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"Arroganza al potere", intervista a Valerio Onida di Gigi Riva

Il Tar, la Commissione elettorale, il Consiglio di Stato. Il ricorso per riammettere la lista. Il ricorso contro il ricorso per riammettere la lista. Una piazza di qua, una piazza di là. Pannella per rinviare le elezioni, Bersani contrario. Il Cavaliere inferocito, Di Pietro che grida al golpe. Benvenuti a Caoslandia, cioè l’Italia del 2010. Dove va in onda l’ormai abituale scontro tra chi vorrebbe rispettare le regole e chi delle regole dice “me ne frego”. Tutto nato dal pasticcio delle liste Pdl non presentate in tempo utile. E dal rimedio peggiore del buco del decreto “interpretativo” varato dal governo e firmato da Napolitano. Che viola la Costituzione perché, dice Valerio Onida, 73 anni, presidente emerito della Consulta «impone di applicare la legge in modo diverso da come dovrebbe essere applicata». Quando l’articolo 101 della nostra Carta fondamentale recita: «La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge». Con il decreto il potere giudiziario non è più «soggetto soltanto alla legge» ma anche alla volontà del potere esecutivo e di quello legislativo che vorrebbero imporre non una norma per il futuro, ma una “interpretazione” (in realtà una norma diversa da quella vigente) per il passato. Conflitto c’è anche con l’articolo 3 sull’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. E ha più di un fondamento la posizione della giunta regionale del Lazio che ritiene spetti alla Regione interpretare la propria legge elettorale. Per orientarsi, bisogna ripartire dall’origine del marasma, da quel decreto in cui Onida vede «l’arroganza» della maggioranza. E la conferma che «il Paese è sfasciato dal punto di vista delle regole».

Professor Onida, se il decreto è la via sbagliata, quale sarebbe stata quella giusta?
«Premessa: l’elettorato si esprime sempre, si esprimerebbe comunque, anche con l’esclusione di una lista. Ma per rimediare a un’incompletezza nata dalla mancata presentazione di una lista l’unico rimedio accettabile sarebbe quello di rinviare le elezioni. Mi riferisco al Lazio. Perché, i casi di Lombardia e Lazio sono diversi».

Spieghiamo le diversità.
«In Lombardia tutto era risolvibile con una corretta applicazione della legislazione vigente. Cosa che peraltro è successa se il Tar ha accolto il ricorso dei sostenitori di Formigoni senza bisogno di citare il decreto del governo. Ma un conto è se manca un timbro, un luogo, una qualifica, o se l’esclusione della lista è avvenuta irritualmente. Altro conto è dire che c’è stata presentazione di una lista quando non c’è stata. E siamo al Lazio».

Lì si dovrebbe rimandare il voto?
«Esatto: si tratta semmai di riaprire i termini. Cosa che non è né normale né fisiologica, ma consentirebbe di rispettare le regole in vigore senza lo strappo dell’intervento del governo. Un conto è sostenere che una lista è stata presentata quando non è vero. Un altro è prendere atto che si sarebbe andati ad una competizione incompleta e, sulla base di un larghissimo accordo, rimettere tutti in gioco».

Invece si è ricorsi al decreto “interpretativo”.
«Che, per una parte, non è interpretativo affatto. È una norma sedicente interpretativa, perché riapre i termini in una situazione concreta».

Un abuso, sostiene la giunta del Lazio, anche perché prevarica la competenza della Regione.
«Non so come sia stato argomentato il ricorso del Lazio. So però che c’è una decisione della Corte costituzionale del 2006 (numero 232) in base alla quale si dovrebbe concludere che la competenza a legiferare in materia di elezioni regionali e anche a dare l’interpretazione autentica delle norme vigenti spetta alle Regioni».

Un giudice potrebbe invalidare le elezioni se ritenesse fondate le ragioni della giunta laziale?
«Sì, potrebbe capitare. Se quel decreto legge fosse ritenuto illegittimo verrebbe meno la base normativa per la quale (in ipotesi) sarebbe ammessa la lista Pdl in provincia di Roma e si dovrebbero rifare le elezioni. È già capitato in altre occasioni. Come in Molise».
Mai prima d’ora era però intervenuto il governo.
«Mai. Lo ha fatto stavolta per una presunta “interpretazione autentica” della legge che equivale a una riapertura dei termini solo per la lista Pdl di Roma. È uscito un decreto che vale per tutta l’Italia ma che si applica solo al caso Roma perché su di esso è modellato».

Un pericoloso precedente. L’esecutivo cambia in corsa, e a suo vantaggio, le leggi. Tanto che si grida al golpe antidemocratico.
«Bisogna conservare il senso delle proporzioni. Se fosse stato negato, ad esempio un diritto fondamentale alle minoranze, allora sì che sarebbe grave. Qui c’è stato uno strappo ma nella sostanza la competizione elettorale non è alterata».

Si dice sempre che in diritto la forma è sostanza.
«Dipende. Ci sono forme essenziali, come quando, per una compravendita ad esempio, è previsto un atto scritto. Altre volte, per formalità non essenziali, vale il buonsenso nell’applicare le norme in vigore, come è successo adesso nel caso della Lombardia. Ripeto: clamoroso è il caso del Lazio perché il mancato rispetto del termine non poteva essere sanato. Qui abbiamo avuto una maggioranza arrogante che ha usato l’arma “atomica” del decreto legge per recuperare la situazione indifendibile di Roma».

C’è chi critica il presidente Napolitano per aver firmato il decreto. Di Pietro per primo. Il quale ha anche evocato il golpe.
«Il presidente emana il decreto legge la cui responsabilità è del governo. La volontà non è la sua. Non è chiamato a condividere la decisione».

Si ritiene potesse esercitare la sua “moral suasion”.
«Ma l’ha sicuramente esercitata. Ha discusso a lungo. Poi non ha ritenuto di opporre un veto assoluto. La caratteristica di urgenza del decreto è indiscutibile. Avrebbe potuto opporre un veto assoluto solo per motivi eccezionali, se avesse valutato che si producessero effetti gravi e irreparabili. L’opinione pubblica pensa che il presidente possa fare quello che vuole. Ma non ha potere di codecisione sugli atti del governo».

Poteva invocare l’incostituzionalità del decreto.
«Ma anche in questo caso un veto “assoluto” potrebbe ammettersi solo in casi estremi. Qui Napolitano ha valutato che non fosse opportuno opporsi ancora. Io credo che la norma sia incostituzionale: ma vi sono nell’ordinamento altre garanzie, quella del Parlamento chiamato a convertire il decreto e quella della Corte costituzionale. Possono essere sollevate questioni di costituzionalità in ogni giudizio relativo, su istanza di parte o anche d’ufficio. Del resto risulta che ci sia già una questione di incostituzionalità sollevata in via diretta dalla Regione Lazio. E lo stesso Tar Lazio, respingendo l’istanza cautelare del Pdl, sembra aver preso le mosse proprio dalla ritenuta incostituzionalità del decreto».

Il decreto apre una breccia. Anche in futuro, il governo potrebbe varare decreti che sanino situazioni che non gli piacciono. E si evoca il regime.
«Ogni violazione della Costituzione è un vulnus e crea precedenti pericolosi. Però in questo caso l’effetto pratico non sarà drammatico. Ci saranno le elezioni, i cittadini voteranno. Quanto al regime, manteniamo il sangue freddo. Se ci fosse stato un decreto che escludesse qualcuno dalle elezioni sì che sarebbe stato un golpe».

Ha colpito la superficialità con cui il partito più forte del Paese ha affrontato la questione della presentazione delle liste. Come se potesse permettersi tutto, anche arrivare in ritardo.
«L’impressione è che ci sia stata faciloneria e pressapochismo».

Forse sarebbe stato diverso se avessero chiesto scusa. E cercato una soluzione condivisa con le opposizioni.
«Se li immagina mentre chiedono scusa? Sarebbe stata una tattica meno arrogante. Che però mi sembra abbia poca cittadinanza da noi. Per come è fatta la politica italiana, non è previsto nemmeno il galateo».

Ora si andrà avanti a ricorsi e controricorsi. Un ping-pong tra partiti e aule di giustizia.
«In questa intricata storia, fra candidati presidenti che chiedono di essere eletti per la terza o quarta volta, partiti rissosi e incapaci perfino di darsi un’organizzazione efficiente, accuse e contro-accuse, ricorsi e contro-ricorsi, procedure collaudate da anni che sembrano andare in crisi, sembra che anche la vicenda più democraticamente fisiologica, come è una consultazione elettorale, finisca per rivelare una crisi convulsiva del nostro sistema politico. Il governo, col suo intervento a gamba tesa, ha dato un suo robusto contributo alla confusione e all’immagine di arroganza del potere che tante realtà di oggi ci trasmettono. A questo punto, sarebbe forse meglio ripartire da zero, magari con un rinvio delle elezioni nelle Regioni dove la confusione si è prodotta. Oppure andare tranquillamente al voto, nelle condizioni date, sperando che gli elettori diano segnali di maturità e non di disimpegno, e magari premino, fra partiti e candidati, non coloro che mostrano più muscoli o voglia di gridare, ma coloro che dimostrano equilibrio e sincero rispetto delle istituzioni repubblicane. Maggiore “patriottismo costituzionale”».
L’Espresso 12.03.10

"Cassazione choc: via clandestini anche se hanno figli a scuola", di Roberto Monteforte

È legittima l’espulsione del genitore clandestino, anche se i figli vanno ancora a scuola in Italia. Deve lasciare il paese, a meno che non ci siano «eventi o necessità eccezionali del bambino», che non possono essere però «l’assolvimento» dell’obbligo scolastico. Lo stabilisce la sentenza numero 5856 della Cassazione. La sicurezza prevale sul diritto allo studio e la presenza di figli minori «non può essere strumentalizzata» per «legittimare l’inserimento di famiglie straniere» irregolari in Italia. È una sentenza che fa discutere e che divide. Occorre attendere il dispositivo per valutarla appieno. C’è chi la considera contraddittoria con sentenze precedenti, attente allo sviluppo dei minori, figli di immigrati. Plaude, convinto, il centrodestra. Muovono le loro critiche il centrosinistra, le associazioni e le organizzazioni che si occupano di immigrazione, la Chiesa e non nascondono le loro preoccupazioni gli organismi internazionali. «Ritengo giusta la sentenza dei giudici. La scuola italiana è pronta ad accogliere i bambini in difficoltà e a supportarli inun percorso educativo che li prepari e li formi » commenta il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini che aggiunge: «Non si può giustificare chi utilizza i bambini e li strumentalizza per sanare situazioni di illegalità ». Stesso tono il ministro «leghista » Roberto Calderoli. «La sentenza della Cassazione ristabilisce lo stato di diritto» osserva. «Stupiscono queste sentenze così contraddittorie della Cassazione, anche se è vero che devono valutare caso per caso e non si deve trarre dal suo pronunciamento indicazioni di tipo generale» afferma, invece, Livia Turco, presidente Forum Immigrazione del Pd. «Sarebbe grave – aggiunge – che i diritti dei minori fossero subordinati alla situazione di irregolarità nel permesso di soggiorno dei genitori». E ricorda gli obblighi fissati dalla Convenzione dell’Onu sui diritti dell’infanzia. Non nasconde la sua contrarietà monsignor Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio per i migranti, «perché – spiega – deve anche essere tenuto presente nella situazione di irregolarità quella che è la realtà dell’educazione dei figli». «Se il sistema non difende i bambini è un sistema sbagliato» commenta il presidente delle Acli, Olivero. Disco rosso anche dalla Cgil che ritiene la sentenza «frutto di una normativa confusa, che cerca di tenere insieme la difesa dei diritti umani, inclusa quella dei minori, con la volontà di criminalizzare gli stranieri». La Cassazione, però, non minerebbe il principio di fondo, cioè la tutela del diritto del minore che «rimane invariato». La Cassazione «ribalta una precedente sentenza di senso contrario, e non tiene in considerazione il principio che dovrebbe essere prevalente dell’interesse superiore del minore, che in questo caso, sembra cedere il passo al principio della sicurezza delle frontiere » afferma Laura Boldrini, portavoce dell’alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr). Non nasconde la sua «grande e seria preoccupazione» per la decisione della Cassazione l’Alto commissario Onu per i diritti umani, Navi Pillay, in visita in Italia, che ha chiesto chiarimenti al ministro degli esteri Frattini. «Seguiremo questa questione» Pillay.
L’Unità 12.03.10

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Clandestini, figli di serie B

Con una sentenza sconcertante la Corte di Cassazione ha sancito che i clandestini, anche se hanno figli minori che studiano in Italia, vanno comunque espulsi dal territorio nazionale, anche se il distacco dai genitori comportasse per i bambini un trauma affettivo. La suprema Corte mette in primo piano la tutela della legalità delle frontiere rispetto alla tutela della famiglia, dell’infanzia e dei diritti fondamentali della persona
E’ legittima l’espulsione del genitore clandestino anche se i figli vanno ancora a scuola in Italia e il clandestino deve lasciare il paese, se non ci sono eventi o necessità eccezionali del bambino, che sarà quindi accudito dall’altro genitore munito di permesso di soggiorno. Lo ha ribadito la Corte di cassazione che, con la sentenza numero 5856 del 10 marzo 2010, confermando la giurisprudenza prevalente e prendendo le distanze da due sole isolate recenti decisioni, ha confermato l’espulsione di un immigrato albanese, con moglie in attesa della cittadinanza italiana e due figli minori residente a Busto Arsizio, nel varesotto.
Il diritto dell’immigrato a rimanere nel territorio italiano per evitare l’allontanamento dai figli minori ivi residenti e dalla moglie, essendo collegato alla primaria tutela del superiore interesse del fanciullo, si perfeziona – spiega il sito Cassazione.net – esclusivamente nel caso in cui dall’allontanamento del genitore scaturisca un sicuro danno per i figli. Il semplice fatto che i bimbi siano inseriti a scuola, non è rilevante ai fini dell’espulsione del genitore.

Con una sentenza sconcertante che viola tutti gli accordi e le disposizioni internazionali a tutela dei diritti umani (la n. 5856), la Corte di Cassazione ha sancito che i clandestini, anche se hanno figli minori che studiano in Italia, vanno comunque espulsi dal territorio nazionale, anche se il distacco dai genitori comportasse per i bambini un trauma affettivo. Con questa sentenza la Cassazione mette in primo piano la tutela della legalità delle frontiere rispetto alla tutela della famiglia, dell’infanzia e dei diritti fondamentali della persona.

Per quanto riguarda la sentenza, l’uomo voleva l’autorizzazione a restare in Italia in nome del diritto del ‘sano sviluppo psicofisico’ dei suoi bambini, che sarebbe stato alterato dal suo allontanamento. I supremi giudici gli hanno risposto che è consentito ai clandestini la permanenza in Italia per un periodo di tempo determinato solo in nome di “gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore se determinati da una situazione d’emergenza”. Queste situazioni d’emergenza, però, non sono quelle che hanno una “tendenziale stabilità”, come la frequenza della scuola da parte dei minori e il normale processo educativo formativo che sono situazioni di “essenziale normalità”. Se così non fosse, dice la Cassazione, le norme che consentano la permanenza per motivi d’emergenza anche a chi è clandestino finirebbero con il “legittimare l’inserimento di famiglie di stranieri strumentalizzando l’infanzia”.
La precedente sentenza della stessa Cassazione che autorizzava la permanenza di un clandestino per gli stessi motivi viene definita “riduttiva in quanto orientata alla sola salvaguardia delle esigenze del minore, omettendone l’inquadramento sistematico nel complessivo impianto normativo”.

Mentre il centrodestra plaude alla decisione dei giudici sullabase delprincipio che “non si possono strumentalizzare i minori che non possono diventare un salvacondotto per i clanestini”, insorge il centrosinistra.
Secondo il portavoce nazionale della Federazione della Sinistra, Paolo Ferrero, “la marcia indietro della Cassazione, che smentisce una precedente e recente sentenza di avviso opposto, corrisponde a una sentenza inumana e indegna di un Paese civile”. Con questa sentenza, sottolinea Ferrero, “l’esigenza di garantire la tutela della legalità alle frontiere prevale sulle esigenze di tutela del diritto allo studio dei minori. Una norma davvero inumana e aberrante”, ribadisce il segretario di Rifondazione comunista.

“Stupiscono queste sentenze così contraddittorie della Cassazione, anche se è vero che devono valutare caso per caso e non si deve trarre dal suo pronunciamento un’indicazione di tipo generale”, dice Livia Turco, presidente del Forum Immigrazione del Pd. “Sarebbe gravissimo che i diritti dei minori fossero subordinati alla situazione di irregolarità nel permesso di soggiorno dei genitori – aggiunge -, la nostra stella polare è la Convenzione dell’Onu sui diritti dell`infanzia la quale dice che ci sono dei diritti che devono essere riconosciuti al minore in quanto tale”.
“Tra l’altro la situazione di irregolarità molte volte è dovuta all’inefficienza della nostra macchina amministrativa e dai tempi brevi dei permessi di soggiorno – conclude -. Le tutele dei minori stranieri nel nostro paese vanno rafforzate e non indebolite”.

Per l’organizzazione umanitaria EveryOne, la Cassazione si “contrappone a tutte le norme che tutelano i diritti dei migranti e dei rifugiati, nonché alla Convenzione Onu per i Diritti del Fanciullo e alla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea”. “Questo evento”, proseguono i rappresentanti del Gruppo EveryOne, “dimostra come ormai nel nostro Paese né la politica, né le forze dell’ordine, né la magistratura attribuiscano ormai la minima considerazione alle disposizioni dell’Unione europea e alle norme internazionali che tutelano le minoranze sociali”.
Il Gruppo EveryOne, che sta redigendo un documento di denuncia da presentare all’Unicef, all’Alto Commissario Onu per i Diritti Umani e all’Alto Commissario Onu per i Diritti dei Rifugiati e che sta curando direttamente casi di genitori a rischio di espulsione nei Cie con bambini minori che studiano in Italia, ha chiesto, con una lettera indirizzata al presidente della Commissione europea José Manuel Barroso e al presidente del Parlamento europeo Jerzy Buzek, che le istituzioni europee “riportino l’Italia e il suo Governo sulla via dei diritti umani, pena la rinascita di un movimento simile a quello nazional-socialista, che riporterebbe l’Europa verso un nuovo medioevo”.
“Oggi stesso”, concludono i co-presidenti dell’organizzazione umaniaria Malini, Pegoraro e Picciau, “chiederemo in via ufficiale un appuntamento urgente al Presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, affinché intervenga direttamente sulla questione, impedendo che questo nuovo orrore porti ancora più disperazione nella vita quotidiana di una minoranza, quella dei migranti, già duramente perseguitata da autorità e istituzioni.
da Aprile on line 12.03.10

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La Cassazione: via i clandestini anche se i figli frequentano la scuola

Poco importa che i figli piccoli dei clandestini «si siano inseriti con profitto» nelle nostre scuole dell’obbligo e «che qui abbiano intrecciato stabili amicizie». Gli immigrati irregolari vanno espulsi lo stesso dall’Italia, anche se sostengono che questa misura provocherebbe un «trauma sentimentale» e un calo nel rendimento scolastico dei minori. Così ha deciso ieri la prima sezione civile della Corte di Cassazione con la sentenza numero 5856, respingendo il ricorso di un clandestino albanese che vive a Busto Arsizio (Varese) con due figli e la moglie, munita già di permesso di soggiorno e in attesa della cittadinanza italiana. Adesso potrebbero essere a rischio di espulsione, secondo una stima della Cgil, tra i 30 mila e i 50 mila genitori stranieri irregolari con i bambini iscritti a scuola.

Il cittadino albanese aveva chiesto l’autorizzazione a restare nel nostro Paese in nome del diritto al «sano sviluppo psicofisico» dei suoi figli. Ma la suprema Corte ha detto no, ribaltando pure una sua precedente sentenza, la numero 823 del 19 gennaio scorso: la tutela della legalità delle frontiere prevale, ora, sul diritto allo studio dei minori. Gli ermellini, citando l’articolo 31 del testo unico sull’immigrazione, hanno ricordato, nel provvedimento, che la permanenza in Italia per un periodo di tempo determinato è permessa solo in nome di «gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore se determinati da una situazione d’emergenza». Ma frequentare la scuola, per la Cassazione, non può definirsi «emergenza». Ragionando così— chiosano i giudici di piazza Cavour— si finirebbe per «legittimare l’inserimento di famiglie di stranieri strumentalizzando l’infanzia».

La sentenza, naturalmente, ha scatenato una ridda di reazioni: «Provvedimento giusto — secondo il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini —. La scuola italiana è pronta ad accogliere i bambini in difficoltà. Il nostro sistema ha sempre incluso e mai escluso. E le colpe dei genitori non possono ricadere sui figli. La legge è chiara e va rispettata, non si può giustificare chi utilizza i bambini e li strumentalizza per sanare situazioni di illegalità». La Cgil, invece, è critica: «La sentenza è il frutto di una normativa confusa, che cerca di tenere insieme la difesa dei diritti umani, inclusa quella dei minori, con la volontà di criminalizzare gli stranieri». «Norma inumana e aberrante — commenta Paolo Ferrero, portavoce nazionale della Federazione della Sinistra —. Ma l’Italia non era il Paese dove si difendeva la famiglia?». S’indigna don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele: «Ogni bambino ha il diritto di avere a fianco i propri genitori nel suo percorso di crescita, che sia italiano o figlio di migranti». Più prudente, l’alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Navi Pillay: «Come giudice non posso esprimermi su una sentenza senza averla prima letta. Ma, se è così, è una decisione preoccupante. Tuttavia ho ricevuto garanzie e assicurazioni dal ministro Frattini riguardo la protezione e la tutela dei bambini figli di immigrati». È d’accordo con la suprema Corte il sottosegretario alla Presidenza del consiglio Carlo Giovanardi, che ha la delega alle politiche familiari: «Ma bisogna distinguere caso per caso», suggerisce cauto.

Così, Roberto Salvan, direttore di Unicef Italia, pensa ai due bambini di Busto Arsizio: «Riceveranno comunque un contraccolpo negativo dall’allontanamento del padre— osserva —. La verità è che le norme sono contraddittorie, il legislatore dovrebbe mettere un po’ d’ordine». «La nostra stella polare è la Convenzione dell’Onu sui diritti dell’infanzia — taglia corto Livia Turco, presidente del Forum immigrazione del Pd —. Ci sono dei diritti, cioè, che devono essere riconosciuti al minore in quanto tale. Tra l’altro la situazione di irregolarità dei genitori molte volte è dovuta all’inefficienza della nostra macchina amministrativa e dai tempi brevi dei permessi di soggiorno. Le tutele dei minori stranieri nel nostro Paese vanno rafforzate e non indebolite». «La Cassazione verifica caso per caso— conclude Oliviero Forti, responsabile immigrazione della Caritas Italiana —. Penso quindi che nel caso di Busto Arsizio abbia verificato che non veniva pregiudicato lo sviluppo psicofisico del minore». La sentenza, insomma, non dovrebbe rappresentare «un pericolo».
Il Corriere della Sera 12.03.10

Il Partito Democratico dell'Emilia-Romagna in piazza con i lavoratori

Stefano Bonaccini parteciperà alla manifestazione, promossa dalla CGIL per domani, 12 marzo, a Modena, Marco Lombardelli e Luigi Mariucci saranno presenti a Bologna, Gian Luca Rivi a Reggio Emilia. La crisi in corso investe la politica, l’economia, i sistemi di protezione sociale, le certezze, il futuro di lavoratori e famiglie. Per uscire da questa situazione bisogna avere il coraggio di cambiare, di innovare, di riformare. Il centro destra sta invece navigando a vista rispondendo inadeguatamente alle pesanti ripercussioni sociali ed economiche in atto e minimizzando la portata della situazione. I dati parlano di una diminuzione del PIL tra le più elevate degli ultimi 40 anni, di 700 mila disoccupati in più e del calo di più di un terzo della produzione industriale.
Manca una politica industriale adeguata e i tavoli di crisi aperti presso il ministero sopravvivono senza logica.
Bisogna mettere in moto tutte le energie presenti in questo Paese e nel territorio, nel mondo del lavoro e in quello dell’impresa, virando dalla disastrosa politica economica del governo che non lavora per allargare diritti e opportunità ma agisce in senso opposto.

Anche per questo motivo il Partito Democratico dell’Emilia-Romagna sarà presente domani, venerdì 12 marzo, con propri rappresentanti e con proprie delegazioni allo sciopero indetto dalla CGIL.

A Modena parteciperà alla manifestazione il Segretario Regionale Stefano Bonaccini, a Bologna saranno presenti Marco Lombardelli, Coordinatore dell’Esecutivo Regionale e Luigi Mariucci, Responsabile Lavoro del PD dell’Emilia-Romagna, infine, a Reggio Emilia, parteciperà il responsabile Economia del partito Gian Luca Rivi.

"Mali culturali. Così sono state svuotate le soprintendenze", di Carlo Alberto Bucci e Francesco Erbani

Tagli ai budget, blocco delle nomine, concorsi senza fine, sedi vacanti, commissariamenti. Dovrebbero tutelare il patrimonio pubblico e invece sono al collasso. Il Tar ha annullato la prova che doveva assegnare quindici posti. Mantova, Torino e Siena sono alcune delle città rimaste senza dirigenti
Tagli fino al 50 per cento dei budget, con archeologi che non possono andare in missione e restauratori che non riescono a rinnovare gli strumenti per mancanza di fondi. Soprintendenti andati in pensione e mai sostituiti, lasciando sguarnite ben otto sedi che vengono assegnate, ad interim, a colleghi già oberati di lavoro. Un patrimonio umano sempre più vecchio e demotivato, con il blocco del turn over e i concorsi per le nuove (poche) assunzioni appesi al filo dei ricorsi. Così, bloccate dai tagli e stressate dai commissariamenti, le soprintendenze italiane stanno per collassare. «Sono già collassate», confessa un alto dirigente dei Beni culturali.
A Mantova, la città di Palazzo Ducale e di Palazzo Tè, di Mantegna, dell´Alberti e di Giulio Romano, non c´è più un soprintendente storico-artistico. Ad agosto è andato via Filippo Trevisani e la sede è rimasta vacante fino a dicembre quando è stata data a Fabrizio Magani, che contemporaneamente reggeva quelle di Verona e del Friuli. Ma ora lascia anche lui. Si è fatto un bando per quel posto, però nessuno ha presentato domanda. È andato via il soprintendente a Siena, Gabriele Borghini, che vigilava sugli affreschi di Ambrogio Lorenzetti. Non si sa chi lo sostituirà. Forse sarà affidato ad interim. Non c´è soprintendente a Parma, dove ha lasciato Lucia Fornari Schianchi, né a Torino, per via del pensionamento di Carlenrica Spantigati. Stanno per restare vuote o già lo sono le cariche di soprintendente di Lucca e di Pisa.
Alla paralisi si avviano anche le soprintendenze archeologiche: l´ultimo concorso ha designato 15 nuovi dirigenti, ma le loro poltrone vacillano perché il Tar ha annullato la prova e per i primi di maggio si attende la sentenza del Consiglio di Stato. Colpa del rancore e della vocazione causidica di chi ha perso, dice qualcuno. Oppure di commissioni composte male («completamente fuori norma di legge», secondo i ricorrenti). Sembra che l´annullamento verrà confermato. E si ripartirà con un nuovo concorso. E nel frattempo? Altri interim?
La minaccia di annullamento grava anche su un concorso per quattro soprintendenti storico-artistici, uno fra i più tormentati nella storia della pubblica amministrazione visto che si trascina dal 2006 fra ricorsi, sdoppiamenti, bocciature clamorose e ripescaggi sorprendenti: due concorrenti non ammesse per due volte agli orali, Rossella Vodret e Vittoria Garibaldi, hanno ricevuto dal ministro Bondi una nomina con contratto esterno. Vodret ha sostituito Claudio Strinati nella potente Soprintendenza che unisce a Roma il Polo museale e la tutela dei Beni storico-artistici; alla Garibaldi è toccata invece la Soprintendenza dell´Umbria. Per la cronaca, il concorso è stato vinto dai giovani Luca Caborlotto, Marta Ragozzino, Stefano Casciu ed Edith Gabrielli. Ora saranno nominati. Ma per sapere se resteranno al loro posto bisogna attendere che il 20 ottobre si pronunci il Tar.
Che cosa succederà per la tutela del patrimonio italiano? Da più parti si ascolta una sola diagnosi: così il sistema muore. Lo svuotamento delle soprintendenze procede da anni. I finanziamenti sono ridotti all´osso: dal bilancio totale già magrissimo del ministero sono stati tagliati, fra 2009, 2010 e 2011, un miliardo e 414 milioni di euro, come ha spiegato la Uil Beni culturali. Per la sola attività di tutela nel 2005 erano disponibili 335 milioni, nel 2009 sono stati 179. L´età media di tutti i dipendenti è di 52 anni e 10 mesi. E fra il 2011 e il 2015 vanno in pensione tutti i funzionari assunti fra fine anni Settanta e i primi Ottanta.
Di pari passo è proceduta la nomina di commissari, che hanno mano libera per affidare consulenze, incarichi e appalti e sono politicamente più controllabili. Ma anche questa “soluzione” sembra volgere al termine. Gli scandali intorno al sistema della Protezione civile hanno mostrato quanto il regime della deroga sia a rischio. Nei giorni scorsi il ministro Bondi ha revocato il commissariamento per l´ampliamento degli Uffizi (affidato a Elisabetta Fabbri) e ha annunciato che a Pompei non verrà riconfermato l´incarico a Marcello Fiori, il cui mandato scade a luglio 2010. A L´Aquila, invece, il commissario per i beni culturali resta in carica, anche oltre la fine del mandato di Guido Bertolaso. «Bisogna togliere anche l´altro commissariamento, quello di Brera», dice il segretario della Uil Gianfranco Cerasoli.
Nelle ultime settimane il tracollo del sistema di tutela ha conosciuto un´accelerazione. Una norma varata dal ministro Renato Brunetta anticipa la pensione per i dirigenti del pubblico impiego che hanno 40 anni di contributi. E così, dopo l´uscita di scena di alcuni grandi nomi della tutela in Italia, da Adriano La Regina a Pietro Giovanni Guzzo, mandati via allo scadere dei 65 anni, nonostante fosse possibile trattenerli in servizio per altri due, è stata falcidiata un´intera generazione di soprintendenti, più o meno sui sessant´anni. Via la Fornari Schianchi, la Spantigati, via Angelo Bottini (Roma), via Aldo Cicinelli (Urbino). Via molti direttori regionali. E sorprendenti alcune sostituzioni: in Sardegna al posto dell´architetto Elio Garzillo, che si è battuto contro l´assalto cementizio alla necropoli di Tuvixeddu, arriva Assunta Lorrai, che non è né architetto né storico dell´arte né archeologa e proviene dai ranghi amministrativi.
È un carosello vorticoso, che sfibrerebbe qualunque amministrazione. E che va avanti da anni. A Lucca in cinque anni sono cambiati cinque soprintendenti. Molti dirigono più sedi. Ma alcuni lasciano campo libero ai commissari. A Pompei e a Napoli è arrivata l´estate scorsa la soprintendente Maria Rosaria Salvatore, la cui nomina è oggetto di un ricorso e che ad aprile va in pensione. Ma a Pompei chi decide è il commissario Fiori. Il paradosso è emerso in occasione dell´incidente accanto alla casa dei Casti amanti. Lì lavorava una ditta incaricata dal commissario per costruire delle passerelle. Un´infiltrazione d´acqua e la sostituzione di un ponteggio hanno fatto venir giù venti metri di un muro. Ma subito dopo sono emersi un peristilio e alcuni vani, segno che si stava anche scavando. Ma chi scavava? I testimoni assicurano: erano operai e non archeologi. È dovuto intervenire il Direttore generale, Stefano De Caro, perché lo scavo, senza uomini della Soprintendenza, non proseguisse.
La penuria di personale non riguarda solo i posti di comando. Le soprintendenze di tutta Italia si stanno già contendendo i 395 custodi che, concluso da poco un concorso, stanno per essere sparpagliati lungo tutto lo stivale. E c´è poi da dividersi la miseria di 5 storici dell´arte vincitori dell´ultimo concorso da funzionario, lo stesso che ha immesso 50 architetti (le soprintendenze che si occupano del paesaggio sono le più a rischio visti abusi e condoni pendenti), 30 archeologi e una quindicina tra amministrativi, archivisti e bibliotecari.
Uno dei cinque storici dell´arte spetta al Veneto. Se lo contenderanno le tre soprintendenze. Quella occidentale (ora ne ha quattro che controllano Verona, Vicenza e Rovigo), l´orientale (tre esperti per occuparsi di Padova, Treviso e Belluno) e quella veneziana, dove Caterina Bon Valsassina dirige appena dieci storici dell´arte per gestire le Gallerie dell´Accademia e gli altri quattro musei statali, ma anche per tutelare l´immenso patrimonio lagunare.
La Soprintendenza storico-artistica della Puglia, guidata da Fabrizio Vona, ha in forza 60 persone, compresi funzionari, tecnici, custodi e restauratori. Un numero insufficiente per controllare, senza avere spesso i soldi per le missioni esterne, un territorio vastissimo. Vona ha l´interim anche della Basilicata. E nella piccola Matera i dipendenti totali sono più del doppio: 135. Soprintendente sdoppiato è anche Fabio De Chirico, dal 2008 tutore dei beni storico-artistici della Calabria e dall´anno scorso anche di Salerno e Avellino (interim). «Essere il più giovane nel mio ufficio non mi fa certo piacere», spiega lo studioso quarantasettenne. «Mancano i giovani specializzati anche per gestire le nuove tecnologie: abbiamo creato il portale web ma non abbiamo personale per tenerlo aperto». E il budget? «Siamo passati da 300 mila euro l´anno per le spese correnti a 120 mila. E l´anno prossimo sarà anche peggio».
La Repubblica 11.03.10

"Ronde, clandestinità e centri: l’Onu mette sotto accusa l’Italia", di Umberto De Giovannangeli

L’Alto commissario per i diritti umani interviene al Senato e denuncia la politica sui migranti: «Alimenta paura e sfiducia». Un j’accuse pesante contro le norme contenute nel pacchetto sicurezza varato dal Governo italiano. A pronunciarlo è l’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Navi Pillay, parlando ieri alla Commissione diritti umani del Senato. Nel mirino dell’Alto commissario in particolare l’aggravante di clandestinità, l’istituzione delle ronde, i militari in città, le condizioni all’interno dei Cie (centri di identificazione ed espulsione).
«I migranti spiega sono spesso percepiti come una minaccia alle comunità esistenti ed in alcuni Paesi c’è il rischio di tenere la migrazione all’interno dei confini della sicurezza. Si tratta di un approccio riduttivo che alimenta sfiducia e paura». Ha quindi criticato l’istituzione delle ronde e la decisione di usare militari per la sicurezza delle città. «Quando sottolinea vengono chiamate militari a presidiare le strade e volontari per la sicurezza si danno risposte molto visibili alla migrazione ma a soffrire è la tutela dei diritti». Inoltre, aggiunge, «i politici devono astenersi da dichiarazioni discriminatorie nei confronti dei migranti». «È responsabilità delle autorità pubblica secondo Pillay garantire che i migranti non siano attaccati e discriminati. Sono poi in corso inchieste sui fatti di Rosarno e sollecito le autorità a portare i responsabili davanti alla giustizia e ad attuare politiche di prevenzione di questi fenomeni». «Continuo a essere preoccupata dalle misure contenute nel “pacchetto sicurezza” italiano incalza Pillay che rende lo status irregolare di un migrante una circostanza aggravante per un reato comune. mi auguro sia assolutamente chiaro che è responsabilità delle pubbliche autorità assicurare che i migranti non siano stigmatizzati, calunniati o aggrediti». «In base alle leggi internazionali,
la privazione della libertà deve essere sempre l’ultima misura da applicare, serve una base giuridica per la detenzione. I migranti devono essere informati dei loro diritti e devono poter ricorrere contro l’illegalità della detenzione». Si è quindi detta «preoccupata per le condizioni all’interno dei Cie, in cui relazioni indicano la presenza di sovraffollamento e difficoltà di accesso a diritti. Pillay ha espresso in generale «preoccupazione per lo stato di diritto in Italia», sottolineando come la «magistratura sia messa a repentaglio dall’esecutivo».
L’Unità 11.03.10

Perchè le regole sono la democrazia

Articoli di Carlo Galli, Filippo Ceccarelli e Nadia Urbinati, e una definizione di “democrazia” di Norberto Bobbio
“Perché le regole sono la democrazia” di Carlo Galli
Un triste destino ha colpito le due categorie centrali della metafisica occidentale, sostanza e forma. Dal loro significato originario – elaborato da Platone e Aristotele – , che indicava rispettivamente il fondamento di tutto ciò che è, e gli schemi razionali del suo configurarsi, sono giunte a essere sinonimo, nell´attuale discorso pubblico italiano, di “contenuto reale” e di “apparenza superficiale”. Un impoverimento che ha anche un forte valore polemico, e che riprende, semplificandola e distorcendola, una dialettica autentica che si è storicamente manifestata – con altri nomi e altri concetti – all´interno della teoria politica. Infatti, la politica non si esaurisce certo nelle forme giuridiche, nella norma, nella procedura, nelle istituzioni. E soprattutto la democrazia è anche sostanza: implica infatti, alla radice, la pienezza del popolo, la sua presenza sulla scena politica come identità, come fonte della sovranità, come origine e fondamento del potere.

C´è, nella teoria democratica moderna l´esigenza che il popolo sia una unità politica originaria, immanente, autonoma e autosufficiente, che precede ogni forma istituzionale e giuridica: questa democrazia sostanziale si presenta come potenza della moltitudine in Spinoza, come rinnovamento morale dell´uomo e della società in Rousseau, come emergere di una forte conflittualità in Sorel, e come radicale avversione per le istituzioni nel marxismo rivoluzionario: in questi casi, pur così lontani tra di loro, la forza del popolo non conosce se non quei limiti e quelle forme che pone da sé, in via provvisoria e transitoria, sempre pronta superarli, a travolgerli. Il popolo, qui, è potere costituente, energia che non si neutralizza mai del tutto; è legittimità, sempre in grado di forzare la legalità; è un Bene che si impone assolutamente, un Valore che si afferma, con una voce corale e collettiva.

Questo modo sostanziale e radicale di pensare la democrazia è in concorrenza per tutto il corso della modernità – e nel XX secolo alimentò il confronto fra due giuristi come Schmitt e Kelsen – con la democrazia liberale e costituzionale, che differisce dalla prima su due punti. Innanzi tutto, è intrinsecamente limitata, poiché valuta come Bene fondamentale i diritti dei singoli, in regime di uguaglianza; e al fine di salvarli e promuoverli incanala il potere entro le forme e le procedure delle istituzioni repubblicane. Inoltre, questa democrazia riconosce sì al popolo la titolarità originaria della sovranità, ma non gliene consente l´esercizio diretto. La democrazia liberale è quindi rappresentativa, non identitaria, e prevede che la voce del popolo si articoli in una pluralità di opinioni, all´interno di un´istituzione che nel dialogo trova la propria ragion d´essere: il parlamento – contro il quale si rivolgono le polemiche di Rousseau, di Sorel, di Marx e di Lenin – . In questa democrazia il potere del popolo, la sostanza, non si dà senza la forma, e soprattutto non può mai trascenderla. Il che significa che la legittimità deve farsi legalità, che il potere costituente non può non istituzionalizzarsi in potere costituito. Non esiste alcun potere assoluto, neppure quello del popolo – meno che mai quello dei suoi rappresentanti, o del governo – .

Il liberalismo seicentesco di Locke e quello ottocentesco di Mill, oltre alla tradizione del costituzionalismo inglese e nord-americano, stanno alla base di questa accezione della democrazia, che ispira anche le costituzioni contemporanee. Ma non è una democrazia inerte, apatica e relativistica, non persegue la piena giuridificazione tecnica, formalistica e procedurale della politica, non esclude passioni e sentimenti, valori e speranze; vive anzi della dialettica tra le dimensioni del diritto e del potere, tra forma e sostanza, fra legalità e legittimità. E nel nostro tempo la sostanza della democrazia, del potere del popolo, sono i valori dell´umanesimo laico e cristiano, liberale e socialista, incorporati nella Costituzione. Sono lo sforzo all´inclusione, alla partecipazione (anche in senso elettorale), all´uguaglianza reale. Sono gli interessi legittimi e i loro conflitti, la dignità del lavoro e delle professioni, le fatiche e le speranze dei cittadini. Ma tutto ciò può valere e essere difeso nelle forme del diritto, che sono ormai pienamente democratiche.
La contrapposizione tra sostanza e forma, infatti, è stata risolta in quell´autentico caso d´eccezione che fu l´instaurazione dell´attuale ordinamento giuridico-politico, fra il 1943 e il 1948; lì c´è stata la decisione sovrana del popolo, che ha affermato come legittimo il proprio potere e gli ha dato la forma costituzionale attuale. Quindi mettere oggi in contrapposizione forma e sostanza – come se la prima fosse nulla, senza capire che è invece il modo d´essere della sostanza – è usare il caso d´eccezione non per creare ma per distruggere: nessuna sostanza politica, oggi, può affermarsi contro la forma costituzionale, o fuori di essa; neppure il diritto di voto può essere contrapposto all´ordinamento (come si è tentato di fare, poiché non si sono volute perseguire altre vie). La democrazia della sostanza, oggi, è una democrazia informe e illegale; non potere del popolo ma conato di populismo; non ordine, ma la solita emergenza quotidiana.

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“Un regime privatizzato” di Filippo Ceccarelli

Residenze private fatte pubbliche, da villa La Certosa a Palazzo Grazioli, con tanto di tricolore al balcone e seratine «simpatiche»come dice il premier. Picchetto d´onore a Palazzo Chigi per accogliere il socio d´affari, principe Al Walid. Istituzionalizzazione di casa Letta, del salotto Angiolillo e dello studio di Bruno Vespa per la firma del Contratto con gli italiani e la sua verifica annuale, sulla medesima scrivania in ciliegio.
Cosa è più, ormai, la distinzione tra forma e sostanza in tarda epoca berlusconiana? I miscugli di cui sopra si riferiscono al quinquennio 2001-2006, due legislature orsono. Per dirne l´evoluzione o regressione che sia, per far capire quanto poco al Cavaliere stia a cuore di salvare la forma, appunto, oltre che la sostanza, basterà qui far presente che dopo aver presentato il suo quarto governo alle Camere, nel maggio del 2008, non è più intervenuto né a Montecitorio né a Palazzo Madama.

Del resto lì ha messo gente anch´essa molto poco portata a soffermarsi sulle antiche distinzioni, tanto formali quanto sostanziali, che regolano i rapporti fra le istituzioni. Uno di questi testimonial del berlusconismo trans-istituzionale, anche lui segnalatosi per un´impegnativa e temeraria valutazione su forma e sostanza, è il presidente del Senato Schifani, a suo tempo (2002) innalzato dal suo ex compagno di partito Filippo Mancuso a «Principe del foro del recupero crediti».

Mancuso era quell´ex alto magistrato piccoletto, già Guardasigilli ribellatosi al governo Dini, che parlava una strana lingua aulica e assai espressiva, ma il senso giuridico della separazione senza dubbio lo possedeva. La sua turbinosa uscita da Forza Italia, dove era stato accolto come una sorta di coscienza della continuità, segna un punto di non ritorno nel processo di alterazione della norma e delle regole e quindi dei comportamenti. Con il che lo stesso giorno in cui Schifani ascese alla terza carica dello Stato pensò bene di andare a ringraziare a Palazzo Grazioli.

Fossero solo le liste elettorali, infatti, i decreti legge interpretativi o le pantomime in Consiglio dei Ministri quando c´è da legiferare sulla televisione e allora Berlusconi e Letta si alzano e fanno finta di astenersi. Tutto questo non dipende da innata cattiveria o conveniente ipocrisia. Solo quel tanto che attiene alla natura umana. È che per sua natura e vocazione, la monarchia carismatica, aziendale, populista e spettacolare appare del tutto incompatibile con la complessità degli assetti giuridici; né mai riuscirà a comprendere i vincoli posti da tradizioni lontanissime dalle logiche del potere personale, del mercato e dello show-business.

A proposito del suo governo ha detto il presidente Berlusconi nell´autunno del 2008: «Per la prima volta ne ho uno che fila come un orologio, sembra un consiglio d´amministrazione». Che l´ingranaggio si sia con il tempo un po´ rallentato non toglie nulla a un paradigma, a un modello, a una condizione del tutto inedita secondo cui il Cavaliere tiene moltissimo sia alla forma che alla sostanza: ma a patto che sia lui non solo a ridefinirne i confini, ma a stabilire cosa siano l´una e l´altra.

E poiché tale processo, che poi coincide con la definitiva presa del potere, non si è ancora compiuto, ecco che tra commistioni, contaminazioni, superamenti, scavalcamenti e altre poco simpatiche forzature, dal continuo miscuglione di forma & sostanza ha finito per generarsi una specie di “formanza”. Mostruosa ibridazione, enigmatico incrocio che in fondo ha già cominciato a mettere a dura prova politici, giuristi, filosofi, sociologi e addirittura giornalisti rotti a qualsiasi invecchiatissima novità.

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“Il potere alla prova” di Nadia Urbinati

“The law is the law is the law” – a molti nostri connazionali questa massima deve apparire come un´insopportabile tirannia del formalismo. Forse si sentono piú a loro agio con quest´altra formula: “estado de opinión”, usata nei regimi demo-autoritari sudamericani per sottolineare il contrasto con lo “estado de derecho”, la tensione tra il governo dell´opinione di chi governa e il governo della legge. Forma e sostanza non sono due opposte dimensioni della democrazia perché senza procedure che limitano l´azione politica non c´è sostanza democratica in quanto a contare non sarà l´opinione generale ma un´opinione di parte, non importa quanto grande. In altre parole, violare le norme che mettono in pratica il principio di eguaglianza si traduce in una violazione della sostanza democratica che è appunto l´eguaglianza. Ecco perché mentre la legge è sempre al nostro servizio, l´opinione di chi governa non lo è necessariamente. Questo vale soprattutto quando si ha a che fare con un diritto politico fondamentale come quello elettorale.
Perciò, in casi estremi, quando ci sono dubbi o evidenti scorrettezze è al potere giudiziario che la democrazia si rivolge (un potere che, vale ricordarlo, è anch´esso democratico). Perché è possibile che nell´espletamento del diritto elettorale si verifichino negligenze ed errori. Ad essere rivelatore della solidità democratica è in questo caso il comportamento della classe politica. Nelle contestatissime elezioni americane del 2000, quando per risolvere la diatriba sul conteggio dei voti in Florida intervenne la Corte Suprema, Al Gore, il candidato che risultò perdente (benché forse i voti gli avevano dato la vittoria) non si sognò neppure di attaccare i giudici e gridare che è la sostanza politica a fare la democrazia. Nel caso da noi in discussione in questi giorni, invece, si assiste a questo ribaltamento delle parti: se l´esclusione di una lista elettorale avviene perché qualcuno non ha rispettato le regole, allora si invoca la sostanza contro la forma e si dice che l´esclusione è stata provocata dalla legge, non dal suo mancato rispetto. Qui l´intervento della giustizia è dichiarato un attentato alla democrazia. L´esito politico di questo ragionamento assurdo è inquietante.
Il paradosso è il seguente: fino a quando esiste un accordo tra l´opinione politica e la legge allora vale la massima “the law is the law is the law”. Quando invece c´è disaccordo tra opinione e legge ad avere la precedenza è la sostanza che consiste appunto nella preferenza di una parte – la massima diventa allora “estado de opinión” contro “estado de derecho”. Il fatto è che, siccome a decretare l´una o l´altra soluzione è comunque la preferenza politica, anche quando pare che a vincere sia la legge in realtà a vincere è sempre l´opinione. Ecco perché le interruzioni della regola nel nome della sostanza sono ben più di un incidente di percorso o di una soluzione di emergenza per sanare una situazione eccezionale. Esse si traducono in una vera e propria sostituzione dello “estado de opinión” allo “estado de derecho”. E questo puó scardinare la democrazia.
Ma allora, perché alcuni stati democratici sono piú inclini di altri a rispettare le regole che si sono dati? La spiegazione non è univoca perché la domanda mette in campo dimensioni diverse, come quella legale e quella etico-culturale; tuttavia è possibile formulare questa massima generale: perché una società democratica resista nel tempo è fondamentale non solo che abbia buone leggi ma anche che il suo personale politico sia disposto ad autolimitarsi per rispettarle.

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“Sillabario: Democrazia” di Norberto Bobbio

Per regime democratico s´intende primariamente un insieme di regole di procedura per la formazione di decisioni collettive, in cui è prevista e facilitata la partecipazione più ampia possibile degli interessati. So bene che una simile definizione procedurale, o formale, o in senso peggiorativo formalistica, appare troppo povera ai movimenti che si proclamano di sinistra. Ma, a parte il fatto che un´altra definizione altrettanto chiara non esiste, questa è l´unica che ci offra un criterio infallibile per distinguere tra due tipi ideali opposti di forme di governo. Altrettanto opportuno è precisare che la democrazia come metodo è, sì, aperta a tutti i possibili contenuti, ma è nello stesso tempo molto esigente nel richiedere il rispetto delle istituzioni, perché proprio in questo rispetto sono riposti tutti i vantaggi del metodo.

da La Repubblica 11.03.10

Appello del Partito democratico per la scuola pubblica

Per quei maestri e insegnanti che la mattina accolgono i nostri figli con il sorriso e con ostinata passione per la loro educazione, nonostante tutto.
Per una Scuola Pubblica che unisce e non divide il Nord dal Sud, il bianco dal nero, il ricco dal povero.
Per chi nella scuola dell’obbligo sa incoraggiare e non selezionare.
Per quei bambini e ragazzi che a settembre non troveranno più la propria maestra o professoressa, perché precaria.
Per chi pensa che nella cartella dei propri figli, ci debba mettere solo libri e quaderni e non sapone e carta igienica.
“Scuola” è la parola che disegna il futuro. E’ strumento di uguaglianza e libertà. Dove si produce e trasmette il sapere, si coltivano le intelligenze e la creatività, per non omologarsi ad un consenso acritico. Dove si offrono a tutti gli strumenti più adeguati per affrontare la vita.
E’ il luogo in cui la democrazia mette le sue radici più vigorose.
Per questo la Scuola non è solo un capitolo del Bilancio dello Stato, ma il più grande investimento sul capitale umano e sul futuro del nostro Paese.
L’Educazione non si taglia. Qualità alla Scuola Pubblica.

Per sottoscrivere l’appello puoi cliccare qui
o cliccare sulla immagine “la scuola tagliata” di fianco a destra