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"Noi donne profetiche sulla svolta nel paese" intervista a Cristina Comencini di Mariagrazia Gerina

Le piazze d’Italia piene, quel ritrovarsi, in tante, una accanto all’altra, l’indignazione, la voglia di farsi sentire, la forza ritrovata, l’urlo. «Se non ora quando?», un anno fa. Un milione di donne scendeva in piazza a riprendersi la scena pubblica, occupata dal circo Barnum del berlusconismo al tramonto. Sembra trascorso un secolo. Mutata la scena, caduto Berlusconi, che fine hanno fatto quella piazza e quelle donne? «L’interlocutore è cambiato, per fortuna, ma noi siamo ancora qui», assicura Cristina Comencini, regista e madrina di quell’evento: «E la strada da fare è ancora lunga».

Le donne però non scontano una generale crisi della piazza?

«Non credo, quella che abbiamo convocato l’11 dicembre, all’indomani della nascita del governo tecnico, è stata comunque una grande manifestazione. La caduta di Berlusconi non ha posto fine allo scopo vero per cui è nato Se non ora quando, c’è ancora molto lavoro da fare per incidere sulla politica e sulla cultura del nostro paese. Andare avanti, rimboccarci le maniche è il modo migliore per festeggiare il “nostro” compleanno. Non a caso ci eravamo date appuntamento a Bologna, l’11 e il 12 febbraio, poi il maltempo ci ha costretto a rinviare tutto…».

Andare avanti, ma come?

«Noi ora dobbiamo lavorare dentro i fatti e i problemi con maturità. Il ribellismo non ci porta da nessuna parte. Un pezzo importante del lavoro in questo momento è interagire con le forze politiche, con il governo e con le istituzioni rispetto ai punti che abbiamo messo a fuoco a partire dal 13 febbraio: lavoro e welfare per le donne, la rappresentazione che si dà del loro corpo – che è anche la chiave della violenza di cui le donne sono vittime -, infine, la rappresentanza politica, perché prima o poi ci saranno le elezioni e se nemmeno stavolta i partiti faranno spazio alle donne le cose non muteranno mai…»

Intanto c’è il governo tecnico. Questo ha cambiato il rapporto tra le donne e la scena pubblica?

«Enormemente. Draghi prima e Monti poi hanno dichiarato che la questione delle donne è di fondamentale importanza per il paese. Sulle dimissioni in bianco abbiamo incontrato il ministro Fornero, che ha dichiarato la volontà del governo a intervenire. Insomma, abbiamo ritrovato degli interlocutori. E però sia chiaro: noi non facciamo sconti a nessuno. Bisogna che alle parole seguano i fatti. Capiamo la situazione di crisi, ma bisogna trovare le risorse. Occorre fare delle scelte: per noi il fatto che in intere zone del Sud non ci siano asili nido è una priorità, è lì che vanno investite le risorse che ci sono piuttosto che non in spese militari».

Il 13 febbraio in cosa ha mutato la vicenda italiana?

«Il 13 febbraio è stato prima di tutto un grande momento di unità del paese, una risposta potente a quella sensazione di divisione su tutto che si respirava. Abbiamo detto che ci deve essere una base comune, che ci vede unite per il bene del paese: la serietà e la dignità, che chiediamo a chi ci governa. Siamo state in qualche modo profetiche rispetto al cambio di rotta chiesto al paese da Napolitano. E abbiamo dato vita a un soggetto politico con cui ora tutti devono fare i conti. La nostra forza è stata coinvolgere tutte le donne, rivolgerci anche a quelle che non fanno politica ».

Ecco, quelle donne, oggi, stanno meglio o peggio?

«Sulla loro vita concreta e pratica non c’è stato il cambiamento che chiedevamo e però è cambiata la prospettiva, c’è l’idea che quel cambiamento è possibile e c’è un interlocutore che mostra di prendere seriamente le questioni che noi solleviamo. Quella serietà restituisce dignità alla politica. In fondo, è per quella dignità che siamo scese in piazza».

Una questione di stile?

«No, gli effetti di questo cambiamento si dovranno misurare sulla condizione di vita delle donne, reale e culturale. E su questo noi continueremo ad incalzare il governo».

Da protagoniste di una grande mobilitazione di popolo che effetto vi fanno le immagini che giungono dalla Grecia?

«Personalmente e umanamente mi colpiscono molto. Ci mettono drammaticamente davanti alla situazione di persone che non riescono a vivere. E però: che fare? Io credo che nessuno di noi in questo momento può avere verità facili. Occorre risanare l’economia, senza mai perdere di vista la vita concreta delle persone».

L’Unità 14.02.12

“Noi donne profetiche sulla svolta nel paese” intervista a Cristina Comencini di Mariagrazia Gerina

Le piazze d’Italia piene, quel ritrovarsi, in tante, una accanto all’altra, l’indignazione, la voglia di farsi sentire, la forza ritrovata, l’urlo. «Se non ora quando?», un anno fa. Un milione di donne scendeva in piazza a riprendersi la scena pubblica, occupata dal circo Barnum del berlusconismo al tramonto. Sembra trascorso un secolo. Mutata la scena, caduto Berlusconi, che fine hanno fatto quella piazza e quelle donne? «L’interlocutore è cambiato, per fortuna, ma noi siamo ancora qui», assicura Cristina Comencini, regista e madrina di quell’evento: «E la strada da fare è ancora lunga».

Le donne però non scontano una generale crisi della piazza?

«Non credo, quella che abbiamo convocato l’11 dicembre, all’indomani della nascita del governo tecnico, è stata comunque una grande manifestazione. La caduta di Berlusconi non ha posto fine allo scopo vero per cui è nato Se non ora quando, c’è ancora molto lavoro da fare per incidere sulla politica e sulla cultura del nostro paese. Andare avanti, rimboccarci le maniche è il modo migliore per festeggiare il “nostro” compleanno. Non a caso ci eravamo date appuntamento a Bologna, l’11 e il 12 febbraio, poi il maltempo ci ha costretto a rinviare tutto…».

Andare avanti, ma come?

«Noi ora dobbiamo lavorare dentro i fatti e i problemi con maturità. Il ribellismo non ci porta da nessuna parte. Un pezzo importante del lavoro in questo momento è interagire con le forze politiche, con il governo e con le istituzioni rispetto ai punti che abbiamo messo a fuoco a partire dal 13 febbraio: lavoro e welfare per le donne, la rappresentazione che si dà del loro corpo – che è anche la chiave della violenza di cui le donne sono vittime -, infine, la rappresentanza politica, perché prima o poi ci saranno le elezioni e se nemmeno stavolta i partiti faranno spazio alle donne le cose non muteranno mai…»

Intanto c’è il governo tecnico. Questo ha cambiato il rapporto tra le donne e la scena pubblica?

«Enormemente. Draghi prima e Monti poi hanno dichiarato che la questione delle donne è di fondamentale importanza per il paese. Sulle dimissioni in bianco abbiamo incontrato il ministro Fornero, che ha dichiarato la volontà del governo a intervenire. Insomma, abbiamo ritrovato degli interlocutori. E però sia chiaro: noi non facciamo sconti a nessuno. Bisogna che alle parole seguano i fatti. Capiamo la situazione di crisi, ma bisogna trovare le risorse. Occorre fare delle scelte: per noi il fatto che in intere zone del Sud non ci siano asili nido è una priorità, è lì che vanno investite le risorse che ci sono piuttosto che non in spese militari».

Il 13 febbraio in cosa ha mutato la vicenda italiana?

«Il 13 febbraio è stato prima di tutto un grande momento di unità del paese, una risposta potente a quella sensazione di divisione su tutto che si respirava. Abbiamo detto che ci deve essere una base comune, che ci vede unite per il bene del paese: la serietà e la dignità, che chiediamo a chi ci governa. Siamo state in qualche modo profetiche rispetto al cambio di rotta chiesto al paese da Napolitano. E abbiamo dato vita a un soggetto politico con cui ora tutti devono fare i conti. La nostra forza è stata coinvolgere tutte le donne, rivolgerci anche a quelle che non fanno politica ».

Ecco, quelle donne, oggi, stanno meglio o peggio?

«Sulla loro vita concreta e pratica non c’è stato il cambiamento che chiedevamo e però è cambiata la prospettiva, c’è l’idea che quel cambiamento è possibile e c’è un interlocutore che mostra di prendere seriamente le questioni che noi solleviamo. Quella serietà restituisce dignità alla politica. In fondo, è per quella dignità che siamo scese in piazza».

Una questione di stile?

«No, gli effetti di questo cambiamento si dovranno misurare sulla condizione di vita delle donne, reale e culturale. E su questo noi continueremo ad incalzare il governo».

Da protagoniste di una grande mobilitazione di popolo che effetto vi fanno le immagini che giungono dalla Grecia?

«Personalmente e umanamente mi colpiscono molto. Ci mettono drammaticamente davanti alla situazione di persone che non riescono a vivere. E però: che fare? Io credo che nessuno di noi in questo momento può avere verità facili. Occorre risanare l’economia, senza mai perdere di vista la vita concreta delle persone».

L’Unità 14.02.12

Scuola, Pd: bene intervento su graduatorie per docenti precari invalidi o malati oncologici

“D’ora in poi i docenti precari invalidi o malati oncologici potranno richiedere annualmente il riconoscimento della riserva nelle graduatorie così come previsto dalla legge in altri ambiti lavoratvi”. Lo dichiarano in una nota le deputate democratiche, Siragusa, Schirru e Ghizzoni- che in questi anni si sono battute per questo riconoscimento con proposte di legge, interrogazioni ed emendamenti e che hanno finalmente convinto l’attuale governo- commentando l’approvazione di un emendamento al Milleproroghe al Senato. “Un risultato importante – continuano le parlamentari- che pone rimedio all’assurda situazione per cui i docenti che ottengono il riconoscimento dell’invalidità o di malattia oncologica dopo l’aggiornamento delle graduatorie ad esaurimento non possono godere dei diritti che pure la legge attribuisce loro, se non aspettando tre anni”

Milleproroghe, Pd “Occasione persa sui lavoratori della scuola”

Bastico e Ghizzoni “Bocciato emendamento a riforma Fornero. Lega determinante”. “Mentre nelle piazze il Carroccio sbraita contro il Governo e dice di voler difendere i pensionati, nei Palazzi non perde occasione per affossare interventi concreti per il superamento di alcune criticità della riforma Fornero”: è il commento della senatrice Mariangela Bastico e della deputata Manuela Ghizzoni.
“Purtroppo per colpa della Lega si è persa un’occasione importante per dare risposte concrete, nel senso dell’equità, ai lavoratori della scuola”.
Lo dichiarano la senatrice Mariangela Bastico e l’onorevole Manuela Ghizzoni, capogruppo del Pd in commissione Cultura alla Camera, commentando il voto contrario delle commissioni Bilancio e Affari costituzionali del Senato ad un emendamento del Pd al decreto Milleproroghe per inserire, per il solo comparto scuola, ‘uno slittamento al 31 agosto 2012 del termine per la maturazione dei requisiti per il pensionamento con le norme previgenti alla riforma Fornero’.

“Si tratta di una soluzione resa necessaria dalla specificità della scuola – sottolineano le parlamentari Pd – e dei ritmi che la governano che sono cadenzati sull’anno scolastico e non su quello solare. Per pochi voti non è stata approvata una modifica, che lo stesso Governo aveva valutato necessaria dando parere positivo ad un nostro Odg alla Camera”.

“Stupefacente l’atteggiamento della Lega che ha votato contro questa misura – concludono Bastico e Ghizzoni – La verità è che mentre nelle piazze il Carroccio sbraita contro il governo e dice di voler difendere i pensionati, nei Palazzi non perde occasione per affossare interventi concreti per il superamento di alcune criticità della riforma Fornero”.

"La lezione delle primarie", di Claudio Sardo

Le primarie di Genova hanno segnato una sconfitta per il Pd e le sue candidate. Sconfitta pesante perché Genova è una città simbolo della sinistra, perché si allunga nelle metropoli la lista dei sindaci (e dei candidati) critici o irregolari o competitivi con il partito, perché le primarie, creazione del Pd, diventano notizia solo quando è il Pd a soccombere.
Ma sarebbe un errore se i democratici reagissero alla sconfitta in modo difensivo. Non si può dare tutta la colpa alla divisione interna, né alle regole difettose delle primarie, né al preoccupante calo degli elettori di domenica scorsa. Si tratta di ragioni valide, tuttavia nascondono l’area principale di tensione, di incomprensione tra il Pd e parte del suo elettorato. In quest’area c’è un senso di sfiducia verso i partiti, verso la stessa capacità della politica di incidere in positivo sulla vita delle persone, verso il rinnovamento della rappresentanza. È un senso comune che ha molto a che fare con la lunga egemonia liberista e individualista, ma anche con gli errori delle classi dirigenti e con il drammatico fallimento culturale e istituzionale della Seconda Repubblica.
Nelle primarie di Genova, come in altre, c’è però una domanda di politica assai più forte della reazione antipolitica. Se non altro per la preziosa voglia di partecipazione che viene espressa. E il Pd è nato per dare una risposta nuova alla domanda politica e per farsi ponte verso un diverso sistema. Deve però essere capace di rispondere come «partito»: questa è l’impresa. Si resterebbe nel gorgo della Seconda Repubblica giocando a convocare quel popolo, che invece attende la convocazione nei momenti delle scelte che contano, oppure deve essere capace di costruire un partito più grande e più capace di offrire agli elettori delle primarie una «casa» comune. È il tema di un maggiore radicamento, o se si vuole di una riconciliazione delle idee riformiste con quegli interessi sociali e quelle istanze più radicali che da sempre compongono la politica dei progressisti.
Ma è chiaro che a questo punto il discorso sulla struttura si intreccia con le opzioni strategiche. Come tenere insieme una spinta verso sinistra, che pure a Genova è testimoniata dalla campagna del vincitore Doria, con la politica di sostegno al governo Monti? Finché si parla di un risentimento anti-establishment si può anche fingere di sommare Pisapia con
Renzi, Emiliano con De Magistris. Ma, appena si passa dalla propaganda al merito, non si può più sventolare la bandiera delle primarie di coalizione e al tempo stesso inneggiare al governo dei tecnici come eldorado del Pd. Siccome il Pd è nato per essere un partito nel tempo in cui tutti denigrano i partiti, siccome il Pd è nato per portare l’Italia fuori dalla Seconda Repubblica, la strada da intraprendere ci pare obbligata. È quella di un rapporto più aperto e intenso con il popolo del centrosinistra. Il necessario orizzonte «democratico» non può essere contrapposto ad un radicamento nella sinistra: e le primarie devono diventare lo strumento per fare della coalizione (o gran parte di essa) un partito, non per demolire ciò che è rimasto delle strutture organizzate (su cui peraltro poggiano le primarie).

L’Unità 14.02.12

“La lezione delle primarie”, di Claudio Sardo

Le primarie di Genova hanno segnato una sconfitta per il Pd e le sue candidate. Sconfitta pesante perché Genova è una città simbolo della sinistra, perché si allunga nelle metropoli la lista dei sindaci (e dei candidati) critici o irregolari o competitivi con il partito, perché le primarie, creazione del Pd, diventano notizia solo quando è il Pd a soccombere.
Ma sarebbe un errore se i democratici reagissero alla sconfitta in modo difensivo. Non si può dare tutta la colpa alla divisione interna, né alle regole difettose delle primarie, né al preoccupante calo degli elettori di domenica scorsa. Si tratta di ragioni valide, tuttavia nascondono l’area principale di tensione, di incomprensione tra il Pd e parte del suo elettorato. In quest’area c’è un senso di sfiducia verso i partiti, verso la stessa capacità della politica di incidere in positivo sulla vita delle persone, verso il rinnovamento della rappresentanza. È un senso comune che ha molto a che fare con la lunga egemonia liberista e individualista, ma anche con gli errori delle classi dirigenti e con il drammatico fallimento culturale e istituzionale della Seconda Repubblica.
Nelle primarie di Genova, come in altre, c’è però una domanda di politica assai più forte della reazione antipolitica. Se non altro per la preziosa voglia di partecipazione che viene espressa. E il Pd è nato per dare una risposta nuova alla domanda politica e per farsi ponte verso un diverso sistema. Deve però essere capace di rispondere come «partito»: questa è l’impresa. Si resterebbe nel gorgo della Seconda Repubblica giocando a convocare quel popolo, che invece attende la convocazione nei momenti delle scelte che contano, oppure deve essere capace di costruire un partito più grande e più capace di offrire agli elettori delle primarie una «casa» comune. È il tema di un maggiore radicamento, o se si vuole di una riconciliazione delle idee riformiste con quegli interessi sociali e quelle istanze più radicali che da sempre compongono la politica dei progressisti.
Ma è chiaro che a questo punto il discorso sulla struttura si intreccia con le opzioni strategiche. Come tenere insieme una spinta verso sinistra, che pure a Genova è testimoniata dalla campagna del vincitore Doria, con la politica di sostegno al governo Monti? Finché si parla di un risentimento anti-establishment si può anche fingere di sommare Pisapia con
Renzi, Emiliano con De Magistris. Ma, appena si passa dalla propaganda al merito, non si può più sventolare la bandiera delle primarie di coalizione e al tempo stesso inneggiare al governo dei tecnici come eldorado del Pd. Siccome il Pd è nato per essere un partito nel tempo in cui tutti denigrano i partiti, siccome il Pd è nato per portare l’Italia fuori dalla Seconda Repubblica, la strada da intraprendere ci pare obbligata. È quella di un rapporto più aperto e intenso con il popolo del centrosinistra. Il necessario orizzonte «democratico» non può essere contrapposto ad un radicamento nella sinistra: e le primarie devono diventare lo strumento per fare della coalizione (o gran parte di essa) un partito, non per demolire ciò che è rimasto delle strutture organizzate (su cui peraltro poggiano le primarie).

L’Unità 14.02.12