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“Inciucisti a chi?”, di Giorgio Merlo

È davvero curiosa la reazione violenta e furibonda dei soliti noti contro l’ipotesi, che ormai sta diventando sempre più realtà, di riformare l’attuale legge elettorale collaborando con tutti i partiti. Da mesi, anzi da anni, assistiamo alla predica di cancellare il cosiddetto Porcellum e di scrivere un’ennesima legge elettorale. Richiesta che adesso sta decollando concretamente e che, guarda caso, registra la contestazione proprio di quei partiti che l’hanno rivendicato con forza e determinazione nel tempo passato.
Partiti che, è sempre bene non dimenticarlo, da un lato urlavano in modo sguaiato la necessità della riforma e, dall’altro, con altrettanta puntualità, invocavano sino a ieri – e lo invocano ancora oggi – le elezioni anticipate che sarebbero disciplinate, guarda caso, proprio dal Porcellum.
Del resto, non c’è affatto da stupirsi. I partiti padronali, cioè retti solo ed esclusivamente dal carisma del “capo” e dove non c’è traccia di democrazia interna se non nell’adulazione acritica e quotidiana verso il leader maximo, individuano nel porcellum proprio lo strumento più adeguato per selezionare la classe dirigente e spedire al parlamento i rispettivi adulatori. Una prassi abbastanza collaudata e non affatto originale. E, forse, parte da qui la reazione violenta contro l’ipotesi, ormai abbastanza concreta, di arrivare al più presto ad una nuova legge elettorale.
Una legge, comunque sia, necessaria ed indispensabile che non ammette più furbizie, rinvii o tentennamenti vari. Neanche di quei partiti che strillano di giorno e sperano, alla sera, che nulla cambi per poi lucrare il consenso degli “indignati” per la combutta con il “nemico” e selezionare in caminetto la propria rappresentanza parlamentare.
No, quel giochetto sta per finire. E, al riguardo, non c’è nulla di male nel costruire la futura legge elettorale con l’avallo di tutti i partiti. A cominciare da quelli che hanno una maggior forza elettorale e un maggior radicamento sociale e territoriale per poi estendersi a tutti i partiti minori.
Senza pregiudiziali morali e senza anatemi politici o, peggio ancora, ideologici. Cosa significa contestare a priori il dialogo tra il Pd e il Pdl e il Terzo polo per costruire una nuova legge elettorale e cancellare definitivamente il Porcellum e il Mattarellum? Cosa significa lanciare continuamente strali e invettive contro il “nemico” che, stando al giudizio di questi moralisti non avrebbero titolo e dignità per costruire la futura legge elettorale? Chiunque sa che la legge elettorale è la “madre” di tutte le riforme e che, proprio dal profilo della legge elettorale si costruiscono le coordinate del sistema politico.
Dalle coalizioni che si andranno a formare alla nascita di nuovi partiti, dalla credibilità dei rispettivi programmi di governo ai criteri che presiederanno la selezione della rappresentanza parlamentare. Tutto questo dipende solo ed esclusivamente dalla legge elettorale. Si potrebbero fare decine e decine di esempi che comprovano questa semplice ma vera considerazione. E, quindi, il dialogo avviato con il Pdl, il Terzo Polo, la Lega da parte del Pd e con tutti quelli che ragionano laicamente senza filtri moralistici e ideologici è positivo e da incoraggiare.
I risultati li vedremo e, quasi sicuramente, nessuna legge elettorale sarà la fotocopia di ciò che vogliono e desiderano i singoli partiti. Che, non caso, sono sempre il frutto di qualche convenienza di partito oltrechè la conseguenza concreta del sistema politico che si vuol costruire. Ora, al di là di questa considerazione, è decisivo che la futura legge elettorale risponda almeno a tre criteri di fondo: consentire la formazione di alleanze di governo e non di astratti e sterili cartelli elettorali che abbiamo conosciuto negli ultimi anni a partire dal 1994; garantire una stabilità politica essenziale per il nostro paese introducendo una norma che blocchi l’eccessiva frammentazione del quadro politico, pur conservando una sufficiente rappresentatività democratica; e, infine, ridare la possibilità agli elettori di scegliersi i propri rappresentanti.
Tre obiettivi che si possono tranquillamente raggiungere con partiti che hanno una visione diversa, se non alternativa, sul progetto di governo della società ma che sui caposaldi essenziali del vivere comune si ritrovano in un comune disegno politico ed istituzionale. E se questo obiettivo politico sarà raggiunto avremo la conferma che anche la politica italiana, seppur in crisi, può raggiungere traguardi positivi. Nel rispetto delle distinzioni politiche ma in un quadro dove non c’è il “nemico” da abbattere ma l’avversario con cui confrontarsi. Soprattutto quando si parla di regole istituzionali e, nello specifico, di sistema elettorale.

da Europa Quotidiano 11.02.12

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“Un Pd convertito al proporzionale. Come e perché la linea è cambiata”, di Rudy Francesco Calvo

La transizione silenziosa dal doppio turno (deciso all’unanimità) alla bozza Violante-Bressa
La copertura politica ufficiale di Pier Luigi Bersani è giunta ieri da Tunisi: «Bisogna uscire da un meccanismo ipermaggioritario che ha portato guai enormi. Serve un mix di maggioritario e proporzionale, con un meccanismo premiale per le coalizioni».
La bozza Violante-Bressa presentata alle altre forze politiche nelle trattative di questi giorni e svelata ieri da alcuni quotidiani, tra cui Europa, risponde alle esigenze espresse dal segretario del Pd, che ha posto paletti chiari: «L’elettore deve conoscere il suo deputato e i partiti devono presentarsi con il loro volto». Insomma, Bersani vuole il simbolo del Pd sulla scheda e vuole il legame tra eletti ed elettori. Con i collegi uninominali, innanzi tutto, ma senza disdegnare nemmeno brevi liste bloccate (apprezzate, a dire il vero, in modo bipartisan).
I principi espressi dal segretario dem hanno accompagnato la storia del partito sin dalla sua nascita con Veltroni, ma sotto la gestione bersaniana hanno cambiato progressivamente la propria realizzazione pratica. Il primo atto fu l’assemblea nazionale del maggio 2010 a Roma. Lì i delegati eletti con le primarie approvarono all’unanimità una mozione sulla riforma elettorale che, tralasciando i dettagli, imponeva ai vertici del partito l’elaborazione di una proposta che «deve favorire la costruzione nelle urne di una maggioranza di governo » e suggeriva come «buon sistema elettorale» quello «di impianto maggioritario fondato sui collegi uninominali».
Un testo abbastanza vago da essere accettato come buona mediazione da tutte le componenti del Pd, al termine di un lungo confronto notturno all’interno del padiglione della Fiera di Roma. A dire il vero, nemmeno il passaggio da questa dichiarazione di principio alla formulazione di una proposta (più o meno) dettagliata creò particolari turbolenze interne. Fu il “caminetto” del 9 giugno 2011 (quasi un anno dopo, quindi) a varare, anch’esso all’unanimità, quello che fu chiamato “modello ungherese”: un mix di uninominale a doppio turno (60 per cento) e recupero proporzionale (35 per cento), che lasciava spazio anche a chi non avrebbe superato lo sbarramento, grazie a un diritto di tribuna pari al 5 per cento dei seggi. Una proposta che fu formalizzata in maniera autorevolissima, depositandola come disegno di legge il 26 luglio scorso sia al senato (prima firmataria Anna Finocchiaro) che alla camera (primo firmatario Pier Luigi Bersani, secondo Dario Franceschini). Questo è stato l’ultimo atto formale del Pd in materia di legge elettorale.
Il primo segnale della virata proporzionalistica l’ha dato Franceschini nello scorso mese di dicembre, con due interviste (a la Repubblica e La Stampa) in cui prima spiega che «il bipolarismo si può difendere anche con una legge proporzionale » e poi, per sgombrare il campo dall’ipotesi di un modello di tipo spagnolo (effettivamente bipolare), chiarisce di riferirsi a «qualcosa che assomigli» al tedesco. È l’ultimo atto dell’avvicinamento di AreaDem alla maggioranza bersaniana, dopo il divorzio da MoDem. A dare il via libera alle trattative, prima interne e poi con gli altri partiti, è l’ultima riunione del caminetto, che dà mandato a Violante, Bressa e Zanda di elaborare una nuova proposta da presentare al tavolo. Il gruppo è allargato anche a Tonini e D’Ubaldo, in rappresentanza della minoranza, ma i due non parteciperanno agli incontri con le altre forze politiche. Ne viene fuori la proposta spiegata ieri: un mix di collegi uninominali e liste circoscrizionali, con l’aggiunta di un “bonus” per le coalizioni (o le liste) che superano il 10 per cento. Una bozza lasciata volontariamente in bilico tra tedesco e spagnolo, per cercare poi il giusto equilibrio al tavolo con le altre forze politiche. «Un sistema buono per uscire dal bipolarismo coatto di questi anni – spiega Tonini – a patto di non impedire ai cittadini di decidere il loro governo. Non possiamo costruire un sistema elettorale in cui il secondo turno sia una sorta di congresso dell’Udc, per decidere in parlamento con chi stare».
Violante, però, presenta al tavolo delle trattative proprio con l’interpretazione più “tedesca” del modello elaborato. Secondo Arturo Parisi, «in radicale contrasto con lo spirito e i deliberati che hanno preparato e guidato per anni la costituzione del partito». Ma per la gioia del Terzo polo, che subito si dichiara d’accordo.
La torsione a 180 gradi dei Democratici è così compiuta. Perché possa servire effettivamente a superare il Porcellum, però, la strada è ancora lunga. «Mi sembra che per ora ci siano solo tante, troppe parole», dice Anna Finocchiaro. E rimane, soprattutto, l’incognita del Pdl: davvero Berlusconi si è convertito alle riforme? E, in seconda battuta, anche lui è disposto, come sembra essere il Pd, ad affidare al Terzo polo il ruolo di ago della bilancia per la prossima legislatura?

da Europa Quotidiano 11.02.12

«Ci sono tante Concetta ma vanno aiutate davvero Sono la speranza del Sud», intervista a Don Ciotti di Massimiliano Amato

Maria Concetta, Lea, Rita, Giuseppina. Storie di donne che, dice don Luigi Ciotti, «hanno deciso di ribaltare il piano inclinato della violenza lungo il quale le mafie fanno scivolare la vita di migliaia di persone, ed adesso si rifiutano di ritenere quella mafiosa l’unica organizzazione sociale possibile». C’è più di una nota di speranza, nelle parole del fondatore di “Libera”. C’è la consapevolezza ragionata che si è messo inmoto un meccanismo inarrestabile, impensabile appena pochi anni fa nel Sud del padre-marito-figlio padrone.
È lo scardinamento definitivo di un modello ancestrale, don Luigi?
«C’è questo dato, che può interessare i sociologi, ma c’è ovviamente molto altro. La molla che fa scattare la ribellione è l’arrivo dei figli. È l’amore viscerale che produce la rottura: il pensiero delle creature che hanno messo al mondo le spinge a chiudere con quel mondo di sopraffazione e violenza. Lea Garofalo la conobbi a Firenze, al termine di una manifestazione di “Libera”. Si avvicinò e mi chiese aiuto, non per sé, ma per Denise, la figlia: Lea non voleva che la ‘ndrangheta le rubasse la vita come l’aveva rubata a lei. Le procurammo un avvocato, che ora assiste Denise nel processo contro i presunti assassini della madre. In fondo, che cosa mi aveva chiesto la povera Lea? Di aiutarla a riappropriarsi della propria dignità, e di esser messa
nelle condizioni di far crescere la figlia in un mondo pulito».
Poi venne Maria Concetta Cacciola. «Un’altra bella e alta donna del Sud, come Rita Atria, come la Buscemi, che sfidò i suoi fratelli nelle aule di Tribunale, come Felicia Bortolotti Impastato. Quando le uccisero il figlio Peppino disse una cosa meravigliosa: non voglio vendetta, voglio giustizia. Trasformò immediatamente il dolore in volontà di cambiamento. Ora sono loro, le donne, la punta più avanzata del risveglio antimafia che registriamo al Sud». Uno spiraglio di luce. «Più di uno spiraglio. C’è uno straordinario fermento sotterraneo, sicuramente frutto del grande lavoro culturale svolto negli ultimi anni nelle scuole e all’interno della società meridionale. Perché guardi, in queste donne non c’è solo la volontà di cambiare campo, c’è soprattutto il bisogno di ritrovare ciò che le mafie hanno rubato loro: la libertà, la vita, la dignità».
È un movimento importante? «È un fiume che va progressivamente ingrossandosi. Non ci sono solo le collaboratrici e le testimoni di giustizia. Ci sono tante donne,come associazione ne seguiamo attualmente una quindicina, che fanno fagotto e basta. Scappano con i figli, decidendo di rompere per sempre con quella vita. Magari non hanno niente da offrire allo Stato, perché dei loro uomini, mariti, fratelli, padri, sanno solo che sono dei delinquenti e basta». E chi le protegge? «Ci sforziamo di farlo noi, e sono salti mortali. Recentemente sono stato contattato da una di loro, a cui hanno ammazzato il marito. Niente nomi. Ha una figlia piccola: mi ha detto che vuole che cresca al Nord, lontana dall’ambiente che ha deciso la morte del padre. È un problema del tutto nuovo, perché queste persone non rientrano nei parametri previsti dalla legge per l’applicazione delle misure di protezione. Non hanno scorta, né sussidi economici dello Stato,non possono cambiare identità ».
Come fate?
«Ci affidiamo alla rete di sindaci amici che abbiamo cercato di creare in tutta Italia. Ci danno una mano loro. Le facciamo spostare in continuazione da un comune all’altro, sempre sperando che non accada niente, perché il mondo che si sono lasciate alle spalle non dimentica: le cerca, le tampina.Eloro, giustamente,
hanno paura.Main tutte il riscatto della dignità è più forte del timore di eventuali ritorsioni».
Sarà necessario intervenire sul piano normativo?
«Basterebbe esercitare buon senso e umanità: è sufficiente la stipula di protocolli riservati, in grado di coprire la vacatio legis. Ci troviamo di fronte a persone che hanno deciso con coraggio di infrangere codici millenari, fondati sulla violenza e su un assurdo rispetto sacrale del ruolo subordinato della donna. Per le mafie, sono mine vaganti non per quello che possono rivelare ai magistrati, ma soprattutto perché simboleggiano il tramonto di un modello culturale».

L’Unità 11.02.12

"Una liberalizzazione anche per gli atenei", di Danilo Taino

Va bene i taxi e i panettieri. Ma quelli che producono idee? Gli insegnanti universitari? Vogliamo estendere anche a loro liberalizzazioni e regime di concorrenza? Uno se l’aspetterebbe dal governo dei professori. Che l’accademia italiana non sia il regno dell’efficienza e ancora meno il territorio sul quale si confrontano ed emergono le energie migliori e più capaci è un assunto, quando si descrive l’Italia: baronie, nepotismo, fuga dei migliori. Una buona dose di concorrenza tra docenti e ricercatori, dunque, sarebbe probabilmente benvenuta nell’università, tanto nelle facoltà scientifiche che in quelle umanistiche: una cura anglosassone per rompere incrostazioni e inerzie, magari per cercare di frenare il declino — interno e internazionale — dell’istruzione di alto livello italiana. Già, ma come?
Francesco Magris, economista ordinario all’università di Tours, ha appena pubblicato un libro — La concorrenza nella ricerca scientifica, edito da Bompiani, (pagine 92, 9,90) — nel quale mette in guardia dai falsi miti, in questo campo. Un pamphlet che denuncia la cattiva condizione della maggioranza degli atenei italiani, ma allo stesso tempo invita a guardarsi dall’accettare a scatola chiusa i modelli prevalenti a livello internazionale.
Pur ritenendo il mercato del lavoro diverso dal mercato delle merci, Francesco Magris non è affatto contrario all’introduzione della concorrenza quando si tratta di giudicare la qualità dei lavori scientifici e quindi di premiare, in termini di carriera, professori e ricercatori. Il problema sta nel come, nello stabilire quale sia il modo più corretto e più efficiente per farlo: soprattutto quale sia il modo migliore per non premiare solo chi effettua ricerca nei filoni dominanti della scienza e delle materie umanistiche, ma anche chi va controcorrente.
Buona parte dell’analisi e della critica del libro si focalizzano sul sistema delle «citazioni», di gran lunga prevalente nel circuito accademico internazionale. Si tratta del modo più utilizzato per valutare la performance di un insegnante, di un ricercatore, di uno scienziato, di un economista: misurare quante volte i suoi lavori sono citati nelle riviste scientifiche di riferimento. Chi è più citato — oltre a chi pubblica i lavori più rilevanti — e chi appare spesso nelle riviste considerate di maggiore prestigio migliora il proprio status in termini di reputazione, di carriera, di salario: non solo nel caso degli scienziati e degli economisti che negli ultimi tempi hanno seguito la traiettoria di successo un tempo riservata alle rockstar, ma in generale come metodo di valutazione e premio nell’intero universo della produzione delle idee e delle scoperte. La citazione, insomma, è diventata — secondo Magris — una sorta di valuta, anzi il dollaro attraverso il quale si stabiliscono gerarchie e, alla fine, imperi accademici.
È, questo delle citazioni, il modo migliore per introdurre una forma di mercato e di concorrenza efficienti nel settore? Francesco Magris ne dubita, o almeno mette in guardia dal considerarlo un sistema indiscutibile. Da una parte, esso è un incentivo a premiare i lavori di più immediata fruizione, quelli che hanno più mercato nelle riviste scientifiche. A scapito di ricerche e studi meno sexy, ma magari più profondi e di maggiore portata. La necessità di accumulare citazioni, inoltre, penalizza chi svolge lavori complessi che richiedono tempi lunghi prima di potere essere pubblicati. Il tutto all’interno di «un modello autoreferenziale di selezione» nel quale spesso riviste «amiche» si scambiano citazioni e nel quale, soprattutto, non c’è distinzione tra chi produce ricerca e chi la consuma, nel quale chi giudica è quasi sempre collega di chi ha prodotto la ricerca: «Fondere le due categorie in una sola — scrive Magris — conduce alla negazione del sistema di mercato».
Dall’altra parte, per ragioni storiche ed economiche, questo sistema di valutazioni internazionali è dominato dalle riviste anglosassoni, le quali sono molto spesso collegate alle università americane (e in una certa misura anche a quelle britanniche), nonché ai loro docenti e anche alle lobby che le finanziano. Una situazione che, «anziché promuovere la differenziazione del prodotto conduce al consolidamento del pensiero dominante e all’indebolimento del pluralismo»: dunque scuole di pensiero decentrate e minoritarie hanno, in questa cornice, meno possibilità di emergere.
Francesco Magris non propone «commissari del popolo» per stabilire la qualità della ricerca. Ma se si vuole il mercato e la concorrenza — dice in sostanza — occorre che il sistema sia davvero aperto ed efficiente. Come per i panettieri, si può dire.

Il Corriere della Sera 11.02.12

“Una liberalizzazione anche per gli atenei”, di Danilo Taino

Va bene i taxi e i panettieri. Ma quelli che producono idee? Gli insegnanti universitari? Vogliamo estendere anche a loro liberalizzazioni e regime di concorrenza? Uno se l’aspetterebbe dal governo dei professori. Che l’accademia italiana non sia il regno dell’efficienza e ancora meno il territorio sul quale si confrontano ed emergono le energie migliori e più capaci è un assunto, quando si descrive l’Italia: baronie, nepotismo, fuga dei migliori. Una buona dose di concorrenza tra docenti e ricercatori, dunque, sarebbe probabilmente benvenuta nell’università, tanto nelle facoltà scientifiche che in quelle umanistiche: una cura anglosassone per rompere incrostazioni e inerzie, magari per cercare di frenare il declino — interno e internazionale — dell’istruzione di alto livello italiana. Già, ma come?
Francesco Magris, economista ordinario all’università di Tours, ha appena pubblicato un libro — La concorrenza nella ricerca scientifica, edito da Bompiani, (pagine 92, 9,90) — nel quale mette in guardia dai falsi miti, in questo campo. Un pamphlet che denuncia la cattiva condizione della maggioranza degli atenei italiani, ma allo stesso tempo invita a guardarsi dall’accettare a scatola chiusa i modelli prevalenti a livello internazionale.
Pur ritenendo il mercato del lavoro diverso dal mercato delle merci, Francesco Magris non è affatto contrario all’introduzione della concorrenza quando si tratta di giudicare la qualità dei lavori scientifici e quindi di premiare, in termini di carriera, professori e ricercatori. Il problema sta nel come, nello stabilire quale sia il modo più corretto e più efficiente per farlo: soprattutto quale sia il modo migliore per non premiare solo chi effettua ricerca nei filoni dominanti della scienza e delle materie umanistiche, ma anche chi va controcorrente.
Buona parte dell’analisi e della critica del libro si focalizzano sul sistema delle «citazioni», di gran lunga prevalente nel circuito accademico internazionale. Si tratta del modo più utilizzato per valutare la performance di un insegnante, di un ricercatore, di uno scienziato, di un economista: misurare quante volte i suoi lavori sono citati nelle riviste scientifiche di riferimento. Chi è più citato — oltre a chi pubblica i lavori più rilevanti — e chi appare spesso nelle riviste considerate di maggiore prestigio migliora il proprio status in termini di reputazione, di carriera, di salario: non solo nel caso degli scienziati e degli economisti che negli ultimi tempi hanno seguito la traiettoria di successo un tempo riservata alle rockstar, ma in generale come metodo di valutazione e premio nell’intero universo della produzione delle idee e delle scoperte. La citazione, insomma, è diventata — secondo Magris — una sorta di valuta, anzi il dollaro attraverso il quale si stabiliscono gerarchie e, alla fine, imperi accademici.
È, questo delle citazioni, il modo migliore per introdurre una forma di mercato e di concorrenza efficienti nel settore? Francesco Magris ne dubita, o almeno mette in guardia dal considerarlo un sistema indiscutibile. Da una parte, esso è un incentivo a premiare i lavori di più immediata fruizione, quelli che hanno più mercato nelle riviste scientifiche. A scapito di ricerche e studi meno sexy, ma magari più profondi e di maggiore portata. La necessità di accumulare citazioni, inoltre, penalizza chi svolge lavori complessi che richiedono tempi lunghi prima di potere essere pubblicati. Il tutto all’interno di «un modello autoreferenziale di selezione» nel quale spesso riviste «amiche» si scambiano citazioni e nel quale, soprattutto, non c’è distinzione tra chi produce ricerca e chi la consuma, nel quale chi giudica è quasi sempre collega di chi ha prodotto la ricerca: «Fondere le due categorie in una sola — scrive Magris — conduce alla negazione del sistema di mercato».
Dall’altra parte, per ragioni storiche ed economiche, questo sistema di valutazioni internazionali è dominato dalle riviste anglosassoni, le quali sono molto spesso collegate alle università americane (e in una certa misura anche a quelle britanniche), nonché ai loro docenti e anche alle lobby che le finanziano. Una situazione che, «anziché promuovere la differenziazione del prodotto conduce al consolidamento del pensiero dominante e all’indebolimento del pluralismo»: dunque scuole di pensiero decentrate e minoritarie hanno, in questa cornice, meno possibilità di emergere.
Francesco Magris non propone «commissari del popolo» per stabilire la qualità della ricerca. Ma se si vuole il mercato e la concorrenza — dice in sostanza — occorre che il sistema sia davvero aperto ed efficiente. Come per i panettieri, si può dire.

Il Corriere della Sera 11.02.12

"La prevenzione possibile contro le emergenze", di Mario Tozzi

Che in fatto di eventi meteorologici noi uomini contemporanei siamo vulnerabili come nel Medioevo dovrebbe essere evidente anche al più miope dei cittadini italiani
Soprattutto i romani, sommersi in questi giorni non solo dalla neve, ma anche da messaggi contraddittori e provvedimenti inefficaci o cervellotici. Anzi, le civiltà moderne metropolitane affidano il loro funzionamento a una tecnologia sofisticata ma delicata, che non riesce a difendersi dai freddi siderali o dalle acque torrenziali. Il gelo spezza i cavi dell’alta tensione e spegne la luce nel terzo millennio come nei secoli bui impediva di accendere le fiaccole. E i nostri amministratori locali sono, con le dovute eccezioni, assolutamente impreparati a fronteggiare i rischi naturali.
A Roma si obbligano le catene montate sulle auto e non si fanno circolare le moto quando non c’è neve a terra, dopo di che non si riescono a riaprire importanti arterie cittadine per giorni dopo la nevicata. E sia a Roma che a Genova (durante la scorsa alluvione) non si sanno interpretare correttamente i bollettini dell’Aeronautica militare o i dispacci della Protezione Civile che, per definizione, non possono recare la scritta rossa: catastrofe!

Nel prossimo futuro questi eventi rischiano di diventare più numerosi, più violenti e più duraturi, se è vero come è vero, che i ricercatori addossano la responsabilità delle punte di estremo freddo in Europa (già frequenti negli ultimi anni, l’ultima nell’inverno 2009-2010) al grande caldo estivo che sta fondendo i ghiacci artici. Mancano oggi all’appello 3 milioni di kmq di banchisa polare (rispetto al 1978): per questa ragione il calore del Sole non viene disperso dal riflesso di quei ghiacci ma riscalda l’Oceano e l’atmosfera, innescando situazioni anomale (ma non più eccezionali) come quella che stiamo registrando oggi. I venti occidentali indeboliti non riescono a spazzare via quelli freddi siberiani che arrivano senza più barriere a investire il Mediterraneo centrale. Come a dire che il grande freddo dipende dal grande caldo e che l’estremizzazione del clima è diventata la regola.

Ma mentre sappiamo che per difenderci dal terremoto dobbiamo costruire meglio e che per sfuggire all’alluvione o al vulcano ci dobbiamo spostare altrove, per reggere all’impatto meteorologico non sappiamo fare altro che ritirarci in casa chiudendo scuole e uffici. Come nel Medioevo. Invece qualcosa di più si può fare già ora, nonostante i cordoni della borsa statale siano più stretti e le amministrazioni locali sembrino impotenti. Per prima cosa si deve ribadire che quello in sicurezza non è un investimento a fondo perduto o un lusso, tutt’altro. Consente in realtà di risparmiare da 5 a 7 volte rispetto a quanto si spenderà in emergenza. E, siccome l’emergenza ci sarà certamente, semplicemente conviene non tagliare quei fondi e chiedere che vengano ripristinati a gran voce. In secondo luogo, grandi comuni, regioni e province dovrebbero dotarsi di almeno una unità di crisi permanente per fronteggiare i rischi naturali, coordinata da un disaster manager appositamente formato. Il costo di questa figura professionale, sconosciuta in Italia ma presente da anni all’estero, non è poi maggiore di una di quelle consulenze che gli amministratori continuano a foraggiare attualmente, anche in tempi di crisi. E una ragionevole decurtazione degli stipendi di consiglieri e assessori (almeno regionali) basterebbe e avanzerebbe. È poi ovvio che Roma non può avere gli spazzaneve di Stoccolma, né Genova l’Autorità di bacino del Po. Ma i mezzi possono essere resi disponibili da comuni vicini in cui quei rischi siano più frequenti o presi in affitto con opportune locazioni. E si può sempre imparare dalla marineria: le scialuppe di salvataggio delle grandi navi hanno equipaggi composti da figure che normalmente recitano altri ruoli, cuochi che diventano timonieri e camerieri che manovrano i comandi. Basterebbe formare chi ha altre competenze a muoversi nell’emergenza secondo compiti precisi ben assegnati: chi si occupa normalmente di cartellonistica può spalare la neve e chi sta negli uffici del servizio giardini spostarsi sulle strade quando serve.

A questo dobbiamo a aggiungere che i cittadini saranno meglio preparati se con regolarità partecipano a esercitazioni nelle scuole e negli uffici pubblici e se sanno dove andare. Inoltre una Protezione civile volontaria già assolve quasi tutte le funzioni emergenziali in tanti piccoli centri d’Italia. Con il rischio naturale dobbiamo convivere e non tutto si può prevedere, ma c’è bisogno di un atteggiamento culturale nuovo, che va costruito con pazienza da subito. Non arrangiato nell’emergenza confidando nella buona sorte.

La Stampa 11.02.12

“La prevenzione possibile contro le emergenze”, di Mario Tozzi

Che in fatto di eventi meteorologici noi uomini contemporanei siamo vulnerabili come nel Medioevo dovrebbe essere evidente anche al più miope dei cittadini italiani
Soprattutto i romani, sommersi in questi giorni non solo dalla neve, ma anche da messaggi contraddittori e provvedimenti inefficaci o cervellotici. Anzi, le civiltà moderne metropolitane affidano il loro funzionamento a una tecnologia sofisticata ma delicata, che non riesce a difendersi dai freddi siderali o dalle acque torrenziali. Il gelo spezza i cavi dell’alta tensione e spegne la luce nel terzo millennio come nei secoli bui impediva di accendere le fiaccole. E i nostri amministratori locali sono, con le dovute eccezioni, assolutamente impreparati a fronteggiare i rischi naturali.
A Roma si obbligano le catene montate sulle auto e non si fanno circolare le moto quando non c’è neve a terra, dopo di che non si riescono a riaprire importanti arterie cittadine per giorni dopo la nevicata. E sia a Roma che a Genova (durante la scorsa alluvione) non si sanno interpretare correttamente i bollettini dell’Aeronautica militare o i dispacci della Protezione Civile che, per definizione, non possono recare la scritta rossa: catastrofe!

Nel prossimo futuro questi eventi rischiano di diventare più numerosi, più violenti e più duraturi, se è vero come è vero, che i ricercatori addossano la responsabilità delle punte di estremo freddo in Europa (già frequenti negli ultimi anni, l’ultima nell’inverno 2009-2010) al grande caldo estivo che sta fondendo i ghiacci artici. Mancano oggi all’appello 3 milioni di kmq di banchisa polare (rispetto al 1978): per questa ragione il calore del Sole non viene disperso dal riflesso di quei ghiacci ma riscalda l’Oceano e l’atmosfera, innescando situazioni anomale (ma non più eccezionali) come quella che stiamo registrando oggi. I venti occidentali indeboliti non riescono a spazzare via quelli freddi siberiani che arrivano senza più barriere a investire il Mediterraneo centrale. Come a dire che il grande freddo dipende dal grande caldo e che l’estremizzazione del clima è diventata la regola.

Ma mentre sappiamo che per difenderci dal terremoto dobbiamo costruire meglio e che per sfuggire all’alluvione o al vulcano ci dobbiamo spostare altrove, per reggere all’impatto meteorologico non sappiamo fare altro che ritirarci in casa chiudendo scuole e uffici. Come nel Medioevo. Invece qualcosa di più si può fare già ora, nonostante i cordoni della borsa statale siano più stretti e le amministrazioni locali sembrino impotenti. Per prima cosa si deve ribadire che quello in sicurezza non è un investimento a fondo perduto o un lusso, tutt’altro. Consente in realtà di risparmiare da 5 a 7 volte rispetto a quanto si spenderà in emergenza. E, siccome l’emergenza ci sarà certamente, semplicemente conviene non tagliare quei fondi e chiedere che vengano ripristinati a gran voce. In secondo luogo, grandi comuni, regioni e province dovrebbero dotarsi di almeno una unità di crisi permanente per fronteggiare i rischi naturali, coordinata da un disaster manager appositamente formato. Il costo di questa figura professionale, sconosciuta in Italia ma presente da anni all’estero, non è poi maggiore di una di quelle consulenze che gli amministratori continuano a foraggiare attualmente, anche in tempi di crisi. E una ragionevole decurtazione degli stipendi di consiglieri e assessori (almeno regionali) basterebbe e avanzerebbe. È poi ovvio che Roma non può avere gli spazzaneve di Stoccolma, né Genova l’Autorità di bacino del Po. Ma i mezzi possono essere resi disponibili da comuni vicini in cui quei rischi siano più frequenti o presi in affitto con opportune locazioni. E si può sempre imparare dalla marineria: le scialuppe di salvataggio delle grandi navi hanno equipaggi composti da figure che normalmente recitano altri ruoli, cuochi che diventano timonieri e camerieri che manovrano i comandi. Basterebbe formare chi ha altre competenze a muoversi nell’emergenza secondo compiti precisi ben assegnati: chi si occupa normalmente di cartellonistica può spalare la neve e chi sta negli uffici del servizio giardini spostarsi sulle strade quando serve.

A questo dobbiamo a aggiungere che i cittadini saranno meglio preparati se con regolarità partecipano a esercitazioni nelle scuole e negli uffici pubblici e se sanno dove andare. Inoltre una Protezione civile volontaria già assolve quasi tutte le funzioni emergenziali in tanti piccoli centri d’Italia. Con il rischio naturale dobbiamo convivere e non tutto si può prevedere, ma c’è bisogno di un atteggiamento culturale nuovo, che va costruito con pazienza da subito. Non arrangiato nell’emergenza confidando nella buona sorte.

La Stampa 11.02.12

"Liberalizzazioni, lobby all´assalto", di Massimo Giannini

Come il sonno della ragione, l´incrocio tra governo «strano» e Parlamento sovrano genera mostri. Duemilaquattrocento emendamenti presentati al Senato sul decreto legge per le liberalizzazioni sono un´offesa al buon senso e al buon gusto. Tradiscono un´idea malintesa, che allontana sempre di più gli eletti dagli elettori. Non si vuole difendere la sovranità del potere legislativo. Si vuole proteggere l´intangibilità del sistema corporativo. La «lenzuolata» appena varata da Monti e Passera non ha la stessa forza di quelle introdotte da Prodi e Bersani nel 1998 e nel 2006. Come conferma il rapporto della Commissione europea anticipato ieri da «Repubblica», è ancora troppo timida. Non affonda la lama della concorrenza nel ventre molle della rendita, in aree strategiche come le banche e le reti, le assicurazioni e le professioni. Ma rappresenta comunque un enorme salto di qualità, rispetto alla palude di statalismo e di immobilismo della legislatura berlusconiana. Non farà risparmiare 1.800 euro l´anno ad ogni famiglia italiana, né farà crescere il Pil dell´1,4%, l´occupazione dell´8% e i salari reali del 12%, come spera il governo. Ma è sicuramente la prima, salutare scossa a un´economia paralizzata, a una società bloccata.
Un Parlamento responsabile, invece di partorire i suoi Frankenstein, avrebbe il dovere di convertire in fretta il decreto. E se proprio volesse rifiutare la logica del prendere o lasciare, dovrebbe apportare poche modifiche, e solo migliorative, nell´unica direzione possibile: quella dell´ulteriore apertura al mercato nei troppi settori ancora troppo protetti.
Per esempio, facendo scattare da subito lo scorporo dall´Eni della rete di trasporto del gas della Snam. Accelerando la separazione della rete ferroviaria da Trenitalia. Scardinando definitivamente il diritto di esclusiva per i gestori delle pompe di benzina. Imponendo l´immediata riduzione delle commissioni bancarie a carico degli esercenti per l´utilizzo delle carte di credito. Aprendo definitivamente a tutti i più giovani le porte d´accesso alle professioni. Rimuovendo i vincoli agli agenti monomandatari delle compagnie d´assicurazione riunite nell´indifendibile cartello della Rc-auto. Estendendo il meccanismo del price cap per le tariffe autostradali anche alle concessioni in essere (compresa quella di Autostrade) e non solo a quelle future. Moltiplicando le licenze dei taxi. Ripristinando la libera vendita dei farmaci di fascia C nelle para-farmacie.
L´elenco potrebbe continuare. Con una decina di emendamenti di questo tenore, il pacchetto Monti-Passera diventerebbe davvero la «rivoluzione liberale» di cui c´è bisogno, nell´Italia delle mille corporazioni e dei cento forconi. Invece a Palazzo Madama è partito il vecchio, caro assalto alla diligenza. Duemilaquattrocento proposte di modifica. Una sparuta minoranza, per lo più firmata da esponenti del centrosinistra, introduce alcuni effettivi rafforzamenti al testo. Ma per il resto la quasi totalità degli emendamenti, 700 firmati da senatori del solo centrodestra, recepiscono altrettante richieste delle solite lobb in guerra permanente contro qualunque cambiamento: avvocati, farmacisti e tassisti. Il presidente del Consiglio lo aveva previsto, giusto una settimana fa, durante il videoforum su «Repubblica Tv». «Sono preoccupato, ma non molleremo», aveva detto. Forse neanche lui aveva immaginato una reazione così abnorme delle «caste» che purtroppo trovano ascolto in Parlamento.
È un pessimo segnale. Non bastano le buone intenzioni bipartisan dei relatori, che in vista del dibattito in aula sperano di sfoltire questa selva ingestibile di emendamenti. Il governo sarà comunque obbligato a porre la fiducia, se non vuole che la lenzuolata del decreto Cresci-Italia finisca in mille pezzi, com´è già in parte successo con il decreto Salva-Italia. Sarebbe la quinta fiducia in tre mesi e mezzo, con un bottino di voti in calo costante: dai 556 sì all´insediamento dell´esecutivo tecnico, il 18 novembre, ai 420 sì al decreto svuota-carceri del 9 febbraio. Anche questo è un modo per logorare un governo che toglie ossigeno politico a un agguerrito e disperato drappello di «riluttanti» della ex maggioranza. Pur di sabotare il manovratore, cavalcano qualunque rivolta delle categorie. Se ha davvero l´ambizione di «cambiare il modo di vivere degli italiani», come ha annunciato da Washington, Monti non può e non deve cedere a questa destra sudamericana, che agonizza tra le macerie del berlusconismo. Ne va della modernizzazione del Paese.

La Repubblica 11.02.12