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“L’esempio di Berlino”, di Barbara Spinelli

Conviene non dimenticare come nacque la candidatura di Christian Wulff, nel 2010. Nacque molto male, perché Angela Merkel s´era incaponita sul suo nome. Lo preferì a quello di un personaggio di ben altra statura. Se i tedeschi avessero potuto eleggere direttamente il capo dello Stato, senz´altro avrebbero scelto Joachim Gauck, non il grigio uomo d´apparato democristiano. Gauck era l´uomo del momento giusto, per la successione di Horst Köhler alla massima carica dello Stato. Per aver conosciuto la paura quando era un pastore dissidente nella Germania comunista, sapeva quel che significa pensare con la propria testa, resistere, affrontare tempi difficili come i nostri.
Assieme a Havel, era stato uno dei rari dissidenti che non solo aveva combattuto il totalitarismo ma era stato capace di guardare dentro se stesso, di intuire quello che può fare, di ogni uomo, un conformista o un ideologo, a seconda delle necessità e delle convenienze. Per dieci anni, fra il 1990 e il 2000, aveva diretto un´istituzione essenziale per l´unificazione tedesca e la rinascita democratica in Germania Est: l´autorità che archivia e mette a disposizione del pubblico gli atti della Stasi (servizi di sicurezza dell´Est). L´ex pastore era il candidato proposto da socialdemocratici e verdi, la sua popolarità nei sondaggi era immensa.
Angela Merkel predilesse Wulff, per mediocri calcoli di partito e probabilmente perché Gauck era figura troppo imponente per lei. L´outsider amato dai tedeschi l´avrebbe messa in ombra. Più segretamente, forse, contava anche la vita diversa che ciascuno dei due aveva avuto nella Germania comunista: dissidente lui, non comunista ma certamente conformista lei. Di Wulff non si conoscevano disonestà, quando fu designato. Ma era un personaggio senza spessore, senza grande passato. Ora che sono venuti alla luce tante macchie, e un intreccio così importante fra interessi pubblici e privati, la scelta del Cancelliere appare ancora più incongrua, e ottusa.
Wulff è il figlio della meschinità politica, del pensare corto e piccolo che ha prevalso in questi anni ai vertici tedeschi, specialmente democristiani. Roland Nessel, editorialista dello Spiegel, gli ha affibbiato un nomignolo: il Presidente altro non era che un Gernegroß, un «vorrei esser grande». In Italia diremmo: un «vorrei ma non posso». In Germania i capi di Stato non hanno poteri vasti come in Francia e America; non sono neanche paragonabili ai colleghi italiani. Da loro ci si aspetta tuttavia un senso acuto dell´etica pubblica, un´attitudine leggermente aristocratica a volare alto: a dire – nei momenti critici – parole possenti e decisive. Cruciali furono nel dopoguerra, e poi tra gli anni ´70 e ´90, presidenti come Theodor Heuss, Gustav Heinemann, Richard Von Weizsäcker, Roman Herzog, Johannes Rau. Il declino della carica comincia nel 2004, con il predecessore di Wulff che fu Horst Köhler. Tutti e due sono stati uomini della Merkel, costretti a dimettersi prima del tempo.
Detto questo, la caduta di Wulff è un giorno memorabile per la democrazia tedesca. I legami del Presidente con finanzieri poco fidati, la maniera in cui aveva ottenuto crediti agevolati grazie ai favori dell´industriale Geerkens, ai tempi in cui era presidente della Bassa Sassonia, i piccoli favori ottenuti dal magnate dell´industria cinematografica David Groenewold: simili reati non reggono il paragone con la corruzione che mina la politica italiana, ma sono insopportabili per i tedeschi. Sono il segno che i partiti nelle loro chiuse cucine possono sbagliare e deviare dall´etica pubblica, ma che nella società esistono fortissimi anticorpi, pronti a reagire a ogni sorta di malaffare, di bugia detta dal potere. E tutto questo, prima che comincino i processi veri e propri. Un caso Cosentino è impensabile in Germania. L´ultimo scandalo fu quello del ministro della Difesa Karl-Theodor zu Guttenberg, costretto a dimettersi nel marzo 2011, quando si scoprì che la sua tesi di dottorato era frutto di plagio. Anche Guttenberg era uomo della Merkel.
Non ci sono grandi personalità a guidare la Germania, ma il controllo sociale sulla politica è intenso, e le campagne stampa godono dell´appoggio della popolazione. L´uguaglianza di tutti davanti alla legge è una regola aurea cui la nazione e le sue classi dirigenti non rinunciano. L´una e le altre non indietreggiano davanti ai capi di Stato. Non lasciano soli i magistrati e i giornalisti, a fare le loro inchieste. Per questo i risultati di tali battaglie sono tangibili, e tempestivi.
Non così in Italia. Sono stati necessari la crisi economica e lo spread impazzito, perché Berlusconi venisse spinto fuori dall´arena politica. E ancor oggi la corruzione dilaga, ancor oggi l´operazione Mani Pulite è ricordata con sospetto, rancore: per alcuni il malcostume ha toccato le vette odierne non malgrado, ma a causa dei procedimenti contro Tangentopoli. C´è perfino chi ritiene non irrealizzabile il sogno di Berlusconi di salire un giorno al Quirinale. Speriamo che la Germania diventi un esempio per il funzionamento della sua democrazia, e non solo per la disciplina finanziaria che sta imponendo all´Unione europea.

La Repubblica 18.02.12

"Basta con le parole della destra sulla crisi, serve una base comune", di Stefano Fassina

Le fantasiose e strumentali ricostruzioni giornalistiche dell’oggetto di un seminario organizzato dal sottoscritto e altri dirigenti del Pd hanno alimentato un dibattito utile, come confermano gli interventi di Pierluigi Castagnetti e Franco Marini su questo giornale. Tuttavia, l’attenzione è stata concentrata su un inesistente documento «da presentare agli organi dirigenti» per una presunta «proposta di trasformare il Pd in un partito socialdemocratico sullo schema del Partito socialista europeo» (Eugenio Scalfari, domenica scorsa).
Chiarita l’assenza dell’uno e dell’altra, sulle ragioni economiche e politiche delle relazioni con i partiti progressisti europei ha scritto bene qui Matteo Orfini e, soprattutto, ha risposto a Scalfari su Repubblica, con saggezza e chiarezza, Pier Luigi Bersani. Mi preme soltanto aggiungere un punto: le forze costitutive del Pd non sono le uniche al mondo consapevoli del «tempo nuovo». I partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti europei non sono «cani morti». Sono, almeno quanto il Pd, alla ricerca di risposte adeguate, quindi innovative, a sfide inedite. Hanno capito anche loro che il Novecento è finito e, con esso, il fordismo, l’operaio massa, il partito di massa, il consumo di massa e il keynesismo nazionale. Sono, anche loro, ma in modo meno correntizio e personalistico, plurali sul piano delle culture politiche.
È vero, gli altri non hanno cambiato tre o quattro volte denominazione al “contenitore”, come hanno fatto, invece, in continuità di contenuti, i partiti fondatori del Pd dopo la caduta del Muro di Berlino e Tangentopoli. Si continuano a chiamare socialisti, socialdemocratici e laburisti, ma non sono fermi a Bad Godesberg. Rappresentano, in media, un terzo dell’elettorato dei rispettivi Paesi e sono attesi al Governo nelle due più grandi nazioni dell’area euro. Forse, qualche informazione in più sulla realtà effettiva della variegata e dinamica famiglia socialista europea aiuterebbe una discussione meno astratta e fuorviante.
Le fantasiose e strumentali ricostruzioni giornalistiche hanno messo in ombra l’oggetto prioritario del seminario del prossimo 1 ̊ Marzo: le letture della «Grande Transizione» in corso, in particolare la lettura data dalla Chiesa di Benedetto XVI. In altri termini, il tentativo di contribuire a dare al Pd «una base politico-culturale comune» della quale lamentano l’assenza, non senza ragioni, Emanuele Macaluso e Paolo Franchi nei loro commenti allo scambio Scalfari-Bersani.
I promotori del seminario sono convinti che il secolare pensiero sociale della Chiesa, aggiornato nell’analisi del passaggio di fase in atto, offre l’opportunità per rianimare e amalgamare in un impasto inedito e adeguato alle sfide del tempo le rinsecchite culture politiche approdate nel Pd. In particolare, considerano che la Caritas in veritate e i documenti vaticani tematici a essa seguiti (ad esempio, il position paper del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace per il G20 di Cannes), definiscono un terreno di confronto straordinariamente fertile anche per chi, contaminato in gioventù dal socialismo europeo, ritiene decisivo per un partito progressista del XXI secolo andare oltre i confini del liberalismo, orientare l’identità del Pd verso la valorizzazione della persona che lavora e recuperare dalla improvvisata soffitta del nuovismo l’ambizione a dare soggettività politica autonoma al lavoro subordinato, in tutte le sue forme, per nutrire una democrazia effettiva.
Oggi è evidente che il neoliberismo ha fallito: la svalutazione del lavoro, incluse le classi medie, come via della competitività è insostenibile sul piano economico e democratico. Tuttavia, la concentrazione di ricchezza e, conseguentemente, potere economico, politico e mediatico sostenuta dal neoliberismo nell’ultimo trentennio continua a imporre l’agenda di policy (vedi il dramma Grecia). Siamo al «trionfo delle idee fallite» anche perché il neoliberismo, seppure in versione light, ha segnato le «terze vie» e, da noi, i derivati del Pci e di parte della Dc (quella di centrosinistra), e, inevitabilmente, i primi passi del Pd. Al punto che, sulla questione cruciale del lavoro, una parte di noi, una minoranza, per fortuna trasversale alle antiche provenienze, persevera: usa il lessico della destra, inventa i «lavoratori iper-garantiti» e accusa di razzismo generazionale i sindacati in quanto responsabili dell’«apartheid» dei precari.
Per il Pd, il consolidamento di una base culturale comune è necessario, oltre che possibile. Senza una lettura condivisa del tornante storico è difficile strutturare un’identità autonoma. Senza sicurezza di sé, si ha paura dell’altro. Così, qualunque movimento rispetto alla famiglia dei socialisti europei è impossibile o forzato e disgregativo. Ma senza un soggetto dei progressisti europei siamo impotenti e perdenti nei confini nazionali.

L’Unità 18.02.12

“Basta con le parole della destra sulla crisi, serve una base comune”, di Stefano Fassina

Le fantasiose e strumentali ricostruzioni giornalistiche dell’oggetto di un seminario organizzato dal sottoscritto e altri dirigenti del Pd hanno alimentato un dibattito utile, come confermano gli interventi di Pierluigi Castagnetti e Franco Marini su questo giornale. Tuttavia, l’attenzione è stata concentrata su un inesistente documento «da presentare agli organi dirigenti» per una presunta «proposta di trasformare il Pd in un partito socialdemocratico sullo schema del Partito socialista europeo» (Eugenio Scalfari, domenica scorsa).
Chiarita l’assenza dell’uno e dell’altra, sulle ragioni economiche e politiche delle relazioni con i partiti progressisti europei ha scritto bene qui Matteo Orfini e, soprattutto, ha risposto a Scalfari su Repubblica, con saggezza e chiarezza, Pier Luigi Bersani. Mi preme soltanto aggiungere un punto: le forze costitutive del Pd non sono le uniche al mondo consapevoli del «tempo nuovo». I partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti europei non sono «cani morti». Sono, almeno quanto il Pd, alla ricerca di risposte adeguate, quindi innovative, a sfide inedite. Hanno capito anche loro che il Novecento è finito e, con esso, il fordismo, l’operaio massa, il partito di massa, il consumo di massa e il keynesismo nazionale. Sono, anche loro, ma in modo meno correntizio e personalistico, plurali sul piano delle culture politiche.
È vero, gli altri non hanno cambiato tre o quattro volte denominazione al “contenitore”, come hanno fatto, invece, in continuità di contenuti, i partiti fondatori del Pd dopo la caduta del Muro di Berlino e Tangentopoli. Si continuano a chiamare socialisti, socialdemocratici e laburisti, ma non sono fermi a Bad Godesberg. Rappresentano, in media, un terzo dell’elettorato dei rispettivi Paesi e sono attesi al Governo nelle due più grandi nazioni dell’area euro. Forse, qualche informazione in più sulla realtà effettiva della variegata e dinamica famiglia socialista europea aiuterebbe una discussione meno astratta e fuorviante.
Le fantasiose e strumentali ricostruzioni giornalistiche hanno messo in ombra l’oggetto prioritario del seminario del prossimo 1 ̊ Marzo: le letture della «Grande Transizione» in corso, in particolare la lettura data dalla Chiesa di Benedetto XVI. In altri termini, il tentativo di contribuire a dare al Pd «una base politico-culturale comune» della quale lamentano l’assenza, non senza ragioni, Emanuele Macaluso e Paolo Franchi nei loro commenti allo scambio Scalfari-Bersani.
I promotori del seminario sono convinti che il secolare pensiero sociale della Chiesa, aggiornato nell’analisi del passaggio di fase in atto, offre l’opportunità per rianimare e amalgamare in un impasto inedito e adeguato alle sfide del tempo le rinsecchite culture politiche approdate nel Pd. In particolare, considerano che la Caritas in veritate e i documenti vaticani tematici a essa seguiti (ad esempio, il position paper del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace per il G20 di Cannes), definiscono un terreno di confronto straordinariamente fertile anche per chi, contaminato in gioventù dal socialismo europeo, ritiene decisivo per un partito progressista del XXI secolo andare oltre i confini del liberalismo, orientare l’identità del Pd verso la valorizzazione della persona che lavora e recuperare dalla improvvisata soffitta del nuovismo l’ambizione a dare soggettività politica autonoma al lavoro subordinato, in tutte le sue forme, per nutrire una democrazia effettiva.
Oggi è evidente che il neoliberismo ha fallito: la svalutazione del lavoro, incluse le classi medie, come via della competitività è insostenibile sul piano economico e democratico. Tuttavia, la concentrazione di ricchezza e, conseguentemente, potere economico, politico e mediatico sostenuta dal neoliberismo nell’ultimo trentennio continua a imporre l’agenda di policy (vedi il dramma Grecia). Siamo al «trionfo delle idee fallite» anche perché il neoliberismo, seppure in versione light, ha segnato le «terze vie» e, da noi, i derivati del Pci e di parte della Dc (quella di centrosinistra), e, inevitabilmente, i primi passi del Pd. Al punto che, sulla questione cruciale del lavoro, una parte di noi, una minoranza, per fortuna trasversale alle antiche provenienze, persevera: usa il lessico della destra, inventa i «lavoratori iper-garantiti» e accusa di razzismo generazionale i sindacati in quanto responsabili dell’«apartheid» dei precari.
Per il Pd, il consolidamento di una base culturale comune è necessario, oltre che possibile. Senza una lettura condivisa del tornante storico è difficile strutturare un’identità autonoma. Senza sicurezza di sé, si ha paura dell’altro. Così, qualunque movimento rispetto alla famiglia dei socialisti europei è impossibile o forzato e disgregativo. Ma senza un soggetto dei progressisti europei siamo impotenti e perdenti nei confini nazionali.

L’Unità 18.02.12

Per una buona politica: più democrazia, più trasparenza

“Abbiamo unificato le proposte presentate da esponenti del nostro partito per dare impulso a una rapida discussione parlamentare su una questione per noi cruciale”, così il segretario Pier Luigi Bersani ha introdotto la conferenza stampa di presentazione della proposta di legge del PD per la democrazia interna e la trasparenza dei partiti. “Per avere una democrazia più efficiente – ha continuato il leader del PD – siamo i primi interessati alla riconfigurazione del ruolo dei partiti nel sistema italiano. Capisco che il termine “partito” oggi è una parola difficile e che è una storia antica di 2000 anni quella del finanziamento della politica. Il meccanismo oggi ha evidenziato i suoi limiti ed è arrivato il momento di cambiare. E noi siamo pronti a dare un’accelerazione straordinaria per questo cambiamento ed arrivare ad un risultato credibile per i cittadini”.

“Non pensiamo di fare la democrazia solo in un partito, ma in un assetto condiviso – ha aggiunto Bersani – siamo l’unico partito che è uscito del tutto da curvature personalistiche. Dopo Bersani c’è il PD. Siamo affezionati all’idea di partiti come nervatura di una democrazia, i partiti sono un patrimonio comune: ci deve essere trasparenza nei bilanci e certificazione”.

“È credibile che in quest’anno si faccia una riforma elettorale e una legge di riforma dei partiti. L’anomalia non è il finanziamento pubblico; l’anomalia è che dopo decenni non ci sia ancora una legge che regolamenta i partiti. Qui c’è in gioco la democrazia e il sistema politico deve riprendere il filo senza pensare che la politica sia irriformabile e che le soluzioni possono essere solo delle tecniche. A noi serve una politica riformata al punto di saper riconoscere i propri limiti e che sappia esprimere anche delle competenze tecniche. Dopo Monti non ci sarà il Cencelli(*) ma un governo con competenze e una maggioranza univoca e compatta. Per il PD c’è sempre prima di tutto l’Italia”.

(*) Il Manuale Cencelli si tratta di un complesso metodo matematico creato per ripartire equamente gli incarichi di Governo (Ministeri e Sottosegretariati), ciascuno con un’importanza diversa, in funzione della forza elettorale di ciascun partito e, fatto non secondario, di ciascuna corrente all’interno di un determinato partito.

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Scheda di sintesi della proposta

La proposta di legge reca disposizioni per la disciplina dei partiti politici in attuazione dell’art. 49 della Costituzione (art. 1).

I partiti politici diventano associazioni riconosciute dotate di personalità giuridica (art. 2). L’acquisizione della personalità giuridica e la pubblicazione dello statuto in Gazzetta Ufficiale è condizione per poter partecipare alle elezioni (art. 6, comma 1) e accedere ai rimborsi elettorali, alle agevolazioni e ai contributi pubblici per gli organi di partito (art. 8, comma 3).

Ogni partito deve indicare nel proprio statuto una serie di elementi volti ad assicurare il rispetto dei principi di democrazia interna e trasparenza (art. 3), tra i quali:
– Organi dirigenti, modalità di elezione, durata degli incarichi;
– Casi di incompatibilità;
– Procedure per l’approvazione degli atti;
– Diritti e doveri degli iscritti;
– Presenza paritaria di donne e uomini negli organi collegiali;
– Presenza delle minoranze negli organi collegiali non esecutivi;
– Criteri di ripartizione delle risorse finanziarie tra struttura nazionale e articolazioni territoriali;
– Modalità di selezione, attraverso primarie o elezione da parte degli organi collegiali, delle candidature alle cariche elettive;
– Limite massimo dei mandati elettorali e relativi ad incarichi interni;
– Codice etico;
– Attribuzione della rappresentanza legale ad un Tesoriere, nomina di un Comitato di tesoreria e di un Collegio sindacale con richiesta di specifici requisiti di onorabilità e professionalità
– Attribuzione ad una società di revisione della certificazione del rendiconto di esercizio

Accedono ai rimborsi elettorali e a qualsiasi altra forma di finanziamento pubblico esclusivamente i partiti che rispettano i requisiti di democrazia interna e di trasparenza (art. 6, comma 2) ed abbiano ottenuto l’elezione di almeno un rappresentante sotto il proprio simbolo nelle relative consultazioni.

Il 5% dei rimborsi elettorali è destinato alla formazione dei giovani alla politica (art. 3, comma 2).

Vengono regolamentate le primarie, per la selezione dei candidati a sindaco, a presidente di regione, a premier, e dei candidati alle assemblee rappresentative elette con sistema maggioritario in collegi uninominali, prevedendo che debbano essere sempre aperte a tutti gli elettori (art. 4). Si propone inoltre che i rimborsi elettorali siano decurtati del 25% per i partiti che non adottano nel loro statuto in forma stabile le primarie per le cariche e nelle forme previste dal progetto di legge (art. 6, comma 3).

Pubblicazione anche in formato open data sul sito internet del partito e su una apposita sezione del sito della Camera di: rendiconto di esercizio; relazione del Collegio sindacale; relazione della società di revisione; bilanci delle imprese partecipate; verbale di approvazione del rendiconto; situazione reddituale e patrimoniale dei titolari di cariche di governo ed elettive (art. 5, comma 2).

Riduzione a cinquemila euro della soglia oltre la quale i contributi erogati ai partiti sono soggetti a dichiarazione congiunta (art. 5, comma 3).

E’ disposta la certificazione obbligatoria del rendiconto da parte di una società di revisione iscritta nell’albo speciale (art. 7, comma 1).

Il controllo del rendiconto è affidato alla Corte dei Conti (al collegio istituito dalla legge 515/1993). Se dall’esito del controllo emergono irregolarità, è prevista la decurtazione dei rimborsi elettorali. Il controllo della Corte dei conti si estende alle articolazioni territoriali del partito che partecipano alla ripartizione dei rimborsi elettorali (art. 7, commi 2-6).

Lo statuto del partito va pubblicato nella Gazzetta Ufficiale (art. 8, comma 1).

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Leggi tutta la proposta di legge in allegato

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Bersani: «La priorità è riformare i partiti Facciamo in fretta»
Depositata dal Pd la proposta di legge sui partiti. Bersani difende il finanziamento: «No al dibattito tra miliardari». E sulla Rai: «Vertice Monti-segretari? Magari ci fosse. Ma se si parla di nomine non sono interessato», di Simone Collini

«Già cinquant’anni prima di Pericle si discusse il tema e si decise, in polemica con l’oligarchia, che se si voleva una democrazia la politica doveva essere finanziata». E pazienza se 2500 anni dopo la discussione sia ancora tutt’altro che chiusa perché «oggi “partito” è una parola difficile», perché il termine «casta» è ormai di uso comune e perché anche in tempi di governi tecnici il vento dell’antipolitica è decisamente forte. Pier Luigi Bersani difende il finanziamento pubblico ai partiti e spiega che il problema non è la sua cancellazione o riduzione indiscriminata ma la «trasparenza». L’anomalia italiana, dice il leader del Pd, non è che le forze politiche incassino dei rimborsi per le spese elettorali, ma «che non ci sia una legge sui partiti»: «E questa è la priorità numero uno».
DIRITTI E DOVERI
Per questo il Pd ha unificato tutti i testi presentati su questo tema dai suoi parlamentari e depositato una proposta di legge per attuare l’articolo 49 della Costituzione, sollecitando le altre forze politiche a non tirarsi indietro. In sette articoli il Pd chiede che i partiti diventino «associazioni riconosciute dotate di personalità giuridica», che accedano al finanziamento pubblico «esclusivamente i partiti che rispettano i requisiti di democrazia interna e di trasparenza ed abbiano ottenuto l’elezione di almeno un rappresentante sotto il proprio simbolo», che sia fissata a cinquemila euro (e non più 50 mila) la soglia oltre la quale i contributi sono soggetti a dichiarazione, che ci sia una certificazione obbligatoria del rendiconto e che siano decurtati del 25% i rimborsi elettorali «per i partiti che non adottano nel loro statuto in forma stabile le primarie».
Bersani presenta la proposta di legge nella sede del Pd insieme al tesoriere Antonio Misiani, al suo predecessore Mauro Agostini, a Salvatore Vassallo e a Pierluigi Castagnetti, spiegando che su questo tema il suo partito è pronto a una «accelerazione straordinaria per un risultato credibile». E se una convergenza con il testo depositato dall’Udc è possibile, ora, dice Bersani «aspettiamo qualche idea anche dal Pdl».
Il leader del Pd ha deciso di insistere su questo tasto perché se da un lato «dice una fesseria chi sostiene che siamo ancora in tangentopoli» è anche vero che vent’anni dopo Mani pulite non siamo ancora usciti del tutto dalla «transizione» e la storia non deve assolutamente ripetersi come nei primi anni 90. «Allora ne siamo usciti con risposte dalla piegatura populista, quando invece la risposta è un sistema politico efficiente e pulito». Se Bersani difende i partiti e il finanziamento pubblico ad esso assegnato è perché la democrazia non può essere «un dibattito tra miliardari» e perché ormai è fin troppo chiaro che «le scorciatoie ci hanno allungato la strada».
NO A DIBATTITI TRA MILIARDARI
Ora che c’è un governo tecnico ad occuparsi del risanamento economico e finanziario, i partiti possono impegnarsi in una seria «autoriforma» del sistema politico perché l’emergenza non riguarda solo i conti pubblici: «C’è in gioco la democrazia». Dopo questa fase, è il ragionamento di Bersani, non ci dovrà essere una nuova legislatura caratterizzata da larghe intese: saranno i partiti, dotati di autorevolezza e credibilità, a contendersi il governo del paese. «Dopo Monti non ci sarà il Cencelli. Se tocca al Pd lo promettiamo.
Ci sarà un governo ugualmente autorevole, con competenze, ma che avrà una maggioranza parlamentare univoca, solida, compatta, che oggi purtroppo non c’è per motiazioni politiche». Che oggi non ci sia una maggioranza parlamentare viene fuori anche dalla discussione sulla gestione della Rai. Da indiscrezioni si viene a sapere che Monti vorrebbe incontrare i leader delle forze che lo sostengono per affrontare la questione di una legge al riguardo e Bersani, commentando l’ipotesi che a breve ci sia questo vertice, con i suoi dice: «Magari ci fosse».
NUOVA GOVERNANCE RAI
Ma il segretario del Pd dice anche che se verrà chiamato a discutere solo di un «abbellimento» del Cda di viale Mazzini il suo partito si tirerà fuori. «La Rai è un’azienda pubblica in decadenza tecnologica, industriale e di prodotto. Ha un padrone, che non sono i partiti perché io non mi sento pro-quota il padrone della Rai, ma è il Tesoro. Da lì deve venire un’iniziativa per la governance in grado di affrontare il tema industriale. Serve un capo azienda che decida e affronti i problemi, serve una nuova governance. Se non si farà questo e si parla ancora di nomine, per quanto autorevoli, non sono interessato. Fossero pure 5 o 7 premi Nobel, fosse pure Einstein, con questo assetto noi non partecipiamo. Questo dirò al governo».
Il Pdl va all’attacco criticando il fatto che Bersani chieda un intervento del governo su questo tema e chiede di discutere invece la questione in Parlamento. Ma il Pd, che pure ha depositato più di una proposta di legge sul tema (una è a prima firma Bersani) non si fida. Il sospetto è che il Pdl voglia solo prendere tempo per lasciare tutto così com’è.

L’Unità 17.02.12

"Gaffe a luci rosse, il ministero dell´Istruzione si scusa", di Corrado Zunino

La gaffe del ministero dell´Istruzione è arrivata anche con il governo tecnico. Ed è stata esilarante. In un bando dell´Università di Firenze, Biotecnologie agrarie, il titolo della ricerca – “Dalla pecora al pecorino: tracciabilità della filiera del latte in Toscana” – ha necessitato di una traduzione in inglese. Nel passaggio di lingua l´incidente è diventato uno show da Bagaglino. “From sheep” (dalla pecora, ecco) “to doggy style”. Solo che “doggy style”, letteralmente “lo stile alla cagnaccia”, non è il formaggio pecorino, piuttosto la posizione sessuale “alla pecorina”. Il traduttore automatico aveva tradito le intenzioni e rivelato le ignoranze diffuse in università.
Alcuni siti internet, a partire da Repubblica.it, hanno lanciato in rete mercoledì sera la gaffe a luci rosse, che seguiva a distanza di cinque mesi e un governo il famoso comunicato stampa sui “neutrini nel tunnel” firmato da Mariastella Gelmini. Allora quel testo nonsense scatenò una crisi di nervi nel palazzo di viale Trastevere e portò alle dimissioni del portavoce dell´ex ministro, reo di mancato controllo. Questa volta, avvistato che gli uffici erano di nuovo al livello di guardia e da Firenze un ordinario si prendeva tutte le colpe, Francesco Profumo ha dettato la linea ai suoi: «Ironia, ci vuole ironia». E ha deciso di chiedere scusa e aiuto.
Rivolgendosi ai lettori internet, il ministro ha scritto: «Cari amici della rete, ultimamente vi abbiamo intrattenuto con alcuni errori involontariamente comici». Il portale “Scuola in chiaro”, per esempio, «includeva fra i comuni italiani alcune località, tra cui Caporetto, che non lo sono più da decenni». Sono diventate slovene. Ancora il ministro: «Da ultimo – per ora? – ecco una traduzione maccheronica dall´italiano all´inglese, dagli effetti esilaranti, di un bando di ricerca relativo al formaggio pecorino». L´ammissione di colpa era chiara. Poi, però, il Profumo costruens ha chiesto collaborazione: «Non potete nemmeno immaginarvi quanto sia grande ed estesa la struttura amministrativa del ministero dell´Istruzione. Oltre diecimila scuole, quasi un milione di insegnanti, otto milioni di studenti, centinaia di migliaia di personale, gli atenei, gli enti di ricerca. Non sbagliare mai è quasi impossibile. Vi invitiamo a continuare a leggerci e scrutinarci, l´ufficio stampa e il sito sono a disposizione».

La Repubblica 17.02.12

“Gaffe a luci rosse, il ministero dell´Istruzione si scusa”, di Corrado Zunino

La gaffe del ministero dell´Istruzione è arrivata anche con il governo tecnico. Ed è stata esilarante. In un bando dell´Università di Firenze, Biotecnologie agrarie, il titolo della ricerca – “Dalla pecora al pecorino: tracciabilità della filiera del latte in Toscana” – ha necessitato di una traduzione in inglese. Nel passaggio di lingua l´incidente è diventato uno show da Bagaglino. “From sheep” (dalla pecora, ecco) “to doggy style”. Solo che “doggy style”, letteralmente “lo stile alla cagnaccia”, non è il formaggio pecorino, piuttosto la posizione sessuale “alla pecorina”. Il traduttore automatico aveva tradito le intenzioni e rivelato le ignoranze diffuse in università.
Alcuni siti internet, a partire da Repubblica.it, hanno lanciato in rete mercoledì sera la gaffe a luci rosse, che seguiva a distanza di cinque mesi e un governo il famoso comunicato stampa sui “neutrini nel tunnel” firmato da Mariastella Gelmini. Allora quel testo nonsense scatenò una crisi di nervi nel palazzo di viale Trastevere e portò alle dimissioni del portavoce dell´ex ministro, reo di mancato controllo. Questa volta, avvistato che gli uffici erano di nuovo al livello di guardia e da Firenze un ordinario si prendeva tutte le colpe, Francesco Profumo ha dettato la linea ai suoi: «Ironia, ci vuole ironia». E ha deciso di chiedere scusa e aiuto.
Rivolgendosi ai lettori internet, il ministro ha scritto: «Cari amici della rete, ultimamente vi abbiamo intrattenuto con alcuni errori involontariamente comici». Il portale “Scuola in chiaro”, per esempio, «includeva fra i comuni italiani alcune località, tra cui Caporetto, che non lo sono più da decenni». Sono diventate slovene. Ancora il ministro: «Da ultimo – per ora? – ecco una traduzione maccheronica dall´italiano all´inglese, dagli effetti esilaranti, di un bando di ricerca relativo al formaggio pecorino». L´ammissione di colpa era chiara. Poi, però, il Profumo costruens ha chiesto collaborazione: «Non potete nemmeno immaginarvi quanto sia grande ed estesa la struttura amministrativa del ministero dell´Istruzione. Oltre diecimila scuole, quasi un milione di insegnanti, otto milioni di studenti, centinaia di migliaia di personale, gli atenei, gli enti di ricerca. Non sbagliare mai è quasi impossibile. Vi invitiamo a continuare a leggerci e scrutinarci, l´ufficio stampa e il sito sono a disposizione».

La Repubblica 17.02.12

Rai, l'ultimatum del Pd: «Ora il Tesoro intervenga», di Paolo Conti

Sull’onda della catastrofe Celentano-Festival si riapre il dibattito sul futuro della Rai. Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, si rivolge direttamente a Mario Monti come ministro dell’Economia: «La Rai è un’azienda pubblica in decadenza tecnologica, industriale e di prodotto. Ha un padrone, il Tesoro. Da lì deve venire un’iniziativa per la governance in grado di affrontare il tema industriale perché l’azienda ha un mare di problemi. Se non si farà questo e si parla ancora di nomine, fossero pure cinque o sette premi Nobel, né se ci propongono Einstein, con questo assetto noi non partecipiamo».
Nessuna possibilità di equivoco. O il governo cambia i criteri di governance o il partito di Bersani non partecipa: e c’è già chi immagina un’astensione dei commissari di Vigilanza Rai del Pd. Un nodo politico complesso perché, contemporaneamente a Bersani, parla Maurizio Gasparri, Pdl, titolare dell’attuale legge sulle Comunicazioni: «C’è una legge e la si applica, per cambiarla c’è il Parlamento ma non vedo i tempi. Né prevedo vertici a palazzo Chigi sulla governance Rai». Il riferimento è alle voci che, dopo l’incontro di Mario Monti con il presidente della Rai Paolo Garimberti, danno per certo un presidente del Consiglio impegnato nella ricerca di un’intesa Pd-Pdl-Terzo polo per cambiare i criteri di guida della tv pubblica. Gasparri nega. E con lui Fabrizio Cicchitto e Paolo Romani. Tutti sulla stessa linea: il governo non si occupi di Rai, la faccenda riguarda il Parlamento. Ma c’è chi sottolinea il silenzio sia di Angelino Alfano che dello stesso Berlusconi. E se la vicenda Rai si trovasse su un tavolo articolato e complesso, il cui primo piatto è la legge elettorale?
Ma chiunque abbia parlato nei giorni scorsi con Monti di questo argomento ha ricavato una sensazione molto precisa: il capo del governo vorrebbe rivedere i criteri di nomina ma sa bene che, al momento, l’«ala televisiva» del Pdl (a partire appunto da Gasparri e Romani) è fieramente ostile a un qualsiasi passo da parte del governo.
Per ora, in assenza di un’intesa sempre possibile, Monti ha di fronte una strada che passa per la legge Gasparri: indicare un suo consigliere (un personaggio di indubbio prestigio), designare anche un presidente di peso (che dovrà comunque ottenere il sì dei due terzi della Vigilanza). E lo stesso potrebbe valere per la nuova direzione generale (Claudio Cappon?). Gli equilibri comunque cambieranno nel futuro Consiglio perché il centrodestra non avrebbe più in mano una maggioranza certa. In quanto alla presidenza, affidandole alcune deleghe, potrebbe non avere più solo un ruolo di garanzia e di rappresentanza.
Anche con le carte della Gasparri, insomma, Monti potrebbe formare una squadra nuova, diversa, credibile per restituire finalmente la Rai, come ha chiesto ieri sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia, al suo ruolo di servizio pubblico.

Il COrriere della Sera 17.02.12