attualità, politica italiana

“I redditi dei Ministri e il dovere dell’equità”, di Miguel Gotor

I ministri hanno pubblicato i loro redditi, un atto di trasparenza doveroso atteso da tempo. I dati confermano che i membri dell´esecutivo dichiarano di guadagnare assai più della media degli italiani, con tre picchi milionari.Piero Gnudi, Corrado Passera e Paola Severino la quale, con un reddito di sette milioni di euro lordi, conquista la palma d´oro, ma anche il traguardo del contribuente più munifico con oltre quattro milioni di tasse pagate.
Nel commentare la notizia il ministro della Giustizia ha pronunciato parole assai apprezzabili: guadagnare e produrre reddito non è un peccato di cui bisogna vergognarsi, piuttosto lo è non pagare le tasse e dedicarsi al lavoro nero, con un´evidente frecciata a tanti suoi colleghi non meno facoltosi di lei che sfuggono al fisco. La dichiarazione rivela un atteggiamento protestante fondato sull´etica del lavoro e del profitto che di solito gli esponenti della classe dirigente italiana sono abituati a dissimulare, tra reticenze e ipocrisie, così da preparare il terreno alla conseguente elusione fiscale. Inoltre è importante che a primeggiare in questa classifica sia una donna in un Paese in cui ancora esiste una forte sperequazione retributiva fra i sessi e le condizioni di accesso al mondo del lavoro sono tutt´altro che paritarie.
Tuttavia, la questione degli elevati redditi del cosiddetto governo dei tecnici rinvia a un problema più generale che interroga la vitalità delle democrazie occidentali. Anche le più funzionanti, infatti, hanno subito negli ultimi decenni una deriva elitista in grado di condizionare l´effettiva partecipazione dei cittadini con redditi bassi o normali alla vita pubblica. Il fenomeno, ovviamente, riguarda anche l´Italia, il ruolo dei partiti al suo interno e il loro finanziamento pubblico.
Dalla crisi di Tangentopoli del 1992-94 si pensò di uscire vagheggiando una repubblica dei cittadini in grado di prevalere sulla corruzione del sistema partitocratico. La soluzione di quella crisi fu a destra, con l´emergere di un imprenditore miliardario, allora si diceva ancora così, che prevalse puntando tutte le sue carte sul discredito della vecchia politica. Egli fondò un partito personale finanziandolo con il proprio denaro, una fidejussione dopo l´altra, e riuscì a far credere agli italiani che la difesa dei suoi interessi personali potesse coincidere con la tutela di quelli generali del Paese.
Oggi sono in molti a vagheggiare un´uscita dal fallimento della “seconda Repubblica” ancora una volta contro i partiti, non più in nome e per conto della società civile, ma in virtù delle competenze e dei saperi dei tecnici. Siamo curiosi di vedere come andrà a finire, ma un nodo resta inevaso: quello della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica in un sistema politico che sembra oscillare come un pendolo tra la demagogia dell´oclocrazia (il governo dei bassi istinti della plebaglia) e l´oligarchia, ossia il potere di pochi, selezionati in base al censo. È mai possibile che per impegnarsi nella cosa pubblica nelle attuali democrazie bisogna essere ricchi in partenza o costretti a passare per le forche caudine del discredito dei partiti con il suo prevedibile corollario di verità e luoghi comuni? È mai possibile che oggi a un salariato non resti che assistere impotente a uno spettacolo giocato da altri oppure rinchiudersi in un disgusto nevrotico, l´esatta metafora di quell´esclusione e della conseguente frustrazione, l´unica forma di partecipazione possibile?
Il 30 gennaio 2012 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha tenuto una lectio magistralis all´Università di Bologna, in cui ha ricordato alcune semplici verità che sembrano evaporare nel dibattito pubblico nostrano: non può esistere una democrazia che funzioni senza partiti e «tra il rifiutare i partiti e il rifiutare la politica, l´estraniarsi con disgusto dalla politica, il passo non è lungo: ed è fatale perché conduce alla fine della democrazia e quindi della libertà». Di conseguenza ha auspicato l´impegno di una nuova leva di «politici umanisti», come a suo tempo Beniamino Andreatta e Paolo Bufalini, in grado di affrontare questo nuovo cimento. L´unica strada effettivamente percorribile è quella di impegnarsi nel rinnovamento dei partiti e nella mobilitazione della società civile senza sterili contrapposizioni, atteggiamenti qualunquistici, scorciatoie furbesche o inutili disfattismi.
Anche per questo motivo i nostri governanti non hanno il problema di guadagnare troppo o di appartenere alla cosiddetta società dell´1%, ma quello di essere in grado di mantenersi in connessione con l´Italia normale. Ciò significa impegnarsi per una maggiore equità sociale e per una più significativa moralizzazione della vita pubblica, due facce di una stessa medaglia che rappresentano una sfida non solo per questo esecutivo, ma soprattutto per quei partiti che ne sostengono la maggioranza e vogliono pensare al loro futuro.

La Repubblica 22.02.12