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"Ministro Gelmini lasci l'iniziativa alle Camere", di Vittoria Franco*

Alla luce della interessante discussione sulla riforma dell’Università, che si è svolta nella Commissione del Senato, un gesto politico di responsabilità si impone: la ministra Gelmini ritiri il suo ddl e lasci l’iniziativa al Parlamento. Le critiche alla sua proposta, venute anche da autorevoli esponenti della maggioranza, sono molte e tali da mettere in radicale discussione l’intero impianto da lei presentato. I punti controversi sono tanti, ma quello centrale riguarda l’impianto complessivo, troppo centralistico, burocratico, fatto di lacci e lacciuoli, che imbrigliano le università e negano quel principio di autonomia, previsto dalla nostra Costituzione e che è vitale per poter creare un sistema universitario moderno, dinamico, capace di creare sapere e di diffonderlo, adeguato ai nuovi bisogni di conoscenza e di alta formazione. Il ddl del governo va in realtà nella direzione opposta. L’Università è concepita come un grande Liceo superiore, sede prevalentemente della trasmissione del sapere, dal quale scompare la sua essenza, il primato della ricerca. Si spiega così una governance centralistica e paternalistica che mira a collocare l’Università sotto le ali protettive del governo. Il Ministro – quello del Tesoro – diventa il Rettore unico di tutte le Università. L’autonomia riemerge esclusivamente quando c’è da farsi carico dei tagli insostenibili. Una riforma seria va invece verso la creazione di meccanismi che portino all’autonomia responsabile. Come rafforzare gli aspetti di responsabilità dovrebbe essere il tema di cui discutere. La soluzione è già emersa chiaramente. La responsabilità la si accresce attraverso il potenziamento della valutazione e introducendo meccanismi premiali rigorosi. Le università compiono autonomamente le loro scelte, scelgono anche il modello di funzionamento e di governo, e di quelle rispondono. Non serve uno “stampino” bensì la massima autonomia per valorizzare reti e realtà presenti sul territorio. Affidare ogni dettaglio organizzativo e gestionale delle singole università a due ministeri, Università ed Economia, è la morte per soffocamento dell’università statale italiana (mentre quelle private mantengono la massima libertà). Anche elementi positivi presenti nel testo si perdono nel mare di burocrazia che viene costruito. Una decisione politica seria si impone. Il Parlamento sta dimostrando la capacità di affrontare con spirito di condivisa responsabilità la riforma, necessaria, del nostro sistema universitario. È emersa con chiarezza la convinzione comune che senza un intervento riformatore efficace sarà l’intero sistema Paese a soffrirne, bloccato in un processo di scadimento della ricerca, dell’alta formazione, dello sviluppo sociale ed economico complessivo. Partiamo da qui riscrivendo interamente un altro testo. Noi siamo pronti a fare la nostra parte.

*Senatrice Pd COMMISSIONE UNIVERSITÀ DEL SENATO
L’Unità 03.03.10

Dilettanti allo sbaraglio, la Polverini fa il bis

La saga delle liste di centrodestra escluse dal voto alle regionali ha un nuovo capitolo, altre 2 liste legate a Renata Polverini restano fuori. Bersani: “Non voteremo nessuna legge per riammettere le liste escluse”. E Bossi ci copia il titolo…
Ormai sembra un cinepanettone, stessa trama, stessi protagonisti, a partire da Renata Polverini e dagli ir-responsabili dell’organizzazione PDL. Dopo l’esclusione della lista romana del Pdl dalle regionali del Lazio, oggi sia la sua lista civica che il suo listino sono stati bocciati dall’ufficio centrale elettorale della Corte d’Appello di Roma. La lista civica, acquisita con riserva, ha un simbolo troppo simile a quello di Fabio Polverini, candidato di una lista collegata a Forza Nuova di Roberto Fiore. Mentre la lista di Renata Polverini ha un simbolo rosso con il tricolore sotto, quello di Fabio Polverini ha la scritta Fabio in rosso e Polverini in bianco con la dicitura candidato per la regione Lazio. La lista con la candidatura di Fabio Polverini è stata presentata prima. L’ufficio centrale elettorale della Corte d’Appello di Roma non ha poi ammesso alle elezioni regionali il listino collegato alla candidata del centrodestra Renata Polverini. Si tratterebbe della mancanza della firma di uno dei rappresentanti di lista di cui l’ufficio elettorale si sarebbe accorto solo successivamente all’accoglimento, ma allo stato attuale la Polverini non risulta candidata dato che per la legge elettorale regionale il candidato presidente è necessariamente capolista del listino a lui collegato. Emma Bonino, dice: “Io non sono un giudice, ci sono gli organi preposti per decidere su queste vicende. Noi abbiamo il bollino a posto. Io- dice l’esponente radicale- vado avanti nella mia campagna elettorale parlando con i cittadini. Per il resto, le procedure sono stabilite per legge: chi ha il dovere di controllare e monitorare lo faccia nel rispetto della legge”.
E sia il segretario del PD, Pier Luigi Bersani, che il ministro degli Interni, Roberto Maroni chiudono la porta a ogni ipotesi di provvedimento ad hopc per salvare le liste della destra in difficoltà. Bersani con i giornalisti è stato lapidario: “Una leggina per riammettere le liste bocciate? Voglio credere che non ci pensino neanche. Il partito del predellino alla prima curva è sbandato, chiedo al Pdl di non tentare scorciatoie e di affidarsi alle decisioni della magistratura e degli organi competenti. Noi non abbiamo festeggiato, perché questi episodi creano turbamento nell’elettorato. Tuttavia il Pdl dia la colpa a se stesso, per le sue divisioni, e si affidi alle regole del gioco che implicano il rispetto delle decisioni della magistratura e degli organismi competenti; a questo si rassegnino senza alzare i toni, perché gli unici responsabili sono loro”.

“Non si possono cambiare le regole, non c’è spazio per fare un provvedimento d’urgenza da parte del governo” dice il ministro Roberto Maroni.
Anche perché se “i criteri per decidere l’ammissibilità delle liste dovessero diventare, da formali, criteri politici, il precedente che si creerebbe sarebbe uno stravolgimento delle regole dalle conseguenze non gestibili” ammonisce il vicesegretario del Pd Enrico Letta. E se a Bologna si è deciso di commissariare il comune in nome del rigore della legge, non si capisce perché a Roma le regole dovrebbero essere ignorate o cambiate in favore di qualcuno.

E’ una crisi politica, non ci sono scuse. Non basta dire che “al momento il listino Polverini risulta escluso. C’è un impedimento di carattere burocratico che pensiamo di risolvere a breve”, come fa il coordinatore regionale del Pdl Lazio Vincenzo Piso. Non basta se l’alleato-stampella del governo, cioè Umberto Bossi, ha un giudizio assai diverso, identico al nostro titolo: “Sono dilettanti allo sbaraglio” dice all’ANSA. “Come si fa – aveva già detto ieri il leader della Lega – a sbagliare a presentare le liste alle regionali?”.
Non basta gettare acqua sul fuoco se emergono particolari comici nella vicenda. Alfredo Pallone, vicecoordinatore del Pdl del Lazio, delegato con Piso a presentare il listino si era allontanato durante i momenti di tensione, sabato scorso, dovuti alla mancata presentazione, nei tempi stabiliti, dei candidati Pdl della lista di Roma e provincia. È per questo che mancherebbe la sua firma. Pallone ha spiegato che stasera, andrà in Corte d’Appello “per presentare un’integrazione”. Così arriviamo al punto che i deputati romani del PDL rilasciano dichiarazioni come questa: “Alla luce dell’incapacità militante del Pdl romano e non solo, direi che insieme al codice etico bisognerà introdurre il codice intellettivo, con approfonditi test sul QI. Visto che sono del Pdl, per giunta nato a Roma, dove il buio della ragione sembra contagioso, mi sottoporrò per primo agli esami”. Lo ha detto il deputato del PDL Giancarlo Lehner.

Nico Stumpo, della segreteria del PD, responsabile Organizzazione pensa che “quello che sta avvenendo con le liste del Pdl non è certamente il segnale di un complotto dei magistrati. Ma non è neppure semplicemente il risultato di pressappochismo e disorganizzazione, come lasciano pensare i toni farseschi assunti ormai da tutta la vicenda. La débacle delle liste è il segnale più visibile di un contrasto politico che attraversa il Pdl, una vera e propria lotta che si risolve con colpi bassi e cambi di candidati. E’ successo così in Campania, con la comparsa del nome di Conte in lista avvenuta “nottetempo, di nascosto” come candidamente ammette Caldoro. Ma allora le firme come sono state raccolte? E’ successo in Lombardia, dove il continuo spostamento nella lista dell’igienista dentale del premier e del massaggiatore del Milan sarebbe all’origine di tutto l’impiccio di Formigoni.
E’ successo nel Lazio, con capolista e candidati che cambiano oltre il tempo massimo”. Insomma è un mix di “ incapacità, di disprezzo delle regole, di tentativi
maldestri di imbrogliarsi l’uno con l’altro. La smettano con pantomime e piagnistei, inizino la campagna elettorale perché il 28 e 29 si vota e sarà un giorno di democrazia per tutti gli italiani chiamati alle urne”.

PD a Schifani: rispettate la legge.
A difesa della Polverini e di Formigoni è intervenuto anche il presidente del senato, Renato Schifani: “Mi auguro fortemente che possa essere garantito il sacrosanto diritto di voto che dalla Costituzione è previsto per tutti i cittadini, prevalga sempre, nel rispetto delle regole, la sostanza rispetto alla forma, quando la forma non è essenziale”. Gli ha risposto lo stesso Bersani: “Chiunque, comprese le alte cariche dello Stato, devono affidarsi alla legge e a procedure che hanno cinque o sei passaggi di garanzia. Questi inciampi creano dei turbamenti, ma la responsabilità è di chi non è stato nelle regole. Il Pdl piuttosto prenda atto degli errori commessi, e se ha buone ragioni le faccia valere nelle sedi opportune”. A Palazzo Madama, dopo l’intervento di Schifani, ha preso la parola il vice capogruppo del Pd, Luigi Zanda, ricordandogli “il ruolo che deve avere il presidente del Senato. Lei è garante di quella forma che lei stesso ha dichiarato poco fa venga dopo la sostanza”. Più volte il Presidente Schifani ha tentato di togliere la parola al senatore Zanda e quando ha sottolineato di aver fatto per trent’anni l’avvocato e di non aver quindi bisogno di spiegazioni sulla forma e la sostanza, Zanda ha risposto: “Lei qui, oggi, fa il Presidente del Senato, non l’avvocato e il Presidente del Senato deve essere il garante del rispetto delle leggi, che lei chiama ‘forma’”.

E sempre dal Senato arriva l’appello di Ignazio Marino: “Non è concepibile affidare la guida di una regione così complessa come il Lazio ad un gruppo di amministratori amatoriali come si dimostrano essere i politici del team di Renata Polverini. Va detto chiaramente che se il PDL non è nemmeno in grado di dimostrare precisione ed efficienza in un compito piuttosto semplice come la presentazione delle liste non so proprio come potrà gestire con questa inettitudine e superficialità la revisione dei conti della sanità oppure l’organizzazione dei trasporti regionali. Le forme sono le leggi e la sostanza sono i comportamenti. Se sminuiamo l’importanza di rispettare le regole rischiamo di giustificare chi cerca con comportamenti scorretti di aggirare la giustizia. Per fortuna i cittadini possono rendersi conto, prima di andare a votare, qual è la professionalità di chi si candida a guidare la Regione”.

Intanto in Lombardia secondo giorno di passione per il Pdl. Dopo l’esclusione del listino di Roberto Formigoni per irregolarità nella raccolta delle firme, commentata sempre da Bossi secondo lo stesso copione (Sbagliare la raccolta firme in Lombardia: ma come si fa? Bastava che incaricassero noi della Lega e non ci sarebbe stato alcun problema) è sceso in campo il ministro della Difesa, Ignazio La Russa che, accompagnato da Guido Podestà, Presidente della Provincia di Milano, si è presentato poco dopo l’una in Tribunale a Milano per presentare il ricorso che potrebbe ripescare il governatore, in corsa per il quarto mandato.

La presenza di La Russa in Tribunale ha destato sorpresa, tnato che Filippo Penati, candidato alla presidenza regionale per il PD ci scherza su: “Formigoni è talmente tranquillo che ha sentito l’esigenza di far intervenire l’esercito. Il ministro della Difesa ha infatti sentito il dovere di essere presente proprio al deposito del ricorso”. Poi facendosi serio ricorda come “la legge e le regole sono uguali per tutti e tutti le devono rispettare”.

Maurizio Martina, segretario regionale del PD attacca gli avversari che minimizzano l’accaduto: “Il pasticcio c’è stato e sarebbe buona cosa non sottovalutare la questione». Mi pare inoltre sempre più evidente, anche leggendo le dichiarazioni di queste ore di alcuni esponenti della Lega, che lo scontro frontale fra le diverse anime del centrodestra lombardo è perenne e oramai non risparmia nulla. Davvero un brutto spettacolo per una Regione che avrebbe bisogno di concentrarsi su altro”.

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“Il caos nel Pdl e i vantaggi per il Cavaliere”, di Marcello Sorgi
Diceva Andreotti che a pensar male si fa peccato ma non si sbaglia. Applicato alla grottesca vicenda della lista del Pdl e del listino della Polverini esclusi dalle elezioni a Roma, il criterio andreottiano porta a questo. Non è affatto detto che, passata l’irritazione iniziale (non c’è giorno, negli ultimi tempi, che non gli arrivi una cattiva notizia) Berlusconi sia così dispiaciuto di quel che sta accadendo nella Capitale. E che insieme agli evidenti svantaggi che si profilano, non ne stia calcolando anche i vantaggi.

In fondo, Polverini è una candidata di Fini, il cofondatore-alleato-avversario, che non perde occasione per attaccarlo. La candidata del cuore del Cavaliere per il Lazio era Luisa Todini, che a malincuore ha dovuto mettersi da parte. In fondo, il Popolo della libertà a Roma non somiglia affatto al modello di partito che sogna il Cavaliere, e dopo l’elezione in Campidoglio di Alemanno è subalterno, sia al primo sindaco di Roma che non è in buoni rapporti con Gianni Letta, sia al gruppo di intellettuali della fondazione finiana che Berlusconi considera un laboratorio di iniziative mirate contro di lui.

I voti di centrodestra, in fondo, non andranno certo al centrosinistra. Per quanto sfrido possa esserci verso l’astensione, ci sono altre liste di centrodestra che potrebbero intercettarli. In fondo, c’è Storace, che da amico che era, è diventato nemico di Fini e per questo è stato espulso dal centrodestra, ma non ha mai smesso di essere amico di Berlusconi. Con quel suo partitino, «La Destra», può raccogliere sia voti moderati in trasferta o abilmente convogliati in quella direzione, sia voti di destra-destra. In fondo, poi, anche l’Udc romana non è da buttar via, con quel Baccini che, pur avendo un rapporto altalenante con Casini, s’è tenuto sempre buono il Cavaliere e Palazzo Chigi, pronto a mollare gli ormeggi al momento più opportuno.

Ecco perché, in fondo in fondo, Berlusconi non si straccerà le vesti se la candidata di Fini perderà le elezioni grazie al maldestro intervento degli amici del sindaco di An. Archiviata la sconfitta, potrà godersi la resa dei conti tra i suoi ruvidi alleati, e aprire la porta del partito ai suoi vecchi amici ingiustamente emarginati. Il nemico del mio nemico è mio amico. La sconfitta del mio avversario è la mia vittoria. Queste non sono massime andreottiane. Ma se qualcuno dicesse che somigliano ai pensieri di Berlusconi in queste ore, non ci sarebbe niente da stupirsi.
La Stampa 03.03.10

"Biotecnologie e multinazionali", di Pietro Greco

La Commissione europea ha dato il via libera alla coltivazione a fini commerciali di una patata geneticamente modificata, prodotta dall’azienda chimica tedesca Basf. È la fine della moratoria sull’uso commerciale delle «biotecnologie verdi» che durava dal 1998. La novità è stata salutata con soddisfazione dai fautori «biotecnologie verdi», ma è stata stroncata dagli ambientalisti. La discussione è spesso confusa. Quattro le questioni associate alle piante ogm: la sicurezza alimentare, il rischio ecologico, i problemi economici, le tematiche politiche. La sicurezza alimentare. Gli ogm sono diversi e le modifiche, anche quelle conseguite con le moderne tecniche del Dna ricombinante, sono di diversa natura. Tuttavia ovunque sono stati studiati – in America, in Europa, in Asia – nessuno ha mai trovato prove di una loro intrinseca pericolosità per la salute umana. Alcuni prodotti specifici possono essere allergenici: m anche cibi ottenuti con altre tecniche, considerate naturali, possono esserlo. C’è da dire che gli ogm in genere sono meglio controllati di altri. Offrono, in qualche modo, garanzie in più. Il rischio ecologico. Alcuni temono che gli ogm possano diffondere, per così dire, “geni alieni” nell’ambiente. Anche in questo caso, studi che ormai si estendono nell’arco di anni, sembrano dissolvere le previsioni più catastrofiche .Non sempre è facile – non sempre è possibile – confinare le piante geneticamente modificate, tuttavia finora non si ha notizia di una diffusione massiva di “geni pericolosi” nell’ambiente. Le piante geneticamente modificate, nel bene o nel male, non sembrano comportarsi in maniera diversa dalle altre. Sul piano strettamente scientifico, dunque, la decisione della Commissione europea sembra fondata. Il piano economico. Le “biotecnologie verdi” sono, per ora, controllate (e, tutto sommato, usate male) da grandi compagnie multinazionali che hanno un approccio all’agricoltura di tipo monopolistico e intensivo. Questo tipo di agricoltura serve all’Europa e al mondo intero? Genera sicurezza economica o instabilità e ingiustizie? Ancora: sono utilizzate, le “biotecnologie verdi”, per tutelare la qualità delle produzioni agricole? I temi politici. Bisogna o no garantire la completa tracciabilità degli ogm, in modo da informare sempre i cittadini e garantire chiunque, per qualsiasi motivo, non voglia assumerli? Chi deve prendere queste decisioni? Josè Manuel Barroso, sostiene che la Commissione «non vuole imporre la coltura degli ogm in Europa». Occorre, dunque, avviare una discussione vera. Consentendo la piena compartecipazione dei cittadini alle scelte. È questa la vera partita degli ogm, per uscire dalle secche di un confronto meramente ideologico
L’Unità 03.03.10

Si spegne la tv, si accende la protesta

Alle 20 davanti alla sede Rai di via Teulada società civile, politica e informazione protestano contro lo stop del governo alle trasmissioni di approfondimento. Con loro anche il segretario PD Pier Luigi Bersani.
Oggi, 2 marzo, ore 20, davanti ai cancelli Rai di via Teulada. È questo l’appuntamento che si danno i rappresentanti della stampa italiana, le forze politiche, le forze sociali, i cittadini comuni per difendere l’informazione plurale, il diritto del cittadino a sapere ciò che succede intorno a lui e soprattutto ciò che succede lontano da lui. Per protestare contro le ultime disposizioni del governo al Cda Rai in materia di par condicio, per sbugiardare l’ultima scusa chi usa il proprio potere politico per mettere a tacere non solo il dissenso ma anche il semplice senso critico. La manifestazione di terrà proprio davanti agli studi che il martedì ospitano Ballarò di Giovanni Floris, prima testa (della settimana) a cadere. Fra i partecipanti il segretario Pier Luigi Bersani e i componenti PD della commissione di Vigilanza Paolo Gentiloni, Vinicio Peluffo e Vincenzo Vita e il presidente del forum Riforma del sistema radiotelevisivo Carlo Rognoni.

Matteo Orfini, della segreteria del Partito Democratico, responsabile Cultura e Informazione afferma: “Il Partito Democratico parteciperà alla manifestazione pubblica organizzata dalla Fnsi per protestare contro la cancellazione dei talk show durante la campagna elettorale. Sarò, assieme ad altri esponenti del PD, in via Teulada per testimoniare la nostra solidarietà ai giornalisti colpiti dalla decisione presa dalla maggioranza del Cda della RAI”.

Il capogruppo del Partito Democratico in commissione Trasporti e Telecomunicazioni alla Camera dei Deputati, Michele Meta, ribadisce: “La ricerca del capro espiatorio sta determinando una responsabilità della legge sulla par condicio nell’annullamento dei programmi di approfondimento giornalistico. Uno schema già visto in altre occasioni che assume un profilo di disonestà intellettuale. La decisione presa dal Cda RAI, a danno degli stessi interessi dell’azienda, è figlia esclusivamente della mancanza di autonomia dei vertici dell’azienda di servizio pubblico che a tutti i costi ha deciso clamorosamente di imbavagliare, in maniera restrittiva, i talk show a maggioranza, con una profonda spaccatura interna sulla quale ci si dovrebbe interrogare meglio. Sono gli uomini, i manager dell’azienda ed i rappresentanti dei partiti di maggioranza, ad aver determinato questa situazione. E, per quanto ci riguarda, come uomini liberi aderiamo alla giusta protesta del mondo dell’informazione per uno stato di cose davvero inconcepibile, e per il tentativo gravissimo di ledere le fondamenta del servizio pubblico che deve garantire sempre il pluralismo, l’obiettività e la completezza dell’informazione”.

Mentre Rita Borsellino, eurodeputata PD, David Sassoli, capogruppo PD al parlamento europeo, Nichi Vendola, candidato alla presidenza della Puglia, e Luigi Zanda, vice capogruppo PD al Senato, diffondono l’appello inviato ai presidenti di Camera e Senato. Ecco il testo integrale: “Vietare i dibattiti politici in televisione significa impedire ai cittadini italiani di formarsi la propria opinione, partecipare alla propria storia, privarli della libertà di scegliere coloro che dovranno governare. La decisione di annullare per un mese i talk show non ha precedenti. Con un atto degno di regimi illiberali, il governo ha costretto il Consiglio di amministrazione della Rai a varare un provvedimento di fine trasmissioni politiche, provocando la rottura del patto fra il servizio pubblico e i cittadini abbonati e causando un enorme danno economico e di immagine all’azienda pubblica. Noi sottoscritti chiediamo ai Presidenti delle Camere e alle autorità di garanzia del settore di intervenire immediatamente per liberarci da questo bavaglio e garantire i valori indicati nell’articolo 21 della Costituzione Repubblicana”.

Vincenzo Vita, senatore del Pd e membro della commissione di Vigilanza Rai dichiara: “La Rai di questi tempi non poteva purtroppo che produrre un regolamento sulla campagna elettorale più realista del re. Non era un atto dovuto e neppure il testo votato a maggioranza dalla commissione di Vigilanza lo imponeva. Tantomeno la legge sulla par condicio, che – anzi – viene bellamente aggirata. E’ una scelta del tutto sbagliata che, con la forza dei numeri, impone al Paese un servizio pubblico dimezzato. Proprio quando il servizio pubblico dovrebbe esercitarsi nel massimo della sua espressione. Inoltre, è un oltraggio alla sintassi televisiva, che viene snaturata con un atto di imperio. C’è da sperare che la scelta di oggi non rimanga senza risposta”.

Fabrizio Morri, capogruppo del PD in Commissione Vigilanza Rai, spiega: “Il provvedimento del Cda della Rai è la fotocopia del voto con il quale il centrodestra della commissione di Vigilanza Rai ha voluto chiudere le trasmissione di approfondimento giornalistico nel mese della campagna elettorale per elezioni regionali. La decisione del Cda di oggi conferma che il vero obiettivo era quello di spegnere i talk show perché ritenuti, evidentemente, scomodi dal governo. È un atto di inaudita gravità e lo consideriamo una vera e propria lesione ad ogni principio di autonomia aziendale e di cultura democratica”.
www.partitodemocratico.it

"Dopo gli stranieri lo sciopero dei precari", di Marco Simoni

La giornata di ieri dedicata al cosiddetto sciopero degli stranieri merita una riflessione aggiuntiva sulla natura del tutto particolare della protesta, e sulla mancata adesione allo sciopero (che pertanto “sciopero” in senso tecnico non è stato) delle strutture sindacali nazionali. Il PD, al contrario, ha aderito, sulla spinta del solito Pippo Civati che è riuscito a far capire come si trattasse di una battaglia politica dal valore non solo simbolico, ma strategico. Infatti, è stata forse la prima occasione recente in cui questioni legate a diritti del lavoro, che si riverberano come sempre accade in aspetti più ampi del vivere sociale, vengono affrontate
in maniera non corporativa, ma universalistica.
L’ultimo esempio in questo senso si era avuto in occasione della manifestazione organizzata dalla CGIL di Cofferati in difesa dell’articolo 18. Era quello tuttavia il canto del cigno del sindacalismo del Novecento, che si infrangeva nella contraddizione delle parole del leader: l’articolo 18 veniva presentato alla stregua di un diritto umano,ma le misure per estenderne la portata – il referendum successivo promosso da Bertinotti – erano bollate come antieconomiche,
facendolo rimanere un diritto corporativo, riservato a chi facesse parte di specifici gruppi di lavoratori. Le manifestazioni di ieri, al contrario, suggeriscono un approccio nuovo alla lotta per i diritti, che non devono più passare per l’appartenenza ad una specifica corporazione. Esistono stranieri operai e stranieri professionisti, stranieri nel settore tessile e in quello metallurgico. Secondo il protocollo sindacale, l’arma dello sciopero si usa nel conflitto economico a seconda del settore in cui il conflitto è in corso, mentre lo sciopero generale (ossia in più di un settore contemporaneamente) è molto più raro ed ha di norma ragioni politiche. Uno sciopero come quello degli immigrati, dal sostanzioso contenuto economico – come giustamente sottolinea Civati ci vogliono più ispettori del lavoro, e non certo le ronde, per far aumentare la sicurezza – ma non limitato ad un settore economico specifico, va al di là della norma liturgica del sindacalismo del Novecento. Eppure, un sindacato che non volesse sentirsi condannato al lento e inesorabile declino (ormai solo il 19%dei lavoratori attivi nel settore privato sono sindacalizzati) dovrebbe cogliere al volo i nuovi bisogni di rappresentanza economica anche fuori dagli schemi del passato. Le occasioni, infatti, non mancherebbero per costruire un sindacalismo universalista: c’è un altro sciopero “anomalo”, là fuori, che aspetta solo di essere organizzato, da mobilitatori capaci, per ottenere diritti negati, salari e condizioni dignitose: quello dei lavoratori precari.
L’Unità 02.03.10

"Il governo perde 4 punti, fermo il Pd", di Lina Palmerini

Il sondaggio Ipsos. Consensi in calo dal 53% al 49% per l`esecutivo – Variazioni minime per i partiti: la Lega avanza e l`Udc arretra.
Una delle novità è il gìudìzio sul governo. L`ultima rilevazione Ipsos non regala sorprese nelle intenzioni di voto sui partiti – se non lievi oscillazioni – ma mette in chiaro una sfiducia sul lavoro dell`esecutivo che cresce. E raggiunge un picco con una perdita di 4 punti a febbraio.
La disaffezione tocca perfino quel bacino elettorale tradizionale del centro-destra, fatto di lavoro autonomo e casalinghe, che aveva fin qui tributato il governo Berlusconi con un 53% di voti positivi. Ora, invece, anche quel mondo diventa più tiepido, abbassa la fiducia fino al 49% così come cresce fino al 49% il giudizio negativo di quel blocco sociale vicino al centrosinistra: laureati, insegnanti e pensionati. Il partito della “spesa pubblica”, come qualcuno lo ha ribattezzato.

Il fatto è che il segno meno del governo non si trasforma in un segno più per l`opposizione. Anzi. La maggiore debolezza dell`avversario non porta consensi all`azione dei partiti di centro e centro-sinistra. L`insufficienza resta il voto che gli elettori affibbiano al lavoro dell`opposizione che resta impigliata dal novembre scorso al 71-73% di giudizi negativi. Un`enormità. E quello che è più pesante da accettare – soprattutto per il Pd – è che i voti negativi non si concentrano solo – come è scontato – tra gli imprenditori e nel lavoro autonomo ma nei disoccupati.
Insomma, proprio l`interlocutore privilegiato che Pierluigi Bersani ha scelto puntando tutto sulla crisi, non si riconosce nè si sente rappresentato dalle scelte dell`opposizione. È come se il Pd avesse scelto il tema giusto su cui fare opposizione – l`economia – ma usando strategia e parole sbagliate.
E qui sta l`altra novità del sondaggio.
Una sfiducia che aumenta nelle possibilità di ripresa economica del paese. Cominciamo dagli ottimisti e dai reattivi, da quelli che pensano che il peggio sia alle spalle: erano il 26% un mese fa ma sono scesi al 19% a febbraio. Il fatto che dentro questa percentuale ci siano gli imprenditori e l`area del Nord-Est fa ben sperare – visto che sono avamposti della crisi ma il fatto che in quest`ultimo mese siano diminuiti mette in campo più dubbi. Ma soprattutto cresce il numero di chi pensa che il peggio debba ancora arrivare: erano il 45% poi sono passati al 39% poi c`è stato un rimbalzo al 48%. Insomma, quasi la maggioranza crede che il tunnel non sia finito e tra loro ci sono gli operai, chi vive al Sud e il mondo della scuola.

Resta quello sdoppiamento, ormai tipico, tra la visione generale del paese e la visione soggettiva del proprio status economico. Già. Perché tendiamo a essere più ottimisti parlando al singolare che al plurale: segno nè è quel 52% che crede non ci saranno variazioni nella propria condizione economica.

I pessimisti, quelli che vedono un peggioramento nel futuro, restano a quota 19% mentre diminuiscono quelli che scommettono su prospettive personali migliori. Insomma, l`emozione dominante, almeno per quel che riguarda l`economia, è l`incertezza. Al contrario, la fiducia diventa invece dominante se si tocca un altro capitolo politicamente sensibile: la sicurezza. Quasi l`8o% si sente molto o abbastanza sicuro e questo accade soprattutto al Nord-Est. È la ragione per cui la Lega è l`unico partito a crescere costantemente dalle europee a oggi? Gli insicuri sono più a Sud ma in quote relativamente basse (20%).

E ora sfogliamo le tabelle dei partiti. Gli scostamenti sono minimi. Segno che la crisi incide ma ancora poco. Ma soprattutto che i nuovi scandali giudiziari non sono – fin qui – determinanti nella cabina elettorale.

Il Pdl infatti perde solo un punto rispetto allo scorso mese ma ne guadagna due rispetto alle scorse europee. L`aggressione al premier aveva portato più consensi al centro-destra (38,1%) ma in quest`ultimo mese si è consumato un punto.
Uno scostamento minimo che però si traduce in un avanzamento minimo della Lega. Insomma, tutto accade dentro il recinto della maggioranza.

Per ora il Pd resta dov`era. Nonostante il clima di sfiducia sulla crisi e un giudizio negativo che cresce verso il Governo, il partito di Bersani guadagna un piccolissimo 0,3 rispetto a gennaio e con il 29,8% torna quasi a quota 30% toccato dopo le primarie. Se la Lega avanza piano ma in modo costante, l`Udc perde in modo altrettanto costante. È il partito col segno meno più alto: dal 6,5% delle europee al 5,9% di gennaio e poi il 5,7% di febbraio. Perde un po` anche Di Pietro che arriva al 7,2%: un ulteriore segno che le battaglie sulla giustizia non portano voti, almeno finora.
Il Sole 24 Ore 02.03.10