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"Pagare tutti per pagare davvero meno", di Stefano Lepri

Non aspettiamoci di pagare presto meno tasse. Nemmeno Mario Monti può fare i miracoli. Possiamo però aspettarci un fisco più razionale e meno oppressivo. A questo anche servono i tecnici al governo: a disboscare la giungla creata da una politica inefficiente. Sommando favori a questi e a quelli, introducendo scappatoie a favore di interessi protetti, e procedendo per grida demagogiche, si è costruito un sistema contorto.

Un sistema capace di esasperare il contribuente mentre soffoca gli uffici tributari di lavoro in parte inutile. Certo è bene formalizzare la promessa che i ricavi della lotta all’evasione saranno restituiti alla generalità dei contribuenti. Dopo le operazioni del fisco a Cortina, in alcune grandi città e ora a Courmayeur, si tratta di una scelta obbligata, di chiarezza. Tanto più è necessaria a un governo che nell’urgenza è stato costretto a puntare più sulle tasse che, come avrebbe preferito, sui tagli di spesa.

La stessa promessa l’avevamo già ascoltata altre volte. In questo caso, può confortarci un poco l’esperienza recente. A giudicare da alcuni dati, davvero i comportamenti dei contribuenti sono mutati secondo le scelte dei governi, e abbastanza in fretta. Qui l’Italia è un interessante oggetto di studio per esperti anche stranieri. Nell’attuale legislatura il gettito Iva è calato dalla seconda metà del 2008, quando il governo Berlusconi cancellò certe misure stringenti, e si è ripreso dall’autunno 2009 in poi, dopo che Giulio Tremonti trovò opportuno in parte reintrodurle e annunciò un maggior impegno contro l’evasione.

Non è dunque impossibile recuperare. Si tratta di un’azione doppiamente utile. Non sono in conflitto in questo caso i due tradizionali obiettivi dell’equità e dell’efficienza, grande argomento di contrasto fra destra e sinistra. Far pagare le tasse a tutti non è solo giusto, aumenta anche la produttività della nostra economia, come ha ricordato ieri il presidente dell’Istat Enrico Giovannini. La gara tra le imprese è distorta se i profitti vengono più facilmente dall’evasione tributaria invece che da produrre beni e servizi migliori a costi più bassi.

In tante transazioni della vita quotidiana la convenienza a evadere è di entrambe le parti, del ristoratore e del cliente, dell’idraulico e di chi lo chiama a riparare, e così via. Non esistono rimedi miracolosi. Può aiutare che si percepisca mutato l’umore pubblico del Paese; serve a molto che l’amministrazione pubblica si mostri efficace nel colpire. Un problema che va risolto quanto prima – se non altro il governo ne è cosciente – è che la durezza delle sanzioni di Equitalia si deve dirigere contro i bersagli giusti; altrimenti si rischia che un identico malcontento unisca persone perbene ed evasori.

Un sistema fiscale razionale è fatto di un numero minore di imposte, con un minor numero di esenzioni e agevolazioni. Non pochi contribuenti sarebbero disposti anche a pagare di più se perdessero meno tempo nelle pratiche. Cambiare è peraltro rischioso, perché chi beneficia sta zitto, e chi è colpito protesta: prova famosa fu l’Irap, imposta impopolarissima fin dalla sua introduzione benché nella media avesse ridotto il carico fiscale, e non di poco.

I margini sono scarsi. Non dimentichiamo che il grosso degli interventi futuri sul bilancio pubblico dovrà venire da tagli delle spese, nel nostro Paese sempre difficili. Già il governo si assume un rischio rinviando di fatto al 2014, causa recessione, il pareggio di bilancio promesso per il 2013. La misura giusta sta nell’indicare un obiettivo – pagare tutti per pagare meno – senza sollevare aspettative in eccesso.

La Stampa 21.02.12

“Pagare tutti per pagare davvero meno”, di Stefano Lepri

Non aspettiamoci di pagare presto meno tasse. Nemmeno Mario Monti può fare i miracoli. Possiamo però aspettarci un fisco più razionale e meno oppressivo. A questo anche servono i tecnici al governo: a disboscare la giungla creata da una politica inefficiente. Sommando favori a questi e a quelli, introducendo scappatoie a favore di interessi protetti, e procedendo per grida demagogiche, si è costruito un sistema contorto.

Un sistema capace di esasperare il contribuente mentre soffoca gli uffici tributari di lavoro in parte inutile. Certo è bene formalizzare la promessa che i ricavi della lotta all’evasione saranno restituiti alla generalità dei contribuenti. Dopo le operazioni del fisco a Cortina, in alcune grandi città e ora a Courmayeur, si tratta di una scelta obbligata, di chiarezza. Tanto più è necessaria a un governo che nell’urgenza è stato costretto a puntare più sulle tasse che, come avrebbe preferito, sui tagli di spesa.

La stessa promessa l’avevamo già ascoltata altre volte. In questo caso, può confortarci un poco l’esperienza recente. A giudicare da alcuni dati, davvero i comportamenti dei contribuenti sono mutati secondo le scelte dei governi, e abbastanza in fretta. Qui l’Italia è un interessante oggetto di studio per esperti anche stranieri. Nell’attuale legislatura il gettito Iva è calato dalla seconda metà del 2008, quando il governo Berlusconi cancellò certe misure stringenti, e si è ripreso dall’autunno 2009 in poi, dopo che Giulio Tremonti trovò opportuno in parte reintrodurle e annunciò un maggior impegno contro l’evasione.

Non è dunque impossibile recuperare. Si tratta di un’azione doppiamente utile. Non sono in conflitto in questo caso i due tradizionali obiettivi dell’equità e dell’efficienza, grande argomento di contrasto fra destra e sinistra. Far pagare le tasse a tutti non è solo giusto, aumenta anche la produttività della nostra economia, come ha ricordato ieri il presidente dell’Istat Enrico Giovannini. La gara tra le imprese è distorta se i profitti vengono più facilmente dall’evasione tributaria invece che da produrre beni e servizi migliori a costi più bassi.

In tante transazioni della vita quotidiana la convenienza a evadere è di entrambe le parti, del ristoratore e del cliente, dell’idraulico e di chi lo chiama a riparare, e così via. Non esistono rimedi miracolosi. Può aiutare che si percepisca mutato l’umore pubblico del Paese; serve a molto che l’amministrazione pubblica si mostri efficace nel colpire. Un problema che va risolto quanto prima – se non altro il governo ne è cosciente – è che la durezza delle sanzioni di Equitalia si deve dirigere contro i bersagli giusti; altrimenti si rischia che un identico malcontento unisca persone perbene ed evasori.

Un sistema fiscale razionale è fatto di un numero minore di imposte, con un minor numero di esenzioni e agevolazioni. Non pochi contribuenti sarebbero disposti anche a pagare di più se perdessero meno tempo nelle pratiche. Cambiare è peraltro rischioso, perché chi beneficia sta zitto, e chi è colpito protesta: prova famosa fu l’Irap, imposta impopolarissima fin dalla sua introduzione benché nella media avesse ridotto il carico fiscale, e non di poco.

I margini sono scarsi. Non dimentichiamo che il grosso degli interventi futuri sul bilancio pubblico dovrà venire da tagli delle spese, nel nostro Paese sempre difficili. Già il governo si assume un rischio rinviando di fatto al 2014, causa recessione, il pareggio di bilancio promesso per il 2013. La misura giusta sta nell’indicare un obiettivo – pagare tutti per pagare meno – senza sollevare aspettative in eccesso.

La Stampa 21.02.12

"Il Grande Capitale vuole il bis", di Massimo Giannini

Dopo i riconoscimenti della City e di Wall Street, era fin troppo facile prevedere che Mario Monti avrebbe mietuto successi anche a Piazza Affari. Milano è la sua “casa”, in ogni senso. Da anni non è più la “capitale morale” del Paese. Ma resta pur sempre il cuore dell´economia e della finanza italiana. E oggi questo cuore batte palesemente per il Professore. Non è un´opinione, ma una constatazione. Quello di Monti non è il “governo dei Poteri Forti”, ma è un fatto che i Poteri Forti sostengono il governo di Monti. I “montiani” non sono tutti banchieri, ma è un altro fatto che tutti i banchieri sono “montiani”. Per constatarlo basta ascoltare i pensieri e le parole di quello che una volta si chiamava il “gotha” dell´economia e della finanza italiana, riunito a Palazzo Mezzanotte per sentire il presidente del Consiglio.
Da Giovanni Bazoli a Federico Ghizzoni, da Enrico Cucchiani a Luigi Abete. Da Fulvio Conti a Franco Bernabè, da Marco Tronchetti Provera a Flavio Cattaneo. Non trovi un solo esponente della business community che non guardi al “governo strano” come alla sola ancora di salvezza per un´Italia alla deriva. Soprattutto, che non si affidi alla cultura del “tecnico” per evitare di ricadere nell´impostura del “politico”. Un ragionamento che non vale solo per l´oggi. Chi opera in Borsa e muove ogni giorno qualche miliardo di euro, non può non apprezzare qui ed ora l´effetto Monti sui mercati: dal famigerato “Btp Day” del 28 novembre 2011, quando i rendimenti sui nostri titoli di Stato superarono l´8%, i tassi si sono quasi dimezzati e i prezzi sono lievitati. Se rivendesse oggi, chi avesse investito allora guadagnerebbe il 10,2% sui Btp a 5 anni, il 12% sui Btp a 10 anni e addirittura il 16,1% sui Btp indicizzati all´inflazione. Un affarone.
Il passaggio di fase, che non riguarda il presente ma il futuro, lo sintetizza un noto banchiere: “Il problema non è quello che succede oggi, ma quello che succederà nel 2013. Pd e Pdl, Terzo Polo e Idv pensano davvero di tornare in campo come una volta, magari senza nemmeno aver cambiato la legge elettorale? Questo Paese ha bisogno di una transizione più lunga, e solo Monti la può garantire. Non basta la parentesi di un anno per fare tutte le riforme che servono”. Un altro banchiere, ancora più noto, si spinge più in là: “Un anno di Monti non basta a noi, ma non basta neanche ai mercati. Perché lo spread non cala più di tanto? Perché gli investitori si fidano dell´Italia di adesso, ma non di quella che uscirà fuori dalle urne del 2013”. Una lettura confortata da un indicatore oggettivo: la curva del differenziale tra i tassi sui titoli italiani e quelli tedeschi, da alcune settimane, è scesa in modo strutturale e più marcato sui Btp a 2 anni, che non su quelli a 10. È la conferma che i mercati, paradossalmente, comprano Italia sul breve ma non sul lungo termine.
La “corrente montiana” non agita solo le acque della palude stagnante e inconcludente dei partiti, come dimostrano le fibrillazioni di Palazzo innescate dalla sortita di Walter Veltroni. Attraversa impetuosa, e in questo caso pienamente condivisa, anche l´establishment italiano. Se un ex leader del Pd non vuole “regalare Monti alla destra”, quel simulacro nazionale di “borghesia produttiva” non vuole “regalare l´Italia ai partiti”. C´è una classe dirigente che considera l´esperimento del Professore un punto di non ritorno. Dopo questo governo niente potrà e dovrà essere più prima. Quindi, bisogna trovare il modo di prolungare la “formula” per almeno un´altra legislatura. Troppe e troppo complesse sono ancora le riforme da fare. Non solo la crescita, il mercato del lavoro, le liberalizzazioni. A questo governo la comunità degli affari chiede di tutto e di più. Abbattere “i privilegi della casta” e fare le “vere privatizzazioni”, valorizzare il patrimonio immobiliare e “rifondare la pubblica amministrazione”, ripensare le Authority e portare le piccole imprese in Borsa. Non un programma emergenziale. Piuttosto un piano quinquennale. Oltre tutto, da portare avanti “senza ascoltare le parti sociali”. Cioè senza farsi bloccare dai sindacati.
Qui si annida la vera incognita, nell´endorsement che il Grande Capitale offre al premier con il suo lunghissimo applauso. Piaccia o no, quello di Monti è vissuto da tanta parte del Paese come il governo delle élite. Un governo che rischia di essere appiattito sulla frontiera di un´altra antipolitica. Stavolta calata dall´alto e non salita dal basso. Ma il risultato non cambia. Il Professore, opportunamente, prova a sottrarsi. L´insistenza con la quale ribadisce il suo mandato “a termine” è credibile: dire che questo governo è “di breve durata”, ed ha come orizzonte massimo “la prossima primavera”, è un modo per sollecitare la politica a riappropriarsi del suo primato. Il passaggio sui Salotti Buoni è ineccepibile: dire che “in passato hanno tutelato bene l´esistente e consentito la sopravvivenza un po´ forzata dell´italianità di alcune aziende, impedendo la distruzione creatrice schumpeteriana”, è un modo per accusare i capitalisti in nome del capitalismo.
Ma al fondo, e prima ancora di capire cosa accadrà nel 2013, il problema di Monti è ancora una volta quello di costruirsi un vero “popolo”. Di guadagnarsi sul campo, con l´equità fiscale e la giustizia sociale, un consenso che vada ben oltre il pur importante “recinto” di Piazza Affari. L´Italia si è finalmente liberata del governo populista del Cavaliere. Ma aspetta ancora il governo popolare del Professore.
m.gianninirepubblica.it

La Repubblica 21.02.12

******

I cento giorni del “montismo”, di FILIPPO CECCARELLI

Cento giorni per il governo Monti, ma si ha un certo ritegno a chiamarla luna di miele. Troppo sdolcinata la metafora per designare una stagione di dolorosi sacrifici e indispensabile continenza. Però dopo tre mesi il consenso per l´esperimento tecnico si avverte e la popolarità appare in crescita. All´estero vabbè, era anche scontata. La copertina di Time, gli elogi di Obama, gli applausi di Strasburgo, il capogruppo socialdemocratico che in aula ha ufficializzato la più impetuosa onomastica, “SuperMario”, al che questo strano presidente italiano si è potuto concedere l´ennesima attestazione di sobrietà: “No, no, solo Mario”.
Ma pure qui: altro che lacrime e sangue. Non che manchino, certo, ma ancora di più pesano le paure che tutto torni com´era prima. E se nel Palazzo è doveroso registrare l´appoggio dei partiti screditati, inguaiati ed esautorati, nel Paese già si parla di “era del loden”. Non per caso a Sanremo, specchio delle rappresentazioni domestiche, il tormentone inscenato era quello di stringere i pugni affermando con intensità: “Stiamo tecnici”, e nell´indeterminatezza delle parole riposa spesso il senso del potere.
L´osservazione politica, del resto, ha imparato a vivere di segni anche strambi, o contraddittori, ma al tempo stesso futili e decisivi. Per cui si segnala che l´altro giorno, in due sedi diverse, Monti ha raccolto le lodi di Aldo Busi e Sophia Loren. Dal Fatto ai rotocalchi, da Furio Colombo ad Alfonso Signorini, che in un accesso di inattesa morigeratezza è arrivato a deprecare l´uso di pistole caricate a champagne in certe feste che sa lui. E a Palazzo Pitti Uomo riscoprono le virtù dei colori più tradizionali, il blu e il grigio.
Certo poi l´Italia rimane l´Italia; e presto arriveranno le statuette del Professore da mettere nel presepe napoletano. Ma tale è il fervore di temperanza che con qualche senso di colpa, ma anche col dubbio che le vie del successo sono imprevedibili, comunque si dà conto di un sito d´incontri online che si reclamizzava con una bella signora dal maestoso seno e ammiccante: «Questa sera vuoi fare un po´ di governo tecnico? Allora registrati gratis».
Ecco: tutto sono stati, questi cento giorni, fuorché gratis. Ma è pure vero che tutto è cambiato e tutto di colpo è parso invecchiare. Un virtuoso della comunicazione come Carlo Freccero ha evocato un terremoto; un oppositore come Maroni un meteorite. E anche qui pare ingenua piaggeria attribuirne ai tecnici la responsabilità, ma l´impressione è che sentimentalismi, intimismi, narcisismi, esibizionismi, e poi eccessi, maleducazioni, ospitate, pagliacciate, smargiassate, turpiloqui e altre indecenze a partire dalla fine del 2011 si siano abbastanza tolte di mezzo.
Ovvio che un governo dovrebbe soprattutto governare; e da questo punto di vista, considerata l´emergenza economica e quindi lo stato d´eccezione, parecchio è stato fatto, vedi le pensioni. Ma è il cambiamento di stile che appare specialmente vistoso. Dagospia lo presenta all´insegna del “Rigor Montis”. Per dire, posto dinanzi al primo buffet istituzionale, il presidente si è come bloccato: “Mi basta un panino”; e due settimane fa al trio ABC ha offerto riso in bianco e fettina. E per quanto con astuta dose d´ambiguità e ipocrisia il governo è riuscito a tenersi lontano dalle grane – Cosentino, la giustizia, la nave, la neve, la Rai – intanto i ministri viaggiano per Roma con il car–sharing, la presidenza emana spending-review dal sapore penitenziale e i giornalisti si paghino il volo. A Capodanno uno sprovveduto Calderoli ha provato a montare un caso su un presunto party di famiglia a Palazzo Chigi, beccandosi una noterella che è una piccola perla di sarcasmo: «Il presidente Monti non può escludere che dato il numero relativamente elevato degli ospiti, ci possano essere stati oneri lievemente superiori per consumo di luce, acqua e gas».
Certo, l´immaginario tecnocratico di un governo di primi della classe sembra assai meno divertente da raccontare delle sgangheratissime buffonerie che pure gli hanno aperto un´autostrada. Ma forse è molto più difficile da comprendere, sottile ed esteso come il dominio dei mercati e delle organizzazioni sovranazionali. Grosso modo assomiglia a una macchina, con quel tanto di disumano che comporta, vive di calcoli, campus, lingue straniere, uffici studi, discreti club, eccellenza, reputazione, formalità. In Italia, fattosi potere, rivela anche una certa attitudine, più che pedagogica, per così dire rieducativa (posto fisso, mammismo, buonismo, laureati sfigati).
Di suo, Monti reca in dote all´impegno civile enorme prestigio, sicura competenza, invidiabile flemma, anzi prodigioso autocontrollo. Ma dietro “l´alta ispirazione elitaria” del suo governo, come scrive Giuseppe De Rita, pare di scorgere una distanza, un´estraneità, un senso di naturale superiorità che può farsi altezzoso nei confronti di quell´entità che pur tra mille abusi lessicali ha il nome di popolo.
La faccenda può farsi problematica perché da cento giorni i partiti, già stremati, non ci sono proprio più. Monti dice che poi torneranno – ma su questo, almeno al momento, non c´è luna di miele che possa convincere che lui lo pensa davvero e che sul serio avverrà.

La Repubblica 21.02.12

“Il Grande Capitale vuole il bis”, di Massimo Giannini

Dopo i riconoscimenti della City e di Wall Street, era fin troppo facile prevedere che Mario Monti avrebbe mietuto successi anche a Piazza Affari. Milano è la sua “casa”, in ogni senso. Da anni non è più la “capitale morale” del Paese. Ma resta pur sempre il cuore dell´economia e della finanza italiana. E oggi questo cuore batte palesemente per il Professore. Non è un´opinione, ma una constatazione. Quello di Monti non è il “governo dei Poteri Forti”, ma è un fatto che i Poteri Forti sostengono il governo di Monti. I “montiani” non sono tutti banchieri, ma è un altro fatto che tutti i banchieri sono “montiani”. Per constatarlo basta ascoltare i pensieri e le parole di quello che una volta si chiamava il “gotha” dell´economia e della finanza italiana, riunito a Palazzo Mezzanotte per sentire il presidente del Consiglio.
Da Giovanni Bazoli a Federico Ghizzoni, da Enrico Cucchiani a Luigi Abete. Da Fulvio Conti a Franco Bernabè, da Marco Tronchetti Provera a Flavio Cattaneo. Non trovi un solo esponente della business community che non guardi al “governo strano” come alla sola ancora di salvezza per un´Italia alla deriva. Soprattutto, che non si affidi alla cultura del “tecnico” per evitare di ricadere nell´impostura del “politico”. Un ragionamento che non vale solo per l´oggi. Chi opera in Borsa e muove ogni giorno qualche miliardo di euro, non può non apprezzare qui ed ora l´effetto Monti sui mercati: dal famigerato “Btp Day” del 28 novembre 2011, quando i rendimenti sui nostri titoli di Stato superarono l´8%, i tassi si sono quasi dimezzati e i prezzi sono lievitati. Se rivendesse oggi, chi avesse investito allora guadagnerebbe il 10,2% sui Btp a 5 anni, il 12% sui Btp a 10 anni e addirittura il 16,1% sui Btp indicizzati all´inflazione. Un affarone.
Il passaggio di fase, che non riguarda il presente ma il futuro, lo sintetizza un noto banchiere: “Il problema non è quello che succede oggi, ma quello che succederà nel 2013. Pd e Pdl, Terzo Polo e Idv pensano davvero di tornare in campo come una volta, magari senza nemmeno aver cambiato la legge elettorale? Questo Paese ha bisogno di una transizione più lunga, e solo Monti la può garantire. Non basta la parentesi di un anno per fare tutte le riforme che servono”. Un altro banchiere, ancora più noto, si spinge più in là: “Un anno di Monti non basta a noi, ma non basta neanche ai mercati. Perché lo spread non cala più di tanto? Perché gli investitori si fidano dell´Italia di adesso, ma non di quella che uscirà fuori dalle urne del 2013”. Una lettura confortata da un indicatore oggettivo: la curva del differenziale tra i tassi sui titoli italiani e quelli tedeschi, da alcune settimane, è scesa in modo strutturale e più marcato sui Btp a 2 anni, che non su quelli a 10. È la conferma che i mercati, paradossalmente, comprano Italia sul breve ma non sul lungo termine.
La “corrente montiana” non agita solo le acque della palude stagnante e inconcludente dei partiti, come dimostrano le fibrillazioni di Palazzo innescate dalla sortita di Walter Veltroni. Attraversa impetuosa, e in questo caso pienamente condivisa, anche l´establishment italiano. Se un ex leader del Pd non vuole “regalare Monti alla destra”, quel simulacro nazionale di “borghesia produttiva” non vuole “regalare l´Italia ai partiti”. C´è una classe dirigente che considera l´esperimento del Professore un punto di non ritorno. Dopo questo governo niente potrà e dovrà essere più prima. Quindi, bisogna trovare il modo di prolungare la “formula” per almeno un´altra legislatura. Troppe e troppo complesse sono ancora le riforme da fare. Non solo la crescita, il mercato del lavoro, le liberalizzazioni. A questo governo la comunità degli affari chiede di tutto e di più. Abbattere “i privilegi della casta” e fare le “vere privatizzazioni”, valorizzare il patrimonio immobiliare e “rifondare la pubblica amministrazione”, ripensare le Authority e portare le piccole imprese in Borsa. Non un programma emergenziale. Piuttosto un piano quinquennale. Oltre tutto, da portare avanti “senza ascoltare le parti sociali”. Cioè senza farsi bloccare dai sindacati.
Qui si annida la vera incognita, nell´endorsement che il Grande Capitale offre al premier con il suo lunghissimo applauso. Piaccia o no, quello di Monti è vissuto da tanta parte del Paese come il governo delle élite. Un governo che rischia di essere appiattito sulla frontiera di un´altra antipolitica. Stavolta calata dall´alto e non salita dal basso. Ma il risultato non cambia. Il Professore, opportunamente, prova a sottrarsi. L´insistenza con la quale ribadisce il suo mandato “a termine” è credibile: dire che questo governo è “di breve durata”, ed ha come orizzonte massimo “la prossima primavera”, è un modo per sollecitare la politica a riappropriarsi del suo primato. Il passaggio sui Salotti Buoni è ineccepibile: dire che “in passato hanno tutelato bene l´esistente e consentito la sopravvivenza un po´ forzata dell´italianità di alcune aziende, impedendo la distruzione creatrice schumpeteriana”, è un modo per accusare i capitalisti in nome del capitalismo.
Ma al fondo, e prima ancora di capire cosa accadrà nel 2013, il problema di Monti è ancora una volta quello di costruirsi un vero “popolo”. Di guadagnarsi sul campo, con l´equità fiscale e la giustizia sociale, un consenso che vada ben oltre il pur importante “recinto” di Piazza Affari. L´Italia si è finalmente liberata del governo populista del Cavaliere. Ma aspetta ancora il governo popolare del Professore.
m.gianninirepubblica.it

La Repubblica 21.02.12

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I cento giorni del “montismo”, di FILIPPO CECCARELLI

Cento giorni per il governo Monti, ma si ha un certo ritegno a chiamarla luna di miele. Troppo sdolcinata la metafora per designare una stagione di dolorosi sacrifici e indispensabile continenza. Però dopo tre mesi il consenso per l´esperimento tecnico si avverte e la popolarità appare in crescita. All´estero vabbè, era anche scontata. La copertina di Time, gli elogi di Obama, gli applausi di Strasburgo, il capogruppo socialdemocratico che in aula ha ufficializzato la più impetuosa onomastica, “SuperMario”, al che questo strano presidente italiano si è potuto concedere l´ennesima attestazione di sobrietà: “No, no, solo Mario”.
Ma pure qui: altro che lacrime e sangue. Non che manchino, certo, ma ancora di più pesano le paure che tutto torni com´era prima. E se nel Palazzo è doveroso registrare l´appoggio dei partiti screditati, inguaiati ed esautorati, nel Paese già si parla di “era del loden”. Non per caso a Sanremo, specchio delle rappresentazioni domestiche, il tormentone inscenato era quello di stringere i pugni affermando con intensità: “Stiamo tecnici”, e nell´indeterminatezza delle parole riposa spesso il senso del potere.
L´osservazione politica, del resto, ha imparato a vivere di segni anche strambi, o contraddittori, ma al tempo stesso futili e decisivi. Per cui si segnala che l´altro giorno, in due sedi diverse, Monti ha raccolto le lodi di Aldo Busi e Sophia Loren. Dal Fatto ai rotocalchi, da Furio Colombo ad Alfonso Signorini, che in un accesso di inattesa morigeratezza è arrivato a deprecare l´uso di pistole caricate a champagne in certe feste che sa lui. E a Palazzo Pitti Uomo riscoprono le virtù dei colori più tradizionali, il blu e il grigio.
Certo poi l´Italia rimane l´Italia; e presto arriveranno le statuette del Professore da mettere nel presepe napoletano. Ma tale è il fervore di temperanza che con qualche senso di colpa, ma anche col dubbio che le vie del successo sono imprevedibili, comunque si dà conto di un sito d´incontri online che si reclamizzava con una bella signora dal maestoso seno e ammiccante: «Questa sera vuoi fare un po´ di governo tecnico? Allora registrati gratis».
Ecco: tutto sono stati, questi cento giorni, fuorché gratis. Ma è pure vero che tutto è cambiato e tutto di colpo è parso invecchiare. Un virtuoso della comunicazione come Carlo Freccero ha evocato un terremoto; un oppositore come Maroni un meteorite. E anche qui pare ingenua piaggeria attribuirne ai tecnici la responsabilità, ma l´impressione è che sentimentalismi, intimismi, narcisismi, esibizionismi, e poi eccessi, maleducazioni, ospitate, pagliacciate, smargiassate, turpiloqui e altre indecenze a partire dalla fine del 2011 si siano abbastanza tolte di mezzo.
Ovvio che un governo dovrebbe soprattutto governare; e da questo punto di vista, considerata l´emergenza economica e quindi lo stato d´eccezione, parecchio è stato fatto, vedi le pensioni. Ma è il cambiamento di stile che appare specialmente vistoso. Dagospia lo presenta all´insegna del “Rigor Montis”. Per dire, posto dinanzi al primo buffet istituzionale, il presidente si è come bloccato: “Mi basta un panino”; e due settimane fa al trio ABC ha offerto riso in bianco e fettina. E per quanto con astuta dose d´ambiguità e ipocrisia il governo è riuscito a tenersi lontano dalle grane – Cosentino, la giustizia, la nave, la neve, la Rai – intanto i ministri viaggiano per Roma con il car–sharing, la presidenza emana spending-review dal sapore penitenziale e i giornalisti si paghino il volo. A Capodanno uno sprovveduto Calderoli ha provato a montare un caso su un presunto party di famiglia a Palazzo Chigi, beccandosi una noterella che è una piccola perla di sarcasmo: «Il presidente Monti non può escludere che dato il numero relativamente elevato degli ospiti, ci possano essere stati oneri lievemente superiori per consumo di luce, acqua e gas».
Certo, l´immaginario tecnocratico di un governo di primi della classe sembra assai meno divertente da raccontare delle sgangheratissime buffonerie che pure gli hanno aperto un´autostrada. Ma forse è molto più difficile da comprendere, sottile ed esteso come il dominio dei mercati e delle organizzazioni sovranazionali. Grosso modo assomiglia a una macchina, con quel tanto di disumano che comporta, vive di calcoli, campus, lingue straniere, uffici studi, discreti club, eccellenza, reputazione, formalità. In Italia, fattosi potere, rivela anche una certa attitudine, più che pedagogica, per così dire rieducativa (posto fisso, mammismo, buonismo, laureati sfigati).
Di suo, Monti reca in dote all´impegno civile enorme prestigio, sicura competenza, invidiabile flemma, anzi prodigioso autocontrollo. Ma dietro “l´alta ispirazione elitaria” del suo governo, come scrive Giuseppe De Rita, pare di scorgere una distanza, un´estraneità, un senso di naturale superiorità che può farsi altezzoso nei confronti di quell´entità che pur tra mille abusi lessicali ha il nome di popolo.
La faccenda può farsi problematica perché da cento giorni i partiti, già stremati, non ci sono proprio più. Monti dice che poi torneranno – ma su questo, almeno al momento, non c´è luna di miele che possa convincere che lui lo pensa davvero e che sul serio avverrà.

La Repubblica 21.02.12

Con Pier Luigi Bersani a Bologna

Venerdì 24 febbraio alle ore 21.00 il segretario del PD Pier Luigi Bersani sarà a Bologna presso il Teatro Manzoni in via de’ Monari 1/2 per l’Iniziativa “Italia Bene comune”. Saranno presenti: Stefano Bonaccini, Segretario PD Emilia-Romagna, Raffaele Donini, Segretario PD Bologna, Vasco Errani, Presidente della Regione Emilia-Romagna , Beatrice Draghetti, Presidente della Provincia di Bologna, Virginio Merola, Sindaco di Bologna .
Sarà possibile seguire l’evento anche in diretta twitter su @pdernetwork utilizzando l’hashtag #italiabenecomune

In occasione della manifestazione “Italia bene comune” con il Segretario Pier Luigi Bersani, le unioni territoriali organizzeranno dei pullman per raggiungere l’iniziativa, clicca sul link in basso per maggiori informazioni su come prenotare.

A Bologna con Bersani – prenota il tuo posto per venire a Bologna

Economia sommersa: 1/3 della ricchezza prodotta in Italia

“Economia sommersa: una delle questioni più allarmanti della vita del nostro Paese”. Così ha commentato il Vicepresidente dei senatori del PD Luigi Zanda, i dati illustrati da Giorgio Ruffolo e Elio Veltri nel corso di una conferenza stampa in Senato di presentazione del documento: “Economia sommersa, illegale e criminale Analisi e proposte”. Zanda ha aggiunto che “varie Autorità hanno descritto nel dettaglio le attività criminali, ma questa è una questione ancora sottovalutata per gli effetti che comporta”. Ha spiegato che “il documento illustrato riprende un eguale denuncia fatta 3 anni fa sempre da Veltri e Ruffolo che ci aggiorna su un fenomeno che in Italia rappresenta un terzo della ricchezza prodotta”.

Impietosa è la fotografia scattata dai due studiosi che hanno sentito il bisogno di “offrire una valutazione complessiva di sintesi delle abnormi dimensioni raggiunte nel nostro Paese dall’economia sommersa, da quella illegale e criminale, da quella informale”. Il documento è stato elaborato senza alcuna indagine di polizia ma utilizzando dati e fonti aperte.

“La liberalizzazione dei capitali, la diffusione delle tecnologie e la globalizzazione economica e finanziaria hanno fatto la felicità delle organizzazioni criminali mondiali”, ha analizzato il giornalista e politico Elio Veltri, citando una ricerca condotta dal Senatore John Kerry con la collaborazione dell’Università di Pittsburgh, in cui viene esaminata la stretta relazione mafia-economia e mafia-democrazia delle cinque mafie più potenti del mondo (cinese, giapponese, russa, italiana, sudamericana).

Veltri ha affermato che “le organizzazioni criminali costituiscono la terza potenza economica mondiale, capaci di stravolgere le regole del mercato e di condizionare fortemente l’economia legale e la democrazia. Infatti, secondo i dati accertati da una società olandese, la Inter Risk Management che si occupa di riciclaggio, all’inizio del terzo millennio il PIL mondiale della criminalità organizzata ha toccato i 1.000 miliardi di dollari, cifra superiore ai bilanci di 150 paesi membri dell’Onu”.

“Nessun governo sarà mai in grado di impostare seriamente qualsiasi politica economico-sociale e garantire la qualità dei servizi del nostro Paese, senza che venga ridotta l’economia sommersa e quella criminal-mafiosa”, hanno concluso nel documento gli ex parlamentari Veltri e Ruffolo. “Deve essere combattuto il riciclaggio di denaro sporco che in Italia equivale a 10% del Pil (valore doppio della media mondiale) e investito almeno per un terzo nell’economia legale, colpendo alla radice la concorrenza e l’economia di mercato. Contrastata e ridotta la corruzione diffusa (pubblica e privata) che si annida nelle imprese, nella società e nella pubblica amministrazione e che, secondo i dati della Corte dei Conti, costa al Paese oltre 60 miliardi di euro all’anno. Devono essere impediti i conflitti di interesse sistematici – hanno aggiunto – che depotenziano il merito, la concorrenza, la competitività dell’intero sistema”.

“Il PD si è messo a disposizione per farsi parti attiva in Parlamento delle proposte illustrate nel documento – ha assicurato al termine della presentazione il vicepresidente Zanda – faremo di queste proposte il tormentone del Gruppo del PD in Senato fino a quando non saranno portate in Aula”.

Lo studio rileva che con un valore stimato in circa 500 miliardi di euro l’economia sommersa e criminal-mafiosa rappresenta un terzo della ricchezza nazionale.

“Un Paese a cui vengono sottratti 500 miliardi di euro non può fare politica economica. L’impatto dell’economia sommersa e criminale è spaventoso”, ha commentato Zanda. “Il premier Mario Monti sta contribuendo a mostrare al Paese come vadano isolati socialmente coloro che evadono e corrompono. Però affinchè la lotta sia efficace – ha sottolineato l’esponente democratico – serve un nuovo ordine mondiale, una maggiore integrazione europea, una risposta unitaria a un fenomeno che è internazionale. L’impegno deve avere lo stesso livello di intensità che si registra di fronte ad altre emergenze quali la questione ambientale, la crisi economica e la pace mondiale”.

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Donne, lo Svimez: “Al sud 560 mila disoccupate nascoste”

A due settimane dall’8 marzo, un dossier fotografa la situazione delle donne al Sud Italia. Studiano meglio e più degli uomini, ma è occupata solo 1 giovane su 4 e guadagna molto meno. Il peso dei vecchi modelli che resistono e di un welfare residuale. Nel Sud oltre mezzo milione di donne sfugge alle statistiche della disoccupazione ufficiale, così da portare il tasso di disoccupazione corretto nel 2010 al 30,6%. A queste vanno aggiunte 575 mila “scoraggiate”, disponibili a lavorare ma non in cerca di lavoro. Mentre le poche assunte regolarmente (tra le giovani meno di una su quattro) hanno uno stipendio inferiore di oltre il 30% rispetto a un uomo del Centro-Nord. A due settimane dall’8 marzo, la Svimez fotografa la situazione delle donne al Sud nel dossier “La condizione e il ruolo delle donne per lo sviluppo del Sud” di Luca Bianchi e Giuseppe Provenzano. Le elaborazioni Svimez prendono in esame la situazione delle donne al Sud dal 2008 al 2011.
Le donne nella crisi: occupate meno che in Grecia. In Italia in due anni, dal 2008 al 2010, oltre 100 mila donne hanno perso il posto di lavoro. Il Mezzogiorno è un caso unico: il tasso di occupazione femminile raggiunge appena il 30,4%, rispetto al 54,8% del Centro-Nord. Un divario dal resto d’Europa di quasi trenta punti (la media europea nel 2010 è 58,2%).
Oltre un milione di donne in un “cono d’ombra”. A fare la differenza tra il tasso di disoccupazione ufficiale del 15,4% e quello “corretto” sono le donne che non risultano né tra gli occupati né tra i disoccupati, ma che “informalmente” si barcamenano tra ricerche saltuarie e lavoro sommerso. In questo senso, includendo queste categorie, il tasso di disoccupazione corretto femminile al Sud nel 2010 schizzerebbe al 30,6%, il doppio di quello ufficiale. In cifre, i valori si triplicano: le 393 mila disoccupate ufficiali, unite alle 560 mila implicite, diventano 953mila.
Discorso a parte, poi, per le scoraggiate, disponibili a lavorare ma non in cerca di lavoro, in base alla definizione Istat. Delle 893 mila donne italiane che si trovano in questa condizione, per la ricerca Svimez 575 mila sono al Sud.
Meno di una su tre è regolarmente occupata: ma guadagna molto meno. Su una popolazione di donne di età 15-64 anni al Sud solo meno di una su tre, pari al 30,5%, lavora regolarmente. “Situazione ancora più critica se si considerano le donne under 34: qui il tasso di occupazione crolla al 23,3%, pari a meno di una su quattro”, si legge.
A complicare ulteriormente il quadro, la differenza di stipendio. In base all’analisi Svimez, a parità di qualifica, il gap tra donna del Sud e uomo del Centro-Nord supererebbe il 30%. In valori assoluti, a fronte di uno stipendio di un maschio del Centro-Nord si 19.149 euro, una donna del Sud porterebbe a casa al 27 del mese solo 13.361 euro.
Il grande paradosso delle donne laureate: studiare non serve. Eppure le donne meridionali sono state protagoniste di una grande rivoluzione culturale. In rapporto alla popolazione, le ragazze del Sud diplomate sono passate dall’85,1% del 2000 al 94% del 2009, circa un punto percentuale in più rispetto al Centro-Nord. Ancora meglio sul fronte universitario: le meridionali laureate sono il 18,9% sul totale della popolazione 30-34 anni, quasi 7 punti in più dei maschi (12,3%), pur se distante dalla performance del Centro-Nord (27,1%) e da ogni confronto europeo. “Ma studiare, per le donne, non basta – si rileva -: tra le dipendenti sono troppo poche le dirigenti (appena il 26% rispetto a una quota di occupazione femminile totale del 35% al Sud, e ancora relativamente meno nel Centro-Nord, con il 27% a fronte del 42% di occupazione femminile); tra le lavoratrici autonome, sono troppo bassi i livelli di libere professioniste e lavoratrici in proprio, di associate in cooperativa, mentre spicca il livello abnorme di lavoratrici co.co.co (il 65% del totale è donna, contro il 55,6% nel Centro-Nord)”.
Il paradosso delle donne meridionali, si legge nel dossier, è quello “di essere le punte più avanzate della ‘modernizzazione’ del Sud (persino sul piano civile) – perché hanno investito in un percorso di formazione e di conoscenza che li rende depositari di quel “capitale umano” che serve per competere nel mondo di oggi – e insieme le vittime designate di una società più immobile che altrove, e dunque più ingiusta, che finisce per sottoutilizzare o espellere le sue energie migliori”.
Vecchi modelli che resistono: a casa con bambini e anziani. Il sistema di welfare familiare e informale che ancora in molti casi è dominante nel Mezzogiorno si regge sulla donna, non lavoratrice, costretta ad un ruolo casalingo secondo un modello sociale tradizionale: allevare i bambini, accudire gli anziani. Nel 2009, la percentuale di bambini da 0 a 3 anni che hanno usufruito dei servizi per l’infanzia (essenzialmente asili nido) è stata pari al 5% al Sud (anche se va detto che era il 4,1% nel 2006), contro il 17,9% del Centro-Nord (nel 2006 era il 15,9%). “Il welfare certo non sostiene le donne del Sud – si precisa -: nel 2008 in base a elaborazioni Svimez la spesa comunale per interventi e servizi sociali è stata al Nord Est di 155 euro pro capite, al Sud di 52 euro, tre volte di meno. Spicca su tutti il caso dell’assistenza ai disabili, che vede il Nord Est con oltre 5 mila euro a testa a fronte dei 657 del Sud”.
Le donne che se ne vanno. Se vogliono trovare maggiori possibilità di impiego, allora, sono costrette ad emigrare. Nel 2010, 55.500 donne hanno lasciato il Sud trasferendo la residenza al Centro-Nord, pari al 48% del totale (114mila). Numerose anche le pendolari di lungo raggio, (residenti meridionali che lavorano nel Centro-Nord), pari nel 2010 a 33mila, il 24,6% del totale (134mila).

da Redattore Sociale