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"I redditi dei Ministri e il dovere dell'equità", di Miguel Gotor

I ministri hanno pubblicato i loro redditi, un atto di trasparenza doveroso atteso da tempo. I dati confermano che i membri dell´esecutivo dichiarano di guadagnare assai più della media degli italiani, con tre picchi milionari.Piero Gnudi, Corrado Passera e Paola Severino la quale, con un reddito di sette milioni di euro lordi, conquista la palma d´oro, ma anche il traguardo del contribuente più munifico con oltre quattro milioni di tasse pagate.
Nel commentare la notizia il ministro della Giustizia ha pronunciato parole assai apprezzabili: guadagnare e produrre reddito non è un peccato di cui bisogna vergognarsi, piuttosto lo è non pagare le tasse e dedicarsi al lavoro nero, con un´evidente frecciata a tanti suoi colleghi non meno facoltosi di lei che sfuggono al fisco. La dichiarazione rivela un atteggiamento protestante fondato sull´etica del lavoro e del profitto che di solito gli esponenti della classe dirigente italiana sono abituati a dissimulare, tra reticenze e ipocrisie, così da preparare il terreno alla conseguente elusione fiscale. Inoltre è importante che a primeggiare in questa classifica sia una donna in un Paese in cui ancora esiste una forte sperequazione retributiva fra i sessi e le condizioni di accesso al mondo del lavoro sono tutt´altro che paritarie.
Tuttavia, la questione degli elevati redditi del cosiddetto governo dei tecnici rinvia a un problema più generale che interroga la vitalità delle democrazie occidentali. Anche le più funzionanti, infatti, hanno subito negli ultimi decenni una deriva elitista in grado di condizionare l´effettiva partecipazione dei cittadini con redditi bassi o normali alla vita pubblica. Il fenomeno, ovviamente, riguarda anche l´Italia, il ruolo dei partiti al suo interno e il loro finanziamento pubblico.
Dalla crisi di Tangentopoli del 1992-94 si pensò di uscire vagheggiando una repubblica dei cittadini in grado di prevalere sulla corruzione del sistema partitocratico. La soluzione di quella crisi fu a destra, con l´emergere di un imprenditore miliardario, allora si diceva ancora così, che prevalse puntando tutte le sue carte sul discredito della vecchia politica. Egli fondò un partito personale finanziandolo con il proprio denaro, una fidejussione dopo l´altra, e riuscì a far credere agli italiani che la difesa dei suoi interessi personali potesse coincidere con la tutela di quelli generali del Paese.
Oggi sono in molti a vagheggiare un´uscita dal fallimento della “seconda Repubblica” ancora una volta contro i partiti, non più in nome e per conto della società civile, ma in virtù delle competenze e dei saperi dei tecnici. Siamo curiosi di vedere come andrà a finire, ma un nodo resta inevaso: quello della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica in un sistema politico che sembra oscillare come un pendolo tra la demagogia dell´oclocrazia (il governo dei bassi istinti della plebaglia) e l´oligarchia, ossia il potere di pochi, selezionati in base al censo. È mai possibile che per impegnarsi nella cosa pubblica nelle attuali democrazie bisogna essere ricchi in partenza o costretti a passare per le forche caudine del discredito dei partiti con il suo prevedibile corollario di verità e luoghi comuni? È mai possibile che oggi a un salariato non resti che assistere impotente a uno spettacolo giocato da altri oppure rinchiudersi in un disgusto nevrotico, l´esatta metafora di quell´esclusione e della conseguente frustrazione, l´unica forma di partecipazione possibile?
Il 30 gennaio 2012 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha tenuto una lectio magistralis all´Università di Bologna, in cui ha ricordato alcune semplici verità che sembrano evaporare nel dibattito pubblico nostrano: non può esistere una democrazia che funzioni senza partiti e «tra il rifiutare i partiti e il rifiutare la politica, l´estraniarsi con disgusto dalla politica, il passo non è lungo: ed è fatale perché conduce alla fine della democrazia e quindi della libertà». Di conseguenza ha auspicato l´impegno di una nuova leva di «politici umanisti», come a suo tempo Beniamino Andreatta e Paolo Bufalini, in grado di affrontare questo nuovo cimento. L´unica strada effettivamente percorribile è quella di impegnarsi nel rinnovamento dei partiti e nella mobilitazione della società civile senza sterili contrapposizioni, atteggiamenti qualunquistici, scorciatoie furbesche o inutili disfattismi.
Anche per questo motivo i nostri governanti non hanno il problema di guadagnare troppo o di appartenere alla cosiddetta società dell´1%, ma quello di essere in grado di mantenersi in connessione con l´Italia normale. Ciò significa impegnarsi per una maggiore equità sociale e per una più significativa moralizzazione della vita pubblica, due facce di una stessa medaglia che rappresentano una sfida non solo per questo esecutivo, ma soprattutto per quei partiti che ne sostengono la maggioranza e vogliono pensare al loro futuro.

La Repubblica 22.02.12

“I redditi dei Ministri e il dovere dell’equità”, di Miguel Gotor

I ministri hanno pubblicato i loro redditi, un atto di trasparenza doveroso atteso da tempo. I dati confermano che i membri dell´esecutivo dichiarano di guadagnare assai più della media degli italiani, con tre picchi milionari.Piero Gnudi, Corrado Passera e Paola Severino la quale, con un reddito di sette milioni di euro lordi, conquista la palma d´oro, ma anche il traguardo del contribuente più munifico con oltre quattro milioni di tasse pagate.
Nel commentare la notizia il ministro della Giustizia ha pronunciato parole assai apprezzabili: guadagnare e produrre reddito non è un peccato di cui bisogna vergognarsi, piuttosto lo è non pagare le tasse e dedicarsi al lavoro nero, con un´evidente frecciata a tanti suoi colleghi non meno facoltosi di lei che sfuggono al fisco. La dichiarazione rivela un atteggiamento protestante fondato sull´etica del lavoro e del profitto che di solito gli esponenti della classe dirigente italiana sono abituati a dissimulare, tra reticenze e ipocrisie, così da preparare il terreno alla conseguente elusione fiscale. Inoltre è importante che a primeggiare in questa classifica sia una donna in un Paese in cui ancora esiste una forte sperequazione retributiva fra i sessi e le condizioni di accesso al mondo del lavoro sono tutt´altro che paritarie.
Tuttavia, la questione degli elevati redditi del cosiddetto governo dei tecnici rinvia a un problema più generale che interroga la vitalità delle democrazie occidentali. Anche le più funzionanti, infatti, hanno subito negli ultimi decenni una deriva elitista in grado di condizionare l´effettiva partecipazione dei cittadini con redditi bassi o normali alla vita pubblica. Il fenomeno, ovviamente, riguarda anche l´Italia, il ruolo dei partiti al suo interno e il loro finanziamento pubblico.
Dalla crisi di Tangentopoli del 1992-94 si pensò di uscire vagheggiando una repubblica dei cittadini in grado di prevalere sulla corruzione del sistema partitocratico. La soluzione di quella crisi fu a destra, con l´emergere di un imprenditore miliardario, allora si diceva ancora così, che prevalse puntando tutte le sue carte sul discredito della vecchia politica. Egli fondò un partito personale finanziandolo con il proprio denaro, una fidejussione dopo l´altra, e riuscì a far credere agli italiani che la difesa dei suoi interessi personali potesse coincidere con la tutela di quelli generali del Paese.
Oggi sono in molti a vagheggiare un´uscita dal fallimento della “seconda Repubblica” ancora una volta contro i partiti, non più in nome e per conto della società civile, ma in virtù delle competenze e dei saperi dei tecnici. Siamo curiosi di vedere come andrà a finire, ma un nodo resta inevaso: quello della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica in un sistema politico che sembra oscillare come un pendolo tra la demagogia dell´oclocrazia (il governo dei bassi istinti della plebaglia) e l´oligarchia, ossia il potere di pochi, selezionati in base al censo. È mai possibile che per impegnarsi nella cosa pubblica nelle attuali democrazie bisogna essere ricchi in partenza o costretti a passare per le forche caudine del discredito dei partiti con il suo prevedibile corollario di verità e luoghi comuni? È mai possibile che oggi a un salariato non resti che assistere impotente a uno spettacolo giocato da altri oppure rinchiudersi in un disgusto nevrotico, l´esatta metafora di quell´esclusione e della conseguente frustrazione, l´unica forma di partecipazione possibile?
Il 30 gennaio 2012 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha tenuto una lectio magistralis all´Università di Bologna, in cui ha ricordato alcune semplici verità che sembrano evaporare nel dibattito pubblico nostrano: non può esistere una democrazia che funzioni senza partiti e «tra il rifiutare i partiti e il rifiutare la politica, l´estraniarsi con disgusto dalla politica, il passo non è lungo: ed è fatale perché conduce alla fine della democrazia e quindi della libertà». Di conseguenza ha auspicato l´impegno di una nuova leva di «politici umanisti», come a suo tempo Beniamino Andreatta e Paolo Bufalini, in grado di affrontare questo nuovo cimento. L´unica strada effettivamente percorribile è quella di impegnarsi nel rinnovamento dei partiti e nella mobilitazione della società civile senza sterili contrapposizioni, atteggiamenti qualunquistici, scorciatoie furbesche o inutili disfattismi.
Anche per questo motivo i nostri governanti non hanno il problema di guadagnare troppo o di appartenere alla cosiddetta società dell´1%, ma quello di essere in grado di mantenersi in connessione con l´Italia normale. Ciò significa impegnarsi per una maggiore equità sociale e per una più significativa moralizzazione della vita pubblica, due facce di una stessa medaglia che rappresentano una sfida non solo per questo esecutivo, ma soprattutto per quei partiti che ne sostengono la maggioranza e vogliono pensare al loro futuro.

La Repubblica 22.02.12

Senza accordo sulla Riforma del Lavoro il sì del PD non è scontato

“Non è scontato il sì del PD alla Riforma del Lavoro da parte del governo”. Lo ha detto il Segretario Pier Luigi Bersani al Tg3, intervistato da Bianca Berlinguer. “Se malauguratamente non ci fosse l’accordo tra Sindacati e Governo, valuteremo l’esito sulla base delle nostre proposte, che si occupano di precarietà, degli ammortizzatori sociali, del lavoro femminile. Non parlano di articolo 18 perchè per noi il problema non è l’uscita dal lavoro ma l’entrata. Vogliamo vedere prima – ha chiarito – il tema è delicato”.

Bersani inoltre ha aggiunto di non essere d’accordo sul fatto “che si chiuda la riforma del mercato del lavoro senza un’intesa. Oggi è importante tanto la riforma quanto la coesione. Siamo davanti a un paio d’anni – mi auguro solo un paio – di recessione, c’è bisogno di fare una scommessa assieme e immagino che il governo sia impegnato a trovare questo accordo”.

A proposito delle parole espresse oggi da Emma Marcegaglia sui Sindacati, il Segretario ha detto: “Se conosco un po’ Emma Marcegaglia si pentirà della battuta sui “ladri” e i “fannulloni” difesi dai Sindacati, perchè non credo che pensi che il problema sia quello di proteggere ladri e fannulloni. Nessuno li difende. Dopodichè – ha sottolineato Bersani – si può discutere di una manutenzione dell’Articolo 18 perchè, se ci vogliono sei anni per una causa, in sei anni può imboscarsi anche un fannullone. Ma il tema oggi è dare un po’ di lavoro e darlo meno precario. Quanto all’articolo 18, fissa un principio di civiltà garantito negli anche negli altri paesi europei. Non è vero che è una nostra caratteristica. Cerchiamo piuttosto di intervenire per rendere più gestibile questo diritto”.

Alla domanda della giornalista se il PD stia con Monti o contro, Bersani ha risposto: “Monti non viene dopo i partiti, Monti viene dopo Berlusconi. Per averlo è stato necessario che andasse a casa Berlusconi e che arrivassimo noi con generosità a sostenere una fase d’emergenza e di transizione. Dopo di che – ha spiegato il leader del PD – la democrazia respira con due polmoni”.

Il riferimento è alle prossime elezioni politiche. “Voglio predisporre il mio partito – ha detto Bersani- a un’alternativa non a Monti ma alla destra. Monti e i suoi ministri potranno decidere con che polmoni respirare”.

Al termine dell’intervista, Bersani ha risposto a delle futili polemiche secondo le quali l’alleanza per le amministrative di Palermo ripropone la foto di Vasto. “Di questi commenti non so cosa farmene. Si capirà prima o poi che il PD alle prossime elezioni locali non ha l’idea di fare dei ‘Cencelli’, di mettere le mani del partito sull’amministrazione, ma ha l’idea di far concorrere risorse civiche. Per questo abbiamo candidato Rita Borsellino a Palermo. Le primarie decideranno, non c’è in gioco Bersani, c’è in gioco Palermo. Io credo che un PD che si apre al concorso della società civile sia un partito che ha visto chiaro. La politica deve conoscere il suo ruolo ma anche il suo limite”.

da www.partitodemocratico.it

"Potenziare l'autonomia, margini stretti", di Giovanni Scaminaci

Potenziamento dell’autonomia di gestione, anche mediante l’organizzazione in rete; organico funzionale; regole contabili più semplici. Sono questi i principi cui dovrà attenersi il ministro dell’istruzione, unviersità e ricerca, Francesco Profumo, per «consolidare e sviluppare» l’autonomia scolastica (art. 50 del decreto legge n. 9 febbraio 2012, n. 5). Dovrà farlo entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto, verosimilmente dunque entro la prima decade giugno. A ridefinire la nuova identità delle istituzioni scolastiche, quindici anni dopo l’approvazione della legge delega che ha avviato il processo dell’autonomia, si provvederà con un decreto del Miur, di concerto con l’Economia e sentita la Conferenza Unificata. Non ci si può aspettare molto, perché su tutto si impone il rispetto degli organici, che restano quelli stabiliti dalla legge 133/2008. Né il ministro Profumo potrà ignorare le leggi vigenti, che qualificano l’autonomia scolastica come «funzionale», essenzialmente declinata nelle forme dell’autonomia didattica e organizzativa. Riuscirà sicuramente a semplificare le norme di bilancio, togliendo i vincoli ancora esistenti. Potenzierà le reti, già previste dall’art. 7 del dpr n.275/1999, cui saranno affidati compiti di gestione delle «risorse umane, strumentali e finanziarie». Creerà l’organico funzionale di scuola e un organico di rete, ma in questo non sarà aiutato dal vincolo di lasciare immutati gli organici.

Nell’art. 50 c’è, come si vede, qualche novità e qualche spazio di manovra per il ministro. Sapremo fra qualche mese in che misura lo utilizzerà. Le scuole si aspettano che lo faccia nella misura massima, e soprattutto che eviti di complicare ulteriormente la gestione. Timori di questo genere derivano dal fatto che sicuramente bisognerà inventare qualche organo di gestione delle reti territoriali di scuole. E sarebbe singolare se si dovesse appesantire la situazione esistente ricorrendo a una legge sulla semplificazione. Realisticamente, dunque, il «decreto semplificazioni» aggiungerà poco al profilo attuale dell’autonomia scolastica: maggiore libertà contabile, organico funzionale di scuola e di rete, ma questa sarà probabilmente, visti i vincoli di organico, solo una norma programmatica. Le scuole continueranno, quindi, a lamentare l’esistenza di organi collegiali obsoleti, non adeguati alla gestione di un’istituzione autonoma.

Resterà inoltre irrisolta la questione della creazione delle figure di sistema, il middle management, di cui si discute da almeno dieci anni, e che diventa di sempre maggiore attualità oggi che le scuole tendono ad assumere connotazioni sempre più complesse: hanno infatti più alunni, più plessi, spesso ubicati in due o più paesi.

Mancano i quadri, presenti in tutte le altre organizzazioni, che non possono essere surrogati con i due collaboratori del dirigente, che agiscono su delega, quando questa viene concessa.

Nella scuola, infine, è sempre presente il timore che l’autonomia venga compressa con interventi legislativi che tendono a prescrivere tutto. È successo con il governo precedente, che ha dovuto fare marcia indietro solo perché contestato dai giudici. Il Governo Berlusconi ha registrato un rilievo del Consiglio di Stato relativo alle bozze della riforma Gelmini (parere del 26 novembre 2009), che introducevano l’articolazione del collegio dei docenti in dipartimenti e l’istituzione del comitato scientifico. Il Consiglio di Stato ha osservato che è «più coerente con l’obiettivo di realizzare l’autonomia lasciare alle istituzioni scolastiche la scelta in ordine all’opportunità di istituire tali organi nello specifico contesto in cui operano».

Nella versione definitiva, la riforma ha lasciato libere le scuole di istituire tali organismi. Un altro rilievo è stato formulato dalla Corte dei conti (delibera n. 12/2009/P del 2 luglio 2009) in sede di registrazione del Regolamento che prevede l’introduzione del maestro unico. Tale scelta andrebbe lasciata alle scuole autonome, non prescritta per legge. Anche in questo caso c’è stata una retromarcia del Governo, il quale ha chiarito che l’organizzazione con il maestro unico non va considerata prescrittiva.

da ItaliaOggi 21.02.12

“Potenziare l’autonomia, margini stretti”, di Giovanni Scaminaci

Potenziamento dell’autonomia di gestione, anche mediante l’organizzazione in rete; organico funzionale; regole contabili più semplici. Sono questi i principi cui dovrà attenersi il ministro dell’istruzione, unviersità e ricerca, Francesco Profumo, per «consolidare e sviluppare» l’autonomia scolastica (art. 50 del decreto legge n. 9 febbraio 2012, n. 5). Dovrà farlo entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto, verosimilmente dunque entro la prima decade giugno. A ridefinire la nuova identità delle istituzioni scolastiche, quindici anni dopo l’approvazione della legge delega che ha avviato il processo dell’autonomia, si provvederà con un decreto del Miur, di concerto con l’Economia e sentita la Conferenza Unificata. Non ci si può aspettare molto, perché su tutto si impone il rispetto degli organici, che restano quelli stabiliti dalla legge 133/2008. Né il ministro Profumo potrà ignorare le leggi vigenti, che qualificano l’autonomia scolastica come «funzionale», essenzialmente declinata nelle forme dell’autonomia didattica e organizzativa. Riuscirà sicuramente a semplificare le norme di bilancio, togliendo i vincoli ancora esistenti. Potenzierà le reti, già previste dall’art. 7 del dpr n.275/1999, cui saranno affidati compiti di gestione delle «risorse umane, strumentali e finanziarie». Creerà l’organico funzionale di scuola e un organico di rete, ma in questo non sarà aiutato dal vincolo di lasciare immutati gli organici.

Nell’art. 50 c’è, come si vede, qualche novità e qualche spazio di manovra per il ministro. Sapremo fra qualche mese in che misura lo utilizzerà. Le scuole si aspettano che lo faccia nella misura massima, e soprattutto che eviti di complicare ulteriormente la gestione. Timori di questo genere derivano dal fatto che sicuramente bisognerà inventare qualche organo di gestione delle reti territoriali di scuole. E sarebbe singolare se si dovesse appesantire la situazione esistente ricorrendo a una legge sulla semplificazione. Realisticamente, dunque, il «decreto semplificazioni» aggiungerà poco al profilo attuale dell’autonomia scolastica: maggiore libertà contabile, organico funzionale di scuola e di rete, ma questa sarà probabilmente, visti i vincoli di organico, solo una norma programmatica. Le scuole continueranno, quindi, a lamentare l’esistenza di organi collegiali obsoleti, non adeguati alla gestione di un’istituzione autonoma.

Resterà inoltre irrisolta la questione della creazione delle figure di sistema, il middle management, di cui si discute da almeno dieci anni, e che diventa di sempre maggiore attualità oggi che le scuole tendono ad assumere connotazioni sempre più complesse: hanno infatti più alunni, più plessi, spesso ubicati in due o più paesi.

Mancano i quadri, presenti in tutte le altre organizzazioni, che non possono essere surrogati con i due collaboratori del dirigente, che agiscono su delega, quando questa viene concessa.

Nella scuola, infine, è sempre presente il timore che l’autonomia venga compressa con interventi legislativi che tendono a prescrivere tutto. È successo con il governo precedente, che ha dovuto fare marcia indietro solo perché contestato dai giudici. Il Governo Berlusconi ha registrato un rilievo del Consiglio di Stato relativo alle bozze della riforma Gelmini (parere del 26 novembre 2009), che introducevano l’articolazione del collegio dei docenti in dipartimenti e l’istituzione del comitato scientifico. Il Consiglio di Stato ha osservato che è «più coerente con l’obiettivo di realizzare l’autonomia lasciare alle istituzioni scolastiche la scelta in ordine all’opportunità di istituire tali organi nello specifico contesto in cui operano».

Nella versione definitiva, la riforma ha lasciato libere le scuole di istituire tali organismi. Un altro rilievo è stato formulato dalla Corte dei conti (delibera n. 12/2009/P del 2 luglio 2009) in sede di registrazione del Regolamento che prevede l’introduzione del maestro unico. Tale scelta andrebbe lasciata alle scuole autonome, non prescritta per legge. Anche in questo caso c’è stata una retromarcia del Governo, il quale ha chiarito che l’organizzazione con il maestro unico non va considerata prescrittiva.

da ItaliaOggi 21.02.12

"Voti più alti se il prof guadagna. Dove i docenti hanno buoni salari, gli studenti vanno meglio", di Giovanni Bardi

Per migliorare i livelli di apprendimento degli studenti bisogna aumentare i salari ai docenti. Dove si investe di più su di loro, gli studenti vanno meglio ai test dell’Ocse Pisa. I Paesi dove i risultati di apprendimento rilevati con i test del programma di valutazione delle competenze degli studenti di 15 anni in matematica, scienze e lettura dell’Ocse Pisa sono migliori, sono anche quelli in cui sono più alti i salari dei docenti.

Ma pure gli stessi in cui le classi sono più numerose. È quanto emerso dall’ultimo studio Ocse dal titolo «Does Money Buy Strong Performance in PISA?». Stavolta i ricercatori parigini si sono concentrati sul rapporto tra spesa pubblica e rendimento degli studenti, nel tentativo di osservarne la relazione. Agli studiosi interessava capire sostanzialmente se esiste una correlazione fra maggior investimento di denaro pubblico in istruzione e migliori risultati di apprendimento. Ebbene non sembra che esista. Gli studiosi hanno stabilito che non ci sono leggi esatte in materia e che l’unica certezza è quella che dove è che le cose vanno meglio è perché è più diffusa la convinzione che tutti gli studenti possono conseguire il successo formativo. Il problema, secondo l’Ocse, è soprattutto capire allora come mettere a frutto le risorse disponibili, più che aumentare il gettito sulla scuola. Per questo, sostengono, conviene investire di più per fare in modo che chi fa l’insegnante ne sia soddisfatto, perché questo produrrà a cascata effetti virtuosi su tutto il resto. Bisogna partire dunque dalla retribuzione dei docenti. I Paesi con le medie di risultato più alte ai test dell’Ocse Pisa in matematica, scienze e lettura, sono quelli che pagano meglio i propri docenti. Per esempio Corea, o Cina (Hong Kong), due dei Paesi al top della classifica Ocse Pisa. Qui i prof guadagnano più del doppio del Pil procapite del proprio paese. Secondo gli studiosi solo così si ingenera una spirale virtuosa che funziona da volano per l’attrattività delle persone più preparate verso la professione docente. D’altra parte, se da un lato non risulta approfondito il rapporto tra salario dei docenti e i risultati dei Paesi low performer, è anche vero che dove è che gli insegnanti guadagnano di più, questi lavorano in classi più numerose, proprio come in Corea e Cina. I ricercatori del Pisa hanno rilevato infatti che non esiste una relazione diretta tra risultati medi di apprendimento conseguiti dagli studenti nei test Ocse Pisa e la taglia della classe frequentata. Per l’Ocse è chiaro che i Paesi high performer «tendono a privilegiare l’investimento sui docenti che a contenere il numero degli alunni per classe».

da ItaliaOggi 21.02.12

“Voti più alti se il prof guadagna. Dove i docenti hanno buoni salari, gli studenti vanno meglio”, di Giovanni Bardi

Per migliorare i livelli di apprendimento degli studenti bisogna aumentare i salari ai docenti. Dove si investe di più su di loro, gli studenti vanno meglio ai test dell’Ocse Pisa. I Paesi dove i risultati di apprendimento rilevati con i test del programma di valutazione delle competenze degli studenti di 15 anni in matematica, scienze e lettura dell’Ocse Pisa sono migliori, sono anche quelli in cui sono più alti i salari dei docenti.

Ma pure gli stessi in cui le classi sono più numerose. È quanto emerso dall’ultimo studio Ocse dal titolo «Does Money Buy Strong Performance in PISA?». Stavolta i ricercatori parigini si sono concentrati sul rapporto tra spesa pubblica e rendimento degli studenti, nel tentativo di osservarne la relazione. Agli studiosi interessava capire sostanzialmente se esiste una correlazione fra maggior investimento di denaro pubblico in istruzione e migliori risultati di apprendimento. Ebbene non sembra che esista. Gli studiosi hanno stabilito che non ci sono leggi esatte in materia e che l’unica certezza è quella che dove è che le cose vanno meglio è perché è più diffusa la convinzione che tutti gli studenti possono conseguire il successo formativo. Il problema, secondo l’Ocse, è soprattutto capire allora come mettere a frutto le risorse disponibili, più che aumentare il gettito sulla scuola. Per questo, sostengono, conviene investire di più per fare in modo che chi fa l’insegnante ne sia soddisfatto, perché questo produrrà a cascata effetti virtuosi su tutto il resto. Bisogna partire dunque dalla retribuzione dei docenti. I Paesi con le medie di risultato più alte ai test dell’Ocse Pisa in matematica, scienze e lettura, sono quelli che pagano meglio i propri docenti. Per esempio Corea, o Cina (Hong Kong), due dei Paesi al top della classifica Ocse Pisa. Qui i prof guadagnano più del doppio del Pil procapite del proprio paese. Secondo gli studiosi solo così si ingenera una spirale virtuosa che funziona da volano per l’attrattività delle persone più preparate verso la professione docente. D’altra parte, se da un lato non risulta approfondito il rapporto tra salario dei docenti e i risultati dei Paesi low performer, è anche vero che dove è che gli insegnanti guadagnano di più, questi lavorano in classi più numerose, proprio come in Corea e Cina. I ricercatori del Pisa hanno rilevato infatti che non esiste una relazione diretta tra risultati medi di apprendimento conseguiti dagli studenti nei test Ocse Pisa e la taglia della classe frequentata. Per l’Ocse è chiaro che i Paesi high performer «tendono a privilegiare l’investimento sui docenti che a contenere il numero degli alunni per classe».

da ItaliaOggi 21.02.12