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"Dulbecco, lo scienziato-pioniere che intuì come scoprire i tumori", di Edoardo Boncinelli

Renato Dulbecco è l’uomo che quasi da solo ha traghettato la biologia moderna dallo studio dei batteri a quello delle cellule animali e quindi, fra le altre cose, dei meccanismi dell’insorgere dei tumori. Per tutta la prima parte del Novecento è stato molto difficile studiare seriamente qualsiasi organismo diverso da quelli più minuscoli, i batteri appunto e i loro virus, chiamati fagi. Questi studi hanno prodotto una grande massa di conoscenze che hanno contribuito a far nascere quella che è stata poi chiamata la biologia molecolare. È chiaro però che non si sarebbe potuto studiare il funzionamento più intimo del nostro corpo e molte delle patologie a esso connesse conducendo studi sui batteri. Occorreva un salto di qualità. E questo è quello che è successo negli anni Cinquanta e Sessanta, per opera di Dulbecco e di altri pionieri del campo della coltura in vitro delle cellule animali.
Passare da coltivare i batteri a coltivare le cellule del corpo ha rappresentato un salto concettuale e sperimentale di enorme portata. Ricordo che quando ne sentii parlare per la prima volta espressi tutto il mio stupore e quasi scetticismo per la difficoltà dell’impresa. Prendere un tessuto vivente di mammifero, estrarne delicatamente le cellule componenti e metterle a crescere in un incubatore dentro piastrine che contenevano i mezzi di coltura più vari, di natura essenzialmente semisintetica, appariva e appare anche oggi un’impresa di enorme complessità e difficoltà. Non a caso ci sono voluti anni e un numero enorme di tentativi prima che qualcuno mettesse a punto le condizioni ottimali per la coltivazione delle cellule stesse e per la conduzione degli esperimenti necessari.
Oggi questi tempi sembrano lontanissimi e si tende a dimenticare questo primo sforzo pionieristico, preferendo raccontare quello che si è trovato successivamente, ma non c’è dubbio che senza la fase di concezione e messa a punto del sistema, tutti quegli studi non sarebbero stati possibili. Nella scienza un grande evento ne trascina con sé innumerevoli altri.
Venendo dall’Italia, dove pure aveva appreso, a Torino, i rudimenti della coltivazione dei tessuti, il giovane Dulbecco ebbe la ventura di trovarsi a lavorare al Caltech in California, fianco a fianco con i «mostri sacri» che avevano fondato la biologia molecolare, tra i quali si trovava anche l’italiano Salvador Luria. Il merito di questi pionieri era stato quello di riuscire a rendere quantitativa anche la biologia, la scienza che fino agli anni Quaranta era appunto soltanto qualitativa. La loro intuizione era consistita nel cercare un sistema semplice — quello composto dal virus batterico e dalla sua cellula ospite — dove si potesse anche «contare» e misurare qualcosa. A dieci anni di distanza il giovane Dulbecco tentò di applicare tutto questo alle cellule animali, che però sono molto più grandi ed enormemente più complesse di un batterio. Fino a che il gioco riuscì e oggi tutto il mondo coltiva tutti i giorni cellule di tutti i tipi.
Dopo questo inizio il cammino fu poi interamente in discesa. Le cellule coltivate si possono studiare per sé, ma anche in relazione ai virus che le attaccano. Alcuni di questi le uccidono, altri non le uccidono, ma le fanno diventare, più o meno velocemente, tumorali. Sulla traccia di questi fenomeni si mise allora Dulbecco e in pochi anni concretizzò una tradizione di studio sui virus tumorali e il loro rapporto con le cellule, di topo, di criceto, di scimmia o di uomo. Come succede sempre in questi casi ebbe presto dei collaboratori eccezionali e insieme a loro chiarì un numero enorme di fatti considerati oggi pietre miliari della biologia dei tumori. Il tutto poi culminò verso la metà degli anni Settanta con la scoperta di che cosa sia effettivamente una formazione tumorale: un insieme di cellule dentro le quali, per i motivi più diversi, si vengono a trovare una manciata di mutazioni a carico di geni chiave, chiamati oncogeni e geni oncosoppressori.
Per questi suoi studi Dulbecco ricevette nel 1975 il Premio Nobel per la Medicina, ma non cessò di occuparsi attivamente di biologia, fino a quando nel 1986 propose al mondo la realizzazione del Progetto Genoma umano, un’avventura che sembrò all’epoca a dir poco folle, ma che si concretizzò poi con sorprendente celerità. Il suo merito, anche in questo caso, fu di vedere molto più lontano di altri e di concepire un’idea ardita in anticipo sui tempi. La storia del Progetto Genoma la conosciamo tutti e ne parliamo in continuazione. È in connessione con tale progetto che ho conosciuto il grande scienziato, venuto in Italia per dare vita a un progetto italiano. Ricordo che a prima vista sembrava la persona più normale del mondo, dotato di un grande savoir faire e di solido buon senso. Ma dentro la sua testa evidentemente turbinava un universo di forme e di idee sulle ali dell’immaginazione e della creatività. Pensare di coltivare le cellule o di esplorare il genoma non è meno ardito dell’immaginare un cosmo di stelle e di pianeti. È solo più vicino a noi e alla nostra natura. Alla scoperta della nostra essenza

Il Corriere della Sera 21.02.12

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“Addio a Dulbecco Nobel timido del Dna”, di PIERGIORGIO ODIFREDDI
e UMBERTO VERONESI

Non era solo uno studioso celebre in tutto il mondo, un premio Nobel per la medicina che aveva scoperto, attraverso i lavori sul Dna, un modo per combattere i tumori. Renato Dulbecco, nato nel 1914 e scomparso ieri, era soprattutto un modello di intellettuale civile che credeva nella ricerca e nella cultura scientifica. Il nome di Renato Dulbecco, il premio Nobel per la medicina scomparso ieri all´età di 97 anni (ne avrebbe compiuti 98 domani), era noto al grande pubblico per due motivi apparentemente slegati dalla ricerca che gli aveva fatto vincere nel 1975 l´ambìto riconoscimento: l´apparizione al Festival di Sanremo del ´99, e la sponsorizzazione del referendum del 2005.
A Sanremo Dulbecco non c´era andato come cantante, ovviamente. Anche se di musica un po´ se ne intendeva, avendo addirittura suonato il bongo insieme al mitico Richard Feynman, amico e collega di università e di Nobel. Non c´era andato neppure, forse meno ovviamente, come opinionista. Anche se, viste le sue conoscenze, di opinioni sensate ne avrebbe potute dare molte più di tanti altri. C´era andato, invece, come testimonial di una giusta causa: quella del Telethon, per la raccolta di fondi per la ricerca sulla distrofia muscolare in particolare, e sulle malattie genetiche in generale. Una causa che continuò a difendere fino alla fine, come presidente onorario della commissione per l´assegnazione dei fondi raccolti.
Nel referendum del 2005, invece, Dulbecco era sceso in campo insieme all´altro storico premio Nobel per la medicina, Rita Levi Montalcini. Un´amica per la vita, con la quale aveva diviso l´ufficio a Torino dopo la guerra, e fatto il viaggio per l´America su uno stesso vapore polacco, di nome Sovietsky. I due erano andati a lavorare in università non lontane, a Bloomington lui e Saint Louis lei, ed erano sempre rimasti in contatto e uniti anche in seguito. Anzi, si diceva che Dulbecco fosse stato segretamente innamorato della Montalcini: lei stessa confermò l´esistenza della diceria, smentendone la veridicità, in un´intervista che le feci qualche anno fa.
Le voci di Dulbecco e della Montalcini si unirono pubblicamente un´ultima volta nella primavera del 2005, appunto, per invitare gli italiani ad andare a votare a favore dell´abrogazione di alcuni articoli della Legge 40 sulla procreazione assistita. Quella legge, promulgata dal secondo governo Berlusconi, era il prodotto di una visione antiscientifica delle biotecnologie. Purtroppo il loro sforzo, quello di due premi Nobel, fu inutile. Ma la loro battaglia resta un simbolo: contro il proibizionismo scientifico e il rischio che politica ed ideologia condizionino ricerche e scoperte.
Un´altra battaglia, forse meno nota, ma non meno importante e di civiltà, Dulbecco la intraprese il giorno stesso dell´annuncio della sua vittoria al Nobel. Lui non aveva mai fumato, ma era in contatto con il gruppo di Richard Peto, che aveva dimostrato che il tabacco produce il cancro al polmone. L´occasione dell´assegnazione di un premio Nobel per le ricerche sul cancro non poteva essere sprecata, e la conferenza stampa si tramutò in uno spot di “pubblicità progresso” contro le sigarette. Molti anni dopo, gli chiesi come mai negli Stati Uniti, mentre c´è il proibizionismo contro le droghe, anche leggere, il commercio del tabacco rimane libero. E lui rispose, candidamente: «Il tabacco lo producono gli Stati Uniti, le droghe no».
Prima di emigrare negli Stati Uniti e iniziare la sua carriera all´estero, Dulbecco aveva studiato a Torino alla scuola di Giuseppe Levi. Una scuola che produsse ben tre premi Nobel: oltre a Dulbecco, nel 1975, e alla Montalcini, nel 1986, anche Salvador Luria, nel 1969. Quest´ultimo era emigrato per primo, e aveva poi invitato Dulbecco nell´Indiana. Di lui, Luria disse semplicemente in seguito: «Il mio più grande contributo alla biologia è stato di avervi portato Dulbecco». Un´affermazione che, proveniente dalla bocca di uno dei padri della biologia molecolare, ha ovviamente il suo peso. D´altra parte Dulbecco si era avvicinato alla scienza spinto dalla passione per la fisica e aveva conosciuto la medicina dopo aver “assaggiato” matematica e chimica, a conferma di una passione piena, totale.
L´ufficio a Bloomington il giovane Dulbecco lo condivise con un ragazzo di nome James Watson, da lui in seguito ricordato come «molto pazzerello, ma intelligentissimo». Quel ragazzo scoprì pochi anni dopo, nel 1953, la struttura a doppia elica del Dna insieme a Francis Crick, e sia la scoperta che gli scopritori divennero delle icone della scienza del Novecento. Ed è stato proprio Watson a raccontare, più volte, un altro dei contributi fondamentali alla scienza del Novecento dato da Dulbecco: l´idea del Progetto Genoma Umano, da lui proposto tra lo scetticismo generale nel 1985, e portato a termine tra lo stupore generale nel 2000, in soli quindici anni.
Quanto al motivo per cui Dulbecco prese il premio Nobel, lo raccontò in un´intervista che gli feci nel 2002 per questo giornale, spiegando, lui stesso meglio di chiunque altro, come avesse cambiato la lotta contro il tumore mostrando le relazioni tra la malattia e i “difetti” del Dna. «Il premio l´ho vinto per questo, per le ricerche sul cancro, iniziate quando Peyton Rous dimostrò l´esistenza del primo virus cancerogeno, in uno studio sul sarcoma dei polli che gli valse il Nobel nel 1966. Due miei allievi, Harry Rubin e Howard Temin, studiarono una leucemia dei polli diversa dal sarcoma di Rous. Per spiegare come facesse il virus ad avere un´azione permanente nella cellula nella quale entra, venne fuori che ci doveva essere un´interazione tra i geni del virus e quelli della cellula. Il problema era che il genoma del virus era di Rna, e non si capiva come potesse andare a finire nei geni di una cellula il cui genoma era di Dna: naturalmente, non si sapeva allora che c´era un enzima che permette di fare il passo indietro, dall´Rna al Dna. Allora io ho pensato di usare virus che avessero come genoma il Dna: ad esempio, quello appena scoperto del polioma, che causa il tumore nei topi, e anche l´SV40, che agisce su cellule umane. Alla fine siamo riusciti a dimostrare chiaramente che c´è questa interazione».
E fu la scoperta da Nobel. Ma Dulbecco aiutò la ricerca anche in altri modi: ribadendo la sua contrarietà alle posizioni religiose sulle staminali e gli embrioni, battendosi per reintrodurre nei manuali di scuola l´evoluzionismo. Confermando così di essere non soltanto uno scienziato gentiluomo (come era stato definito), ma un intellettuale civilmente impegnato, di cui sentiremo molto la mancanza.

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“Il pacifista che ha cambiato la medicina”, di Umberto Veronesi

La sua rivoluzione nacque dagli studi sul Dna che aiutarono la lotta ai tumori. Nel 1986 diede vita al programma mondiale per il sequenziamento del genoma umano, che porta il suo nome. «Ciò che mi dispiace profondamente è toccare con mano l´immobilismo di un´Italia che sembra non curarsi della ricerca scientifica, esattamente come nel dopoguerra. Oggi mi fa male vedere che, dopo oltre 60 anni, la situazione di crisi della ricerca scientifica in Italia non è cambiata, anzi. L´Italia rischia, molto più che negli ´50, di rimanere esclusa definitivamente dal gruppo di Paesi che concorrono al progresso scientifico e civile». Così mi scrisse Renato Dulbecco dagli Stati Uniti, nel 2008 , e mi piace considerare queste sue parole quasi un lascito di pensiero, perché la sua lunga lettera si conclude con la lucida speranza dell´uomo di scienza che era «io non ho la ricetta per salvare la ricerca italiana, ma proprio come “emigrato della ricerca” posso dire che i modelli ci sono, anche vicino ai nostri confini. Basterebbe iniziare a riflettere».
Renato Dulbecco passerà alla storia come protagonista dell´era del DNA, che ha rivoluzionato non solo la medicina, ma la concezione stessa della posizione dell´uomo nell´universo. Ricevette il Premio Nobel nel 1975 per i suoi studi su virus oncogeni e Dna, e nel 1986 diede vita al programma mondiale per il sequenziamento del genoma umano, che porta il suo nome. Io lo considero anche il modello della figura dell´uomo di scienza del terzo millennio, che non può evitare di essere impegnato civilmente, perché il pensiero scientifico è un modo di essere, di vivere, e soprattutto di guardare al futuro. Per me anche un amico al mio fianco in molti progetti importanti della mia vita. Quando agli inizi degli anni ´90 fondai l´Istituto Europeo di Oncologia, pensai subito a lui per l´International Advisory Board, e da allora fu sempre molto vicino alla ricerca dello Ieo. Quando poi nel 2003 ho dato vita alla mia Fondazione per il Progresso delle Scienze è stato il primo ad aderire e, prima da Lugano e poi da La Jolla, ha partecipato a distanza a tutte le nostre iniziative: «Umberto non chiedermi più di viaggiare, ora resto qui , ma con il pensiero sono con te».
La nostra amicizia ci faceva discutere: Renato credente, io laico, ma entrambi innamorati della scienza. La fede, per Renato, riguardava la sfera delle sue convinzioni personali, che non ha mai cercato di imporre a chi invece, la fede, non ce l´ha. Era paladino della libertà di pensiero e di ricerca scientifica, i cui risultati ognuno poteva applicare (o non applicare) in base alle proprie convinzioni. Infatti quando nel 2000 divenni Ministro della Sanità lo chiamai a presiedere una Commissione, composta da scienziati (anche cattolici), giuristi, filosofi e bioeticisti, per fornire un orientamento in materia di cellule staminali. La Commissione propose la soluzione chiamata Tnsa che poteva conciliare progresso scientifico e problemi etici. La metodica consiste nel prelevare un ovulo femminile, svuotarlo del patrimonio genetico e inserirvi il DNA del paziente che necessita di cure. Si creano così cellule staminali embrionali terapeutiche per il malato. La Tnsa non fu mai applicata in Italia e nessuno diede alcun seguito alle conclusioni della Commissione Dulbecco. Ma Renato, profondamente italiano, era come me cosciente che il nostro Paese ha sempre avuto un problema di cultura, e quindi continuò con me, e con chi chiunque avesse a cuore il progresso scientifico, a impegnarsi in ogni campo che richiedesse un cambiamento culturale.
È stato con noi per ricreare in Italia una comunità scientifica internazionale e per mobilitare la scienza nella tutela dei diritti umani. Così mi scrisse quando aderì al movimento Science for Peace. «Sono uno scienziato che ha vissuto la guerra e sono stato testimone della sua insensata e sanguinosa sofferenza. Ciò che è cruciale nelle relazioni umane è il dialogo. Se tutto il denaro e l´energia oggi impiegate nei conflitti armati fossero re-incanalate nel salvare l´umanità, potremmo vivere in un mondo davvero diverso. Gli scienziati da soli non possono portare la pace nel mondo, ma impegnandosi in prima persona e orientando altri verso questo obiettivo, possiamo sperare di avere successo».

La Repubblica 21.02.12