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“Basta con le parole della destra sulla crisi, serve una base comune”, di Stefano Fassina

Le fantasiose e strumentali ricostruzioni giornalistiche dell’oggetto di un seminario organizzato dal sottoscritto e altri dirigenti del Pd hanno alimentato un dibattito utile, come confermano gli interventi di Pierluigi Castagnetti e Franco Marini su questo giornale. Tuttavia, l’attenzione è stata concentrata su un inesistente documento «da presentare agli organi dirigenti» per una presunta «proposta di trasformare il Pd in un partito socialdemocratico sullo schema del Partito socialista europeo» (Eugenio Scalfari, domenica scorsa).
Chiarita l’assenza dell’uno e dell’altra, sulle ragioni economiche e politiche delle relazioni con i partiti progressisti europei ha scritto bene qui Matteo Orfini e, soprattutto, ha risposto a Scalfari su Repubblica, con saggezza e chiarezza, Pier Luigi Bersani. Mi preme soltanto aggiungere un punto: le forze costitutive del Pd non sono le uniche al mondo consapevoli del «tempo nuovo». I partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti europei non sono «cani morti». Sono, almeno quanto il Pd, alla ricerca di risposte adeguate, quindi innovative, a sfide inedite. Hanno capito anche loro che il Novecento è finito e, con esso, il fordismo, l’operaio massa, il partito di massa, il consumo di massa e il keynesismo nazionale. Sono, anche loro, ma in modo meno correntizio e personalistico, plurali sul piano delle culture politiche.
È vero, gli altri non hanno cambiato tre o quattro volte denominazione al “contenitore”, come hanno fatto, invece, in continuità di contenuti, i partiti fondatori del Pd dopo la caduta del Muro di Berlino e Tangentopoli. Si continuano a chiamare socialisti, socialdemocratici e laburisti, ma non sono fermi a Bad Godesberg. Rappresentano, in media, un terzo dell’elettorato dei rispettivi Paesi e sono attesi al Governo nelle due più grandi nazioni dell’area euro. Forse, qualche informazione in più sulla realtà effettiva della variegata e dinamica famiglia socialista europea aiuterebbe una discussione meno astratta e fuorviante.
Le fantasiose e strumentali ricostruzioni giornalistiche hanno messo in ombra l’oggetto prioritario del seminario del prossimo 1 ̊ Marzo: le letture della «Grande Transizione» in corso, in particolare la lettura data dalla Chiesa di Benedetto XVI. In altri termini, il tentativo di contribuire a dare al Pd «una base politico-culturale comune» della quale lamentano l’assenza, non senza ragioni, Emanuele Macaluso e Paolo Franchi nei loro commenti allo scambio Scalfari-Bersani.
I promotori del seminario sono convinti che il secolare pensiero sociale della Chiesa, aggiornato nell’analisi del passaggio di fase in atto, offre l’opportunità per rianimare e amalgamare in un impasto inedito e adeguato alle sfide del tempo le rinsecchite culture politiche approdate nel Pd. In particolare, considerano che la Caritas in veritate e i documenti vaticani tematici a essa seguiti (ad esempio, il position paper del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace per il G20 di Cannes), definiscono un terreno di confronto straordinariamente fertile anche per chi, contaminato in gioventù dal socialismo europeo, ritiene decisivo per un partito progressista del XXI secolo andare oltre i confini del liberalismo, orientare l’identità del Pd verso la valorizzazione della persona che lavora e recuperare dalla improvvisata soffitta del nuovismo l’ambizione a dare soggettività politica autonoma al lavoro subordinato, in tutte le sue forme, per nutrire una democrazia effettiva.
Oggi è evidente che il neoliberismo ha fallito: la svalutazione del lavoro, incluse le classi medie, come via della competitività è insostenibile sul piano economico e democratico. Tuttavia, la concentrazione di ricchezza e, conseguentemente, potere economico, politico e mediatico sostenuta dal neoliberismo nell’ultimo trentennio continua a imporre l’agenda di policy (vedi il dramma Grecia). Siamo al «trionfo delle idee fallite» anche perché il neoliberismo, seppure in versione light, ha segnato le «terze vie» e, da noi, i derivati del Pci e di parte della Dc (quella di centrosinistra), e, inevitabilmente, i primi passi del Pd. Al punto che, sulla questione cruciale del lavoro, una parte di noi, una minoranza, per fortuna trasversale alle antiche provenienze, persevera: usa il lessico della destra, inventa i «lavoratori iper-garantiti» e accusa di razzismo generazionale i sindacati in quanto responsabili dell’«apartheid» dei precari.
Per il Pd, il consolidamento di una base culturale comune è necessario, oltre che possibile. Senza una lettura condivisa del tornante storico è difficile strutturare un’identità autonoma. Senza sicurezza di sé, si ha paura dell’altro. Così, qualunque movimento rispetto alla famiglia dei socialisti europei è impossibile o forzato e disgregativo. Ma senza un soggetto dei progressisti europei siamo impotenti e perdenti nei confini nazionali.

L’Unità 18.02.12