale, Turi Lombardo, l’aveva presentata la legge sul leasing per le scuole. Evidentemente ancora devono esaminarla…Non vorrei tra vent’anni ritrovarmi a ricopiar me stessa.

Avevo scritto circa l’affitto di scuole pagato a famiglie poi rivelatasi mafiose (https://www.facebook.com/note.php?note_id=324824141266 ) . Mi si disse, e qua si con sollecita tempestività: tutto regolare, quei beni sono stati regolarmente confiscati e oggi sono in mano ad amministratori giudiziari. I quali si affannarono a precisarmi che forse dovevo informarmi per bene prima di scrivere o chiedere. Ok, l’ho fatto. Eppure non mi pare si sia mosso nulla. Io aspetto, osservo, come lo scienziato, il topolino, misuro, valuto. Ma niente. Tutto si ripete tale e quale.

Perché di questi beni, sequestrati dallo Stato, noi paghiamo ancora l’affitto? Perché? E che scuole sono? Vanno bene? Ne vale la pena?

Ma, allargando il problema al fenomeno più generale delle scuole in affitto: perché pagarlo? Anche nel caso di proprietari modello, in regola, senza nessun problema amministrativo o legale, non è il caso di riprendere quel disegno di legge che prevede un leasing per la costruzione di nuove scuole ? Perchè cavolo, e lo ripeterò all’infinito, ostinarsi a pagare l’affitto per locali che a tutto potrebbero servire tranne che a spazi per ragazzi e scuole?

E sti benedetti beni confiscati, a che cacchio servono realmente, se ancora oggi la materia brancola nel buio? A chi spetta dirimere la cosa in tempi brevi? Alle sezioni fallimentari dei tribunali siciliani? Agli amministratori giudiziari i quali, finchè li amministrano, percepiscono somme percentuali di gestione davvero generose? o a questi benedetti commissari straordinari per i Beni Confiscati? Al Ministero di Grazia e Giustizia? Al Ministero dell’Interno…non so..qualcuno vuol risolverla?

Sapete com’è..a giugno incombono le prove INVALSI e si aggiunge anche la Valutazione delle Scuole e dei Presidi. In quei test di tutto questo non vi è traccia…

Che gli diciamo a sti ragazzi siciliani, i 44 su 100 di cui sopra e i 30 su 100 di cui sopra che, magari, in una scuola bella, sana a norma e con dei fondi per il diritto allo studio, non dico risolverebbero tutti i loro problemi, ma qualcuno sì?

Un attimo..mò te la risolviamo? Aspetta un pochino…Adesso arriviamo…

Possibile che in 30, 20 anni nessun governo siciliano abbia voluto veramente mettere mano a questa…possiamo definirla vergogna e risolverla? I docenti siciliani forse, ma dico forse, non sapranno insegnare, specie in scuole di tal fatta e in una regione difficile come la mia, ma politici come questi sanno governare?

L’Unità 24.02.12

“Quanto ci costa la scuola?” Mila Spicola

Quanto ci costa la scuola in Sicilia? Lo dicono i dati: più della Lombardia. Però: le prove sui livelli cognitivi dei ragazzi siciliani li trovano ultimi nella classifica mentre primi risultano proprio i lombardi. Badate bene che riguarda tutti, per questo ho messo un titolo generale: sono gli ultimi in classifica che abbassano la media nazionale e dunque i costi siciliani riguardano la scuola intera. Da ragazzino lombardo potrebbe rodermi parecchio, è bene che le cose dunque si conoscano per come sono anche in Lombardia. Riferendo la cosa ai costi: soldi mal spesi, si potrebbe dire. E così è, ma per motivi diversi da quelli che si potrebbero supporre.

Ma allora cosa accade? La Gelmini disse subito “i docenti siciliani non sanno insegnare”. Eppure i miei colleghi precari che si sono spostati a Brescia, in Emilia, per avere il ruolo, mi pare che siano uguali uguali… Logicamente, quei risultati sono il combinato disposto di parecchi fattori, altrove analizzati e raccontati in modo ben più accurato e pertinente di quanto possa io fare adesso in poche note. Intanto il rapporto diretto con le condizioni socio-culturali-economiche non solo delle famiglie ma anche dei contesti geografici di appartenenza. Si può riassumere crudamente in un “più povero sei più i tuoi livelli cognitivi e i tuoi successi scolastici sono messi a rischio”. E infatti in Sicilia due dati corrono paralleli come i binari della ferrovia: da un lato l’ultimo rapporto di Save the Children ci dice che 44 bambini su 100 in Sicilia vivono sotto la soglia di povertà , dall’altro i dati sulla dispersione scolastica ci fotografano un 30% circa di dispersi. Entrambi i dati sono i più alti in Italia. E spesso si accaniscono sullo stesso ragazzino. O ragazzina

Ma non basta. Mettiamoci le ore di scuola in meno per i tagli, l’assenza di tempo pieno, la mancanza di misure regionali coordinate e continuative. Persino una legge sul diritto allo studio manca in Sicilia: unica regione in Italia a non averla.

E infine: in che scuole frequentano i ragazzi siciliani? Bella domanda.

In Sicilia esiste un fenomeno che altrove non si verifica. Un bel numero di locali destinati a edilizia scolastica sono edifici non di proprietà dello Stato ma bensì in affitto da privati. GIà, incredibile vero? Eppure è così da decenni. E’ una voce significativa rispetto al totale delle spese di cui sopra. Poco male, verrebbe da affermare, se la parolina “privato” corrispondesse a un miglioramento delle condizioni in cui vivono i nostri ragazzi e i nostri docenti per tante ore al giorno, tutti i giorni. Decisamente no. La maggior parte dei locali presi in affitto non hanno né le caratteristiche ottimali ad accogliere studenti né, tantomeno, le elementari certificazioni di rispetto delle norme. Appartamenti, scantinati, ex magazzini, edifici di altra destinazione, aule troppo strette, assenza di spazi, sia comuni, che di laboratori, le palestre spesso non esistono, e potrei continuare. In genere l’affitto è abbastanza sostanzioso. La mia scuola, un ex magazzino, costa allo Stato 265mila euro l’anno, un istituto alberghiero di Palermo ben 1milione e mezzo di euro l’anno. L’affitto viene pagato puntualemnte ma nessuno si preoccupai di capire a che qualità corrisponde quell’affitto. Quando tutto va male nessuno se ne prende carico, certamente non gli enti locali responsabili, cioè Comuni, Regione o Provincia, meno che mai i proprietari legittimi. E allora comincia il balletto delle richieste di presidi, genitori e studenti. Mai che gli venisse in testa di dire al proprietario di turno: o aggiusti quell’infisso o non ti pago l’affitto. Cose banali nella vita comune..non quando si tratta di scuole siciliane. In genere sono i ragazzi o i genitori a incatenarsi da qualche parte…

Non la faccio lunga. Vado al sodo e vi racconto dell’assurdo. Tutti sappiamo che in Italia , grazie alla legge Pio La Torre , è stato possibile confiscare i beni alla criminalità organizzata. Ebbene tra molti di questi beni in Sicilia ci sono scuole. Le perplessità che nascono sono in merito a due ordini di motivi. Il primo. I beni confiscati ancora non sono stati destinati. Sono confiscati e gestiti da “amministratori giudiziari” appunto. Significa che, laddove si tratta di beni immobili in cui ci sono in affitto uffici pubblici, e dunque anche scuole, noi paghiamo ancora l’affitto.. E sono beni confiscati da noi. E questa è la prima perplessità. La seconda: al 30 giugno 2009 il valore dei beni confiscati in Italia , di cui il 45% sono in Sicilia e che non sono ancora destinati è stimato in quasi 475 milioni di euro, a cui si andranno a sommare tutte le confische future.

Una bella somma. Pensate solo se una legge decidesse che i beni confiscati si potessero vendere e il ricavato dovesse essere destinato a costruire nuove scuole o a sistemare quelle esistenti. Però qualcuno giustamente viene e mi dice: e chi se le ricompra? E’ probabile che se le ricompri lo stesso mafioso.. Vero.

E se fossero date in gestione direttamente a Comuni e Province in modo da utilizzare le somme risparmiate dagli affitti per rimetterle in sesto? Per farne luoghi per servizi, per cooperative, per tutto..per scuole. E anche, poiché avanzerebbero ancora molti soldi, tra quelli risparmiati perchè non utilizzarli per misure a sostegno della lotta alla dispersione? O anche al funzionamento delle scuole? Manco per nulla. E infatti abbiamo il nulla.

E dunque tutta la vicenda che fa? Rimane in stand by? Eppure una legge del 2008, ma qualcuno queste cose le sa meglio di me e può chiarirmi le idee, sanciva la nascita delle Agenzie nazionali e regionali per la materia dei beni confiscati per seguire ed esitare queste vicende in tempi brevi. O mi sbaglio? In realtà io avevo già scritto di questo due anni fa. Riprendendo alcune notizie già pubblicate circa 20 anni fa (!!) e poi riprese nel 2009. E sempre 20 anni fa un deputato regionale, Turi Lombardo, l’aveva presentata la legge sul leasing per le scuole. Evidentemente ancora devono esaminarla…Non vorrei tra vent’anni ritrovarmi a ricopiar me stessa.

Avevo scritto circa l’affitto di scuole pagato a famiglie poi rivelatasi mafiose (https://www.facebook.com/note.php?note_id=324824141266 ) . Mi si disse, e qua si con sollecita tempestività: tutto regolare, quei beni sono stati regolarmente confiscati e oggi sono in mano ad amministratori giudiziari. I quali si affannarono a precisarmi che forse dovevo informarmi per bene prima di scrivere o chiedere. Ok, l’ho fatto. Eppure non mi pare si sia mosso nulla. Io aspetto, osservo, come lo scienziato, il topolino, misuro, valuto. Ma niente. Tutto si ripete tale e quale.

Perché di questi beni, sequestrati dallo Stato, noi paghiamo ancora l’affitto? Perché? E che scuole sono? Vanno bene? Ne vale la pena?

Ma, allargando il problema al fenomeno più generale delle scuole in affitto: perché pagarlo? Anche nel caso di proprietari modello, in regola, senza nessun problema amministrativo o legale, non è il caso di riprendere quel disegno di legge che prevede un leasing per la costruzione di nuove scuole ? Perchè cavolo, e lo ripeterò all’infinito, ostinarsi a pagare l’affitto per locali che a tutto potrebbero servire tranne che a spazi per ragazzi e scuole?

E sti benedetti beni confiscati, a che cacchio servono realmente, se ancora oggi la materia brancola nel buio? A chi spetta dirimere la cosa in tempi brevi? Alle sezioni fallimentari dei tribunali siciliani? Agli amministratori giudiziari i quali, finchè li amministrano, percepiscono somme percentuali di gestione davvero generose? o a questi benedetti commissari straordinari per i Beni Confiscati? Al Ministero di Grazia e Giustizia? Al Ministero dell’Interno…non so..qualcuno vuol risolverla?

Sapete com’è..a giugno incombono le prove INVALSI e si aggiunge anche la Valutazione delle Scuole e dei Presidi. In quei test di tutto questo non vi è traccia…

Che gli diciamo a sti ragazzi siciliani, i 44 su 100 di cui sopra e i 30 su 100 di cui sopra che, magari, in una scuola bella, sana a norma e con dei fondi per il diritto allo studio, non dico risolverebbero tutti i loro problemi, ma qualcuno sì?

Un attimo..mò te la risolviamo? Aspetta un pochino…Adesso arriviamo…

Possibile che in 30, 20 anni nessun governo siciliano abbia voluto veramente mettere mano a questa…possiamo definirla vergogna e risolverla? I docenti siciliani forse, ma dico forse, non sapranno insegnare, specie in scuole di tal fatta e in una regione difficile come la mia, ma politici come questi sanno governare?

L’Unità 24.02.12

"La ricerca è piena di abbagli ma alla fine si corregge sempre", di Marco Cattaneo

La cattiva notizia, se vogliamo, ma già lo si sapeva, è che la scienza può sbagliare. La buona è che il metodo con cui procede è così straordinariamente collaudato che essa stessa riesce a porre rimedio ai propri errori. È questo, d´altra parte, il messaggio del “provando e riprovando” che Evangelista Torricelli e Vincenzo Viviani, allievi di Galileo Galilei, avevano adottato nel 1657 quando fondarono l´Accademia del Cimento: qui “provare” non significa tentare, ma dimostrare, argomentare, e così “riprovare” non sta per ritentare ma per rigettare, scartare le ipotesi che si dimostrano sbagliate. Sarà Popper, molto più tardi, a parlare di “falsificabilità” come limite di demarcazione tra ciò che è scienza e ciò che non lo è. Il cammino della conoscenza scientifica è costellato di errori, a volte terribilmente grossolani, altre volte incredibilmente dannosi. Per secoli, d´altra parte, abbiamo creduto che la Terra fosse immobile al centro dell´universo, e fino a Galileo i nostri antenati credevano che gli oggetti più pesanti cadessero più velocemente. Sempre in quegli anni, il fisiologo britannico William Harvey scoprì che il “motore” della circolazione sanguigna era il cuore, e non il fegato, come si era creduto fino ad allora. Qualche anno più tardi, e per quasi un secolo, per spiegare l´infiammabilità dei materiali si fece ricorso a un misterioso – e inesistente – principio di infiammabilità, il flogisto. La passione per le entità enigmatiche, peraltro, si protrasse fino all´inizio del ´900, quando i fisici cercavano disperatamente prove dell´etere luminifero, l´ipotetico mezzo attraverso il quale dovevano propagarsi le onde elettromagnetiche.
Per arrivare più vicini ai nostri giorni, per decenni nessuno diede grande importanza al Dna, scoperto nel 1869, perché sembrava troppo insignificante per trasportare tutte quelle informazioni. Il vero segreto della vita doveva nascondersi nelle proteine: loro dovevano essere la chiave dell´ereditarietà… Furono Watson e Crick, nel 1953, scoprendone la struttura molecolare, a chiarire che invece era proprio il Dna a contenere tutta l´informazione per produrre un organismo vivente. Frattanto, negli anni venti, veniva commercializzato un farmaco miracoloso che si dimostrava efficace contro un impressionante spettro di patologie. Si chiamava Radithor, e come suggerisce il nome era a base di radio, l´elemento radioattivo scoperto pochi anni prima da Pierre e Marie Curie. Ne furono vendute 400mila confezioni, prima che si scoprisse che il suo consumo in dosi massicce portava alla morte per avvelenamento da radiazioni…
E come non ricordare, più di recente, due scoperte annunciate con grande clamore e poi smentite o rientrate in un limbo da cui ancora non sono uscite. Era il 1989 quando Martin Fleischmann e Stanley Pons, dell´Università dello Utah, annunciavano trionfalmente i risultati dei loro esperimenti sulla fusione fredda, ma molti altri laboratori non riuscirono a replicare i loro risultati. Un anno prima aveva suscitato scalpore la pubblicazione su Nature di un articolo di Jacques Benveniste in cui si descriveva un fenomeno poi passato alle cronache come “la memoria dell´acqua”, che avrebbe appunto conservato traccia delle molecole che vi erano state disciolte. Soltanto una settimana dopo la prestigiosa rivista fece marcia indietro, con un articolo firmato – tra gli altri – dal suo stesso leggendario direttore, John Maddox, in cui si dimostrava che le conclusioni del team di Benveniste erano la conseguenza di errori sistematici, esperimenti mal condotti, selezione dei risultati. E negli ultimi anni il numero delle pubblicazioni ritirate o smentite dalle riviste scientifiche è in crescita vertiginosa.
A ben vedere, però, l´anomalia riscontrata nella strumentazione di Opera, che sembra compromettere i risultati sulla velocità superluminale dei neutrini annunciati in settembre, non ha nulla di paragonabile con nessuno di questi errori. Si può assimilare, piuttosto, a problemi di natura tecnologica, come la saldatura tra due magneti che provocò un´ingente fuoriuscita di elio dal Large Hadron Collider di Ginevra nel 2008 o l´O-ring che causò l´esplosione in volo del Challenger nel 1986 con la morte dei sette membri dell´equipaggio.
E forse è questa la prima riflessione che dobbiamo fare, quando ci accostiamo alla scienza sperimentale dei giorni nostri. Rispetto a un secolo fa, ma anche molto meno, la complessità delle macchine che siamo in grado di costruire è quasi sempre basata su tecnologie radicalmente nuove, per poterci avventurare in territori inesplorati, perché questa è la missione della scienza. Per questo è infinitamente più facile che funzioni il frullatore di casa anziché un colossale acceleratore di particelle. A nostra parziale consolazione, prima o poi sono proprio le procedure della scienza a dirci dove abbiamo sbagliato.

La Repubblica 24.02.12

“La ricerca è piena di abbagli ma alla fine si corregge sempre”, di Marco Cattaneo

La cattiva notizia, se vogliamo, ma già lo si sapeva, è che la scienza può sbagliare. La buona è che il metodo con cui procede è così straordinariamente collaudato che essa stessa riesce a porre rimedio ai propri errori. È questo, d´altra parte, il messaggio del “provando e riprovando” che Evangelista Torricelli e Vincenzo Viviani, allievi di Galileo Galilei, avevano adottato nel 1657 quando fondarono l´Accademia del Cimento: qui “provare” non significa tentare, ma dimostrare, argomentare, e così “riprovare” non sta per ritentare ma per rigettare, scartare le ipotesi che si dimostrano sbagliate. Sarà Popper, molto più tardi, a parlare di “falsificabilità” come limite di demarcazione tra ciò che è scienza e ciò che non lo è. Il cammino della conoscenza scientifica è costellato di errori, a volte terribilmente grossolani, altre volte incredibilmente dannosi. Per secoli, d´altra parte, abbiamo creduto che la Terra fosse immobile al centro dell´universo, e fino a Galileo i nostri antenati credevano che gli oggetti più pesanti cadessero più velocemente. Sempre in quegli anni, il fisiologo britannico William Harvey scoprì che il “motore” della circolazione sanguigna era il cuore, e non il fegato, come si era creduto fino ad allora. Qualche anno più tardi, e per quasi un secolo, per spiegare l´infiammabilità dei materiali si fece ricorso a un misterioso – e inesistente – principio di infiammabilità, il flogisto. La passione per le entità enigmatiche, peraltro, si protrasse fino all´inizio del ´900, quando i fisici cercavano disperatamente prove dell´etere luminifero, l´ipotetico mezzo attraverso il quale dovevano propagarsi le onde elettromagnetiche.
Per arrivare più vicini ai nostri giorni, per decenni nessuno diede grande importanza al Dna, scoperto nel 1869, perché sembrava troppo insignificante per trasportare tutte quelle informazioni. Il vero segreto della vita doveva nascondersi nelle proteine: loro dovevano essere la chiave dell´ereditarietà… Furono Watson e Crick, nel 1953, scoprendone la struttura molecolare, a chiarire che invece era proprio il Dna a contenere tutta l´informazione per produrre un organismo vivente. Frattanto, negli anni venti, veniva commercializzato un farmaco miracoloso che si dimostrava efficace contro un impressionante spettro di patologie. Si chiamava Radithor, e come suggerisce il nome era a base di radio, l´elemento radioattivo scoperto pochi anni prima da Pierre e Marie Curie. Ne furono vendute 400mila confezioni, prima che si scoprisse che il suo consumo in dosi massicce portava alla morte per avvelenamento da radiazioni…
E come non ricordare, più di recente, due scoperte annunciate con grande clamore e poi smentite o rientrate in un limbo da cui ancora non sono uscite. Era il 1989 quando Martin Fleischmann e Stanley Pons, dell´Università dello Utah, annunciavano trionfalmente i risultati dei loro esperimenti sulla fusione fredda, ma molti altri laboratori non riuscirono a replicare i loro risultati. Un anno prima aveva suscitato scalpore la pubblicazione su Nature di un articolo di Jacques Benveniste in cui si descriveva un fenomeno poi passato alle cronache come “la memoria dell´acqua”, che avrebbe appunto conservato traccia delle molecole che vi erano state disciolte. Soltanto una settimana dopo la prestigiosa rivista fece marcia indietro, con un articolo firmato – tra gli altri – dal suo stesso leggendario direttore, John Maddox, in cui si dimostrava che le conclusioni del team di Benveniste erano la conseguenza di errori sistematici, esperimenti mal condotti, selezione dei risultati. E negli ultimi anni il numero delle pubblicazioni ritirate o smentite dalle riviste scientifiche è in crescita vertiginosa.
A ben vedere, però, l´anomalia riscontrata nella strumentazione di Opera, che sembra compromettere i risultati sulla velocità superluminale dei neutrini annunciati in settembre, non ha nulla di paragonabile con nessuno di questi errori. Si può assimilare, piuttosto, a problemi di natura tecnologica, come la saldatura tra due magneti che provocò un´ingente fuoriuscita di elio dal Large Hadron Collider di Ginevra nel 2008 o l´O-ring che causò l´esplosione in volo del Challenger nel 1986 con la morte dei sette membri dell´equipaggio.
E forse è questa la prima riflessione che dobbiamo fare, quando ci accostiamo alla scienza sperimentale dei giorni nostri. Rispetto a un secolo fa, ma anche molto meno, la complessità delle macchine che siamo in grado di costruire è quasi sempre basata su tecnologie radicalmente nuove, per poterci avventurare in territori inesplorati, perché questa è la missione della scienza. Per questo è infinitamente più facile che funzioni il frullatore di casa anziché un colossale acceleratore di particelle. A nostra parziale consolazione, prima o poi sono proprio le procedure della scienza a dirci dove abbiamo sbagliato.

La Repubblica 24.02.12

"Dimissioni in bianco. Ripristinate la 188", di Serena Sorrentino

Donne di esperienze diverse da tempo si sono alleate per ripristinare uno strumento di contrasto agli abusi e ai ricatti: le cosiddette dimissioni in bianco cioè la lettera che tante lavoratrici e lavoratori si trovano davanti nel momento in cui si dimettono (in)volontariamente e su cui non è apposta alcuna data. Sono costretti a firmarla all’atto dell’assunzione, quando il loro interesse è avere un lavoro, quando sono più fragili e sottoponibili a ricatto. La sequela degli abusi a cui si è sottoposti sotto la minaccia che quella lettera venga usata in qualsiasi momento è infinita. Ma tale situazione non è incontrovertibile nel 2007 infatti una legge molto semplice fu approvata con voto bipartisan stabilendo il principio opposto. La legge 188 prevedeva infatti una procedura relativa all’assunzione di una semplicità disarmante: il modulo col quale si veniva assunti riportava un numero progressivo, tali moduli erano validi per un periodo limitato, per dimettersi occorreva un modulo analogo che ovviamente doveva riportare un numero progressivamente successivo e valido nel periodo relativo alle dimissioni del lavoratore, in questo modo veniva meno l’elemento «ricattatorio». La legge è stata abolita dopo pochi mesi di vigenza come primo atto dell’allora Ministro del Lavoro Sacconi. La legge 188 era uno straordinaria misura di unificazione del mondo del lavoro sulla base di principi di civiltà del lavoro, infatti la norma era valida ed estesa a tipologie di lavoro precario, riguardava donne e uomini, era uno strumento di affermazione e tutela dei lavoratori migranti. Non era una legge punitiva ma rivolta alla trasparenza e alla regolazione delle procedure di eventuale dimissione. In un momento in cui con troppa scioltezza si discute di flessibilità in uscita il contrasto agli abusi dovrebbe costituire una premessa a qualsiasi ragionamento. Lo stesso Ministro Fornero, incontrato dal comitato 188 donne per la 188, ha sostenuto di voler lavorare in tal senso adducendo tuttavia le difficoltà ad operare per il ripristino della legge 188 sia a ragioni di natura politica che procedurali. Alla base delle ostilità di una parte delle imprese e del governo precedente, infatti, venivano addotte difficoltà di tipo «procedurale» rispetto alle complicazioni derivanti dagli applicativi emanati dall’Inps. In realtà un monitoraggio dell’effetto di deterrenza per la sola vigenza piuttosto che dell’applicazione effettiva della legge non è stato mai monitorato. La legge è stata abolita senza essere testata effettivamente eppure ha avuto lo stesso un impatto positivo. Dalla sua abolizione le dimissioni sono cresciute nuovamente, sia come certifica l’Istat valutando i dati 08/09 sulle dimissioni di lavoratrici in concomitanza con l’avvento della maternità (800mila) sia come risulta dai dati delle comunicazioni obbligatorie relative a dimissiono di lavoratori precari prima del raggiungimento dei requisiti utili al rinnovo e/o stabilità contrattuale. In un momento in cui il tema della redifinizione delle regole che sovraintendono il mercato del lavoro e’ al centro del dibattito politico i temi di come si riduce la precarietà, di come si contrastano gli abusi, il lavoro nero, le discriminazioni e di come si ridefiniscono tutele per chi il lavoro rischia di perderlo per la crisi o non ce l’ha, dovrebbero caratterizzare l’ambizione comune di voler determinare condizioni di qualità e stabilita’ del lavoro che possano costituire la dimensione qualitativa di un progetto di crescita del paese. L ’attenzione tutta concentrata solo sull’articolo 18, rischia di far aumentare le discriminazioni. Al Parlamento, alla Commissione Lavoro che discute un testo di legge sulle dimissioni in bianco, al governo la nostra richiesta rimane quella di introdurre uno strumento di lotta agli abusi, ai ricatti, alle discriminazioni. Il ripristino dei principi della Legge 188, come dimostra il caso Rai, sono un fattore di cittadinanza sociale per le lavoratrici e lavoratori.

L’Unità 24.02.12

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Dimissioni in bianco? Una pratica barbara e sommersa
Roberta Agostini commenta la lettera-appello del Comitato “188 firme per la legge 188”, promossa per chiedere un impegno contro le dimissioni in bianco
Senza regole il Paese non cresce, questa è una battaglia per l’affermazione di diritti concreti, a partire da quelli connessi alla maternità. E’ difficile uscire dalla crisi in cui ci troviamo se non si riparte dal lavoro delle donne come motore di crescita e sviluppo per l’Italia.

Le dimissioni in bianco sono una pratica barbara e in larga misura sommersa, che colpisce più duramente le donne giovani del Mezzogiorno, una grande risorsa mortificata. L’abolizione di questo abuso è il punto di partenza di un processo per rendere il nostro un Paese più moderno e civile”. Lo dichiara Roberta Agostini, portavoce della Conferenza delle donne del Partito Democratico, commentando la lettera-appello del Comitato “188 firme per la legge 188”, promossa per chiedere, ancora una volta, un impegno contro le dimissioni in bianco.

“Noi ci siamo battute dentro e fuori le aule parlamentari prima per la legge 188, approvata nel 2007 con voto unanime durante il governo Prodi, e poi, subito dopo la sua abrogazione nel 2008 ad opera del precedente governo, attraverso la riproposizione di una nuova proposta.

Ora – conclude Agostini – continueremo ad impegnarci affinché ci si ritrovi in tante, in modo unitario e plurale, intorno all’approvazione di un provvedimento che afferma il diritto a lavorare senza essere sottoposte a ricatti”.

www.partitodemocratico.it

“Dimissioni in bianco. Ripristinate la 188”, di Serena Sorrentino

Donne di esperienze diverse da tempo si sono alleate per ripristinare uno strumento di contrasto agli abusi e ai ricatti: le cosiddette dimissioni in bianco cioè la lettera che tante lavoratrici e lavoratori si trovano davanti nel momento in cui si dimettono (in)volontariamente e su cui non è apposta alcuna data. Sono costretti a firmarla all’atto dell’assunzione, quando il loro interesse è avere un lavoro, quando sono più fragili e sottoponibili a ricatto. La sequela degli abusi a cui si è sottoposti sotto la minaccia che quella lettera venga usata in qualsiasi momento è infinita. Ma tale situazione non è incontrovertibile nel 2007 infatti una legge molto semplice fu approvata con voto bipartisan stabilendo il principio opposto. La legge 188 prevedeva infatti una procedura relativa all’assunzione di una semplicità disarmante: il modulo col quale si veniva assunti riportava un numero progressivo, tali moduli erano validi per un periodo limitato, per dimettersi occorreva un modulo analogo che ovviamente doveva riportare un numero progressivamente successivo e valido nel periodo relativo alle dimissioni del lavoratore, in questo modo veniva meno l’elemento «ricattatorio». La legge è stata abolita dopo pochi mesi di vigenza come primo atto dell’allora Ministro del Lavoro Sacconi. La legge 188 era uno straordinaria misura di unificazione del mondo del lavoro sulla base di principi di civiltà del lavoro, infatti la norma era valida ed estesa a tipologie di lavoro precario, riguardava donne e uomini, era uno strumento di affermazione e tutela dei lavoratori migranti. Non era una legge punitiva ma rivolta alla trasparenza e alla regolazione delle procedure di eventuale dimissione. In un momento in cui con troppa scioltezza si discute di flessibilità in uscita il contrasto agli abusi dovrebbe costituire una premessa a qualsiasi ragionamento. Lo stesso Ministro Fornero, incontrato dal comitato 188 donne per la 188, ha sostenuto di voler lavorare in tal senso adducendo tuttavia le difficoltà ad operare per il ripristino della legge 188 sia a ragioni di natura politica che procedurali. Alla base delle ostilità di una parte delle imprese e del governo precedente, infatti, venivano addotte difficoltà di tipo «procedurale» rispetto alle complicazioni derivanti dagli applicativi emanati dall’Inps. In realtà un monitoraggio dell’effetto di deterrenza per la sola vigenza piuttosto che dell’applicazione effettiva della legge non è stato mai monitorato. La legge è stata abolita senza essere testata effettivamente eppure ha avuto lo stesso un impatto positivo. Dalla sua abolizione le dimissioni sono cresciute nuovamente, sia come certifica l’Istat valutando i dati 08/09 sulle dimissioni di lavoratrici in concomitanza con l’avvento della maternità (800mila) sia come risulta dai dati delle comunicazioni obbligatorie relative a dimissiono di lavoratori precari prima del raggiungimento dei requisiti utili al rinnovo e/o stabilità contrattuale. In un momento in cui il tema della redifinizione delle regole che sovraintendono il mercato del lavoro e’ al centro del dibattito politico i temi di come si riduce la precarietà, di come si contrastano gli abusi, il lavoro nero, le discriminazioni e di come si ridefiniscono tutele per chi il lavoro rischia di perderlo per la crisi o non ce l’ha, dovrebbero caratterizzare l’ambizione comune di voler determinare condizioni di qualità e stabilita’ del lavoro che possano costituire la dimensione qualitativa di un progetto di crescita del paese. L ’attenzione tutta concentrata solo sull’articolo 18, rischia di far aumentare le discriminazioni. Al Parlamento, alla Commissione Lavoro che discute un testo di legge sulle dimissioni in bianco, al governo la nostra richiesta rimane quella di introdurre uno strumento di lotta agli abusi, ai ricatti, alle discriminazioni. Il ripristino dei principi della Legge 188, come dimostra il caso Rai, sono un fattore di cittadinanza sociale per le lavoratrici e lavoratori.

L’Unità 24.02.12

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Dimissioni in bianco? Una pratica barbara e sommersa
Roberta Agostini commenta la lettera-appello del Comitato “188 firme per la legge 188”, promossa per chiedere un impegno contro le dimissioni in bianco
Senza regole il Paese non cresce, questa è una battaglia per l’affermazione di diritti concreti, a partire da quelli connessi alla maternità. E’ difficile uscire dalla crisi in cui ci troviamo se non si riparte dal lavoro delle donne come motore di crescita e sviluppo per l’Italia.

Le dimissioni in bianco sono una pratica barbara e in larga misura sommersa, che colpisce più duramente le donne giovani del Mezzogiorno, una grande risorsa mortificata. L’abolizione di questo abuso è il punto di partenza di un processo per rendere il nostro un Paese più moderno e civile”. Lo dichiara Roberta Agostini, portavoce della Conferenza delle donne del Partito Democratico, commentando la lettera-appello del Comitato “188 firme per la legge 188”, promossa per chiedere, ancora una volta, un impegno contro le dimissioni in bianco.

“Noi ci siamo battute dentro e fuori le aule parlamentari prima per la legge 188, approvata nel 2007 con voto unanime durante il governo Prodi, e poi, subito dopo la sua abrogazione nel 2008 ad opera del precedente governo, attraverso la riproposizione di una nuova proposta.

Ora – conclude Agostini – continueremo ad impegnarci affinché ci si ritrovi in tante, in modo unitario e plurale, intorno all’approvazione di un provvedimento che afferma il diritto a lavorare senza essere sottoposte a ricatti”.

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"Il termometro", di Massimo Giannini

Nella parentesi tecnocratica in cui è racchiusa la democrazia italiana, il Quirinale è il termometro che misura la temperatura dei rapporti tra un governo “strano” e una maggioranza anomala. L´aspro comunicato di Giorgio Napolitano segnala che la febbre non è mai stata così alta. Liberalizzazioni e riforma del mercato del lavoro sono un banco di prova esiziale. il governo di “impegno nazionale” si gioca, se non la sua sopravvivenza politica, la sua speranza riformatrice. Per Monti sono i giorni più difficili. Lui stesso ne è ben consapevole. Sulle liberalizzazioni, a dispetto delle promesse della vigilia, il premier deve evitare un indecoroso passo indietro. Iniziato in Commissione con i 2.400 emendamenti, l´assalto alla diligenza delle solite lobby si è perfezionato in queste ore. Vedremo l´esito della trattativa in corso al Senato, ma per ora rischiano di averla vinta, ancora una volta, le tante “gilde” piccole e grandi che monopolizzano l´economia e paralizzano la società. È vero che con più taxi e più farmacie l´Italia non risolve i suoi problemi di bassa crescita e di scarsa competitività. Ma è chiara a tutti la portata simbolica di queste battaglie di modernizzazione. Se perdi anche queste, non vai lontano.
Sul mercato del lavoro, al di là dei buoni propositi, il premier deve evitare un pericoloso passo falso. Tra parole al vento dei ministri, provocazioni insensate degli industriali e reazioni adirate dei sindacati, il negoziato sfugge di mano. Si perdono di vista l´obiettivo finale (l´aumento della buona occupazione e della produttività del lavoro) e la “merce di scambio” (un Welfare più equo e inclusivo). C´è un problema di linguaggio: non si può evocare la “monotonia” del posto fisso, quando un giovane su tre non ha neanche quello mobile. C´è un problema di messaggio: non si può evocare il valore della “coesione”, e poi ripetere ogni giorno che «il governo andrà avanti anche senza l´accordo delle parti sociali».
Sono i deficit culturali tipici delle tecnocrazie d´élite. Per questo servirebbe la politica. Ma ora proprio la politica, già delegittimata di suo, dà il peggio di sé. Manca la politica nel Pd, dove i tormenti di Bersani sull´articolo 18 nascondono una questione più profonda, che investe il profilo di una sinistra riformista ancora non del tutto compiuta. Manca la politica nel Pdl, dove i ricatti di Berlusconi sulla giustizia e sulla Rai rivelano il cinismo di una destra ormai del tutto destrutturata. La somma di queste tensioni e di queste debolezze si scarica fatalmente sul governo. Così si spiega il rigurgito corporativista che si scatena sul decreto Cresci-Italia, con il governo obbligato a subire i diktat dei Masanielli alla Loreno Bittarelli. Così si spiegano gli incidenti sul decreto Milleproroghe, con il governo che finisce ripetutamente schiacciato nella solita morsa forzaleghista.
L´ira di Napolitano, che ammonisce il Parlamento sull´uso e l´abuso degli emendamenti, precipita in questa confusa emergenza. E va letta con un´ottica non congiunturale ma strutturale. Il Capo dello Stato indica un caso specifico. Ma sarebbe sbagliato non vedere che il suo intervento, per la sua forza cogente, si estende ben oltre l´orizzonte del Milleproroghe. In quel comunicato c´è un messaggio implicito ai partiti, che oggi riguarda anche le liberalizzazioni, e domani anche la riforma del mercato del lavoro. Per ragioni diverse, centrodestra e centrosinistra, al punto più basso mai registrato nell´indice di fiducia dei cittadini, non sono “autosufficienti”. Sanno benissimo che a questo governo (del Presidente) non c´è alternativa. Dunque è inutile logorarne l´azione. La si può migliorare, ma non sabotare.

La Repubblica 24.02.12

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Decreti, richiamo di Napolitano “Stop a modifiche fuori tema” e sulle liberalizzazioni è scontro”, di Umberto Rosso

Il premier avverte: il governo non fa marcia indietro sul suo provvedimento bandiera
Una lunga lettera inviata dal capo dello Stato ai presidenti delle Camere. Napolitano richiama il Parlamento: basta con gli emendamenti “fuorisacco”, che finiscono per stravolgere i decreti. Una lunga lettera di rilievi, che il capo dello Stato spedisce a Monti e ai presidenti delle Camere, e che Fini legge in aula subito dopo l´approvazione del Milleproroghe incassata dal governo grazie al voto di fiducia. Proprio il decreto è entrato nel mirino del capo dello Stato, che adesso è chiamato a firmare il testo, ma che avverte: c´è il rischio che la Corte costituzionale possa annullarlo, come ha già fatto qualche giorno fa con alcune norme della legge del 2010, giudicate appunto «estranee alle finalità del testo». Napolitano, nella sua lettera, ricorda di essere intervenuto già varie volte sul punto. Una lettera al governo Berlusconi, esattamente un anno fa, e una missiva analoga ancora prima a Prodi. Adesso anche a Monti. Come a dire che il Quirinale si muove con equilibrio e le polemiche sollevate da un´ala del centrodestra sul trattamento di favore concesso a Monti sono smentite dai fatti. Il capo dello Stato sottolinea dunque di aver sollecitato una «rigorosa delimitazione degli eventuali emendamenti, secondo un criterio di stretta attinenza alle finalità e al contenuto originario del decreto legge». Invece, è scattato il solito maxi-mercato delle modifiche. Mettendo alla fine in difficoltà il governo, che è ieri è anche finito sotto due volte a Montecitorio, sia pure su ordini del giorno: uno della Lega sul canone Rai (votato da tutti tranne il Pd) e uno del Pd sulle graduatorie degli insegnanti.
Il segnale politico della lettera di Napolitano sembra perciò andare in soccorso dell´azione del governo: il messaggio ai partiti è di non stravolgere i provvedimenti già concordati con Palazzo Chigi. E le preoccupazioni del capo dello Stato riguardano, indirettamente, anche il provvedimento-bandiera dell´esecutivo, che rischia di precipitare nella palude degli emendamenti. Sulle liberalizzazioni infatti sale pericolosamente lo scontro, dopo la brusca frenata in Senato su taxi e le farmacie. Monti avvisa: «Il governo sul decreto non fa marcia indietro. Non potremo accogliere tutte le modifiche, soprattutto se rappresentano un arretramento». Pd e Pdl trattano. Casini però minaccia di non votare il testo in aula se il testo sulle liberalizzazioni «viene modificato al ribasso». Un clima che preoccupa Napolitano. La carica degli emendamenti al Milleproroghe, spiega, avrebbe dovuto trovare «una corretta collocazione in un distinto apposito decreto legge». Da qui la dura lettera di richiamo, arrivata quasi a sorpresa e che ha spiazzato i partiti. Qualche malumore nel Pd, fra i deputati in Transatlantico il timore che l´altolà del capo dello Stato finisca per assumere il valore di un voto a scatola chiusa al governo. Da Di Pietro, stavolta, grande soddisfazione per l´intervento del capo dello Stato, «dopo le sue parole il Milleproroghe rischia di essere un decreto nullo, e il presidente potrebbe anche non firmarlo». Eventualità, per la verità, molto remota. Visto anche che lo stesso presidente della Repubblica nella sua lettera ricorda di non disporre del potere di un rinvio «parziale» della legge, solo sui punti ritenuti estranei al provvedimento. Può solo emanare il decreto o rimandarlo indietro. Sul tavolo del Colle l´esame non potrà che essere complessivo, «evitando una decadenza di tutte le disposizioni, comprese quelle condivisibili e urgenti, qualora la rilevanza e la portata di queste risultino prevalenti».

La Repubblica 24.02.12