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«Il governo non ha un mandato per riforme senza coesione sociale», intervista a Rosy Bindi di Simone Collini

Mi ha molto meravigliato questa affermazione, un presidente come Monti non ha bisogno di annunciare che andrà avanti comunque, anche senza accordo con le parti sociali». Per la presidente del Pd Rosy Bindi il capo del governo «potrebbe essere ben più ambizioso, annunciando che riuscirà a fare la riforma del lavoro con i sindacati. Mi sembra questo il vero profilo riformista che serve al governo in questo momento».
Ammetterà che c’è bisogno di una riforma, o no?
«Certo, e chi lo nega. Questo governo ha ricevuto la nostra fiducia per portare il Paese fuori dalla crisi e per fare ciò che è necessario per raggiungere questo obiettivo. Ma non si può pensare che in questo momento l’Italia possa permettersi di approvare importanti riforme strutturali senza la coesione e la pace sociale. Il governo non ha questo mandato. E per una ragione
molto semplice: si esce da una crisi solo con delle riforme condivise, non approvate senza o, peggio, contro qualcuno.E l’essere condivise, almeno per quanto ci riguarda, le rende anche giuste».
Un possibile ostacolo all’intesa riguarda la modifica dell’articolo 18.
Visto che nel Pd è oggetto di discussione, qual è la sua posizione al riguardo?
«Il governo non mi ha convinto sul perché sia così fondamentale toccare l’articolo 18. Preferirei un maggiore impegno su crescita, lotta al precariato, su cosa significhi veramente la flexicurity applicata al mercato italiano in questo momento. Mentre mi è chiaro perché c’è l’articolo 18, non riesco a capire perché non ci dovrebbe essere. E considerato che si tratta di un punto critico per la trattativa, sarebbe auspicabile che fosse accantonato».
Per poi discuterlo alla fine?
«Se non lo si serve alla fine come un piatto che deve essere per forza digerito, forse si possono raggiungere i risultati che stanno a cuore al governo senza toccare l’articolo 18».
Nel Pd si è aperta una discussione anche sul contributo del pensiero cattolico: può aiutare a vincere il liberismo, dice Fassina; non va letto in chiare antiliberista, ha replicato Ceccanti richiamando i documenti della settimana sociale dei cattolici sulla flexicurity. La sua opinione?
«Intanto, inviterei entrambi a non tirare dalla propria parte autorevoli pronunciamenti di Benedetto XVI o del cardinale Bagnasco e la dottrina sociale della Chiesa, che non può essere considerata né un punto d’appoggio per rinvigorire il pensiero socialdemocratico né l’ispiratrice del blairismo o del cosiddetto riformismo di sinistra. Io sono abituata a trattare la dottrina sociale della Chiesa e gli interventi del magistero con molto più rispetto. Più che chiamarli a sostegno delle nostre teorie dovremmo ispirarci ad essi per trovare soluzioni ai problemi del tempo che stiamo vivendo».
Fassina e Ceccanti sbagliano entrambi?

«Hanno fatto discorsi un po’ strumentali. Bene invece se il Pd intende aprire una seria riflessione su questo tema. In questo momento c’è bisogno di rilanciare l’autorevolezza della politica. E il Pd, che è un partito pluralista e quindi deve avere un pensiero pluralista, può trovare anche nella dottrina sociale della Chiesa un’ispirazione per trovare soluzioni politiche ed economico-sociali capaci di combattere la crisi ma soprattutto di aprire un nuovo modo di concepire lo sviluppo, la redistribuzione della ricchezza e perfino la democrazia». Dice Veltroni che con alcuni giudizi critici si rischia di consegnare il governo alla destra: lei cosa dice?
«Che questo governo noi lo abbiamo voluto, non subìto, e lo stiamo sostenendo convintamente. Ha ridato decoro e dignità a questo Paese, e siamo disponibili a un sostegno anche solo per questo, perché si tratta del presupposto perché l’Italia ce la possa fare. Però io non ho paura di consegnare questo governo ad altri. Può anche fare molte cose che faremmo noi, ma non è il nostro governo. Ed è anche bene che non lo sia».
Perché dice così?
«Stiamo vivendo una condizione assolutamente peculiare, e la forza di questo governo sta anche nel fatto che nessuno ci si può identificare totalmente. Non c’è da temere l’alterità del governo nei nostri confronti. Guai se non fosse così, anche per gli altri. Questa alterità è il presupposto per essere noi l’alternativa del domani. Ci stiamo preparando a elezioni in cui non ci candidiamo a fare il tagliando ad una macchina,ad un sistema, che sta arrivando a fine corsa. Ci stiamo preparando a dare al Paese un’altra guida, un altro motore, un’altra idea. Questa alterità va mantenuta nell’interesse di quello che deve fare il governo e di quello che dovremo fare noi».
Il modello di legge elettorale che si sta discutendo, il tedesco corretto con lo spagnolo, va bene da questo punto di vista?
«A dire il vero è un modello che mi preoccupa. Non darà più vita al bipolarismo, ma al multipolarismo, con l’assenza di un partito o di partiti che siano davvero il perno per azioni di governo. Mi preoccupa che si vada verso un sistema in cui forse si restituisce agli elettori il potere di scegliere una parte dei parlamentari, nei collegi uninominali, ma si nega la possibilità di scegliere le forze di governo. La grande conquista, dal Mattarellum in poi, era stata questa. Non si può tornare indietro di vent’anni».
Nel Pd non sembra questa l’opinione prevalente.
«Bisogna capire che se passasse questo modello elettorale saremmo noi a rimetterci più di tutti. Il sistema in discussione è un enorme regalo al centrodestra, che è andato in frantumi, e a un Terzo polo che continua a lucrare da posizioni di non schieramento. La tesi dell’Udc secondo cui servirebbero altri cinque anni così è quanto di meno auspicabile per noi».
Per “noi” Pd?
«No, per noi Paese. Dopo il superamento della crisi bisogna presentare, in chiarezza e limpidezza, una proposta politica. Continuare con un sistema politico ingessato come quello
che oggi sostiene il governo non farebbe bene all’Italia».

L’Unità 21.02.12

"L’eutanasia della sanità", di Adriano Prosperi

Per giorni sul letto senza sponde legata con delle lenzuola, in attesa di essere ricoverata “da un minuto all´altro”: il caso della signora dell´Umberto Primo di Roma ci richiama rudemente alla realtà incivile delle strutture essenziali del nostro paese. Un caso eccezionale? Al contrario: un caso ordinario, ripetitivo, una regola.
Càpita spesso, ha detto Carlo Modini, il dirigente del dipartimento di emergenza del Policlinico; e quanto spesso e quanto diffusamente potrebbe dirlo ogni normale utente dei servizi ospedalieri sulla base della propria personale esperienza. La vicenda romana rientra nella regola generale della drammatica inadeguatezza delle strutture e dei servizi di emergenza italiani: quei servizi che hanno a che fare con i malati, con i poveri, con i carcerati e con tutte le categorie umane di cui può capitare a chiunque di far parte. Si chiamano servizi: la parola ha un senso profondo che richiede di essere considerato e tutelato perché non si rovesci nell´ironia e nel sarcasmo. La dedizione straordinaria con cui infermieri e medici fanno argine alle carenze strutturali dei nostri ospedali nasce da qualcosa che merita davvero il nome di spirito di servizio. Fu San Camillo De Lellis, l´eroe eponimo di un altro ospedale romano, che volle chiamare se stesso e i suoi seguaci col nome di “servitori degli infermi”. Quando una piaga incancrenita lo sottrasse alla sua professione di soldataccio romano, l´esperienza dell´ospedale lo spinse a dedicare la sua vita all´aiuto di chi vi si ricoverava. Era, la sua, una carità elementare: voleva praticare un´assistenza ai corpi malati e bisognosi di cure, di cibo e di letti puliti, di presenza umana soccorrevole e fraterna. Queste erano le cose che gli ospedali di cinque secoli fa offrivano ai bisognosi: e lo facevano a un tale livello di qualità da lasciare ammirati i visitatori stranieri. Ancora oggi ci sono studiosi specialisti fuori d´Italia che dedicano agli ospedali italiani del Rinascimento volumi bellissimi, come quello che ha pubblicato di recente il professor John Henderson di Cambridge. Dunque anche in questo caso abbiamo, come direbbe Joyce, un grande avvenire alle spalle.
Oggi sono ministri del governo quelli che si occupano della materia della sanità. E la dedizione agli infermi è messa in ombra e penalizzata dalla trasformazione del servizio sanitario nazionale in una gigantesca macchina capace di attirare più di ogni altra la fame di potere e di danaro dei partiti e delle corporazioni. La canalizzazione dei finanziamenti in una direzione o nell´altra è stato il grande affare che ha impegnato i poteri maggiori del Paese fin da quando i finanziamenti americani per la ripresa degli ospedali nell´Italia liberata furono la materia governata da due fratelli della famiglia bresciana dei Montini, uno per la Chiesa e l´altro per lo Stato. Ma è il passato recente quello che soprattutto pesa sul nostro presente: pensiamo alle cronache tragiche e indegne degli anni in cui il clamore delle crociate scatenate dai fanatici del partito della vita coprì le follie più sgangherate, quelle che oggi sono riassunte dalla parabola umana ma anche e soprattutto politica di un don Verzé. Meglio dimenticarli, forse: ma bisognerà per dovere civico ricordare che quei clamori fecero passare inosservata la realtà dell´affondamento del sistema sanitario pubblico a colpi di tagli lineari: una vera e propria “eutanasia di Stato”, come l´ha giustamente definita la senatrice Livia Turco.
È in un clima diverso che dobbiamo oggi fare l´inventario del disastro e pensare a come risalire la china. Che il contesto sia mutato lo dice in fondo il fatto stesso dell´eco immediata suscitata dall´episodio verificatosi al pronto soccorso dell´Umberto Primo. Fino all´altro ieri la cronaca dei disservizi ospedalieri sembrava capace solo di inchiodarci a un sentimento di vergogna e di impotenza, mentre all´ombra delle megalomanie del San Raffaele e delle cattedrali della sanità privata si svolgeva l´agonia degli ospedali italiani. Attenderemo con fiducia l´esito dell´ispezione e dei provvedimenti promessi dal ministro della Salute Renato Balduzzi. Anche perché siamo ancora in attesa che dopo i sacrifici arrivi l´equità promessa da questo governo. E non c´è dubbio che il luogo elementare e primario dove ciascuno può misurare quale sia il livello dell´equità offerta dalle strutture di un Paese è quello dell´ospedale come luogo della precarietà fisica, della malattia e della sofferenza.

La Repubblica 21.02.12

“L’eutanasia della sanità”, di Adriano Prosperi

Per giorni sul letto senza sponde legata con delle lenzuola, in attesa di essere ricoverata “da un minuto all´altro”: il caso della signora dell´Umberto Primo di Roma ci richiama rudemente alla realtà incivile delle strutture essenziali del nostro paese. Un caso eccezionale? Al contrario: un caso ordinario, ripetitivo, una regola.
Càpita spesso, ha detto Carlo Modini, il dirigente del dipartimento di emergenza del Policlinico; e quanto spesso e quanto diffusamente potrebbe dirlo ogni normale utente dei servizi ospedalieri sulla base della propria personale esperienza. La vicenda romana rientra nella regola generale della drammatica inadeguatezza delle strutture e dei servizi di emergenza italiani: quei servizi che hanno a che fare con i malati, con i poveri, con i carcerati e con tutte le categorie umane di cui può capitare a chiunque di far parte. Si chiamano servizi: la parola ha un senso profondo che richiede di essere considerato e tutelato perché non si rovesci nell´ironia e nel sarcasmo. La dedizione straordinaria con cui infermieri e medici fanno argine alle carenze strutturali dei nostri ospedali nasce da qualcosa che merita davvero il nome di spirito di servizio. Fu San Camillo De Lellis, l´eroe eponimo di un altro ospedale romano, che volle chiamare se stesso e i suoi seguaci col nome di “servitori degli infermi”. Quando una piaga incancrenita lo sottrasse alla sua professione di soldataccio romano, l´esperienza dell´ospedale lo spinse a dedicare la sua vita all´aiuto di chi vi si ricoverava. Era, la sua, una carità elementare: voleva praticare un´assistenza ai corpi malati e bisognosi di cure, di cibo e di letti puliti, di presenza umana soccorrevole e fraterna. Queste erano le cose che gli ospedali di cinque secoli fa offrivano ai bisognosi: e lo facevano a un tale livello di qualità da lasciare ammirati i visitatori stranieri. Ancora oggi ci sono studiosi specialisti fuori d´Italia che dedicano agli ospedali italiani del Rinascimento volumi bellissimi, come quello che ha pubblicato di recente il professor John Henderson di Cambridge. Dunque anche in questo caso abbiamo, come direbbe Joyce, un grande avvenire alle spalle.
Oggi sono ministri del governo quelli che si occupano della materia della sanità. E la dedizione agli infermi è messa in ombra e penalizzata dalla trasformazione del servizio sanitario nazionale in una gigantesca macchina capace di attirare più di ogni altra la fame di potere e di danaro dei partiti e delle corporazioni. La canalizzazione dei finanziamenti in una direzione o nell´altra è stato il grande affare che ha impegnato i poteri maggiori del Paese fin da quando i finanziamenti americani per la ripresa degli ospedali nell´Italia liberata furono la materia governata da due fratelli della famiglia bresciana dei Montini, uno per la Chiesa e l´altro per lo Stato. Ma è il passato recente quello che soprattutto pesa sul nostro presente: pensiamo alle cronache tragiche e indegne degli anni in cui il clamore delle crociate scatenate dai fanatici del partito della vita coprì le follie più sgangherate, quelle che oggi sono riassunte dalla parabola umana ma anche e soprattutto politica di un don Verzé. Meglio dimenticarli, forse: ma bisognerà per dovere civico ricordare che quei clamori fecero passare inosservata la realtà dell´affondamento del sistema sanitario pubblico a colpi di tagli lineari: una vera e propria “eutanasia di Stato”, come l´ha giustamente definita la senatrice Livia Turco.
È in un clima diverso che dobbiamo oggi fare l´inventario del disastro e pensare a come risalire la china. Che il contesto sia mutato lo dice in fondo il fatto stesso dell´eco immediata suscitata dall´episodio verificatosi al pronto soccorso dell´Umberto Primo. Fino all´altro ieri la cronaca dei disservizi ospedalieri sembrava capace solo di inchiodarci a un sentimento di vergogna e di impotenza, mentre all´ombra delle megalomanie del San Raffaele e delle cattedrali della sanità privata si svolgeva l´agonia degli ospedali italiani. Attenderemo con fiducia l´esito dell´ispezione e dei provvedimenti promessi dal ministro della Salute Renato Balduzzi. Anche perché siamo ancora in attesa che dopo i sacrifici arrivi l´equità promessa da questo governo. E non c´è dubbio che il luogo elementare e primario dove ciascuno può misurare quale sia il livello dell´equità offerta dalle strutture di un Paese è quello dell´ospedale come luogo della precarietà fisica, della malattia e della sofferenza.

La Repubblica 21.02.12

"Sindacati delusi al tavolo. Monti: avanti con chi c’è", di Massimo Franchi

La riforma del mercato del lavoro come la tela di Penelope. A fare e disfare è sempre Elsa Fornero. Il telaio è sempre basato su grandi principi, su riforme epocali: indennità di disoccupazione universale, forte riduzione e disincentivi alla flessibilità cattiva. Poi, però, quando si entra nel dettaglio non si approda a niente: non ci sono risorse e, soprattutto, le proposte sono fumose, non ci sono dati («si spera di averli giovedì»), nessun numero. Il tutto aggravato dal fatto che la ministra non si degna mai di commentare l’esito degli incontri per fare “sparate” nei giorni successivi, dovendo poi sempre fare retromarcia. E allora ieri il quarto incontro della trattativa, a detta di tutte le parti, è stato «interlocutorio». Riunite per la prima volta nella sala Gino Giugni del ministero del Lavoro a via Veneto, le parti sociali sono rimaste nuovamente deluse dall’atteggiamento della padrona di casa. Sul tavolo aleggiavano le parole appena ribadite da Mario Monti a piazza Affari: «Sia io sia il ministro Fornero siamo molto fiduciosi che entro il termine che ci siamo dati di fine marzo potremo presentare al Parlamento un provvedimento. Lo presenteremo comunque, speriamo di presentarlo con l’accordo delle parti sociali ». La dichiarazione non è una novità, né per il premier né per Fornero. Resta però il fatto di averlo ripetuto a poche ore da un incontro tra le parti. E difatti chi non l’ha presa per niente bene è stato Raffaele Bonanni, il più duro nel rispondere tra i sindacalisti: «È un refrain che inizia a puzzare». Cerca di «vedere il positivo » invece Susanna Camusso che commenta:«Noto che il premier parla sempre più spesso di accordo e questa parola all’inizio della trattativa era sconosciuta». Detto questo, la leader Cgil è stata meno tenera sull’esito dell’incontro: «Usciamo con molti più interrogativi che certezze, sui contratti in ingresso ci sono stati passi indietro». Per Luigi Angeletti «fare una riforma partendo dal presupposto che non deve costare è illogico », mentre per Giovanni Centrella (Ugl) «con questi presupposti meglio lasciare il sistema attuale». Si doveva parlare di ammortizzatori sociali e da qui è partita Elsa Fornero. Sulla tempistica Fornero ha parlato di «autunno 2013», ma sia Camusso che Marcegaglia sono d’accordo sul fatto che sia prematuro fissare una data «a crisi in corso».

I BISTICCI DI ELSA Non sono mancati momenti di tensione. Il primo è stato tutto interno al governo. Si parlava di crisi aziendali ed Elsa Fornero ha tentato più di una volta di avere il conforto di Corrado Passera sulla riforma degli ammortizzatori. Ma il titolare dello Sviluppo economico (e delle centinaia di tavoli per crisi aziendiali) ha declinato l’invito a intervenire: «Oggi il governo parla con una voce sola».Ma la faccia «diceva esattamente il contrario», confida più di un presente. La ministra ha poi bacchettato nuovamente i sindacati che facevano notare come il sistema di ammortizzatori esistente stia funzionando bene. «Ecco, voi difendete sempre l’esistente, io invece guardo avanti, ai giovani e al futuro, non mi posso fermare all’esistente». Il terzo “bisticcio” è stato quello con il presidente dell’Abi Giuseppe Mussari quando, in conclusione di riunione, si è tornati a parlare di contratti d’ingresso. Mussari, come tutte le imprese che produrranno un documento comune in materia entro giovedì, ha fatto presente di non essere in grado di avanzare delle proposte se prima l’esecutivo non farà chiarezza sulla partita della flessibilità in uscita e, dunque, sull’articolo 18. «Allora lei è poco disciplinato e vuol sapere già il voto finale», ha risposto secca Fornero. Di contratti si parlerà giovedì come di politiche attive del lavoro (incentivi alla stabilizzazione), il primo marzo invece si affronterà il delicatissimo tema della flessibilità in uscita. Sull’articolo 18 ieri c’è da segnalare la presa di posizione direttore generale di Bankitalia, FabrizioSaccomanni, per il quale l’articolo 18 «non è il nodo» della riforma, «ci sono problemi di carattere generale sul funzionamento del mercato che devono essere affrontati in maniera più organica

L’Unità 21.02.12

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“Senza nuove risorse assegno Cigs a metà”, di Massimo Franchi

Ci sono gli ottimisti («Con questi chiari di luna anche la ministra capirà chenon si possono fare le rivoluzioni mondiali e ci verrà incontro con soluzioni più realistiche e vicine all’esistente») e i pessimisti («È troppo convinta dei suoi principi e non ascolta ragioni: andrà avanti come un carro armato»). Su una cosa però sono tutti d’accordo. Se il quadro è quello ribadito anche ieri («La riforma degli ammortizzatori si farà senza risorse pubbliche e senza aumentare il costo del lavoro per le imprese») le cose non potranno andar bene. Per dirla con Susanna Camusso «con una riforma senza risorse ci sarà una diminuzione e non un allargamento delle tutele». Basta prendere gli ultimi dati sugli ammortizzatori e applicare i principi «enucleati» dalla ministra Elsa Fornero. L’idea della ministra è quella anticipata più volte: due pilastri, uno che tuteli il posto di lavoro per un tempo congruo e l’altro che tuteli il lavoratore con un’assicurazione contro la disoccupazione. Le uniche carte scoperte sono sulla volontà di «riportare la cassa integrazione alla sua funzione originaria con una eliminazione di alcune causali come la cessazione di attività e il fallimento », ora contemplate nella Cassa integrazione straordinaria e che invece dovrebbero passare nell’indennità di disoccupazione». La marcia indietro sulla cassa integrazione straordinaria è evidente. Male conseguenze potrebbero essere peggiori soprattutto per i lavoratori. Oggi la Cigs “copre” circa 2,5 – 3 milioni di lavoratori (quelli occupati nelle industrie con più di 15 dipendenti e quelli del commercio sopra le 50 persone) fino a 24 mesi con un assegno pari all’80 per cento della retribuzione, ma con un massimale fissato a 870 euro. Allargandola a tutti i lavoratori dei vari settori si arriverebbe ad una quota di possibili tutelati di circa 12 milioni. Quattro volte tanto. Senza aumentare le risorse e i contributi per l’azienda e mantenendo la stessa durata si rischia di ridurre gli attuali assegni della metà, stima più di un esperto in materia. E con 450 euro al mese è dura andare avanti. Una stima che aumenterebbe a 600 euro considerando un ritorno all’utilizzo di questo strumento a livelli pre-crisi (134 milioni di ore utilizzate nel 2006 contro i 411 milioni del 2011). Sulcapitoloindennitàdi disoccupazione le parole del ministro sono state perfino più preoccupanti. Soprattutto per quanto riguarda la contribuzione figurativa. «Deve essere legata non alla retribuzione ma all’indennità, nello spirito del metodo contributivo». Tradotto: se oggi ai disoccupati vengono versati contributi figurativi rispetto all’ultimo stipendio avuto, con la riforma Fornero sarà rispetto all’importo dell’assegno di disoccupazione, molto più basso. Anche qui le incognite sono comunque tantissime. Tanto che la ministra ha utilizzato espressamente la variabile “x” nel prevedere la durata dell’indennità: «Una settimana ogni “ics” mesi lavorati». Una equazione che porta Fulvio Fammoni, segretario confederale Cgil, a commentare amaro: «Siamo ad un livello di indeterminatezza del tutto antitetico all’idea di chiudere il confronto entro marzo».❖

L’Unità 21.02.12

“Sindacati delusi al tavolo. Monti: avanti con chi c’è”, di Massimo Franchi

La riforma del mercato del lavoro come la tela di Penelope. A fare e disfare è sempre Elsa Fornero. Il telaio è sempre basato su grandi principi, su riforme epocali: indennità di disoccupazione universale, forte riduzione e disincentivi alla flessibilità cattiva. Poi, però, quando si entra nel dettaglio non si approda a niente: non ci sono risorse e, soprattutto, le proposte sono fumose, non ci sono dati («si spera di averli giovedì»), nessun numero. Il tutto aggravato dal fatto che la ministra non si degna mai di commentare l’esito degli incontri per fare “sparate” nei giorni successivi, dovendo poi sempre fare retromarcia. E allora ieri il quarto incontro della trattativa, a detta di tutte le parti, è stato «interlocutorio». Riunite per la prima volta nella sala Gino Giugni del ministero del Lavoro a via Veneto, le parti sociali sono rimaste nuovamente deluse dall’atteggiamento della padrona di casa. Sul tavolo aleggiavano le parole appena ribadite da Mario Monti a piazza Affari: «Sia io sia il ministro Fornero siamo molto fiduciosi che entro il termine che ci siamo dati di fine marzo potremo presentare al Parlamento un provvedimento. Lo presenteremo comunque, speriamo di presentarlo con l’accordo delle parti sociali ». La dichiarazione non è una novità, né per il premier né per Fornero. Resta però il fatto di averlo ripetuto a poche ore da un incontro tra le parti. E difatti chi non l’ha presa per niente bene è stato Raffaele Bonanni, il più duro nel rispondere tra i sindacalisti: «È un refrain che inizia a puzzare». Cerca di «vedere il positivo » invece Susanna Camusso che commenta:«Noto che il premier parla sempre più spesso di accordo e questa parola all’inizio della trattativa era sconosciuta». Detto questo, la leader Cgil è stata meno tenera sull’esito dell’incontro: «Usciamo con molti più interrogativi che certezze, sui contratti in ingresso ci sono stati passi indietro». Per Luigi Angeletti «fare una riforma partendo dal presupposto che non deve costare è illogico », mentre per Giovanni Centrella (Ugl) «con questi presupposti meglio lasciare il sistema attuale». Si doveva parlare di ammortizzatori sociali e da qui è partita Elsa Fornero. Sulla tempistica Fornero ha parlato di «autunno 2013», ma sia Camusso che Marcegaglia sono d’accordo sul fatto che sia prematuro fissare una data «a crisi in corso».

I BISTICCI DI ELSA Non sono mancati momenti di tensione. Il primo è stato tutto interno al governo. Si parlava di crisi aziendali ed Elsa Fornero ha tentato più di una volta di avere il conforto di Corrado Passera sulla riforma degli ammortizzatori. Ma il titolare dello Sviluppo economico (e delle centinaia di tavoli per crisi aziendiali) ha declinato l’invito a intervenire: «Oggi il governo parla con una voce sola».Ma la faccia «diceva esattamente il contrario», confida più di un presente. La ministra ha poi bacchettato nuovamente i sindacati che facevano notare come il sistema di ammortizzatori esistente stia funzionando bene. «Ecco, voi difendete sempre l’esistente, io invece guardo avanti, ai giovani e al futuro, non mi posso fermare all’esistente». Il terzo “bisticcio” è stato quello con il presidente dell’Abi Giuseppe Mussari quando, in conclusione di riunione, si è tornati a parlare di contratti d’ingresso. Mussari, come tutte le imprese che produrranno un documento comune in materia entro giovedì, ha fatto presente di non essere in grado di avanzare delle proposte se prima l’esecutivo non farà chiarezza sulla partita della flessibilità in uscita e, dunque, sull’articolo 18. «Allora lei è poco disciplinato e vuol sapere già il voto finale», ha risposto secca Fornero. Di contratti si parlerà giovedì come di politiche attive del lavoro (incentivi alla stabilizzazione), il primo marzo invece si affronterà il delicatissimo tema della flessibilità in uscita. Sull’articolo 18 ieri c’è da segnalare la presa di posizione direttore generale di Bankitalia, FabrizioSaccomanni, per il quale l’articolo 18 «non è il nodo» della riforma, «ci sono problemi di carattere generale sul funzionamento del mercato che devono essere affrontati in maniera più organica

L’Unità 21.02.12

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“Senza nuove risorse assegno Cigs a metà”, di Massimo Franchi

Ci sono gli ottimisti («Con questi chiari di luna anche la ministra capirà chenon si possono fare le rivoluzioni mondiali e ci verrà incontro con soluzioni più realistiche e vicine all’esistente») e i pessimisti («È troppo convinta dei suoi principi e non ascolta ragioni: andrà avanti come un carro armato»). Su una cosa però sono tutti d’accordo. Se il quadro è quello ribadito anche ieri («La riforma degli ammortizzatori si farà senza risorse pubbliche e senza aumentare il costo del lavoro per le imprese») le cose non potranno andar bene. Per dirla con Susanna Camusso «con una riforma senza risorse ci sarà una diminuzione e non un allargamento delle tutele». Basta prendere gli ultimi dati sugli ammortizzatori e applicare i principi «enucleati» dalla ministra Elsa Fornero. L’idea della ministra è quella anticipata più volte: due pilastri, uno che tuteli il posto di lavoro per un tempo congruo e l’altro che tuteli il lavoratore con un’assicurazione contro la disoccupazione. Le uniche carte scoperte sono sulla volontà di «riportare la cassa integrazione alla sua funzione originaria con una eliminazione di alcune causali come la cessazione di attività e il fallimento », ora contemplate nella Cassa integrazione straordinaria e che invece dovrebbero passare nell’indennità di disoccupazione». La marcia indietro sulla cassa integrazione straordinaria è evidente. Male conseguenze potrebbero essere peggiori soprattutto per i lavoratori. Oggi la Cigs “copre” circa 2,5 – 3 milioni di lavoratori (quelli occupati nelle industrie con più di 15 dipendenti e quelli del commercio sopra le 50 persone) fino a 24 mesi con un assegno pari all’80 per cento della retribuzione, ma con un massimale fissato a 870 euro. Allargandola a tutti i lavoratori dei vari settori si arriverebbe ad una quota di possibili tutelati di circa 12 milioni. Quattro volte tanto. Senza aumentare le risorse e i contributi per l’azienda e mantenendo la stessa durata si rischia di ridurre gli attuali assegni della metà, stima più di un esperto in materia. E con 450 euro al mese è dura andare avanti. Una stima che aumenterebbe a 600 euro considerando un ritorno all’utilizzo di questo strumento a livelli pre-crisi (134 milioni di ore utilizzate nel 2006 contro i 411 milioni del 2011). Sulcapitoloindennitàdi disoccupazione le parole del ministro sono state perfino più preoccupanti. Soprattutto per quanto riguarda la contribuzione figurativa. «Deve essere legata non alla retribuzione ma all’indennità, nello spirito del metodo contributivo». Tradotto: se oggi ai disoccupati vengono versati contributi figurativi rispetto all’ultimo stipendio avuto, con la riforma Fornero sarà rispetto all’importo dell’assegno di disoccupazione, molto più basso. Anche qui le incognite sono comunque tantissime. Tanto che la ministra ha utilizzato espressamente la variabile “x” nel prevedere la durata dell’indennità: «Una settimana ogni “ics” mesi lavorati». Una equazione che porta Fulvio Fammoni, segretario confederale Cgil, a commentare amaro: «Siamo ad un livello di indeterminatezza del tutto antitetico all’idea di chiudere il confronto entro marzo».❖

L’Unità 21.02.12

"Dulbecco, lo scienziato-pioniere che intuì come scoprire i tumori", di Edoardo Boncinelli

Renato Dulbecco è l’uomo che quasi da solo ha traghettato la biologia moderna dallo studio dei batteri a quello delle cellule animali e quindi, fra le altre cose, dei meccanismi dell’insorgere dei tumori. Per tutta la prima parte del Novecento è stato molto difficile studiare seriamente qualsiasi organismo diverso da quelli più minuscoli, i batteri appunto e i loro virus, chiamati fagi. Questi studi hanno prodotto una grande massa di conoscenze che hanno contribuito a far nascere quella che è stata poi chiamata la biologia molecolare. È chiaro però che non si sarebbe potuto studiare il funzionamento più intimo del nostro corpo e molte delle patologie a esso connesse conducendo studi sui batteri. Occorreva un salto di qualità. E questo è quello che è successo negli anni Cinquanta e Sessanta, per opera di Dulbecco e di altri pionieri del campo della coltura in vitro delle cellule animali.
Passare da coltivare i batteri a coltivare le cellule del corpo ha rappresentato un salto concettuale e sperimentale di enorme portata. Ricordo che quando ne sentii parlare per la prima volta espressi tutto il mio stupore e quasi scetticismo per la difficoltà dell’impresa. Prendere un tessuto vivente di mammifero, estrarne delicatamente le cellule componenti e metterle a crescere in un incubatore dentro piastrine che contenevano i mezzi di coltura più vari, di natura essenzialmente semisintetica, appariva e appare anche oggi un’impresa di enorme complessità e difficoltà. Non a caso ci sono voluti anni e un numero enorme di tentativi prima che qualcuno mettesse a punto le condizioni ottimali per la coltivazione delle cellule stesse e per la conduzione degli esperimenti necessari.
Oggi questi tempi sembrano lontanissimi e si tende a dimenticare questo primo sforzo pionieristico, preferendo raccontare quello che si è trovato successivamente, ma non c’è dubbio che senza la fase di concezione e messa a punto del sistema, tutti quegli studi non sarebbero stati possibili. Nella scienza un grande evento ne trascina con sé innumerevoli altri.
Venendo dall’Italia, dove pure aveva appreso, a Torino, i rudimenti della coltivazione dei tessuti, il giovane Dulbecco ebbe la ventura di trovarsi a lavorare al Caltech in California, fianco a fianco con i «mostri sacri» che avevano fondato la biologia molecolare, tra i quali si trovava anche l’italiano Salvador Luria. Il merito di questi pionieri era stato quello di riuscire a rendere quantitativa anche la biologia, la scienza che fino agli anni Quaranta era appunto soltanto qualitativa. La loro intuizione era consistita nel cercare un sistema semplice — quello composto dal virus batterico e dalla sua cellula ospite — dove si potesse anche «contare» e misurare qualcosa. A dieci anni di distanza il giovane Dulbecco tentò di applicare tutto questo alle cellule animali, che però sono molto più grandi ed enormemente più complesse di un batterio. Fino a che il gioco riuscì e oggi tutto il mondo coltiva tutti i giorni cellule di tutti i tipi.
Dopo questo inizio il cammino fu poi interamente in discesa. Le cellule coltivate si possono studiare per sé, ma anche in relazione ai virus che le attaccano. Alcuni di questi le uccidono, altri non le uccidono, ma le fanno diventare, più o meno velocemente, tumorali. Sulla traccia di questi fenomeni si mise allora Dulbecco e in pochi anni concretizzò una tradizione di studio sui virus tumorali e il loro rapporto con le cellule, di topo, di criceto, di scimmia o di uomo. Come succede sempre in questi casi ebbe presto dei collaboratori eccezionali e insieme a loro chiarì un numero enorme di fatti considerati oggi pietre miliari della biologia dei tumori. Il tutto poi culminò verso la metà degli anni Settanta con la scoperta di che cosa sia effettivamente una formazione tumorale: un insieme di cellule dentro le quali, per i motivi più diversi, si vengono a trovare una manciata di mutazioni a carico di geni chiave, chiamati oncogeni e geni oncosoppressori.
Per questi suoi studi Dulbecco ricevette nel 1975 il Premio Nobel per la Medicina, ma non cessò di occuparsi attivamente di biologia, fino a quando nel 1986 propose al mondo la realizzazione del Progetto Genoma umano, un’avventura che sembrò all’epoca a dir poco folle, ma che si concretizzò poi con sorprendente celerità. Il suo merito, anche in questo caso, fu di vedere molto più lontano di altri e di concepire un’idea ardita in anticipo sui tempi. La storia del Progetto Genoma la conosciamo tutti e ne parliamo in continuazione. È in connessione con tale progetto che ho conosciuto il grande scienziato, venuto in Italia per dare vita a un progetto italiano. Ricordo che a prima vista sembrava la persona più normale del mondo, dotato di un grande savoir faire e di solido buon senso. Ma dentro la sua testa evidentemente turbinava un universo di forme e di idee sulle ali dell’immaginazione e della creatività. Pensare di coltivare le cellule o di esplorare il genoma non è meno ardito dell’immaginare un cosmo di stelle e di pianeti. È solo più vicino a noi e alla nostra natura. Alla scoperta della nostra essenza

Il Corriere della Sera 21.02.12

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“Addio a Dulbecco Nobel timido del Dna”, di PIERGIORGIO ODIFREDDI
e UMBERTO VERONESI

Non era solo uno studioso celebre in tutto il mondo, un premio Nobel per la medicina che aveva scoperto, attraverso i lavori sul Dna, un modo per combattere i tumori. Renato Dulbecco, nato nel 1914 e scomparso ieri, era soprattutto un modello di intellettuale civile che credeva nella ricerca e nella cultura scientifica. Il nome di Renato Dulbecco, il premio Nobel per la medicina scomparso ieri all´età di 97 anni (ne avrebbe compiuti 98 domani), era noto al grande pubblico per due motivi apparentemente slegati dalla ricerca che gli aveva fatto vincere nel 1975 l´ambìto riconoscimento: l´apparizione al Festival di Sanremo del ´99, e la sponsorizzazione del referendum del 2005.
A Sanremo Dulbecco non c´era andato come cantante, ovviamente. Anche se di musica un po´ se ne intendeva, avendo addirittura suonato il bongo insieme al mitico Richard Feynman, amico e collega di università e di Nobel. Non c´era andato neppure, forse meno ovviamente, come opinionista. Anche se, viste le sue conoscenze, di opinioni sensate ne avrebbe potute dare molte più di tanti altri. C´era andato, invece, come testimonial di una giusta causa: quella del Telethon, per la raccolta di fondi per la ricerca sulla distrofia muscolare in particolare, e sulle malattie genetiche in generale. Una causa che continuò a difendere fino alla fine, come presidente onorario della commissione per l´assegnazione dei fondi raccolti.
Nel referendum del 2005, invece, Dulbecco era sceso in campo insieme all´altro storico premio Nobel per la medicina, Rita Levi Montalcini. Un´amica per la vita, con la quale aveva diviso l´ufficio a Torino dopo la guerra, e fatto il viaggio per l´America su uno stesso vapore polacco, di nome Sovietsky. I due erano andati a lavorare in università non lontane, a Bloomington lui e Saint Louis lei, ed erano sempre rimasti in contatto e uniti anche in seguito. Anzi, si diceva che Dulbecco fosse stato segretamente innamorato della Montalcini: lei stessa confermò l´esistenza della diceria, smentendone la veridicità, in un´intervista che le feci qualche anno fa.
Le voci di Dulbecco e della Montalcini si unirono pubblicamente un´ultima volta nella primavera del 2005, appunto, per invitare gli italiani ad andare a votare a favore dell´abrogazione di alcuni articoli della Legge 40 sulla procreazione assistita. Quella legge, promulgata dal secondo governo Berlusconi, era il prodotto di una visione antiscientifica delle biotecnologie. Purtroppo il loro sforzo, quello di due premi Nobel, fu inutile. Ma la loro battaglia resta un simbolo: contro il proibizionismo scientifico e il rischio che politica ed ideologia condizionino ricerche e scoperte.
Un´altra battaglia, forse meno nota, ma non meno importante e di civiltà, Dulbecco la intraprese il giorno stesso dell´annuncio della sua vittoria al Nobel. Lui non aveva mai fumato, ma era in contatto con il gruppo di Richard Peto, che aveva dimostrato che il tabacco produce il cancro al polmone. L´occasione dell´assegnazione di un premio Nobel per le ricerche sul cancro non poteva essere sprecata, e la conferenza stampa si tramutò in uno spot di “pubblicità progresso” contro le sigarette. Molti anni dopo, gli chiesi come mai negli Stati Uniti, mentre c´è il proibizionismo contro le droghe, anche leggere, il commercio del tabacco rimane libero. E lui rispose, candidamente: «Il tabacco lo producono gli Stati Uniti, le droghe no».
Prima di emigrare negli Stati Uniti e iniziare la sua carriera all´estero, Dulbecco aveva studiato a Torino alla scuola di Giuseppe Levi. Una scuola che produsse ben tre premi Nobel: oltre a Dulbecco, nel 1975, e alla Montalcini, nel 1986, anche Salvador Luria, nel 1969. Quest´ultimo era emigrato per primo, e aveva poi invitato Dulbecco nell´Indiana. Di lui, Luria disse semplicemente in seguito: «Il mio più grande contributo alla biologia è stato di avervi portato Dulbecco». Un´affermazione che, proveniente dalla bocca di uno dei padri della biologia molecolare, ha ovviamente il suo peso. D´altra parte Dulbecco si era avvicinato alla scienza spinto dalla passione per la fisica e aveva conosciuto la medicina dopo aver “assaggiato” matematica e chimica, a conferma di una passione piena, totale.
L´ufficio a Bloomington il giovane Dulbecco lo condivise con un ragazzo di nome James Watson, da lui in seguito ricordato come «molto pazzerello, ma intelligentissimo». Quel ragazzo scoprì pochi anni dopo, nel 1953, la struttura a doppia elica del Dna insieme a Francis Crick, e sia la scoperta che gli scopritori divennero delle icone della scienza del Novecento. Ed è stato proprio Watson a raccontare, più volte, un altro dei contributi fondamentali alla scienza del Novecento dato da Dulbecco: l´idea del Progetto Genoma Umano, da lui proposto tra lo scetticismo generale nel 1985, e portato a termine tra lo stupore generale nel 2000, in soli quindici anni.
Quanto al motivo per cui Dulbecco prese il premio Nobel, lo raccontò in un´intervista che gli feci nel 2002 per questo giornale, spiegando, lui stesso meglio di chiunque altro, come avesse cambiato la lotta contro il tumore mostrando le relazioni tra la malattia e i “difetti” del Dna. «Il premio l´ho vinto per questo, per le ricerche sul cancro, iniziate quando Peyton Rous dimostrò l´esistenza del primo virus cancerogeno, in uno studio sul sarcoma dei polli che gli valse il Nobel nel 1966. Due miei allievi, Harry Rubin e Howard Temin, studiarono una leucemia dei polli diversa dal sarcoma di Rous. Per spiegare come facesse il virus ad avere un´azione permanente nella cellula nella quale entra, venne fuori che ci doveva essere un´interazione tra i geni del virus e quelli della cellula. Il problema era che il genoma del virus era di Rna, e non si capiva come potesse andare a finire nei geni di una cellula il cui genoma era di Dna: naturalmente, non si sapeva allora che c´era un enzima che permette di fare il passo indietro, dall´Rna al Dna. Allora io ho pensato di usare virus che avessero come genoma il Dna: ad esempio, quello appena scoperto del polioma, che causa il tumore nei topi, e anche l´SV40, che agisce su cellule umane. Alla fine siamo riusciti a dimostrare chiaramente che c´è questa interazione».
E fu la scoperta da Nobel. Ma Dulbecco aiutò la ricerca anche in altri modi: ribadendo la sua contrarietà alle posizioni religiose sulle staminali e gli embrioni, battendosi per reintrodurre nei manuali di scuola l´evoluzionismo. Confermando così di essere non soltanto uno scienziato gentiluomo (come era stato definito), ma un intellettuale civilmente impegnato, di cui sentiremo molto la mancanza.

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“Il pacifista che ha cambiato la medicina”, di Umberto Veronesi

La sua rivoluzione nacque dagli studi sul Dna che aiutarono la lotta ai tumori. Nel 1986 diede vita al programma mondiale per il sequenziamento del genoma umano, che porta il suo nome. «Ciò che mi dispiace profondamente è toccare con mano l´immobilismo di un´Italia che sembra non curarsi della ricerca scientifica, esattamente come nel dopoguerra. Oggi mi fa male vedere che, dopo oltre 60 anni, la situazione di crisi della ricerca scientifica in Italia non è cambiata, anzi. L´Italia rischia, molto più che negli ´50, di rimanere esclusa definitivamente dal gruppo di Paesi che concorrono al progresso scientifico e civile». Così mi scrisse Renato Dulbecco dagli Stati Uniti, nel 2008 , e mi piace considerare queste sue parole quasi un lascito di pensiero, perché la sua lunga lettera si conclude con la lucida speranza dell´uomo di scienza che era «io non ho la ricetta per salvare la ricerca italiana, ma proprio come “emigrato della ricerca” posso dire che i modelli ci sono, anche vicino ai nostri confini. Basterebbe iniziare a riflettere».
Renato Dulbecco passerà alla storia come protagonista dell´era del DNA, che ha rivoluzionato non solo la medicina, ma la concezione stessa della posizione dell´uomo nell´universo. Ricevette il Premio Nobel nel 1975 per i suoi studi su virus oncogeni e Dna, e nel 1986 diede vita al programma mondiale per il sequenziamento del genoma umano, che porta il suo nome. Io lo considero anche il modello della figura dell´uomo di scienza del terzo millennio, che non può evitare di essere impegnato civilmente, perché il pensiero scientifico è un modo di essere, di vivere, e soprattutto di guardare al futuro. Per me anche un amico al mio fianco in molti progetti importanti della mia vita. Quando agli inizi degli anni ´90 fondai l´Istituto Europeo di Oncologia, pensai subito a lui per l´International Advisory Board, e da allora fu sempre molto vicino alla ricerca dello Ieo. Quando poi nel 2003 ho dato vita alla mia Fondazione per il Progresso delle Scienze è stato il primo ad aderire e, prima da Lugano e poi da La Jolla, ha partecipato a distanza a tutte le nostre iniziative: «Umberto non chiedermi più di viaggiare, ora resto qui , ma con il pensiero sono con te».
La nostra amicizia ci faceva discutere: Renato credente, io laico, ma entrambi innamorati della scienza. La fede, per Renato, riguardava la sfera delle sue convinzioni personali, che non ha mai cercato di imporre a chi invece, la fede, non ce l´ha. Era paladino della libertà di pensiero e di ricerca scientifica, i cui risultati ognuno poteva applicare (o non applicare) in base alle proprie convinzioni. Infatti quando nel 2000 divenni Ministro della Sanità lo chiamai a presiedere una Commissione, composta da scienziati (anche cattolici), giuristi, filosofi e bioeticisti, per fornire un orientamento in materia di cellule staminali. La Commissione propose la soluzione chiamata Tnsa che poteva conciliare progresso scientifico e problemi etici. La metodica consiste nel prelevare un ovulo femminile, svuotarlo del patrimonio genetico e inserirvi il DNA del paziente che necessita di cure. Si creano così cellule staminali embrionali terapeutiche per il malato. La Tnsa non fu mai applicata in Italia e nessuno diede alcun seguito alle conclusioni della Commissione Dulbecco. Ma Renato, profondamente italiano, era come me cosciente che il nostro Paese ha sempre avuto un problema di cultura, e quindi continuò con me, e con chi chiunque avesse a cuore il progresso scientifico, a impegnarsi in ogni campo che richiedesse un cambiamento culturale.
È stato con noi per ricreare in Italia una comunità scientifica internazionale e per mobilitare la scienza nella tutela dei diritti umani. Così mi scrisse quando aderì al movimento Science for Peace. «Sono uno scienziato che ha vissuto la guerra e sono stato testimone della sua insensata e sanguinosa sofferenza. Ciò che è cruciale nelle relazioni umane è il dialogo. Se tutto il denaro e l´energia oggi impiegate nei conflitti armati fossero re-incanalate nel salvare l´umanità, potremmo vivere in un mondo davvero diverso. Gli scienziati da soli non possono portare la pace nel mondo, ma impegnandosi in prima persona e orientando altri verso questo obiettivo, possiamo sperare di avere successo».

La Repubblica 21.02.12

“Dulbecco, lo scienziato-pioniere che intuì come scoprire i tumori”, di Edoardo Boncinelli

Renato Dulbecco è l’uomo che quasi da solo ha traghettato la biologia moderna dallo studio dei batteri a quello delle cellule animali e quindi, fra le altre cose, dei meccanismi dell’insorgere dei tumori. Per tutta la prima parte del Novecento è stato molto difficile studiare seriamente qualsiasi organismo diverso da quelli più minuscoli, i batteri appunto e i loro virus, chiamati fagi. Questi studi hanno prodotto una grande massa di conoscenze che hanno contribuito a far nascere quella che è stata poi chiamata la biologia molecolare. È chiaro però che non si sarebbe potuto studiare il funzionamento più intimo del nostro corpo e molte delle patologie a esso connesse conducendo studi sui batteri. Occorreva un salto di qualità. E questo è quello che è successo negli anni Cinquanta e Sessanta, per opera di Dulbecco e di altri pionieri del campo della coltura in vitro delle cellule animali.
Passare da coltivare i batteri a coltivare le cellule del corpo ha rappresentato un salto concettuale e sperimentale di enorme portata. Ricordo che quando ne sentii parlare per la prima volta espressi tutto il mio stupore e quasi scetticismo per la difficoltà dell’impresa. Prendere un tessuto vivente di mammifero, estrarne delicatamente le cellule componenti e metterle a crescere in un incubatore dentro piastrine che contenevano i mezzi di coltura più vari, di natura essenzialmente semisintetica, appariva e appare anche oggi un’impresa di enorme complessità e difficoltà. Non a caso ci sono voluti anni e un numero enorme di tentativi prima che qualcuno mettesse a punto le condizioni ottimali per la coltivazione delle cellule stesse e per la conduzione degli esperimenti necessari.
Oggi questi tempi sembrano lontanissimi e si tende a dimenticare questo primo sforzo pionieristico, preferendo raccontare quello che si è trovato successivamente, ma non c’è dubbio che senza la fase di concezione e messa a punto del sistema, tutti quegli studi non sarebbero stati possibili. Nella scienza un grande evento ne trascina con sé innumerevoli altri.
Venendo dall’Italia, dove pure aveva appreso, a Torino, i rudimenti della coltivazione dei tessuti, il giovane Dulbecco ebbe la ventura di trovarsi a lavorare al Caltech in California, fianco a fianco con i «mostri sacri» che avevano fondato la biologia molecolare, tra i quali si trovava anche l’italiano Salvador Luria. Il merito di questi pionieri era stato quello di riuscire a rendere quantitativa anche la biologia, la scienza che fino agli anni Quaranta era appunto soltanto qualitativa. La loro intuizione era consistita nel cercare un sistema semplice — quello composto dal virus batterico e dalla sua cellula ospite — dove si potesse anche «contare» e misurare qualcosa. A dieci anni di distanza il giovane Dulbecco tentò di applicare tutto questo alle cellule animali, che però sono molto più grandi ed enormemente più complesse di un batterio. Fino a che il gioco riuscì e oggi tutto il mondo coltiva tutti i giorni cellule di tutti i tipi.
Dopo questo inizio il cammino fu poi interamente in discesa. Le cellule coltivate si possono studiare per sé, ma anche in relazione ai virus che le attaccano. Alcuni di questi le uccidono, altri non le uccidono, ma le fanno diventare, più o meno velocemente, tumorali. Sulla traccia di questi fenomeni si mise allora Dulbecco e in pochi anni concretizzò una tradizione di studio sui virus tumorali e il loro rapporto con le cellule, di topo, di criceto, di scimmia o di uomo. Come succede sempre in questi casi ebbe presto dei collaboratori eccezionali e insieme a loro chiarì un numero enorme di fatti considerati oggi pietre miliari della biologia dei tumori. Il tutto poi culminò verso la metà degli anni Settanta con la scoperta di che cosa sia effettivamente una formazione tumorale: un insieme di cellule dentro le quali, per i motivi più diversi, si vengono a trovare una manciata di mutazioni a carico di geni chiave, chiamati oncogeni e geni oncosoppressori.
Per questi suoi studi Dulbecco ricevette nel 1975 il Premio Nobel per la Medicina, ma non cessò di occuparsi attivamente di biologia, fino a quando nel 1986 propose al mondo la realizzazione del Progetto Genoma umano, un’avventura che sembrò all’epoca a dir poco folle, ma che si concretizzò poi con sorprendente celerità. Il suo merito, anche in questo caso, fu di vedere molto più lontano di altri e di concepire un’idea ardita in anticipo sui tempi. La storia del Progetto Genoma la conosciamo tutti e ne parliamo in continuazione. È in connessione con tale progetto che ho conosciuto il grande scienziato, venuto in Italia per dare vita a un progetto italiano. Ricordo che a prima vista sembrava la persona più normale del mondo, dotato di un grande savoir faire e di solido buon senso. Ma dentro la sua testa evidentemente turbinava un universo di forme e di idee sulle ali dell’immaginazione e della creatività. Pensare di coltivare le cellule o di esplorare il genoma non è meno ardito dell’immaginare un cosmo di stelle e di pianeti. È solo più vicino a noi e alla nostra natura. Alla scoperta della nostra essenza

Il Corriere della Sera 21.02.12

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“Addio a Dulbecco Nobel timido del Dna”, di PIERGIORGIO ODIFREDDI
e UMBERTO VERONESI

Non era solo uno studioso celebre in tutto il mondo, un premio Nobel per la medicina che aveva scoperto, attraverso i lavori sul Dna, un modo per combattere i tumori. Renato Dulbecco, nato nel 1914 e scomparso ieri, era soprattutto un modello di intellettuale civile che credeva nella ricerca e nella cultura scientifica. Il nome di Renato Dulbecco, il premio Nobel per la medicina scomparso ieri all´età di 97 anni (ne avrebbe compiuti 98 domani), era noto al grande pubblico per due motivi apparentemente slegati dalla ricerca che gli aveva fatto vincere nel 1975 l´ambìto riconoscimento: l´apparizione al Festival di Sanremo del ´99, e la sponsorizzazione del referendum del 2005.
A Sanremo Dulbecco non c´era andato come cantante, ovviamente. Anche se di musica un po´ se ne intendeva, avendo addirittura suonato il bongo insieme al mitico Richard Feynman, amico e collega di università e di Nobel. Non c´era andato neppure, forse meno ovviamente, come opinionista. Anche se, viste le sue conoscenze, di opinioni sensate ne avrebbe potute dare molte più di tanti altri. C´era andato, invece, come testimonial di una giusta causa: quella del Telethon, per la raccolta di fondi per la ricerca sulla distrofia muscolare in particolare, e sulle malattie genetiche in generale. Una causa che continuò a difendere fino alla fine, come presidente onorario della commissione per l´assegnazione dei fondi raccolti.
Nel referendum del 2005, invece, Dulbecco era sceso in campo insieme all´altro storico premio Nobel per la medicina, Rita Levi Montalcini. Un´amica per la vita, con la quale aveva diviso l´ufficio a Torino dopo la guerra, e fatto il viaggio per l´America su uno stesso vapore polacco, di nome Sovietsky. I due erano andati a lavorare in università non lontane, a Bloomington lui e Saint Louis lei, ed erano sempre rimasti in contatto e uniti anche in seguito. Anzi, si diceva che Dulbecco fosse stato segretamente innamorato della Montalcini: lei stessa confermò l´esistenza della diceria, smentendone la veridicità, in un´intervista che le feci qualche anno fa.
Le voci di Dulbecco e della Montalcini si unirono pubblicamente un´ultima volta nella primavera del 2005, appunto, per invitare gli italiani ad andare a votare a favore dell´abrogazione di alcuni articoli della Legge 40 sulla procreazione assistita. Quella legge, promulgata dal secondo governo Berlusconi, era il prodotto di una visione antiscientifica delle biotecnologie. Purtroppo il loro sforzo, quello di due premi Nobel, fu inutile. Ma la loro battaglia resta un simbolo: contro il proibizionismo scientifico e il rischio che politica ed ideologia condizionino ricerche e scoperte.
Un´altra battaglia, forse meno nota, ma non meno importante e di civiltà, Dulbecco la intraprese il giorno stesso dell´annuncio della sua vittoria al Nobel. Lui non aveva mai fumato, ma era in contatto con il gruppo di Richard Peto, che aveva dimostrato che il tabacco produce il cancro al polmone. L´occasione dell´assegnazione di un premio Nobel per le ricerche sul cancro non poteva essere sprecata, e la conferenza stampa si tramutò in uno spot di “pubblicità progresso” contro le sigarette. Molti anni dopo, gli chiesi come mai negli Stati Uniti, mentre c´è il proibizionismo contro le droghe, anche leggere, il commercio del tabacco rimane libero. E lui rispose, candidamente: «Il tabacco lo producono gli Stati Uniti, le droghe no».
Prima di emigrare negli Stati Uniti e iniziare la sua carriera all´estero, Dulbecco aveva studiato a Torino alla scuola di Giuseppe Levi. Una scuola che produsse ben tre premi Nobel: oltre a Dulbecco, nel 1975, e alla Montalcini, nel 1986, anche Salvador Luria, nel 1969. Quest´ultimo era emigrato per primo, e aveva poi invitato Dulbecco nell´Indiana. Di lui, Luria disse semplicemente in seguito: «Il mio più grande contributo alla biologia è stato di avervi portato Dulbecco». Un´affermazione che, proveniente dalla bocca di uno dei padri della biologia molecolare, ha ovviamente il suo peso. D´altra parte Dulbecco si era avvicinato alla scienza spinto dalla passione per la fisica e aveva conosciuto la medicina dopo aver “assaggiato” matematica e chimica, a conferma di una passione piena, totale.
L´ufficio a Bloomington il giovane Dulbecco lo condivise con un ragazzo di nome James Watson, da lui in seguito ricordato come «molto pazzerello, ma intelligentissimo». Quel ragazzo scoprì pochi anni dopo, nel 1953, la struttura a doppia elica del Dna insieme a Francis Crick, e sia la scoperta che gli scopritori divennero delle icone della scienza del Novecento. Ed è stato proprio Watson a raccontare, più volte, un altro dei contributi fondamentali alla scienza del Novecento dato da Dulbecco: l´idea del Progetto Genoma Umano, da lui proposto tra lo scetticismo generale nel 1985, e portato a termine tra lo stupore generale nel 2000, in soli quindici anni.
Quanto al motivo per cui Dulbecco prese il premio Nobel, lo raccontò in un´intervista che gli feci nel 2002 per questo giornale, spiegando, lui stesso meglio di chiunque altro, come avesse cambiato la lotta contro il tumore mostrando le relazioni tra la malattia e i “difetti” del Dna. «Il premio l´ho vinto per questo, per le ricerche sul cancro, iniziate quando Peyton Rous dimostrò l´esistenza del primo virus cancerogeno, in uno studio sul sarcoma dei polli che gli valse il Nobel nel 1966. Due miei allievi, Harry Rubin e Howard Temin, studiarono una leucemia dei polli diversa dal sarcoma di Rous. Per spiegare come facesse il virus ad avere un´azione permanente nella cellula nella quale entra, venne fuori che ci doveva essere un´interazione tra i geni del virus e quelli della cellula. Il problema era che il genoma del virus era di Rna, e non si capiva come potesse andare a finire nei geni di una cellula il cui genoma era di Dna: naturalmente, non si sapeva allora che c´era un enzima che permette di fare il passo indietro, dall´Rna al Dna. Allora io ho pensato di usare virus che avessero come genoma il Dna: ad esempio, quello appena scoperto del polioma, che causa il tumore nei topi, e anche l´SV40, che agisce su cellule umane. Alla fine siamo riusciti a dimostrare chiaramente che c´è questa interazione».
E fu la scoperta da Nobel. Ma Dulbecco aiutò la ricerca anche in altri modi: ribadendo la sua contrarietà alle posizioni religiose sulle staminali e gli embrioni, battendosi per reintrodurre nei manuali di scuola l´evoluzionismo. Confermando così di essere non soltanto uno scienziato gentiluomo (come era stato definito), ma un intellettuale civilmente impegnato, di cui sentiremo molto la mancanza.

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“Il pacifista che ha cambiato la medicina”, di Umberto Veronesi

La sua rivoluzione nacque dagli studi sul Dna che aiutarono la lotta ai tumori. Nel 1986 diede vita al programma mondiale per il sequenziamento del genoma umano, che porta il suo nome. «Ciò che mi dispiace profondamente è toccare con mano l´immobilismo di un´Italia che sembra non curarsi della ricerca scientifica, esattamente come nel dopoguerra. Oggi mi fa male vedere che, dopo oltre 60 anni, la situazione di crisi della ricerca scientifica in Italia non è cambiata, anzi. L´Italia rischia, molto più che negli ´50, di rimanere esclusa definitivamente dal gruppo di Paesi che concorrono al progresso scientifico e civile». Così mi scrisse Renato Dulbecco dagli Stati Uniti, nel 2008 , e mi piace considerare queste sue parole quasi un lascito di pensiero, perché la sua lunga lettera si conclude con la lucida speranza dell´uomo di scienza che era «io non ho la ricetta per salvare la ricerca italiana, ma proprio come “emigrato della ricerca” posso dire che i modelli ci sono, anche vicino ai nostri confini. Basterebbe iniziare a riflettere».
Renato Dulbecco passerà alla storia come protagonista dell´era del DNA, che ha rivoluzionato non solo la medicina, ma la concezione stessa della posizione dell´uomo nell´universo. Ricevette il Premio Nobel nel 1975 per i suoi studi su virus oncogeni e Dna, e nel 1986 diede vita al programma mondiale per il sequenziamento del genoma umano, che porta il suo nome. Io lo considero anche il modello della figura dell´uomo di scienza del terzo millennio, che non può evitare di essere impegnato civilmente, perché il pensiero scientifico è un modo di essere, di vivere, e soprattutto di guardare al futuro. Per me anche un amico al mio fianco in molti progetti importanti della mia vita. Quando agli inizi degli anni ´90 fondai l´Istituto Europeo di Oncologia, pensai subito a lui per l´International Advisory Board, e da allora fu sempre molto vicino alla ricerca dello Ieo. Quando poi nel 2003 ho dato vita alla mia Fondazione per il Progresso delle Scienze è stato il primo ad aderire e, prima da Lugano e poi da La Jolla, ha partecipato a distanza a tutte le nostre iniziative: «Umberto non chiedermi più di viaggiare, ora resto qui , ma con il pensiero sono con te».
La nostra amicizia ci faceva discutere: Renato credente, io laico, ma entrambi innamorati della scienza. La fede, per Renato, riguardava la sfera delle sue convinzioni personali, che non ha mai cercato di imporre a chi invece, la fede, non ce l´ha. Era paladino della libertà di pensiero e di ricerca scientifica, i cui risultati ognuno poteva applicare (o non applicare) in base alle proprie convinzioni. Infatti quando nel 2000 divenni Ministro della Sanità lo chiamai a presiedere una Commissione, composta da scienziati (anche cattolici), giuristi, filosofi e bioeticisti, per fornire un orientamento in materia di cellule staminali. La Commissione propose la soluzione chiamata Tnsa che poteva conciliare progresso scientifico e problemi etici. La metodica consiste nel prelevare un ovulo femminile, svuotarlo del patrimonio genetico e inserirvi il DNA del paziente che necessita di cure. Si creano così cellule staminali embrionali terapeutiche per il malato. La Tnsa non fu mai applicata in Italia e nessuno diede alcun seguito alle conclusioni della Commissione Dulbecco. Ma Renato, profondamente italiano, era come me cosciente che il nostro Paese ha sempre avuto un problema di cultura, e quindi continuò con me, e con chi chiunque avesse a cuore il progresso scientifico, a impegnarsi in ogni campo che richiedesse un cambiamento culturale.
È stato con noi per ricreare in Italia una comunità scientifica internazionale e per mobilitare la scienza nella tutela dei diritti umani. Così mi scrisse quando aderì al movimento Science for Peace. «Sono uno scienziato che ha vissuto la guerra e sono stato testimone della sua insensata e sanguinosa sofferenza. Ciò che è cruciale nelle relazioni umane è il dialogo. Se tutto il denaro e l´energia oggi impiegate nei conflitti armati fossero re-incanalate nel salvare l´umanità, potremmo vivere in un mondo davvero diverso. Gli scienziati da soli non possono portare la pace nel mondo, ma impegnandosi in prima persona e orientando altri verso questo obiettivo, possiamo sperare di avere successo».

La Repubblica 21.02.12