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“Esodati e ricongiunzioni folli. Il diritto negato alla pensione”, di Massimo Franchi

Un furto legalizzato, una sorta di diritto ipotetico, di lotteria, in cui le persone versano contributi senza sapere cosa succedera dei loro soldi e quando andranno in pensione . Un furto a cui la Cgil risponde preparandosi a sostenere chiunque voglia fare causa (class action non sono possibili) e mobilitandosi unitariamente con Cisl e Uil in una battaglia comune (partita con la lettera a Fornero dei tre segretari confederali il 19 gennaio in cui si parla di ≪situazioni drammatiche che la ministra sembra non aver compreso del tutto≫) per ≪ridare certezze ed equita al sistema pensionistico italiano≫. Dentro al ≪tritacarne≫, al ≪frullatore ≫ della riforma delle pensioni sono rimasti intrappolati centinaia di migliaia di persone. Si parlava di 65mila ma sono molti di piu, un numero preciso non esiste e non puo esserci perche l’Inps non puo avere dati su persone che non hanno ancora fatto domanda di pensione , spiega Vera Lamonica, segretario confederale Cgil, cercando di evitare l’uso di quella parola bruttissima che e esodati e che non rende l’idea della tragedia di chi vive senza lavoro, senza ammortizzatori e senza pensione. L’unica certezza – le fa da contraltare Morena Piccinini, presidente Inca Cgil – e che i nostri patronati in queste settimane sono presi d’assalto da persone in carne e ossa che non possono pianificare la loro vita. Sicuramente parliamo di centinaia di migliaia di persone, ma contarli non spetta a noi. E l’indeterminatezza della quota la “scusa” che il governo e la ministra Fornero sta utilizzando per non dare risposte alle innumerevoli richieste di intervento che arrivano da sindacati e Pd. Nel frattempo i passi avanti fatti nel decreto Milleproroghe non bastano perche ≪si basano sulla data di fine del rapporto di lavoro e non sul giorno in cui sono stati firmati gli accordi per gli esodi incentivati, rischiando di escludere perfino vertenze come Irisbus, Fiat Termini Imerese, Alenia≫.
SCANDALO RICONGIUNZIONE Ma c’e un secondo fronte aperto dal governo Berlusconi nella manovra dell’agosto 2010 che ha effetti ≪folli≫ sui pensionati. E quello della ricongiunzione onerosa dei contributi, ≪voluta per evitare che ledonne scappassero dall’Indpad all’Inps al momento dell’innalzamento dell’eta pensionabile del settore pubblico≫, che costringe migliaia di pensionandi a pagare centinaia di migliaia di euro per vedersi riconoscere i soldi versati per diversi enti pensionistici, anche quando (come raccontano le storie qui a fianco di persone con nomi di fantasia) hanno sempre fatto lo stesso lavoro. Eanche su questo fronte, nonostante gli appelli e le promesse, Elsa Forneronon e ancora intervenuta e addirittura ha ribadito la volonta di mantenere onerosi i ricongiungimenti perche ≪la norma e equa, garantisce parita di trattamento tra lavoratori, e coerente con lo sistema contributivo≫, concludendo con il monito: ≪Non possiamo continuare a coltivare dei privilegi≫. Una battaglia non facile, per la Cgil. ≪Siamo coscienti che il tema e molto complicato e poco mediatico – spiega Vera Lamonica – pero e una situazione di profonda ingiustizia su cui il ministro Fornero non sta rispondendo nonostante le nostre richieste, ripetute, di un incontro≫. Assieme a loro c’e Luisa Gnecchi, parlamentare Pd ed ex dipendente dell’Inps che piu ha lottato contro la norma della ricongiunzione onerosa: ≪Mi sono accorta subito che quella norma avrebbe creato ingiustizie fortissime – racconta -. Ho impiegato mesi e mesi a far capirne la gravita fino a quando anche il collega dell’allora maggioranza Giuliano Cazzola, parlamentare Pdl e grande esperto di pensioni, ha deciso di sottoscrivere l’ordine del giorno che il 27 luglio dell’anno scorso e stato votato all’unanimita dalla Camera≫. Ma da quel momento non e successo piu niente: ≪Il sottosegretario del governo Berlusconi Bellotti quantifico in 400milioni il costo per abolire la norma, sebbene la stessa fosse stata inserita senza che si prevedessero risparmi. Ora addirittura l’Inps ha aumentato la stima del costo ad un miliardo e mezzo, sbagliando perche abbiamovisto benissimo che le richieste di trasferimento all’Inps non sono aumentate ≫.
«UNA NORMA SENZA PIÙ SENSO≫ La ragione principale dell’arrabbiatura della Cgil e che ≪quella norma oggi non ha piu un senso, una ratio, perche oramai tutte le lavoratrici, pubbliche e private, con la riforma Fornero vanno in pensione praticamente alla stessa eta≫, continua Morena Picinnini. ≪In questo senso dare delle privilegiate a donne che dopo una vita di sacrifici devono accollarsi anni di lavoro in piu o pagare cifre improponibili per non avere pensioni da fame e una cosa che non sta ne in cielo ne in terra: e l’esatto contrario dei privilegi. Anche perche tutto questo succede – chiude Piccinini – quando tutto il governo parla di addio al posto fisso, di cambiare lavoro e invece si mette in difficolta chi ha cambiato lavoro e si costringono centinaia di migliaia di persone a ricomprarsi il diritto alla pensione ≫. ❖

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Insegnante di 71 anni beffata per tre giorni

Grazia ha insegnato presso lo stesso Istituto scolastico per oltre 37 anni, fino al 31 agosto 2010. Dal primo settembre 2001 pero l’Istituto da privato diventa “parificato” e cio determina, a decorrere dalla stessa data, il passaggio dell’obbligo assicurativo di tutti i dipendenti dall’Inps all’Inpdap. Grazia viene collocata a riposo per raggiunti limiti di eta il primo settembre 2010. Nei primi giorni del mesedi agosto va all’Inps per presentare domanda di pensione con l’intento di chiedere il trasferimento dei 9 anni di contributi versati all’Inpdap dal 1˚ settembre 2001 al 31 agosto 2010 presso l’Inps ai sensi della legge 322/58, come negli anni precedenti avevano fatto i suoi colleghi che erano andati in pensione. Non sapeva dell’abrogazione della legge 322/58 tre giorni prima.Asettembre2010riceve il provvedimento di liquidazione della pensione di vecchiaia Inps in modalita provvisoria in attesa del trasferimento della contribuzione versata presso l’Inpdap. Pensione liquidata sulla base della sola contribuzione accreditata presso l’Inps (28 anni e 5 mesi). I 9 anni di contributi versati all’Inpdap presso la Cassa Pensione Insegnanti, non possono essere utilizzati in alcun modo perche la manovra del 2010 ha abrogato la vecchia norma (legge 322/58). La beffa e che tutto e successo solo tre giorni prima della domanda. E nessuna l’ha avvertita di velocizzare la richiesta. Ne puo attivare la ricongiunzione onerosa perche titolare di pensione diretta Inps; non puo chiedere la costituzione della posizione assicurativa all’Inps perche e stata abrogata dal 31 luglio 2010; non puo chiedere la totalizzazione; non puo chiedere la pensione supplementare all’Inpdap perche tale prestazione non e prevista nei fondi esclusivi. Una beffa totale.❖

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Via dall’azienda e poi il baratro

È uno dei tanti che hanno accettato di lasciare il proprio posto di lavoro, sicuro di andare in pensione con le vecchie norme. Giacomo (nome di fantasia) e nato l’11 marzo del 1952 e ha accettato di lasciare il lavoro con esodo incentivato individuale, con 36 anni di contributi, il 31 dicembre 2010. Con la vecchia normativa sarebbe andato in pensione di anzianita ad aprile del 2012. Ora e senza stipendio, senza pensione, senza ammortizzatori sociali, ha un mutuo da pagare e due figli all’universita disoccupati.Con la nuova normativa il lavoratore potra andare in pensione a 64 anni, quindi nel 2016, con decorrenza maggio. Con l’approvazione del decreto legge Milleproroghe il lavoratore con esodo individuale incentivato licenziato alla data del 31 dicembre 2010 potrebbe rientrare nelle deroghe previste rispetto alla nuova normativa. Il “potrebbe” pero e d’obbligo visto che nel decreto Milleproroghe non sono state previste risorse aggiuntive rispetto a quelle stanziate nella legge 214 del 2011: si amplia giustamente la sfera dei derogati ma le risorse non vengono aumentate con l’ovvia conseguenza che moltissimi derogati non rientreranno nelle esenzioni e saranno costretti a raggiungere i nuovi requisiti piu restrittivi. Cgil, Cisl e Uil hanno sempre sostenuto che devono essere esentati dall’applicazione della nuova normativa tutti i lavoratori indicati nella legge 214 del 2011, fra cui tutti i lavoratori disoccupati, tutti i lavoratori con esodi individuali o collettivi sottoscritti entro il 31 dicembre 2011. La deroga inoltre deve valere per tutti i soggetti individuati senza vincoli ne di carattere finanziario ne di carattere numerico: ≪il diritto alla pensione – sostengono i sindacati – e un diritto soggettivo perfetto e non puo essere ridotto ad una mera lotteria≫

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Al lavoro per 40 anni. Ma ora è senza nulla

Maria e una delle migliaia di lavoratrici che ha sempre fatto lo stesso lavoro, ma che ha avuto la sfortuna di cambiare istituto previdenziale. E nata il 21 gennaio del 1954 e ha sempre eseguito la stessa mansione. Prima in ditte private poi con societa collegate a Poste Italiane. E stata iscritta all’Inps per oltre 33 anni. Poi la sua ditta e stata esternalizzata, diventando Postel con iscrizione all’ente previdenziale Ipost (ora riassorbito) per oltre 7 anni. Il 21 luglio 2010ha presentato la domanda di ricongiunzione dei contributi verso l’Inps, prima di lasciare il lavoro il 31 dicembre 2010. Tra Inps e ex Ipost ha complessivamente oltre 40 anni di contributi. Maria era certa che la ricongiunzione all’Inps della contribuzione Ipost fosse gratuita, ma la manovra del 2010 l’ha resa onerosa. Nonostante la legge sia entrata in vigore il 30 luglio 2010, nove giorni dopo la sua presentazione della richiesta, la sua validita e infatti retroattiva. Solo dopo 1 anno, il 20 luglio 2011 Maria riceve il provvedimento di ricongiunzione: oneroso e peraltro sbagliato. Dopo un riesame l’Inps comunica a dicembre 2011 che per ricongiungere il periodo Ipost all’Inps ha un costo di 36.857,87 euro. Il pagamento della prime tre rate il cui costo e di 2.670 euro scade il 31 marzo. Maria, pero, non e in condizione di pagare, non lavora piu e non e pensionata, nessuno e disposto a concederle prestiti. Se non paga puo chiedere la pensione in regime di totalizzazione: oltre ad un trattamento notevolmente inferiore perderebbe oltre un anno di pensione. Secondo le nuove disposizioni della legge Monti la sua eta per la pensione di vecchiaia arriverebbe nel 2020 con 66 anni e 11 mesi di eta. Si troverebbe dunque ad attendere altri 9 anni senza stipendio e pensione.

L’Unità 22.02.12

"Emma al bar", di Massimo Gramellini

Mi ritrovo sempre più spesso a tessere controvoglia l’elogio dell’ipocrisia dei vecchi democristiani, che parlavano ore senza dire nulla. Lo facevano apposta: per non offendere nessuno. Quando accusa i sindacati di proteggere i ladri e gli assenteisti cronici, Emma Marcegaglia si esibisce in un classico lamento da bar. I sindacati difendono i mascalzoni e penalizzano i volenterosi. Gli imprenditori portano i soldi in Svizzera invece di investirli in azienda. I manager non vengono pagati per quanto producono ma per quanto tagliano. I ragazzi piangono miseria però si rifiutano di fare i mestieri umili, e via sermoneggiando.

Ora, i luoghi comuni da bar sono tali proprio perché contengono un fondo di verità. Ma hanno questo di terribile: pronunciati fuori dal loro contesto naturale (l’aperitivo con oliva) si tramutano in una generalizzazione che avvelena la convivenza e fa scattare la rappresaglia. Lo si è visto anche ieri: Marcegaglia non aveva ancora finito di sputare fiele sul sindacato protettore di ladri con cui in teoria sta trattando la riforma del mercato del lavoro che già Di Pietro le suggeriva di «guardare a casa sua», allusione non troppo elegante ai procedimenti giudiziari che hanno coinvolto la famiglia dell’imprenditrice. Quando le vacche sono grasse questi scambi di cortesie aiutano a ingannare la noia. Ma nei momenti di bestiame pelle e ossa trasmettono solo sgomento. Come se chi occupa ruoli di responsabilità non si rendesse conto che in ascolto c’è un’umanità sgomenta che chiede di essere spronata, non provocata.

Massimo Gramellini

“Emma al bar”, di Massimo Gramellini

Mi ritrovo sempre più spesso a tessere controvoglia l’elogio dell’ipocrisia dei vecchi democristiani, che parlavano ore senza dire nulla. Lo facevano apposta: per non offendere nessuno. Quando accusa i sindacati di proteggere i ladri e gli assenteisti cronici, Emma Marcegaglia si esibisce in un classico lamento da bar. I sindacati difendono i mascalzoni e penalizzano i volenterosi. Gli imprenditori portano i soldi in Svizzera invece di investirli in azienda. I manager non vengono pagati per quanto producono ma per quanto tagliano. I ragazzi piangono miseria però si rifiutano di fare i mestieri umili, e via sermoneggiando.

Ora, i luoghi comuni da bar sono tali proprio perché contengono un fondo di verità. Ma hanno questo di terribile: pronunciati fuori dal loro contesto naturale (l’aperitivo con oliva) si tramutano in una generalizzazione che avvelena la convivenza e fa scattare la rappresaglia. Lo si è visto anche ieri: Marcegaglia non aveva ancora finito di sputare fiele sul sindacato protettore di ladri con cui in teoria sta trattando la riforma del mercato del lavoro che già Di Pietro le suggeriva di «guardare a casa sua», allusione non troppo elegante ai procedimenti giudiziari che hanno coinvolto la famiglia dell’imprenditrice. Quando le vacche sono grasse questi scambi di cortesie aiutano a ingannare la noia. Ma nei momenti di bestiame pelle e ossa trasmettono solo sgomento. Come se chi occupa ruoli di responsabilità non si rendesse conto che in ascolto c’è un’umanità sgomenta che chiede di essere spronata, non provocata.

Massimo Gramellini

"La tentazione del muro", di Barbara Spinelli

Con molta, troppa facilità ci stiamo abituando a dire che la bancarotta greca non sarebbe poi la catastrofe paventata da anni. Il male, incurabile, basterebbe allontanarlo, asportando Atene dall´Eurozona come si fa con un´appendicectomia. Quel che conta è evitare il contagio, e non a caso il Fondo salva Stati si chiama d´un tratto Firewall, muro parafuoco che serve a proteggere i sistemi informatici dalle intrusioni: che salverà chi è ancora dentro (l´Italia, per esempio) da chi, nell´ignominia, sta cadendo fuori.

Come la linea Maginot che i francesi eressero per proteggersi dagli assalti tedeschi negli anni ‘20-´30, Firewall evoca gli universi chiusi della clinica e della guerra: il miraggio d´un muro inviolabile rassicura, anche se sappiamo bene come finì il fortilizio francese. Cadde d´un colpo. Lo storico Marc Bloch parlò di strana disfatta perché il tracollo era avvenuto negli animi, prima che lungo la Maginot: «nelle retroguardie della società civile e politica», prima che al fronte.
In realtà nessuno ci crede, al chimerico Firewall che abita le fantasie e fiacca la ragione. Altrimenti l´Unione non avrebbe deciso, ieri, un ennesimo importante prestito alla Grecia. Altrimenti non ci sarebbe chi pensa, allarmato, a una nuova architettura dell´Unione: più federale, dotata di un governo europeo cui gli Stati delegheranno sovranità crescenti. Ci stanno pensando Berlino e forse Roma, anche se Monti ha appena firmato una lettera con Cameron e altri europei in cui non si parla affatto di nuova Unione, ma di completare il mercato unico. Così le cose procedono lente, e il problema cruciale (le risorse di cui disporrà l´Unione, per un possente piano di investimenti) nessuno l´affronta. In parte la lentezza è dovuta a corti calcoli prudenziali: ogni leader ha le sue elezioni. In parte si vuol vedere l´esito del dramma ellenico, e qui comincia la parte più torbida della storia europea che si sta facendo.
Ci sono momenti in cui sembra che i governi forti aspettino la bancarotta greca, per costruire l´Unione che dicono di volere. È la tesi dell´economista Usa Kenneth Rogoff, intervistato da Spiegel: una volta espulsa Atene, gli Stati Uniti d´Europa si faranno prima del previsto, grazie alla crisi. C´è, nell´aria, odore di capri espiatori. Ma è proprio vero che l´autodafé della Grecia genererebbe la nuova Unione? E quale Europa nascerebbe, se svanirà la pressione della crisi greca? Per ora, una cosa pare certa: Atene è in tumulto, e a forza di piani a breve termine mina l´eurozona e l´idea stessa di un´Europa solidale nelle sciagure. Difficile che quest´ultima si costituisca in federazione, se il primo atto consisterà nel gettare a mare i Paesi che non ce la fanno. L´operazione Firewall non è indolore per la Grecia, ma neppure per l´Europa.
È quello che hanno scritto sull´Economist Mario Blejer e Guillermo Ortiz, ex banchieri centrali dell´Argentina e del Messico, in un appello in cui si ricorda agli europei il costo della bancarotta di Buenos Aires nel 2002, e la diversità tra quel fallimento e quello temuto in Grecia. L´Argentina conobbe in effetti sei anni di crescita dopo la svalutazione del peso e lo sganciamento dal dollaro, ma nel mondo non c´era la recessione odierna, il risanamento fu distribuito lungo una decina d´anni, e il peso esisteva ancora. Invece la dracma non c´è più, e ricrearla sarebbe un salasso terribile (i debiti greci sono in euro: come ripagarli con dracme svalutate?). Infine, aggiungono i banchieri centrali, s´è persa memoria della veduta breve del Fondo Monetario, e di un tracollo che fu «straziante» per gli argentini. La loro bancarotta era obbligata mentre non lo è per la Grecia, che è pur sempre nell´Unione: «Chi propone l´uscita di Atene dall´eurozona sottovaluta le conseguenze devastanti che avrebbe. L´esperienza argentina dovrebbe servire non come esempio, ma come deterrente contro ogni idea di fuoriuscita».
Un avvertimento simile viene in questi giorni da Lorenzo Bini Smaghi. Sul sito del Financial Times, il 16 febbraio, l´ex membro dell´esecutivo Bce fa capire, senza dirlo chiaramente, che così come l´Europa oggi è fatta, così come fa sgocciolare le sue imperfette misure, il male non sarà curato. Esiziale, comunque, è la falsa sicurezza che si ostenta di fronte a un possibile fallimento, simile a quella esibita ottusamente nel 2008 quando fallì la società Lehman Brothers: «Il contagio finanziario opera in modi inaspettati, specie dopo gravi traumi come il fallimento d´una grande istituzione finanziaria o d´un Paese».
Il trauma colpirebbe la Grecia, ma anche le istituzioni europee: esse dimostrerebbero infatti una strutturale «incapacità di risolvere i problemi». Di qui la convinzione che il modello Fondo Monetario sia migliore: la sua assistenza è egualmente condizionale, ma almeno è prevedibile e prolungata. Non così l´Europa, che tiene Atene sotto la minaccia di continuo fallimento: una minaccia che «sfinisce il sostegno politico di cui (la disciplina richiesta) ha bisogno, e alimenta l´instabilità sui mercati finanziari». Forse è tardi per cambiar metodo, ma «se si vuol evitare un disastro non è mai troppo tardi».
Il piano europeo non può essere solo tecnico, mi dice Bini Smaghi: «Cosa succederà della Grecia se c´è un default? Una crisi sociale e politica nel cuore dell´Europa, con la democrazia di quel Paese a rischio. Il fallimento non sarebbe solo tecnico ma anche politico, perché se c´è la povertà e un regime autoritario il fallimento dell´Europa diventerebbe ovvio. Quale modello potrebbe rappresentare l´Europa agli occhi del mondo se uno dei suoi membri torna indietro nella storia?».
Ma com´è fatta esattamente l´Europa, per stare così male? È l´economia che vacilla, o sono malate le sue classi politiche, la sua cultura? Tutte e tre le cose in realtà barcollano, e l´Europa che uscirà da questa prova sarà forte o degenererà a seconda del modo in cui i tre mali insieme – economia, cultura, politica – saranno curati.
Culturalmente, stiamo ricadendo indietro di novant´anni, nei rapporti fra europei. Ad ascoltare i cittadini, tornano in mente le chiusure nazionali degli anni ´20-´30, più che la ripresa cosmopolitica del ´45. Sta mettendo radici un risentimento, tra Stati europei, colmo di aggressività. Le prime pagine dei giornali greci, da mesi, dipingono i governanti tedeschi come nazisti. Intanto Atene riesuma le riparazioni belliche che Berlino deve ancora pagare all´Europa occupata da Hitler. Dimenticata è la tappa del ´45, quando si ridiede fiducia alla nazione tedesca e ci si accinse a unire l´Europa. Quella fiducia aveva un preciso significato, anche finanziario: la Germania non doveva più risarcire nella sua totalità le distruzioni naziste. La politica delle riparazioni, che era stata la sua maledizione nel primo dopoguerra e l´aveva gettata nella dittatura, non doveva più esistere (Israele costituì un caso a parte).
Proprio questo si rimette in discussione, ed è la ragione per cui assistiamo a un formidabile arretramento. Quel che si fece nel ´45 verso la Germania, per motivi strategici e perché era mutata la cultura politica, non si è in grado di farlo con la Grecia. Gli errori commessi da Atene non sono crimini, e tuttavia urge espiare oltre che pagare. Son guardate con fastidio perfino le sue elezioni. La politica di riparazioni che le si infligge è feroce, crea ira, risentimento. E questo perché? Evidentemente non si vedono motivi strategici perché la Grecia resti in Europa: manca ogni visione del mondo, e la cultura non è più quella del ´45-´50.
La regressione ha effetti rovinosi sulla politica. Come può nascere l´Europa federale, se vince una cultura che ha poco a vedere con quello che gli europei appresero da due guerre? La scelta di un Presidente come Joachim Gauck, in Germania, è una buona notizia, perché la popolazione tedesca ha contribuito a questo clima di sospetti, anche se non sempre immotivati (perché assistere Paesi del Sud prigionieri volontari di una corruzione che a Nord si combatte?). L´Europa ha bisogno di popolazioni illuminate, non di capri espiatori, e Gauck che usa parlar-vero potrà aiutare. L´Europa ha bisogno di una crescita diversa, comune, non di anni e anni di recessione, di odi interni, di sospensioni della democrazia. Altrimenti la sua disfatta sarà di nuovo strana: nata nelle retroguardie civili, prima che nell´armata schierata lungo i muri anti-contagio.

La Repubblica 22.02.12

“La tentazione del muro”, di Barbara Spinelli

Con molta, troppa facilità ci stiamo abituando a dire che la bancarotta greca non sarebbe poi la catastrofe paventata da anni. Il male, incurabile, basterebbe allontanarlo, asportando Atene dall´Eurozona come si fa con un´appendicectomia. Quel che conta è evitare il contagio, e non a caso il Fondo salva Stati si chiama d´un tratto Firewall, muro parafuoco che serve a proteggere i sistemi informatici dalle intrusioni: che salverà chi è ancora dentro (l´Italia, per esempio) da chi, nell´ignominia, sta cadendo fuori.

Come la linea Maginot che i francesi eressero per proteggersi dagli assalti tedeschi negli anni ‘20-´30, Firewall evoca gli universi chiusi della clinica e della guerra: il miraggio d´un muro inviolabile rassicura, anche se sappiamo bene come finì il fortilizio francese. Cadde d´un colpo. Lo storico Marc Bloch parlò di strana disfatta perché il tracollo era avvenuto negli animi, prima che lungo la Maginot: «nelle retroguardie della società civile e politica», prima che al fronte.
In realtà nessuno ci crede, al chimerico Firewall che abita le fantasie e fiacca la ragione. Altrimenti l´Unione non avrebbe deciso, ieri, un ennesimo importante prestito alla Grecia. Altrimenti non ci sarebbe chi pensa, allarmato, a una nuova architettura dell´Unione: più federale, dotata di un governo europeo cui gli Stati delegheranno sovranità crescenti. Ci stanno pensando Berlino e forse Roma, anche se Monti ha appena firmato una lettera con Cameron e altri europei in cui non si parla affatto di nuova Unione, ma di completare il mercato unico. Così le cose procedono lente, e il problema cruciale (le risorse di cui disporrà l´Unione, per un possente piano di investimenti) nessuno l´affronta. In parte la lentezza è dovuta a corti calcoli prudenziali: ogni leader ha le sue elezioni. In parte si vuol vedere l´esito del dramma ellenico, e qui comincia la parte più torbida della storia europea che si sta facendo.
Ci sono momenti in cui sembra che i governi forti aspettino la bancarotta greca, per costruire l´Unione che dicono di volere. È la tesi dell´economista Usa Kenneth Rogoff, intervistato da Spiegel: una volta espulsa Atene, gli Stati Uniti d´Europa si faranno prima del previsto, grazie alla crisi. C´è, nell´aria, odore di capri espiatori. Ma è proprio vero che l´autodafé della Grecia genererebbe la nuova Unione? E quale Europa nascerebbe, se svanirà la pressione della crisi greca? Per ora, una cosa pare certa: Atene è in tumulto, e a forza di piani a breve termine mina l´eurozona e l´idea stessa di un´Europa solidale nelle sciagure. Difficile che quest´ultima si costituisca in federazione, se il primo atto consisterà nel gettare a mare i Paesi che non ce la fanno. L´operazione Firewall non è indolore per la Grecia, ma neppure per l´Europa.
È quello che hanno scritto sull´Economist Mario Blejer e Guillermo Ortiz, ex banchieri centrali dell´Argentina e del Messico, in un appello in cui si ricorda agli europei il costo della bancarotta di Buenos Aires nel 2002, e la diversità tra quel fallimento e quello temuto in Grecia. L´Argentina conobbe in effetti sei anni di crescita dopo la svalutazione del peso e lo sganciamento dal dollaro, ma nel mondo non c´era la recessione odierna, il risanamento fu distribuito lungo una decina d´anni, e il peso esisteva ancora. Invece la dracma non c´è più, e ricrearla sarebbe un salasso terribile (i debiti greci sono in euro: come ripagarli con dracme svalutate?). Infine, aggiungono i banchieri centrali, s´è persa memoria della veduta breve del Fondo Monetario, e di un tracollo che fu «straziante» per gli argentini. La loro bancarotta era obbligata mentre non lo è per la Grecia, che è pur sempre nell´Unione: «Chi propone l´uscita di Atene dall´eurozona sottovaluta le conseguenze devastanti che avrebbe. L´esperienza argentina dovrebbe servire non come esempio, ma come deterrente contro ogni idea di fuoriuscita».
Un avvertimento simile viene in questi giorni da Lorenzo Bini Smaghi. Sul sito del Financial Times, il 16 febbraio, l´ex membro dell´esecutivo Bce fa capire, senza dirlo chiaramente, che così come l´Europa oggi è fatta, così come fa sgocciolare le sue imperfette misure, il male non sarà curato. Esiziale, comunque, è la falsa sicurezza che si ostenta di fronte a un possibile fallimento, simile a quella esibita ottusamente nel 2008 quando fallì la società Lehman Brothers: «Il contagio finanziario opera in modi inaspettati, specie dopo gravi traumi come il fallimento d´una grande istituzione finanziaria o d´un Paese».
Il trauma colpirebbe la Grecia, ma anche le istituzioni europee: esse dimostrerebbero infatti una strutturale «incapacità di risolvere i problemi». Di qui la convinzione che il modello Fondo Monetario sia migliore: la sua assistenza è egualmente condizionale, ma almeno è prevedibile e prolungata. Non così l´Europa, che tiene Atene sotto la minaccia di continuo fallimento: una minaccia che «sfinisce il sostegno politico di cui (la disciplina richiesta) ha bisogno, e alimenta l´instabilità sui mercati finanziari». Forse è tardi per cambiar metodo, ma «se si vuol evitare un disastro non è mai troppo tardi».
Il piano europeo non può essere solo tecnico, mi dice Bini Smaghi: «Cosa succederà della Grecia se c´è un default? Una crisi sociale e politica nel cuore dell´Europa, con la democrazia di quel Paese a rischio. Il fallimento non sarebbe solo tecnico ma anche politico, perché se c´è la povertà e un regime autoritario il fallimento dell´Europa diventerebbe ovvio. Quale modello potrebbe rappresentare l´Europa agli occhi del mondo se uno dei suoi membri torna indietro nella storia?».
Ma com´è fatta esattamente l´Europa, per stare così male? È l´economia che vacilla, o sono malate le sue classi politiche, la sua cultura? Tutte e tre le cose in realtà barcollano, e l´Europa che uscirà da questa prova sarà forte o degenererà a seconda del modo in cui i tre mali insieme – economia, cultura, politica – saranno curati.
Culturalmente, stiamo ricadendo indietro di novant´anni, nei rapporti fra europei. Ad ascoltare i cittadini, tornano in mente le chiusure nazionali degli anni ´20-´30, più che la ripresa cosmopolitica del ´45. Sta mettendo radici un risentimento, tra Stati europei, colmo di aggressività. Le prime pagine dei giornali greci, da mesi, dipingono i governanti tedeschi come nazisti. Intanto Atene riesuma le riparazioni belliche che Berlino deve ancora pagare all´Europa occupata da Hitler. Dimenticata è la tappa del ´45, quando si ridiede fiducia alla nazione tedesca e ci si accinse a unire l´Europa. Quella fiducia aveva un preciso significato, anche finanziario: la Germania non doveva più risarcire nella sua totalità le distruzioni naziste. La politica delle riparazioni, che era stata la sua maledizione nel primo dopoguerra e l´aveva gettata nella dittatura, non doveva più esistere (Israele costituì un caso a parte).
Proprio questo si rimette in discussione, ed è la ragione per cui assistiamo a un formidabile arretramento. Quel che si fece nel ´45 verso la Germania, per motivi strategici e perché era mutata la cultura politica, non si è in grado di farlo con la Grecia. Gli errori commessi da Atene non sono crimini, e tuttavia urge espiare oltre che pagare. Son guardate con fastidio perfino le sue elezioni. La politica di riparazioni che le si infligge è feroce, crea ira, risentimento. E questo perché? Evidentemente non si vedono motivi strategici perché la Grecia resti in Europa: manca ogni visione del mondo, e la cultura non è più quella del ´45-´50.
La regressione ha effetti rovinosi sulla politica. Come può nascere l´Europa federale, se vince una cultura che ha poco a vedere con quello che gli europei appresero da due guerre? La scelta di un Presidente come Joachim Gauck, in Germania, è una buona notizia, perché la popolazione tedesca ha contribuito a questo clima di sospetti, anche se non sempre immotivati (perché assistere Paesi del Sud prigionieri volontari di una corruzione che a Nord si combatte?). L´Europa ha bisogno di popolazioni illuminate, non di capri espiatori, e Gauck che usa parlar-vero potrà aiutare. L´Europa ha bisogno di una crescita diversa, comune, non di anni e anni di recessione, di odi interni, di sospensioni della democrazia. Altrimenti la sua disfatta sarà di nuovo strana: nata nelle retroguardie civili, prima che nell´armata schierata lungo i muri anti-contagio.

La Repubblica 22.02.12

"Ecco perché pagherà anche il salotto buono", di Lucia Annunziata

Non si sa se la cosa più grave è che abbia citato la «distruzione creativa» di Schumpeter, o il termine «salotto buono». Avremmo amato capire, ma le cronache non ci hanno illuminato, se chi lo ascoltava è rimasto più sorpreso dalla negazione di ogni sua «deferenza» al potere economico, o dalla riaffermazione del divieto «di sedere simultaneamente nei Cda di banche e assicurazioni».

Mario Monti, due giorni fa parlando alla Borsa di Milano, davanti al Gotha finanziario del Paese, 400 invitati, ha fornito un’altra tessera al profilo del suo governo: e stavolta nel mirino non ha messo il sindacato ma i «poteri forti». Stranamente, le sue parole sono passate quasi inosservate nell’arena politica, specie nell’area di centrosinistra che pure si sta aspramente dividendo sull’appoggio o meno al suo governo.

Vediamole, queste parole, nella versione ufficiale del sito di Palazzo Chigi. «Una cronaca veloce ci attribuisce deferenza verso il salotto buono ma togliere la possibilità di sedere simultaneamente nei cda di banche e assicurazioni, non è stata una cosa molto gradita. Pensiamo, poi, che in passato si sia tutelato il bene esistente e consentito la sopravvivenza un po’ forzata dell’italianità di alcune aziende, impedendo la distruzione creatrice schumpeteriana e non sempre facendo l’interesse di lungo periodo».

Colpisce intanto una rottura formale, l’uso di quel termine, «salotto buono», che nel linguaggio comune è carico di significati negativi. Così come colpisce la franchezza con cui il premier, sottraendosi al solito unanimismo, riveli che la sua decisione di cancellare il cumulo di incarichi non è risultata molto «gradita» proprio a quel mondo del potere cui si stava rivolgendo in quel momento.

Il riferimento, ben capito da tutti i presenti, è all’articolo 36 contenuto nella manovra finanziaria, detta Salva Italia, con cui l’esecutivo vieta «ai titolari di cariche negli organi gestionali, di sorveglianza e di controllo e ai funzionari di vertice di imprese o gruppi di imprese operanti nei mercati del credito, assicurativi e finanziari di assumere o esercitare analoghe cariche in imprese o gruppi di imprese concorrenti». Non è ancora chiaro come verrà applicato, ma le parole alla Borsa di Milano sono la riconferma che il governo intende procedere.

L’intreccio di cariche, è il grande nodo dell’immobilità del capitalismo italiano (la barriera conservatrice levata contro la «creatività distruttrice» di Schumpeter). Il meccanismo che ha permesso che si creasse un «salotto buono», un luogo privilegiato del potere dove tutto converge e tutto si controlla. Insomma il conflitto di interesse seminale del sistema italiano. Basta pensare che Unicredit, Mediobanca, Intesa Sanpaolo, Ubi, Mediolanum e Generali, cioè i maggiori istituti italiani hanno diversi componenti in più poltrone. Nell’elenco delle personalità che sono toccate dalle nuove regole ci sono uomini come Palenzona, e Giovanni Bazoli, il più rispettato banchiere italiano. Nonché Alberto Nagel, che è sia amministratore delegato di Mediobanca che vicepresidente delle Assicurazioni Generali.

La teoria politica più ricorrente è che Mario Monti vincerà la sfida di «cambiare l’Italia» solo se sarà capace di dimostrare di far «pagare» a tutti il sacrificio di questo cambiamento. Solo se, specifica la sinistra, non prenderà di mira solo gli operai e la classe media.

L’intervento di Milano sembra essere la prova che effettivamente il premier non intende lasciare intatto nessun luogo di influenza. Come del resto ha già fatto rifiutando le Olimpiadi del 2020, esponendosi così a uno scontro che pure avrebbe potuto evitare (in fondo sarebbero avvenute in un lontano futuro) con una delle maggiori lobby del Paese.

La Stampa 22.02.12

“Ecco perché pagherà anche il salotto buono”, di Lucia Annunziata

Non si sa se la cosa più grave è che abbia citato la «distruzione creativa» di Schumpeter, o il termine «salotto buono». Avremmo amato capire, ma le cronache non ci hanno illuminato, se chi lo ascoltava è rimasto più sorpreso dalla negazione di ogni sua «deferenza» al potere economico, o dalla riaffermazione del divieto «di sedere simultaneamente nei Cda di banche e assicurazioni».

Mario Monti, due giorni fa parlando alla Borsa di Milano, davanti al Gotha finanziario del Paese, 400 invitati, ha fornito un’altra tessera al profilo del suo governo: e stavolta nel mirino non ha messo il sindacato ma i «poteri forti». Stranamente, le sue parole sono passate quasi inosservate nell’arena politica, specie nell’area di centrosinistra che pure si sta aspramente dividendo sull’appoggio o meno al suo governo.

Vediamole, queste parole, nella versione ufficiale del sito di Palazzo Chigi. «Una cronaca veloce ci attribuisce deferenza verso il salotto buono ma togliere la possibilità di sedere simultaneamente nei cda di banche e assicurazioni, non è stata una cosa molto gradita. Pensiamo, poi, che in passato si sia tutelato il bene esistente e consentito la sopravvivenza un po’ forzata dell’italianità di alcune aziende, impedendo la distruzione creatrice schumpeteriana e non sempre facendo l’interesse di lungo periodo».

Colpisce intanto una rottura formale, l’uso di quel termine, «salotto buono», che nel linguaggio comune è carico di significati negativi. Così come colpisce la franchezza con cui il premier, sottraendosi al solito unanimismo, riveli che la sua decisione di cancellare il cumulo di incarichi non è risultata molto «gradita» proprio a quel mondo del potere cui si stava rivolgendo in quel momento.

Il riferimento, ben capito da tutti i presenti, è all’articolo 36 contenuto nella manovra finanziaria, detta Salva Italia, con cui l’esecutivo vieta «ai titolari di cariche negli organi gestionali, di sorveglianza e di controllo e ai funzionari di vertice di imprese o gruppi di imprese operanti nei mercati del credito, assicurativi e finanziari di assumere o esercitare analoghe cariche in imprese o gruppi di imprese concorrenti». Non è ancora chiaro come verrà applicato, ma le parole alla Borsa di Milano sono la riconferma che il governo intende procedere.

L’intreccio di cariche, è il grande nodo dell’immobilità del capitalismo italiano (la barriera conservatrice levata contro la «creatività distruttrice» di Schumpeter). Il meccanismo che ha permesso che si creasse un «salotto buono», un luogo privilegiato del potere dove tutto converge e tutto si controlla. Insomma il conflitto di interesse seminale del sistema italiano. Basta pensare che Unicredit, Mediobanca, Intesa Sanpaolo, Ubi, Mediolanum e Generali, cioè i maggiori istituti italiani hanno diversi componenti in più poltrone. Nell’elenco delle personalità che sono toccate dalle nuove regole ci sono uomini come Palenzona, e Giovanni Bazoli, il più rispettato banchiere italiano. Nonché Alberto Nagel, che è sia amministratore delegato di Mediobanca che vicepresidente delle Assicurazioni Generali.

La teoria politica più ricorrente è che Mario Monti vincerà la sfida di «cambiare l’Italia» solo se sarà capace di dimostrare di far «pagare» a tutti il sacrificio di questo cambiamento. Solo se, specifica la sinistra, non prenderà di mira solo gli operai e la classe media.

L’intervento di Milano sembra essere la prova che effettivamente il premier non intende lasciare intatto nessun luogo di influenza. Come del resto ha già fatto rifiutando le Olimpiadi del 2020, esponendosi così a uno scontro che pure avrebbe potuto evitare (in fondo sarebbero avvenute in un lontano futuro) con una delle maggiori lobby del Paese.

La Stampa 22.02.12