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"Lavoro, allarme diritti. Cancellare l’articolo 18 non giova a nessuno", di Carlo Buttaroni*

Da molti anni si discute dell’opportunità di abolire l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, la norma che consente a un giudice di stabilire il reintegro per il lavoratore licenziato senza giusta causa. Negli ultimi mesi il dibattito è tornato al centro dell’agenda politica e già nella famosa lettera dello scorso agosto, le istituzioni europee, pur non facendo un riferimento diretto allo Statuto, sollecitavano un deciso intervento che rendesse meno rigido il mercato del lavoro in Italia. Il governo Monti sembra oggi orientato a raccogliere concretamente l’invito attraverso l’introduzione di un doppio regime giuridico: mantenimento dell’articolo 18 per tutti coloro che già godono della sua protezione e abolizione per i nuovi assunti. Uno scambio che, nelle intenzioni del governo, dovrebbe favorire la crescita delle assunzioni a tempo indeterminato. È veramente così? Com’è noto la disciplina riguarda soltanto le imprese con più di 15 dipendenti. Pochi sanno, però, che la soglia non si riferisce all’intero organico di un’azienda, ma soltanto a quello delle unità produttive che operano in un singolo Comune. Vale a dire che se un’impresa nel complesso ha più di 15 dipendenti, ripartiti, però, in differenti stabilimenti dislocati in Comuni diversi, è esentata dagli obblighi previsti dallo Statuto. L’articolo18 non impedisce, in assoluto, alle aziende di licenziare. Possono farlo per contingenze economiche,come la mancanza di lavoro, riducendo il personale e mettendo in mobilità i lavoratori. I contratti nazionali di lavoro stabiliscono inoltre che tutti i lavoratori possono essere licenziati per mancanze disciplinari, come, ad esempio, insubordinazione, danneggiamento colposo al materiale dello stabilimento, furto o rissa all’interno del posto di lavoro. Le imprese possono licenziare, senza obbligo di reintegro, anche se i lavoratori svolgono attività per conto proprio o per terzi, se abbandonano il posto o si assentano senza un giustificato motivo per più di 4 giorni. Il licenziamento è previsto sia se un lavoratore è condannato a una pena detentiva, sia per ripetute mancanze disciplinari, anche di minore entità. Non c’è, dunque, un impedimento oggettivo al licenziamento se esiste un motivo valido. A meno che abrogare l’articolo 18 non presupponga l’intenzione di aumentare la competitività delle imprese, facendo leva su una riduzione dei costi di produzione, totalmente a carico dei lavoratori, che senza alcuna tutela si troverebbero costretti ad accettare le condizioni delle imprese per non essere licenziati. O a meno che non si voglia lasciare campo aperto alla possibilità che si diffondano comportamenti che poco hanno a che fare con la qualità della prestazione e molto con l’elusione dei diritti, come quello di scioperare, quelli delle lavoratrici in stato di gravidanza odi chi si ammala, oppure di quelli che pretendono l’effettiva applicazione delle norme di sicurezza sugli impianti. Non dimentichiamo, infatti, che in Italia le morti e gli infortuni sul lavoro restano una piaga inaccettabile ed essere una donna giovane e fertile, ancora oggi, rappresenta un problema nel momento dell’assunzione. Il problema che riguarda i licenziamenti, semmai, è rappresentato dal fatto che i conflitti aprono contenziosi lunghi e incerti, dannosi sia per le imprese sia per i lavoratori, che in alternativa scelgono percorsi extragiudiziari, preferendo entrambi una mediazione al ribasso. Le imprese preferiscono pagare anziché correre rischi e i lavoratori si accontentano di indennizzi sottodimensionati. Una mediazione che allontanagli uni e gli altri dal riconoscimento dei diritti e delle ragioni specifiche. Un problema però che, in questi termini, ha poco a che fare direttamente con l’articolo 18, ma riguarda il funzionamento del sistema giudiziario nel suo complesso. Sottrarre alla disciplina dell’articolo 18 il rapporto tra lavoratori e imprese non risolve il problema, ma abbassa soltanto la linea di galleggiamento dello stato di diritto. L’articolo 18 riguarda, comunque, soltanto il 3% delle imprese che operano in Italia. Imprese che assorbono, però, circa la metà degli occupati nell’industria e nei servizi. Il tema, quindi, interessa soprattutto i lavoratori e solo in misura minore le imprese. Il problema del rapporto tra produzione e lavoro è un altro e riguarda le trasformazioni che, in questi anni, hanno interessato il modo di produrre e la natura stessa delle prestazioni .Dal punto di vista della produzione l’innovazione più significativa è venuta da un nuovo paradigma che ha capovolto la tipica logica del flusso produttivo. La produzione, anziché essere spinta dall’alto, è tirata dal basso. Questo ha determinato profonde ripercussioni nell’organizzazione del mondo del lavoro, ribaltando la logica delle economie di scala e dell’integrazione verticale, tant’è che è progressivamente diminuita la dimensione media dell’impresa per numero di addetti, è aumentata la quota degli occupati nelle imprese minori sul totale e il sistema delle imprese si è andato disponendo articolando in orizzontale. Il passaggio di staffetta è iniziato quando il processo d’integrazione, che per oltre un secolo era stato realizzato all’interno dell’impresa, ha invertito la direzione di marcia, realizzandosi tra le imprese. Ciò ha posto fine alla separazione organizzativa e produttiva, spingendo le imprese minori a organizzarsi localmente come se fossero una sola grande impresa, e quelle maggiori ad articolarsi come se fossero un insieme di piccole realtà. La conseguenza è che a livello macro la lista delle professioni si è allungata e frazionata, senza che si rendesse necessaria una netta ascesa della professionalità media, quanto piuttosto una gamma più estesa di “capacità”, in grado di rispondere all’intreccio fra domande vecchie e nuove. Nel complesso i contenuti sono diventati meno manipolativi e più cognitivi e si è imposto un modo di lavorare scandito daun ritmo teso e da una tensione continua. Non a caso, nel secolo scorso, i sociologi studiavano l’oppressione dovuta alla monotonia e alla ripetitività mentre adesso devono studiare l’ansia generata da variabilità e incertezze. Ieri il sintomo era la noia, oggi la frenesia. Ieri il problema era la rigidità, oggi la flessibilità e la precarietà. Altrettanto profondi sono i movimenti che hanno trasformato i rapporti di lavoro: sono diventati, innanzitutto, meno subordinati e più autonomi, perfino nel lavoro dipendente; meno durevoli, data la crescita dei contratti a tempo determinato e il calo di quelli a tempo indeterminato; meno uniformi giacché l’ambito dei contratti di lavoro è diventato, allo stesso tempo, più circoscritto e più articolato, essendo disposto su orari più corti, durate d’impiego più brevi, o entrambe le cose. Basti citare il lavoro autonomo di seconda e terza generazione, che genera gruppi di lavoratori eterogenei, disciplinati soltanto in modo generico e al cui interno, a parità di mansioni, posso esserci forti differenze retributive. Questo nuovo modo di produrre e lavorare ha, inevitabilmente, indebolito i profili di tutela e le solidarietà fra i lavoratori, dando corpo a un mercato del lavoro dove da una parte si collocano gli stabili e garantiti (in diminuzione) e dall’altra i meno garantiti (in aumento). Se la gabbia entro cui ha funzionato la società del lavoro, dal dopo-guerra alla fine del secolo scorso, era forte e visibile, la ragnatela entro cui si colloca la società dei lavori è fitta e impalpabile, un reticolo di snodi orizzontali, anziché un’intelaiatura di gerarchie verticali. È evidente che, in questo scenario, la modifica dello Statuto dei lavoratori non migliora la competitività delle imprese, sottrae garanzie a una parte dei lavoratori e non aggiunge nulla che metta in equilibrio le nuove esigenze della produzione con i diritti dei lavoratori. Semmai il problema è come dare corpo ai nuovi bisogni di tutela, tutti da delineare e da costruire, all’interno di una rete protettiva e universalistica che garanti
sca il lavoratore nella definizione di una nuova cittadinanza del lavoro. Un approccio esattamente opposto a quello che si sta sviluppando.

*Carlo Buttaroni – PRESIDENTE DI TECNÈ

L’Unità 13.02.12

“Lavoro, allarme diritti. Cancellare l’articolo 18 non giova a nessuno”, di Carlo Buttaroni*

Da molti anni si discute dell’opportunità di abolire l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, la norma che consente a un giudice di stabilire il reintegro per il lavoratore licenziato senza giusta causa. Negli ultimi mesi il dibattito è tornato al centro dell’agenda politica e già nella famosa lettera dello scorso agosto, le istituzioni europee, pur non facendo un riferimento diretto allo Statuto, sollecitavano un deciso intervento che rendesse meno rigido il mercato del lavoro in Italia. Il governo Monti sembra oggi orientato a raccogliere concretamente l’invito attraverso l’introduzione di un doppio regime giuridico: mantenimento dell’articolo 18 per tutti coloro che già godono della sua protezione e abolizione per i nuovi assunti. Uno scambio che, nelle intenzioni del governo, dovrebbe favorire la crescita delle assunzioni a tempo indeterminato. È veramente così? Com’è noto la disciplina riguarda soltanto le imprese con più di 15 dipendenti. Pochi sanno, però, che la soglia non si riferisce all’intero organico di un’azienda, ma soltanto a quello delle unità produttive che operano in un singolo Comune. Vale a dire che se un’impresa nel complesso ha più di 15 dipendenti, ripartiti, però, in differenti stabilimenti dislocati in Comuni diversi, è esentata dagli obblighi previsti dallo Statuto. L’articolo18 non impedisce, in assoluto, alle aziende di licenziare. Possono farlo per contingenze economiche,come la mancanza di lavoro, riducendo il personale e mettendo in mobilità i lavoratori. I contratti nazionali di lavoro stabiliscono inoltre che tutti i lavoratori possono essere licenziati per mancanze disciplinari, come, ad esempio, insubordinazione, danneggiamento colposo al materiale dello stabilimento, furto o rissa all’interno del posto di lavoro. Le imprese possono licenziare, senza obbligo di reintegro, anche se i lavoratori svolgono attività per conto proprio o per terzi, se abbandonano il posto o si assentano senza un giustificato motivo per più di 4 giorni. Il licenziamento è previsto sia se un lavoratore è condannato a una pena detentiva, sia per ripetute mancanze disciplinari, anche di minore entità. Non c’è, dunque, un impedimento oggettivo al licenziamento se esiste un motivo valido. A meno che abrogare l’articolo 18 non presupponga l’intenzione di aumentare la competitività delle imprese, facendo leva su una riduzione dei costi di produzione, totalmente a carico dei lavoratori, che senza alcuna tutela si troverebbero costretti ad accettare le condizioni delle imprese per non essere licenziati. O a meno che non si voglia lasciare campo aperto alla possibilità che si diffondano comportamenti che poco hanno a che fare con la qualità della prestazione e molto con l’elusione dei diritti, come quello di scioperare, quelli delle lavoratrici in stato di gravidanza odi chi si ammala, oppure di quelli che pretendono l’effettiva applicazione delle norme di sicurezza sugli impianti. Non dimentichiamo, infatti, che in Italia le morti e gli infortuni sul lavoro restano una piaga inaccettabile ed essere una donna giovane e fertile, ancora oggi, rappresenta un problema nel momento dell’assunzione. Il problema che riguarda i licenziamenti, semmai, è rappresentato dal fatto che i conflitti aprono contenziosi lunghi e incerti, dannosi sia per le imprese sia per i lavoratori, che in alternativa scelgono percorsi extragiudiziari, preferendo entrambi una mediazione al ribasso. Le imprese preferiscono pagare anziché correre rischi e i lavoratori si accontentano di indennizzi sottodimensionati. Una mediazione che allontanagli uni e gli altri dal riconoscimento dei diritti e delle ragioni specifiche. Un problema però che, in questi termini, ha poco a che fare direttamente con l’articolo 18, ma riguarda il funzionamento del sistema giudiziario nel suo complesso. Sottrarre alla disciplina dell’articolo 18 il rapporto tra lavoratori e imprese non risolve il problema, ma abbassa soltanto la linea di galleggiamento dello stato di diritto. L’articolo 18 riguarda, comunque, soltanto il 3% delle imprese che operano in Italia. Imprese che assorbono, però, circa la metà degli occupati nell’industria e nei servizi. Il tema, quindi, interessa soprattutto i lavoratori e solo in misura minore le imprese. Il problema del rapporto tra produzione e lavoro è un altro e riguarda le trasformazioni che, in questi anni, hanno interessato il modo di produrre e la natura stessa delle prestazioni .Dal punto di vista della produzione l’innovazione più significativa è venuta da un nuovo paradigma che ha capovolto la tipica logica del flusso produttivo. La produzione, anziché essere spinta dall’alto, è tirata dal basso. Questo ha determinato profonde ripercussioni nell’organizzazione del mondo del lavoro, ribaltando la logica delle economie di scala e dell’integrazione verticale, tant’è che è progressivamente diminuita la dimensione media dell’impresa per numero di addetti, è aumentata la quota degli occupati nelle imprese minori sul totale e il sistema delle imprese si è andato disponendo articolando in orizzontale. Il passaggio di staffetta è iniziato quando il processo d’integrazione, che per oltre un secolo era stato realizzato all’interno dell’impresa, ha invertito la direzione di marcia, realizzandosi tra le imprese. Ciò ha posto fine alla separazione organizzativa e produttiva, spingendo le imprese minori a organizzarsi localmente come se fossero una sola grande impresa, e quelle maggiori ad articolarsi come se fossero un insieme di piccole realtà. La conseguenza è che a livello macro la lista delle professioni si è allungata e frazionata, senza che si rendesse necessaria una netta ascesa della professionalità media, quanto piuttosto una gamma più estesa di “capacità”, in grado di rispondere all’intreccio fra domande vecchie e nuove. Nel complesso i contenuti sono diventati meno manipolativi e più cognitivi e si è imposto un modo di lavorare scandito daun ritmo teso e da una tensione continua. Non a caso, nel secolo scorso, i sociologi studiavano l’oppressione dovuta alla monotonia e alla ripetitività mentre adesso devono studiare l’ansia generata da variabilità e incertezze. Ieri il sintomo era la noia, oggi la frenesia. Ieri il problema era la rigidità, oggi la flessibilità e la precarietà. Altrettanto profondi sono i movimenti che hanno trasformato i rapporti di lavoro: sono diventati, innanzitutto, meno subordinati e più autonomi, perfino nel lavoro dipendente; meno durevoli, data la crescita dei contratti a tempo determinato e il calo di quelli a tempo indeterminato; meno uniformi giacché l’ambito dei contratti di lavoro è diventato, allo stesso tempo, più circoscritto e più articolato, essendo disposto su orari più corti, durate d’impiego più brevi, o entrambe le cose. Basti citare il lavoro autonomo di seconda e terza generazione, che genera gruppi di lavoratori eterogenei, disciplinati soltanto in modo generico e al cui interno, a parità di mansioni, posso esserci forti differenze retributive. Questo nuovo modo di produrre e lavorare ha, inevitabilmente, indebolito i profili di tutela e le solidarietà fra i lavoratori, dando corpo a un mercato del lavoro dove da una parte si collocano gli stabili e garantiti (in diminuzione) e dall’altra i meno garantiti (in aumento). Se la gabbia entro cui ha funzionato la società del lavoro, dal dopo-guerra alla fine del secolo scorso, era forte e visibile, la ragnatela entro cui si colloca la società dei lavori è fitta e impalpabile, un reticolo di snodi orizzontali, anziché un’intelaiatura di gerarchie verticali. È evidente che, in questo scenario, la modifica dello Statuto dei lavoratori non migliora la competitività delle imprese, sottrae garanzie a una parte dei lavoratori e non aggiunge nulla che metta in equilibrio le nuove esigenze della produzione con i diritti dei lavoratori. Semmai il problema è come dare corpo ai nuovi bisogni di tutela, tutti da delineare e da costruire, all’interno di una rete protettiva e universalistica che garantisca il lavoratore nella definizione di una nuova cittadinanza del lavoro. Un approccio esattamente opposto a quello che si sta sviluppando.

*Carlo Buttaroni – PRESIDENTE DI TECNÈ

L’Unità 13.02.12

"Caro Sottosegretario Rossi Doria, lettera di una maestra", da Scuola Oggi

Caro Sottosegretario Rossi Doria, il suo intervento a La7 mi è piaciuto. Una volta tanto si sente parlare un politico di cose di cui sa e che ha vissuto. Niente retorica e luoghi comuni e neppure demagogia e propaganda elettorale. Certo nel Suo intervento non ha fatto proclami ad effetto, ma con un tono pacato ha dato un’idea di quello che la scuola è, e dovrebbe essere. Un luogo dove i docenti, impegnati e in affanno per le riforme, non sempre volute e necessarie, stentano a ricevere i dovuti riconoscimenti per il lavoro faticoso e importante che svolgono quotidianamente con i giovani. Un luogo dove gli studenti, che crescono e condividono con i loro coetanei le contraddizioni del loro tempo, vengono o esaltati o compatiti o demonizzati, e non sempre a ragione. Oggi sul nuovo Dicastero dell’Istruzione, come avrà già avuto modo di comprendere, gravano non poche aspettative che provengono, come sempre, dai più che continuano a lavorare con passione per la scuola e nella scuola. La politica del precedente governo, che aveva riservato alla scuola tagli cospicui di risorse, economiche e umane, dovrebbe essere oramai alle nostre spalle. Con questo non si è tanto ingenui e sprovveduti da potere credere che sia possibile varare nuovi provvedimenti per riportare indietro le lancette. Le riforme Gelmini ci sono e saranno attuate, ma la speranza di molti di noi risiede nella capacità e nella volontà di questo Ministero a volere intervenire sui processi avviati, cercando di correggere soprattutto quegli interventi volti ad indebolire il sistema pubblico di istruzione. Una scuola, come ha sostenuto Lei stessa in trasmissione, che sappia accogliere i ragazzi in difficoltà e sia in grado di accompagnarli verso il bisogno, e perché no, anche verso il piacere della scoperta e della conoscenza. Le numerose ricerche, i progetti attivati in questi anni con i finanziamenti europei, le valutazioni INVALSI devono servire proprio a questo, a fornire ai docenti e alla scuola tutta gli input necessari per aumentare il numero dei giovani che trovano nella scuole e nella formazione un riferimento continuo per la loro crescita. E questo si può ottenere, superando le vecchie ideologie e le desuete contrapposizioni tra i diversi percorsi di istruzione, licei, istituti professionali o quant’altro. Il sistema pubblico di istruzione deve garantire a ciascun ragazzo la possibilità di trovare la propria strada scegliendo e seguendo itinerari e strade diverse. Uno dei fattori di maggiore criticità è rappresentato ancora oggi dal fenomeno dell’abbandono scolastico. Da anni le indagini nazionali e internazionali non fanno che confermare questo dato. E non può sorprenderci se esso raggiunge le sue punte massime nel Sud. È fisiologico. La povertà, la criminalità, il disagio sociale, la violenza fanno perdere i punti di riferimento. E ne fanno le spese i più deboli, i più fragili, coloro i quali avrebbero bisogno più di altri di trovare la forza e la volontà per andare oltre. Da anni si è cercato di intervenire nel Sud , utilizzando le risorse dei fondi strutturali europei, con progetti finalizzati al fenomeno della dispersione scolastica. Il programma ( 2007-2013) rivolto alle quattro regioni dell’Obiettivo Convergenza (Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) mira allo stesso fine. E allora se è vero che questo governo vuole promuovere azioni efficaci per la coesione territoriale, testimoniato tra l’altro anche dalla nomina di un ministro con questo incarico, mi aspetto che questo ministero si rivolga in modo nuovo ai ragazzi del Sud, a coloro i quali si sentono rifiutati o non accolti dal sistema. Un programma per la coesione territoriale che deve aprirsi ai ragazzi del Sud, soprattutto deve rivolgersi a coloro i quali non riescono a trovare nella scuola le risposte ai loro bisogni. I ragazzi del nostro Sud non possono continuare ad essere guardati come i maggiori responsabili degli insuccessi dell’Italia nelle indagini internazionali sugli apprendimenti degli allievi, ma come persone ai quali rivolgere una attenzione finalmente vera e sincera, non solo di facciata. Ecco Signor sottosegretario, credo che, anche un governo con un tempo limitato come il vostro, ma con competenze ed esperienze forti sul campo, possa fare un affondo in grado di lasciare un segno nel nostro sistema scolastico. Un augurio che Le viene rivolto da una docente che ancora ci crede. E se non ora, quando?

Una maestra

da Scuola Oggi 13.02.12

“Caro Sottosegretario Rossi Doria, lettera di una maestra”, da Scuola Oggi

Caro Sottosegretario Rossi Doria, il suo intervento a La7 mi è piaciuto. Una volta tanto si sente parlare un politico di cose di cui sa e che ha vissuto. Niente retorica e luoghi comuni e neppure demagogia e propaganda elettorale. Certo nel Suo intervento non ha fatto proclami ad effetto, ma con un tono pacato ha dato un’idea di quello che la scuola è, e dovrebbe essere. Un luogo dove i docenti, impegnati e in affanno per le riforme, non sempre volute e necessarie, stentano a ricevere i dovuti riconoscimenti per il lavoro faticoso e importante che svolgono quotidianamente con i giovani. Un luogo dove gli studenti, che crescono e condividono con i loro coetanei le contraddizioni del loro tempo, vengono o esaltati o compatiti o demonizzati, e non sempre a ragione. Oggi sul nuovo Dicastero dell’Istruzione, come avrà già avuto modo di comprendere, gravano non poche aspettative che provengono, come sempre, dai più che continuano a lavorare con passione per la scuola e nella scuola. La politica del precedente governo, che aveva riservato alla scuola tagli cospicui di risorse, economiche e umane, dovrebbe essere oramai alle nostre spalle. Con questo non si è tanto ingenui e sprovveduti da potere credere che sia possibile varare nuovi provvedimenti per riportare indietro le lancette. Le riforme Gelmini ci sono e saranno attuate, ma la speranza di molti di noi risiede nella capacità e nella volontà di questo Ministero a volere intervenire sui processi avviati, cercando di correggere soprattutto quegli interventi volti ad indebolire il sistema pubblico di istruzione. Una scuola, come ha sostenuto Lei stessa in trasmissione, che sappia accogliere i ragazzi in difficoltà e sia in grado di accompagnarli verso il bisogno, e perché no, anche verso il piacere della scoperta e della conoscenza. Le numerose ricerche, i progetti attivati in questi anni con i finanziamenti europei, le valutazioni INVALSI devono servire proprio a questo, a fornire ai docenti e alla scuola tutta gli input necessari per aumentare il numero dei giovani che trovano nella scuole e nella formazione un riferimento continuo per la loro crescita. E questo si può ottenere, superando le vecchie ideologie e le desuete contrapposizioni tra i diversi percorsi di istruzione, licei, istituti professionali o quant’altro. Il sistema pubblico di istruzione deve garantire a ciascun ragazzo la possibilità di trovare la propria strada scegliendo e seguendo itinerari e strade diverse. Uno dei fattori di maggiore criticità è rappresentato ancora oggi dal fenomeno dell’abbandono scolastico. Da anni le indagini nazionali e internazionali non fanno che confermare questo dato. E non può sorprenderci se esso raggiunge le sue punte massime nel Sud. È fisiologico. La povertà, la criminalità, il disagio sociale, la violenza fanno perdere i punti di riferimento. E ne fanno le spese i più deboli, i più fragili, coloro i quali avrebbero bisogno più di altri di trovare la forza e la volontà per andare oltre. Da anni si è cercato di intervenire nel Sud , utilizzando le risorse dei fondi strutturali europei, con progetti finalizzati al fenomeno della dispersione scolastica. Il programma ( 2007-2013) rivolto alle quattro regioni dell’Obiettivo Convergenza (Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) mira allo stesso fine. E allora se è vero che questo governo vuole promuovere azioni efficaci per la coesione territoriale, testimoniato tra l’altro anche dalla nomina di un ministro con questo incarico, mi aspetto che questo ministero si rivolga in modo nuovo ai ragazzi del Sud, a coloro i quali si sentono rifiutati o non accolti dal sistema. Un programma per la coesione territoriale che deve aprirsi ai ragazzi del Sud, soprattutto deve rivolgersi a coloro i quali non riescono a trovare nella scuola le risposte ai loro bisogni. I ragazzi del nostro Sud non possono continuare ad essere guardati come i maggiori responsabili degli insuccessi dell’Italia nelle indagini internazionali sugli apprendimenti degli allievi, ma come persone ai quali rivolgere una attenzione finalmente vera e sincera, non solo di facciata. Ecco Signor sottosegretario, credo che, anche un governo con un tempo limitato come il vostro, ma con competenze ed esperienze forti sul campo, possa fare un affondo in grado di lasciare un segno nel nostro sistema scolastico. Un augurio che Le viene rivolto da una docente che ancora ci crede. E se non ora, quando?

Una maestra

da Scuola Oggi 13.02.12

"Falso movimento", di Fabrizio Dacrema

Eppure il Ministro Profumo aveva visto giusto. Si trattava di dare alla scuola chiari segnali di inversione di tendenza pur nel quadro economico e finanziario emergenziale in cui versa il paese. Corrette le priorità individuate: rilancio dell’autonomia scolastica, potenziamento della filiera dell’istruzione e della formazione per il lavoro, sviluppo del sistema nazionale di valutazione, sicurezza e qualità dell’edilizia scolastica.

Come il protagonista del vecchio film di Wim Wenders, il Ministro nel decreto semplificazioni avrebbe voluto “poter scrivere qualcosa di assolutamente necessario”, invece ha dovuto limitarsi al possibile, cioè a quanto autorizzato dagli occhiuti controlli del Ministero dell’Economia e delle Finanze. (MEF).

L’occasione perduta dell’organico funzionale

In particolare sul nodo decisivo delle risorse per l’autonomia scolastica l’idea di far partire subito il meccanismo dell’organico funzionale di scuola e di rete è stata accantonata e, di fatto, rinviata alla prossima legislatura.

Avviando immediatamente l’organico funzionale si sarebbe, invece, inviato alle scuole il messaggio della fine dell’era dei tagli lineari a favore dell’attribuzione alle scuole di risorse professionali stabili e arricchibili progressivamente e in modo mirato al fine di ricostruire condizioni essenziali per assolvere al mandato costituzionale di assicurare a tutti il diritto all’istruzione. Le scuole avrebbero più facilmente trovato la motivazione per attivare i necessari processi di innovazione e le conseguenti nuove forme di organizzazione didattica e del lavoro in presenza di criteri di gestione delle risorse basati sulla funzionalità e le flessibilità. Invece continuano a prevalere incertezza e precarietà e tutto rimane più difficile.

La subalternità del Ministero dell’Istruzione al MEF, in piena continuità con il modello Tremonti-Gelmini, non è la conseguenza di una diatriba tra Ministeri. Prevale anche nel Governo Monti, come nell’Unione Europea, la scelta per politiche di austerità destinate a ridurre il perimetro pubblico del welfare e a condurre l’economia nelle spirale della recessione e del dissesto finanziario. Con l’intento di rispondere alla speculazione dei mercati si persegue esclusivamente una politica di rigore finanziario, si strozza la crescita, si vanificano gli sforzi di risanamento compiuti e non si investe nei settori della conoscenza e dei beni ambientali indispensabili per il futuro del paese. Si continuano a riproporre i modelli neoliberisti della svalutazione del lavoro: enfatizzazione della libertà di licenziare e disattenzione verso i fattori del capitale umano. Non si prende atto, in Italia e in Europa, del fallimento del modello ultraliberista fondato su stato minimo, esaltazione delle disuguaglianze e deregolazione finanziaria.

Ripartire dalle politiche per il lavoro …

Per queste ragioni solo una sostanziale correzione della politica economica esclusivamente rigorista del Governo Monti potrà permettere al Ministro Profumo di recuperare dopo il passo falso compiuto con il decreto semplificazioni.

La trattativa avviata tra Governo e Parti Sociali può e deve ottenere risultati per cambiare la politica economica del governo, creare lavoro e opportunità, migliorare il welfare, rimettere in moto la crescita e risanare i conti attraverso investimenti pubblici strategici, stimoli agli investimenti privati ad alta intensità tecnologica e della conoscenza, incentivi per l’occupazione, soprattutto giovanile e femminile. Lotta all’evasione fiscale e al sommerso, riqualificazione della spesa unite a una più equa distribuzione del reddito e della ricchezza sono gli strumenti per trovare le risorse necessarie.

In questa prospettiva il Ministro Profumo ha azzeccato la mossa annunciando una legge sull’apprendimento permanente. La ragione è semplice, nessun paese può pensare di evitare il declino economico e civile con metà della popolazione attiva con livelli di istruzione che non superano la terza media, dispersione scolastica a quasi il 20% e 6,2% di adulti che partecipano ad attività formative. Cifre che ci allontanano da tutti i paesi con economie competitive sul terreno dell’innovazione.

… e per l’apprendimento permanente

Per affrontare questa vera e propria emergenza formativa, oltre a una legge che affermi il diritto all’apprendimento permanente (vedi proposta di legge d’iniziativa popolare presentata in Parlamento), sono possibili immediati interventi di svolta, indicati dalla Cgil e dalle altre organizzazioni degli Stati Generali della Conoscenza che stanno promuovendo le iniziative (Milano, Napoli, …) “Sapere per Contare – Dieci proposte per il diritto all’Apprendimento Permanente”. Per raggiungere l’obiettivo di raggiungere il benchmark fissato dalla Commissione Europea del 15% della popolazione 25-64 anni che partecipa ad attività formative, è opportuno individuare alcune situazioni di emergenza su cui intervenire in modo prioritario: ridurre i 3 milioni nella fascia di età 20-34 senza diploma e senza qualifica professionale, promuovere l’accesso delle donne alla formazione per contrastare l’esclusione dal lavoro, garantire agli immigrati percorsi formativi per la lingua e la cittadinanza, sostenere la partecipazione alla formazione continua dei lavoratori con bassi titoli di studio e basse qualifiche professionali per promuovere i processi di innovazione e riposizionamento qualitativo del sistema produttivo, favorire lo sviluppo di processi formativi specificamente diretti ai lavoratori “maturi” per sostenere il prolungamento dell’attività lavorativa e l’invecchiamento attivo, diffondere processi formativi rivolti alla popolazione anziana per l’acquisizione di “life skills”. Un piano di interventi immediato potrebbe essere lanciato come campagna di alfabetizzazione per l’anno successivo all’approvazione della legge per innalzare il livello di conoscenze e competenze di almeno 100.000 persone su tre temi: patente informatica europea, lingue straniere (in particolare inglese), italiano per stranieri.

Un intervento convergente di legge e contrattazione dovrebbe ampliare le opportunità di partecipazione dei lavoratori alla formazione aprendo una nuova stagione di centralità della formazione per la riorganizzazione delle imprese e per lo sviluppo retributivo e di carriera dei lavoratori. La legge potrebbe stabilire un minimo di congedi non retribuiti e di permessi retribuiti come base dalla quale poi la contrattazione potrebbe partire nei diversi comparti per ottenere situazioni migliorative.

Valorizzare gli aspetti positivi del decreto semplificazioni

L’obiettivo di potenziare le competenze per il lavoro e lo sviluppo può essere perseguito anche attraverso le misure contenute nel decreto semplificazioni, sempre che la politica economica del governo cambi e si riesca a uscire dalla logica della conferma punto per punto dei tagli Tremonti-Gelmini.

Il decreto riprende la legge 40/2007 per rilanciare e ampliare attraverso successive linee guida alcune misure rimaste inattuate della riorganizzazione dell’istruzione tecnica e professionale. Si aprono così importanti opportunità per rafforzare il coordinamento e l’integrazione tra percorsi statali e percorsi di istruzione e formazione professionale regionali, per favorire la costituzione dei poli tecnico-professionali come strumenti per la programmazione integrata territoriale dell’intera filiera dell’offerta formativa per il lavoro e di gestione delle esperienze di alternanza scuola lavoro. Inoltre è possibile promuovere e incentivare l’utilizzo dell’apprendistato per il rientro in formazione dei giovani drop out che hanno abbandonato la scuola privi di diploma e di qualifica. Positive anche le misure previste per gli istituti tecnici superiori, per i quali si profila una riorganizzazione finalizzata ad una migliore utilizzazione delle risorse, favorendo l’aggregazione delle migliori esperienze, anche con collaborazioni multi regionali, evitando frammentazioni dispersive e non qualificate.

Decisamente positivo poi il piano nazionale di edilizia scolastica ottenuto attraverso un’intelligente integrazione e finalizzazione di fondi europei e stanziamenti CIPE.

Un esempio da seguire perché il primo passo per trovare le risorse da investire nella conoscenza è la miglior utilizzazione delle risorse esistenti. Per questo è ormai improrogabile l’attuazione delle prerogative delle Regioni previste dal Titolo V della Costituzione. Spetta infatti a Regioni ed Enti Locali realizzare una migliore riallocazione delle risorse per i percorsi di istruzione (le Regioni che fanno scelte virtuose sulla rete scolastica devono poter reinvestire per la qualità dell’offerta formativa) e favorire l’integrazione delle risorse per la formazione permanente (fondi statali, regionali europei e Fondi Interprofessionali).

da Scuola Oggi 13.02.12

“Falso movimento”, di Fabrizio Dacrema

Eppure il Ministro Profumo aveva visto giusto. Si trattava di dare alla scuola chiari segnali di inversione di tendenza pur nel quadro economico e finanziario emergenziale in cui versa il paese. Corrette le priorità individuate: rilancio dell’autonomia scolastica, potenziamento della filiera dell’istruzione e della formazione per il lavoro, sviluppo del sistema nazionale di valutazione, sicurezza e qualità dell’edilizia scolastica.

Come il protagonista del vecchio film di Wim Wenders, il Ministro nel decreto semplificazioni avrebbe voluto “poter scrivere qualcosa di assolutamente necessario”, invece ha dovuto limitarsi al possibile, cioè a quanto autorizzato dagli occhiuti controlli del Ministero dell’Economia e delle Finanze. (MEF).

L’occasione perduta dell’organico funzionale

In particolare sul nodo decisivo delle risorse per l’autonomia scolastica l’idea di far partire subito il meccanismo dell’organico funzionale di scuola e di rete è stata accantonata e, di fatto, rinviata alla prossima legislatura.

Avviando immediatamente l’organico funzionale si sarebbe, invece, inviato alle scuole il messaggio della fine dell’era dei tagli lineari a favore dell’attribuzione alle scuole di risorse professionali stabili e arricchibili progressivamente e in modo mirato al fine di ricostruire condizioni essenziali per assolvere al mandato costituzionale di assicurare a tutti il diritto all’istruzione. Le scuole avrebbero più facilmente trovato la motivazione per attivare i necessari processi di innovazione e le conseguenti nuove forme di organizzazione didattica e del lavoro in presenza di criteri di gestione delle risorse basati sulla funzionalità e le flessibilità. Invece continuano a prevalere incertezza e precarietà e tutto rimane più difficile.

La subalternità del Ministero dell’Istruzione al MEF, in piena continuità con il modello Tremonti-Gelmini, non è la conseguenza di una diatriba tra Ministeri. Prevale anche nel Governo Monti, come nell’Unione Europea, la scelta per politiche di austerità destinate a ridurre il perimetro pubblico del welfare e a condurre l’economia nelle spirale della recessione e del dissesto finanziario. Con l’intento di rispondere alla speculazione dei mercati si persegue esclusivamente una politica di rigore finanziario, si strozza la crescita, si vanificano gli sforzi di risanamento compiuti e non si investe nei settori della conoscenza e dei beni ambientali indispensabili per il futuro del paese. Si continuano a riproporre i modelli neoliberisti della svalutazione del lavoro: enfatizzazione della libertà di licenziare e disattenzione verso i fattori del capitale umano. Non si prende atto, in Italia e in Europa, del fallimento del modello ultraliberista fondato su stato minimo, esaltazione delle disuguaglianze e deregolazione finanziaria.

Ripartire dalle politiche per il lavoro …

Per queste ragioni solo una sostanziale correzione della politica economica esclusivamente rigorista del Governo Monti potrà permettere al Ministro Profumo di recuperare dopo il passo falso compiuto con il decreto semplificazioni.

La trattativa avviata tra Governo e Parti Sociali può e deve ottenere risultati per cambiare la politica economica del governo, creare lavoro e opportunità, migliorare il welfare, rimettere in moto la crescita e risanare i conti attraverso investimenti pubblici strategici, stimoli agli investimenti privati ad alta intensità tecnologica e della conoscenza, incentivi per l’occupazione, soprattutto giovanile e femminile. Lotta all’evasione fiscale e al sommerso, riqualificazione della spesa unite a una più equa distribuzione del reddito e della ricchezza sono gli strumenti per trovare le risorse necessarie.

In questa prospettiva il Ministro Profumo ha azzeccato la mossa annunciando una legge sull’apprendimento permanente. La ragione è semplice, nessun paese può pensare di evitare il declino economico e civile con metà della popolazione attiva con livelli di istruzione che non superano la terza media, dispersione scolastica a quasi il 20% e 6,2% di adulti che partecipano ad attività formative. Cifre che ci allontanano da tutti i paesi con economie competitive sul terreno dell’innovazione.

… e per l’apprendimento permanente

Per affrontare questa vera e propria emergenza formativa, oltre a una legge che affermi il diritto all’apprendimento permanente (vedi proposta di legge d’iniziativa popolare presentata in Parlamento), sono possibili immediati interventi di svolta, indicati dalla Cgil e dalle altre organizzazioni degli Stati Generali della Conoscenza che stanno promuovendo le iniziative (Milano, Napoli, …) “Sapere per Contare – Dieci proposte per il diritto all’Apprendimento Permanente”. Per raggiungere l’obiettivo di raggiungere il benchmark fissato dalla Commissione Europea del 15% della popolazione 25-64 anni che partecipa ad attività formative, è opportuno individuare alcune situazioni di emergenza su cui intervenire in modo prioritario: ridurre i 3 milioni nella fascia di età 20-34 senza diploma e senza qualifica professionale, promuovere l’accesso delle donne alla formazione per contrastare l’esclusione dal lavoro, garantire agli immigrati percorsi formativi per la lingua e la cittadinanza, sostenere la partecipazione alla formazione continua dei lavoratori con bassi titoli di studio e basse qualifiche professionali per promuovere i processi di innovazione e riposizionamento qualitativo del sistema produttivo, favorire lo sviluppo di processi formativi specificamente diretti ai lavoratori “maturi” per sostenere il prolungamento dell’attività lavorativa e l’invecchiamento attivo, diffondere processi formativi rivolti alla popolazione anziana per l’acquisizione di “life skills”. Un piano di interventi immediato potrebbe essere lanciato come campagna di alfabetizzazione per l’anno successivo all’approvazione della legge per innalzare il livello di conoscenze e competenze di almeno 100.000 persone su tre temi: patente informatica europea, lingue straniere (in particolare inglese), italiano per stranieri.

Un intervento convergente di legge e contrattazione dovrebbe ampliare le opportunità di partecipazione dei lavoratori alla formazione aprendo una nuova stagione di centralità della formazione per la riorganizzazione delle imprese e per lo sviluppo retributivo e di carriera dei lavoratori. La legge potrebbe stabilire un minimo di congedi non retribuiti e di permessi retribuiti come base dalla quale poi la contrattazione potrebbe partire nei diversi comparti per ottenere situazioni migliorative.

Valorizzare gli aspetti positivi del decreto semplificazioni

L’obiettivo di potenziare le competenze per il lavoro e lo sviluppo può essere perseguito anche attraverso le misure contenute nel decreto semplificazioni, sempre che la politica economica del governo cambi e si riesca a uscire dalla logica della conferma punto per punto dei tagli Tremonti-Gelmini.

Il decreto riprende la legge 40/2007 per rilanciare e ampliare attraverso successive linee guida alcune misure rimaste inattuate della riorganizzazione dell’istruzione tecnica e professionale. Si aprono così importanti opportunità per rafforzare il coordinamento e l’integrazione tra percorsi statali e percorsi di istruzione e formazione professionale regionali, per favorire la costituzione dei poli tecnico-professionali come strumenti per la programmazione integrata territoriale dell’intera filiera dell’offerta formativa per il lavoro e di gestione delle esperienze di alternanza scuola lavoro. Inoltre è possibile promuovere e incentivare l’utilizzo dell’apprendistato per il rientro in formazione dei giovani drop out che hanno abbandonato la scuola privi di diploma e di qualifica. Positive anche le misure previste per gli istituti tecnici superiori, per i quali si profila una riorganizzazione finalizzata ad una migliore utilizzazione delle risorse, favorendo l’aggregazione delle migliori esperienze, anche con collaborazioni multi regionali, evitando frammentazioni dispersive e non qualificate.

Decisamente positivo poi il piano nazionale di edilizia scolastica ottenuto attraverso un’intelligente integrazione e finalizzazione di fondi europei e stanziamenti CIPE.

Un esempio da seguire perché il primo passo per trovare le risorse da investire nella conoscenza è la miglior utilizzazione delle risorse esistenti. Per questo è ormai improrogabile l’attuazione delle prerogative delle Regioni previste dal Titolo V della Costituzione. Spetta infatti a Regioni ed Enti Locali realizzare una migliore riallocazione delle risorse per i percorsi di istruzione (le Regioni che fanno scelte virtuose sulla rete scolastica devono poter reinvestire per la qualità dell’offerta formativa) e favorire l’integrazione delle risorse per la formazione permanente (fondi statali, regionali europei e Fondi Interprofessionali).

da Scuola Oggi 13.02.12

"Cosa ci dice la rabbia dei greci", di Stefano Lepri

Osserviamo con attenzione la Grecia, perché può insegnarci molto. I leader dei due principali partiti politici sono coscienti, d’accordo con il primo ministro tecnico, che altri sacrifici sono inevitabili. Ma la gente non ne può più, perché i sacrifici finora sono stati distribuiti male, e segni di speranza non se ne vedono. Nei nostri tempi, nessuna democrazia era mai stata sottoposta a uno stress simile a quelli da cui nacquero le dittature degli Anni 30. Vediamo un sistema politico e amministrativo corrotto avvitarsi su sé stesso. Il medico-sindacalista ateniese intervistato ieri da questo giornale sosteneva che i tagli di spesa fanno mancare le medicine negli ospedali. Fino a ieri, peraltro, risultava come prassi corrente rivendere all’estero, dove i prezzi sono più alti, i medicinali acquistati dal sistema sanitario pubblico greco. Non a caso la spesa pro capite per farmaci l’anno scorso è stata oltre il 15% superiore rispetto all’Italia, benché il reddito sia alquanto più basso.

In questo caso come in altri, la corruzione che pervade il sistema scarica tutto il peso dei sacrifici sui più deboli, ovvero su chi non fa parte di una clientela o di una categoria protetta.

Peggio ancora, l’incapacità di toccare i privilegi blocca ogni tentativo di rivitalizzare l’economia. Ai deputati risulta più facile aumentare le tasse a tutti che pestare i piedi a gruppi di interesse compatti. Dopodiché una amministrazione corrotta riesce a riscuotere le maggiori tasse solo dai soliti noti, mentre i furbi se la cavano (portare l’aliquota Iva dal 19 al 23% non ne ha accresciuto il gettito).

Il sindacato dei poliziotti ellenici vorrebbe mettere in galera gli inviati della «troika» (Commissione europea, Bce, Fondo monetario). Eppure a tormentare la «troika» è assai più la mancanza di riforme strutturali. Ad esempio, poco o nulla si è fatto in materia di privatizzazioni, perché i politici non volevano rinunciare a strumenti di potere. E perché mai un Paese in queste condizioni è pronto a tagliare le spese militari solo se «non pregiudicano le capacità difensive»?

Dall’altro lato dello Ionio arrivano a punte estreme fenomeni che ben conosciamo. Ce ne rendiamo conto, tanto da ripetere «non siamo come la Grecia» un po’ troppo spesso. Più efficace è invece dire che i sacrifici non li facciamo perché ce li chiede l’Europa ma per il nostro futuro. Questa è la chiarezza che è finora mancata in Grecia, grazie anche a procedure di decisione europee che rendono agevole lo scarico di responsabilità.

Forse la gente che protesta in piazza ad Atene è ormai troppo esasperata per spiegargli che un Paese non può campare producendo 100 e consumando 110, come era avvenuto grazie ai crediti di quella finanza internazionale che poi ha avuto paura delle proprie dissennatezze. È comprensibile l’indignazione contro una macchina politico-burocratica che preme sul Paese come un tumore; ma alle prossime elezioni pare non ci sarà molta scelta tra rivotare chi ha falsificato i bilanci pubblici o gonfiare partiti estremisti privi di ricette.

Il voto di ieri sera nel Parlamento non risolve nulla, allunga i tempi di qualche mese. La vera scadenza diventa ora un’altra: nel corso del 2012 il bilancio dello Stato greco arriverà all’«attivo primario» ossia eliminerà tutto il deficit non causato da pagamento di interessi su debiti. A quel punto, l’insolvenza totale diventerà una tentazione; non è facile capire se più per i greci, o per chi in Europa vuole abbandonarli a sé stessi.

Le ripercussioni di un eventuale default sembrano ora meno difficili da assorbire. Ma quali speranze potrà infondere, dopo, una politica europea che ha permesso ai greci di dipingere i tedeschi come sadici aguzzini, e ai tedeschi di disprezzare i greci come dei fannulloni bugiardi?

La Stampa 13.02.12