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"L'Italia dei tronisti" di Edmondo Berselli

Si pensava che con il nazional popolare, impersonato dalla «zia» Antonella Clerici, il Festival di Sanremo sarebbe precipitato negli ascolti. E invece il televoto ha provocato la rivoluzione. Boom di spettatori e un’autentica bufera, con i professori dell’orchestra che hanno contestato il verdetto che ha portato in finale l’erede dei Savoia.
Il televoto ha eliminando artisti ritenuti più meritevoli. Dunque, dopoi fischi del pubblico, gli orchestrali hanno stracciato gli spartiti.
Chi pensava che Sanremo avrebbe raccolto solo il pubblico della tv generalista, pensionate, casalinghe e anziani in poltrona, s’è sbagliato clamorosamente. Non si era calcolato fino in fondo il ruolo del televoto, che aveva già avuto un effetto vistoso l’anno scorso, portando alla vittoria Marco Carta, un vincitore di Amici di Maria De Filippi.

Quest’anno l’effetto sorpresa è stato il ripescaggio di Pupo e Emanuele Filiberto, in una specie di burrasca sociale: la clemenza del cielo sembrava averci liberato dalla canzone Italia amore mio, ma il televoto non ha avuto pietà. Pupo e il virtuale erede al trono dei Savoia sono stati ripescati dal voto popolare. E così ci siamo ritrovati con le nostre case invase dal trash più trash. Uno dice: Sanremo è Sanremo, una dose di kitsch c’è sempre stata. Abbiamo visto Loredana Bertè con il pancione finto, a suo tempo, dovremmo scandalizzarci per Pupo e l’eroe di Ballando con le stelle? Ma neanche per sogno, non scherziamo.

Al massimo ci si può scandalizzare per le giurie «giovani», disposte a tutto pur di confermare la loro egemonia televisiva. Immense platee che si collegano con il telefonino cellularee votano per i loro personaggi preferiti in una forma di nuovo cannibalismo, che cambia l’audience dei programmi. E trasforma la funzione dei telespettatori, portandola da passiva ad attiva. I poltronati dell’Ariston hanno accoltoa fischi i ripescati Pupo e Emanuele Filiberto, ma sono ancora fra i pochi che credono nel valore delle canzonie magari se la prendono se la loro preferita viene esclusa a vantaggio del Principe canterino. Ingenui, ciò che importa è soltanto lo spettacolo. E lo spettacolo di Sanremo non ha valutazioni alte e valutazioni basse. Tutto il palco dalla Clericia Dita von Teeseea Jennifer Lopez, vale lo stesso voto. Solo i critici si ostinano a dare voti alti a Malika Ayane e Irene Grandi, ma forse sanno anche loro che uno dei piaceri più sottili del Festival consiste nel vedere bocciate le canzoni che piacciono di più, per arrabbiarsi meglio. Tanto fra pochi giorni ce le saremo dimenticate. E nella memoria resterà soltanto lo splendore e il luccichio del teatro Ariston. Ci ricordiamo, per dire, i ritornelli o qualche strofa delle canzoni di cinquant’anni fa, e tra poche settimane avremo invece dimenticato quelle di oggi. Forse siamo semplicemente invecchiati o forse è invecchiato il Festival, nonostante il televoto. Che dire allora? Ma niente se non Italia amore mio, con la giusta enfasi. Tanto si sa che è un’Italia di cognati, un paese gelatinoso, dove persino l’ultimo dei Savoia, in questa terra dei cachi, meriterebbe il trono da re, o da tronista.
La Repubblica 21.02.10

«Le dieci domande al Pd», di Barbara Spinelli

Durerà il tempo della campagna elettorale, la nuova retorica di Berlusconi sulle norme anti-corruzione da applicare a politici e servitori dello Stato, ma l’opposizione farebbe male a sottovalutarne la forza. Sono norme in parte già affossate e poco credibili, visto che di corrotti che hanno fatto carriera ce ne sono molti nel Pdl. Non solo: sono regole contraddette dallo zelo con cui Berlusconi ha respinto, per tema di creare precedenti, le dimissioni di Bertolaso responsabile di scarso controllo sulla corruttela nella Protezione civile e di Cosentino indagato per contatti con la camorra. Falso ardimento è infine il divieto di candidarsi a chi è stato condannato in via definitiva: in Italia le condanne definitive possono giungere dopo quindici anni, sempre che non siano prima prescritte come nel caso di Berlusconi stesso. Resta che il premier sa fiutare lo spirito del tempo e subito appropriarsene, come già fece agli esordi di Mani Pulite quando contribuì (con le sue televisioni, spalleggiato da Lega e missini) ad affossare la prima Repubblica. Solo dopo denunciò i non più utili magistrati.

Questa capacità di fiutare il secolo, e di cambiar casacca appena gli conviene, disorienta ogni volta la sinistra e conferma ­ su quest’ultima ­ due cose: la debole preparazione al dopo-Berlusconi, e l’influenza inconfessata, ma profonda, che il leader Pdl esercita sugli animi dell’opposizione. Il calcolo brevissimo tende a prevalere sui tempi lunghi, il presente assolutizzato oscura il futuro, la frase subito popolare premia sul dire-vero. Lo si vede in modo speciale a proposito di temi fondamentali per il cittadino e reciprocamente dipendenti: sulla giustizia, e sulla crisi economica che da tre anni tormenta il mondo. La corruzione dilagante non aiuta affatto la crescita ma l’ostacola, isolando l’Italia.

Su giustizia e corruzione, l’opposizione ha spesso paura della propria ombra e stenta ad attaccare: quasi temesse di sfigurare, di cadere in tentazione riesumando la morale di Berlinguer, di non esser abbastanza collaborativa e al tempo stesso scaltra. È grande merito di Bersani aver abbandonato la linea che consisteva nel prendere le distanze da un Ulivo che pure fece vincere Prodi due volte. Lavorando sodo, il nuovo leader del Pd è riuscito in pochi mesi a conquistare la fiducia di soggetti disparati come Di Pietro, Bonino, in parte Casini. Ma una consistente strategia anti-corruzione ancora manca, e il rischio grottesco corso oggi dal partito ­ scrive Marco Travaglio sul Fatto ­ è di «regalare al premier più imputato della storia la battaglia, almeno mediatica, delle liste pulite». Per mesi Di Pietro fu ritenuto un sovversivo, dalla sinistra, e ora se ne elogia il moderatismo a causa del veto tolto al candidato per il governo della Campania. Un candidato, il sindaco di Salerno De Luca, forse ingiustamente accusato ma pur sempre rinviato a giudizio per truffa aggravata e falso.

Tanto più importante è chiedersi se l’opposizione sia preparata a gestire il dopo-Berlusconi meglio di come abbia gestito il quasi ventennio dominato dal capo di Mediaset. Se sia mentalmente pronta non per le prossime regionali ma per il giorno in cui, finita l’eccezione berlusconiana, si tratterà di prendere durevolmente il comando, di ricostruire, di riportare il potere pubblico da Palazzo Grazioli a Palazzo Chigi. Le dieci domande che l’istituto Open Democracy ha rivolto al centro-sinistra sono preziose.
Formulate il 12 febbraio, assieme all’Open University inglese in un convegno a Birmingham, esse implorano questo prepararsi non più rinviabile.

Enrico Letta ha raccolto la sfida, il 14 febbraio su La Stampa, ma alcune risposte non sono all’altezza del «terremoto» che secondo Open Democracy scoppierà quando Berlusconi uscirà di scena, e ci si accorgerà come egli abbia in realtà prolungato una lunga storia italiana di immobilità, di scandali, di collusione con la mafia, proprio mentre fingeva di mutarla alle radici. Alcune insufficienze dell’opposizione sono evidenti.

Innanzitutto, non esiste ancora traccia di un’autentica riflessione sugli errori degli ultimi quindici anni. Il questionario inglese domanda ad esempio perché la sinistra, quando ha governato, non legiferò sul conflitto di interessi (né abolì le leggi ad personam, aggiungiamo noi). Letta per rassicurare replica: «È un errore da non ripetere. Punto!». Proprio quell’interiezione tuttavia (Punto!) rassicura poco. Sapere che ha errato non spiega né aiuta, se non si dice oggi che cosa precisamente si farà domani. Se si schiva il racconto di uno sbaglio così sistematico: c’era del metodo, in quella follia. Allo stesso modo, appare elusiva la risposta alla sesta domanda del questionario (si introdurranno serie riforme del sistema politico: su numero dei parlamentari, su immunità, su costi della politica?). Letta fa promesse su bicameralismo imperfetto e riduzione dei parlamentari, ma su immunità e finanziamento della politica tace in maniera allarmante.

È qui che la giustizia si collega alla crisi economica. Negli anni che abbiamo alle spalle, il centro-sinistra ha mostrato di sottovalutare più cose di Berlusconi: le leggi speciali; la predilezione per un’informazione ­ soprattutto televisiva ­ asservita; l’incapacità di riformare l’economia, liberandola davvero dalla tutela dello Stato. L’uso dei diminutivi, così cari agli italiani che nascondono ferocie o minimizzano pericoli, accomuna D’Alema che auspica una «leggina ad personam» per limitare i danni, e Berlusconi che, tenero, chiama birbantelli i corrotti della Protezione civile. Evidentemente c’è del metodo anche in simili sottovalutazioni. Il metodo di chi, senza magari volerlo, ha interiorizzato parecchie patologie berlusconiane, compresa la vocazione a spartirsi la Rai e a non dire la verità sull’economia.

Bersani non ha torto, nel sostenere che la crisi è stata a lungo e demagogicamente negata dal governo. Ma a giudicare dalla posizione assunta sulle difficoltà dell’auto ­ difficoltà globali, non solo nazionali ­ si direbbe che anch’egli la neghi, quando rifiuta, senza azzardare spiegazioni, la chiusura di una fabbrica, a Termini Imerese, che lavora in perdita da anni. Per l’opposizione questa era l’occasione, grande, di dire il vero agli italiani; di guardare lontano nel tempo; di far parlare i fatti: nell’auto si produce più di quel che si vende, e la tendenza diverrà forse duratura nel mondo; la sua età d’oro è legata all’energia poco cara, a mercati più ristretti, al lavoro che implicava viaggi e ancora non includeva il telelavoro. Ci fu un tempo in cui gli americani costruirono i suburbia, gli agglomerati urbani da dove ci si muoveva con automobili divoratrici di benzina, lontani dalle città. L’età d’oro è in crisi. Alcuni (l’urbanista James Kunstler, assieme a molti altri) prevedono addirittura il lento morire dei suburbia.

Naturalmente esistono rimedi, che non consistono tuttavia solo nel produrre macchine meno costose energeticamente. Le industrie dell’auto, scrive il giornalista Max Fraser, potrebbero partecipare all’ampliamento, essenziale, dei trasporti comuni (treni, autobus): un po’ come avvenne quando l’auto si rinvigorì, nella seconda guerra mondiale, costruendo aerei e carri armati per Roosevelt (Fraser, The Nation, 1-6-09).

Sulla giustizia come in economia, urge non solo parlare di futuro ma pensarlo, e farlo. Dice Carlo Federico Grosso, in un’intervista a Beatrice Borromei sul Fatto: «Mani Pulite non è servita a nulla, il codice penale non basta più per combattere la corruzione». Il giudice non basta perché arriva dopo i reati. Ma neppure la politica basta, se continua ad arrivare tardi su tutti i fronti, economia compresa. Chi dice che la colpa è della società e non della politica ha una strana visione marxista del mondo: Stato e politica non sono che sovrastrutture, e solo la società, uscendo dalla congenita sua corruzione, può acquisire la liberatrice coscienza della propria alienazione.

da www.lastampa.it

«Beni culturali, a Resca un palazzetto d'oro», di Vittorio Emiliani

Al Ministero per i Beni culturali, dopo i tagli feroci inferti da Tremonti e supinamente subiti da Bondi, non c’è un euro. Non se ne trovano, almeno, per scongiurare lo sfratto dato al glorioso Istituto Centrale per il Restauro (120.000 euro di affitto all’anno) nel Palazzo Borgia-Cesarini. Una vergogna nazionale: l’ISCR stava lìdal 1939, progettato da Argan e diretto da Brandi. Si trovano per contro 400.000 euro per pagare l’affitto del palazzetto in via dell’Umiltà, n. 32/33, dove stanno insediandosi uno dopo l’altro i consulenti del supermanager alla valorizzazione Mario Resca, e cioè: l’ex titolare del Mi.BAC, Giuliano Urbani, Paolo Peluffo, già al Quirinale con Ciampi, da ultimo l’ex soprintendente al Polo Museale romano, Claudio Strinati. Il palazzetto, proprietà (a quanto si dice) di una immobiliare collegata ai Berlusconi, fu la prima sede di Forza Italia. Che lo trovò poi angusto traslocando due numeri più in là. Allora il ministro Urbani lo prese in affitto per il Servizio dei beni librari e per quello di Controllo.

Da poco il primo è stato, di corsa, mandato altrove per far posto alla squadra di consulenti del poliedrico Resca che continua a sedere nel CdA della Mondadori SpA (Fininvest) controllante al 100% di Electa, società di servizi museali, e in altri CdA (Finbieticola, ecc.). Alla Reggia di Caserta faticano a pagare i tagliaerba per il parco. Per via dell’Umiltà 400.000 euro d’affitto non pesano a nessuno. Non c’era spazio al Collegio Romano, ai piani alti, per lo staff specialissimo (un ex ministro, mai visto) di Resca? Sì, ma si sarebbe fatto un torto a Silvio. Non si sa però chi pagherà quei 400.000 euro se per l’ISCR non se ne sono trovati 250.000. Improbabile che sia il Servizio Beni librari.

Quest’ultimo è stato spedito alla Lungara, nella palazzina dell’auditorium dei Lincei, assieme al Centro per il libro. Che Bondi ha presentato come una gran novità, ma in realtà esisteva dal 2007. Cambiata la forma giuridica, entrati i privati, subito è stato chiamato un altro uomo-Mondadori/Fininvest, dopo Resca: Gian Arturo Ferrari all’epoca direttore della divisione libri. Lo stesso che, eroicamente, ha subito rafficato “il comunista” Giulio Einaudi morto dieci anni prima. C’è il decreto di nomina di Ferrari? C’è un capitolo di bilancio? Lo si dovrebbe chiedere al Collegio Romano. Ma al Mi.BAC sono stufi di rispondere alle interrogazioni parlamentari. Sul superdirettore Resca, ora anche commissario a Brera, e sul suo mega-emolumento finale, hanno replicato, il 18 scorso, alle ostinate deputate del Pd, De Biasi e Ghizzoni: “in via preliminare”, leggetevi i comunicati già apparsi sui giornali…

La Camera incasserà lo sgarbo senza battere ciglio? Sarebbe grave. Chiedevano anche di quali “soggetti attuatori”, di quali consulenti si avvarrà Resca, con “ulteriori oneri per le casse dello Stato”. Su tutto ciò il più completo silenzio. A De Biasi e Ghizzoni diciamo: guardatevi le prime formidabili pubblicità partorite dall’ingegnoso Mario Resca «Se non lo visitate, ve lo portiamo via». Riguardavano: il Colosseo, cioè il più visitato di tutti; il Davide di Michelangelo, “star” dell’Accademia; il Cenacolo di Leonardo dagli ingressi severamente contingentati. Un genio della comunicazione.
L’Unità 21.02.10

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“Ridevano del terremoto. Lottizzavano la cultura”, di Luca Del Fra

«Bene, bene, mi piace andare a teatro»: così Pierfrancesco Gagliardi esprime tutta la sua soddisfazione di fronte alla notizia di aver acquisito nel suo «portafoglio lavori» – e mi raccomando portafoglio – anche il restauro del Teatro di San Carlo a Napoli. A comunicargli il lieto evento è suo cognato Francesco Piscicelli: sono i due che ridevano la notte del terremoto dell’Aquila. Cosa c’è di strano in questa conversazione intercettata dagli inquirenti nell’inchiesta sulla Protezione civile? Che è avvenuta il 25 maggio 2008 mentre la gara d’appalto si apriva solo il 4 giugno successivo: insomma non erano state depositate, e forse neppure ancora formulate le offerte, la cui data di ultima consegna era il 31 luglio.

Nell’inchiesta dei magistrati fiorentini emerge un fiume carsico di fango che riguarda i beni culturali, in particolare i nostri teatri d’opera. È il modo della destra di mettere le mani sulla cultura, e, incapace di proporre un ceto intellettuale da mettere alla testa delle istituzioni, va all’attacco con le sue solite truppe da sbarco: imprese edili e cantieri per centinaia di milioni di euro. Si fanno lavori spendendo più di quanto non si faccia perché i teatri possano funzionare. Non casualmente l’arrembaggio parte dai cosiddetti Letta boys: nel suo schieramento politico recalcitrante alla cultura, il sempiterno Gianni infatti è il primo a intuirne le potenzialità. E il fiume si snoda in una sorta di circumnavigazione della penisola, che parte dal restauro della Fenice di Venezia, dove come commissario straordinario alla ricostruzione Angelo Balducci s’è scaldato i muscoli, giù per la dorsale adriatica fino al Petruzzelli di Bari, scavalcando l’Irpinia fino a Napoli, e poi su verso nuove ed eccitanti avventure nel grande affare della nuova città della musica a Firenze.

Sugli appalti del San Carlo emergono sospetti: il 3 luglio, bando aperto ma buste ancora chiuse, Salvo Nastasi, capo gabinetto del ministro Sandro Bondi, direttore generale dello spettacolo dal vivo al Ministero della cultura e commissario del teatro partenopeo, chiama per un incontro urgente prima Balducci e poi vede Francesco De Santis, «per una questione un po’ delicata». A incontro terminato, De Santis chiama Balducci e gli spiega che Nastasi è preoccupato per i «rumor esterni»; poi cambia utenza telefonica per parlare più «liberamente» e continua: «Era talmente preoccupato che c’aveva Sgarbi che aveva fatto accomodare, è uscito, abbiamo passeggiato nei corridoi: quindi l’ha lasciato lì». La descrizione della situazione che fa Nastasi è «catastrofica», così a Balducci riferisce De Santis che imputa il fatto a «un po’ di battute a destra, un po’ a sinistra, … una battuta gliel’ha fatta il sottosegretario (probabilmente Francesco Giro), insomma l’ha messa in una forma particolarmente grave». Balducci si stizzisce: «questo fatto di Salvo mi scoccia molto, sai perchè? Perchè ti rendi conto con che, -quando io dico, purtroppo-, con che clima bisogna confrontarsi». Comunque garantisce Balducci: «Tanto noi faremo una cosa: una commissione molto severa, molto. Ci mancherebbe».

Il 7 ottobre 2008 è pubblicato l’esito della gara, la severissima commissione ha affidato i lavori alla costituenda Consortile Restauro Teatro San Carlo: vi figurano la Cobar, Imac di Piero Murino risultato in stretti rapporti con Diego Anemone e con cui spesso collaborano Piscicelli e Gagliardi, Consorzio ITL e così via. I soliti noti, che si ritrovano dalla ricostruzione del Petruzzelli ai cantieri del G8, naturalmente a L’Aquila e in futuro a Firenze. «Dei rumors non ho ricordo, –spiega Salvo Nastasi che in quei giorni era attivo su molti tavoli che riguardavano il San Carlo, ma precisa–, non mi occupavo in prima persona dei lavori del restauro. Ma sono contento che questa storia sia uscita fuori, perché volevo una commissione di alto profilo, per giudicare il migliore dei progetti presentati».

Eppure il caso del San Carlo è emblematico anche in altro senso: tra i pochi cantieri ad aver rispettato tempi e preventivi, con un restauro che ha reso lo splendore, ma su cui pesa uno sfregio: il nuovo foyer, ricavato sotto la platea. E a che prezzo? Una immensa e costosissima gru con braccio plurisnodato è scesa giù dal tetto della torre scenica, attraversando il boccascena ha sfondato il pavimento della platea: un bellissimo parquet sostituito con un doghettato stile Ikea. Per molti una ferita.
L’Unità 21.02.10

«Italiani e corruzione. Per l’80% pesa sul voto», di Renato Mannheimer

Come molti osservatori avevano previsto, il trend della fiducia nel governo Berlusconi è tornato a scendere, con una ulteriore diminuzione in questi ultimi giorni. La popolarità dell’esecutivo aveva già subito un calo piuttosto consistente nell’autunno dello scorso anno. A dicembre, anche grazie all’«effetto statuetta», il consenso era notevolmente risalito, ma poi ha intrapreso nuovamente una china discendente. I giudizi positivi sul governo hanno visto un’erosione più diffusa in svariati segmenti: tra i giovani fino a 35 anni e, al tempo stesso, tra i più anziani oltre i 65 anni, tra coloro che posseggono titoli di studio più bassi, tra i residenti nel sud e nelle isole, tra gli imprenditori e i liberi professionisti.

I motivi di questo andamento sono molteplici. Da un verso, si rileva una sorta di delusione crescente, anche all’interno dell’elettorato di centrodestra: l’esecutivo viene accusato —a torto o a ragione—di concentrarsi eccessivamente sulle questioni giudiziarie e di trascurare altre tematiche di rilievo, specialmente, le riforme di cui il Paese ha bisogno. Dall’altro, l’opinione espressa dagli elettori sul governo risente molto, com’è ovvio, dell’andamento dell’immagine del premier, della crescita o del calo della popolarità di quest’ultimo e dei suoi più stretti collaboratori. È ragionevole pensare, dunque, che il decremento di fiducia nel governo riscontrato in questi giorni sia dipendente anche dal «caso Bertolaso » e, in generale, dall’impressione che ci si trovi di fronte ad una sorta di «nuova tangentopoli» o, comunque, ad un allargarsi preoccupante dei casi di malversazione—se non, talvolta, di corruzione—nel settore pubblico. L’episodio milanese, che ha visto il presidente della commissione Urbanistica colto in flagrante mentre riceveva una mazzetta e altri simili accadimenti occorsi, sempre negli ultimi giorni, in altre città, hanno rinforzato l’immagine di un decadimento crescente. Diversi commentatori hanno sottolineato come questi avvenimenti non costituiscano solo l’indizio del degrado di moralità rilevabile nelle istituzioni dello Stato, ma siano l’espressione della cultura generale del nostro Paese, spesso incline alla furbizia, all’«arrangiarsi», sino alla trasgressione delle regole in nome dell’interesse personale o familiare. Molti comportamenti illegali, perpetrati anche da privati cittadini, vengono giustificati col fatto che «lo fanno tutti» o, più spesso, che «il mio è un caso particolare e dunque deve essere accettato».

Interrogata sulla possibile ipotesi di «comprensione» dei casi di corruzione da parte degli esponenti pubblici, la maggior parte dei cittadini esprime un giudizio severo, senza possibilità di appello. Ma una quota piuttosto numerosa — corrispondente a più di un italiano su cinque—afferma che «i politici corrotti fanno male», ma che «in fondo fanno come tutti». È la parte, minoritaria ma al tempo stesso assai consistente, del Paese che, in qualche modo, tende a giustificare buona parte dei comportamenti scorretti (in primo luogo i propri). Questo atteggiamento è più diffuso tra le persone con titolo di studio medio e, in misura ancora maggiore, tra le casalinghe. Ancora, appare «comprendere» lievemente di più i casi di corruzione politica chi dichiara di votare per il centrodestra. Beninteso, anche in questo segmento di elettorato si tratta di una minoranza, sempre piuttosto ampia, di poco superiore al 30%. Tuttavia questo «familismo amorale» (secondo la definizione che, già negli anni ’50, il sociologo americano Banfield diede della cultura del nostro Paese), pur essendo assai diffuso, non porta a scagionare i comportamenti dei politici. La maggioranza assoluta degli elettori, l’80% circa, attribuisce agli esponenti politici (in quanto detentori di risorse pubbliche) responsabilità maggiori dei singoli cittadini e, di conseguenza, è portata a giudicarli — e condannarli — più severamente. Con inevitabili implicazioni sul livello di popolarità dei governanti.

da www.corriere.it

«Come funziona il sistema Verdini», di Eugenio Scalfari

Adesso il problema sembra essere quello della corruzione generale. Di tutta la nazione. Di tutto un popolo “che nome non ha”. Di tutta una gente che spunta alla rinfusa “dagli atri muscosi, dai fori cadenti”. Una sorta di scena da teatro senza attori, solo comparse degradate che si sospingono a vicenda, una cenciosa opera da tre soldi dove vengono scambiate miserabili mazzette, abbietti favori, borseggi agli angoli delle strade. Ci sarà pure un Mackie Messer armato di coltello ma non si vede, dà ordini sottovoce all’ombra di quella plebaglia corrotta e corruttibile.
La Corte dei Conti ha quantificato il degrado collettivo: da un anno all’altro la corruzione è aumentata del 229 per cento. Anche due giudici della Corte sono tra gli indagati. Anche un giudice della Corte costituzionale è lambito dall’ondata di fango. Anche un magistrato della Procura di Roma.
I giornali dibattono l’argomento. Analizzano il fenomeno. Si tratta d’una nuova Tangentopoli a diciotto anni di distanza dalla prima? Oppure d’una situazione con caratteristiche diverse? Allora, nel 1992, si rubava per procurare soldi ai partiti e alle correnti; adesso si ruba in proprio ed è un crimine di massa. Meglio o peggio di allora?

Infine – ma questa è la vera domanda da porsi: la corruzione sale dal basso verso l’alto oppure scende dall’alto verso il basso? La classe dirigente è lo specchio d’una società civile priva di freni morali oppure il cattivo esempio degli “ottimati” incoraggia la massa a delinquere infrangendo principi e normative?

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Berlusconi è preoccupato. Lo dice lui stesso in pubblico e in privato e molti suoi collaboratori trasmettono ai giornali il suo cattivo umore che del resto risulta evidente dalle immagini televisive e fotografiche.
“Se potessi scioglierei il partito, ma non posso”. Una frase così non l’avevamo mai sentita prima. E’ indicativa del livello cui il fango è arrivato.
Per quello che se ne sa, la sua preoccupazione proviene da sondaggi molto allarmati e soprattutto da previsioni pessimistiche sullo smottamento futuro del consenso. Emergono diverse faglie: quella dei moderati, quella dei cattolici, quella delle persone perbene senza aggettivi.
Bertolaso è indagato, Verdini e Letta compaiono molte volte nelle intercettazioni giudiziarie.
Due differenti pulsioni si alternano nell’animo del “capo dei capi”: rintuzzare gli attacchi, mantenere le postazioni e anzi contrattaccare; oppure cambiare strategia, abbandonare le posizioni più esposte e i personaggi più discussi, dare qualche soddisfazione ad una pubblica opinione stupita, indignata e trascurata per quanto riguarda le ristrettezze economiche che mordono ormai la carne viva del Terzo e del Quarto stato.
La scelta tra queste due opzioni non è stata ancora fatta. A giudicare dalle parole e dagli atti sembrerebbe che il “capo dei capi” persegua contemporaneamente ambedue queste strategie col rischio di far emergere un’incoerenza che segnala una crescente difficoltà.
La legge in preparazione che dovrebbe inasprire le pene contro i reati di corruzione segna il passo. Il collega D’Avanzo ha spiegato ieri le ragioni del rinvio: il gruppo dirigente del partito non ci sta. Se alla fine la legge verrà fuori, sarà solo un placebo da avviare su un binario morto.
Più efficace (se ci sarà) potrebbe essere il lavoro di pulizia delle liste elettorali; ma quel lavoro, per avere un senso, dovrebbe estendersi ai membri del governo e del Parlamento colpiti da sentenze o da condanne di primo grado con imputazioni di corruzione. Ma ne verrebbe fuori una decimazione: Dell’Utri, Ciarrapico, Cosentino, Fitto e almeno un’altra decina di nomi sonanti. Vi pare fattibile un’ipotesi del genere? Promossa da Berlusconi che dal canto suo ha schivato le condanne solo con derubricazione di reati e accorciamento dei tempi di prescrizione disposti dalle famose leggi “ad personam”?

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Il caso Bertolaso-Protezione civile fa storia a sé. Il punto nodale della questione sta nella distinzione tra eventi causati da catastrofi naturali per i quali la necessità e l’urgenza autorizzano a derogare dalle norme vigenti; e gli eventi non connessi a tali catastrofi, per i quali le deroghe non sono né urgenti né necessarie. Qualche eccezione in questo secondo campo d’azione può essere ipotizzata ma deve essere dettagliatamente motivata e debitamente circoscritta. Così non è stato. La cosiddetta politica del fare è diventata una modalità permanente, la mancanza di controlli ha alimentato l’arbitrio, e l’arbitrio è diventato sistema.
L’inchiesta giudiziaria in corso riguarda situazioni molteplici: appalti in Toscana, appalti alla Maddalena, appalti a Roma, appalti a L’Aquila, in Campania, a Varese, a Torino, a Venezia, seguirne il filo è stato scrupolosamente fatto dai giornali e lo do quindi per noto. Aggiungo qualche aggiornata osservazione.
1. Il giro degli appaltanti, degli attuatori e degli appaltatori è relativamente limitato. Le Procure (Firenze, Roma, Perugia, L’Aquila) li hanno definiti una “cricca”. La parola mi sembra quanto mai adatta.
2. Gianni Letta (e Bertolaso) avevano escluso che imprenditori della cricca suddetta avessero mai lavorato all’Aquila, ma hanno poi dovuto ammettere di essersi sbagliati. Almeno due di essi (Fusi e Piscicelli) hanno avuto incarichi anche in Abruzzo. Agli altri e al gruppo Anemone in particolare, è stata data in pasto La Maddalena e molti altri luoghi, a cominciare da Roma.
3. La scelta iniziale di collocare il G8 nell’isola sarda fu un errore madornale. La pazza idea di ospitare i Grandi sulle navi creando una sorta di isola galleggiante fu rifiutata dalle delegazioni principali. Sopravvennero altre questioni di sicurezza di impossibile soluzione. Se non ci fosse stato il terremoto dell’Aquila, La Maddalena sarebbe stata comunque scartata ma questa impossibilità tecnica è venuta fuori quando il grosso dei lavori era già stato appaltato e portato avanti. La Protezione civile non si era accorta di nulla o, se se n’era accorta, non l’aveva detto a nessuno.
4. Il terremoto offrì una via d’uscita dall'”impasse” della Maddalena, ma a caro prezzo: furono costruiti dunque due G8, uno dei quali procedette di pari passo e negli stessi luoghi distrutti dal sisma. Da questo punto di vista la Protezione civile dette prova di grande efficienza. Il prezzo fu l’abbandono della Maddalena nelle mani di Balducci e della cricca e una soluzione edilizia, ma non urbanistica, che ha soccorso molte migliaia di aquilani ma ha messo in un binario morto la ricostruzione della città.
5. La figura di Angelo Balducci scolpisce nel modo più eloquente il funzionamento della cricca e gli arbitri che ne derivano. Uno dei casi più macroscopici riguarda la famosa sede del Salaria Sport Village sulle rive del Tevere. Terreno demaniale, zona preclusa ad ogni tipo di costruzione, parere negativo della conferenza dei servizi, della Regione, della Provincia e del Comune di Roma; tutti superati da un’ordinanza di Balducci con trasferimento della concessione all’imprenditore Anemone.
6. L’altra figura omologa che si erge alla guida della cricca è quella di Denis Verdini, coordinatore del Pdl e come tale persona “all’orecchio” del Capo.
Verdini non si lascia intervistare, non vuole sottoporsi a domande imbarazzanti. In compenso ha scritto un diario, una sorta di comparsa a difesa, e l’ha fatto leggere ad un giornalista del “Corriere della Sera”. Il quale ha fatto scrupolosamente il suo mestiere riferendo il testo senza poter interporre domande. Ne è risultata un’autodifesa vera e propria.
Questo testo merita d’esser letto con attenzione. Ne riporterò qui qualche brano che ne dà l’idea.

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“Il mio amico Riccardo Fusi è persona di cui mi fido, un vero imprenditore con tremila lavoratori alle sue dipendenze. Sono indagato per aver sostenuto una nomina che poteva interessare. Questo ha indotto i magistrati a pensare che ci fosse sotto un reato, ma non è così, non ho mai preso una lira, ma non nasconderò mai che a Riccardo ho presentato il mondo, tutti quelli che mi chiedeva di conoscere. Dimettermi da coordinatore? Non mi passa neanche per l’anticamera del cervello. Certe cose sono roba da asilo infantile. Siamo un sistema di potere? Scoperta dell’acqua calda. Quando c’è discrezionalità si apre la porta ad un sistema. Il punto è se è legittimo o illegittimo”.
Questa frase è essenziale, fornisce la chiave autentica per decifrare ciò che sta accadendo.
Verdini è uno dei pilastri del sistema. Evidentemente lo considera legittimo, più che legittimo per il bene del paese. Scrive in un’altra pagina del suo diario: “Io lavoro per Berlusconi che riesce a ottenere benessere e consenso da milioni di italiani”.
Lui non fa parte della cricca. Così dice, anche se gli amici per i quali si spende e ai quali procura appalti, nomine ministeriali, potere e danaro, sono i componenti della cricca. Ma lui no, lui non pensa di farne parte perché è collocato di varie spanne al di sopra. E non li favorisce per avere mazzette. Che volete che se ne faccia delle mazzette, lui che è agiato di famiglia? Lui gode di aver potere e di portare talenti e consensi al suo Capo. Talenti di malaffare? Può esser malaffare quello che porta consenso e voti a Berlusconi? Certo “quando c’è discrezionalità si apre la porta al sistema” e dunque portiamo la discrezionalità al massimo, sistemiamo gli amici nei posti che servono e chi non beve con noi peste lo colga. Non è questo il meccanismo? Non è questo che spiega la fronda di Fini e l’uscita di Casini dall’alleanza? Non è questo che divide Palazzo Chigi dal Quirinale? La magistratura da una concezione costituzionale che ricorda gli Stati assoluti?
Non prendono una lira, può darsi, ma hanno fatto a pezzi la democrazia. Vi pare robetta da poco?

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Bertolaso è un’altra cosa. Nel 2001, poco dopo esser stato insediato da Berlusconi alla guida della Protezione civile, scrive una lettera all’allora ministro dell’Interno, Scajola, e al sottosegretario alla Presidenza, Gianni Letta. Dice così: “Il nostro Dipartimento è diventato dispensatore (assai ricercato) di risorse finanziarie e deroghe normative senza avere la minima capacità di verificare l’utilizzazione delle prime e l’esercizio delle seconde e senza avere alcun filtro utile sulle richieste. L’accavallarsi di situazioni di emergenza ha generato un flusso inarrestabile di ordinanze che a loro volta hanno comportato provvedimenti di assunzione di personale e autorizzazioni di spesa di non agevole controllo”. Era il 4 ottobre del 2001. Sono passati nove anni ma sembra di leggere oggi un discorso di Bersani o di Di Pietro. Che cosa è accaduto?
Nonostante le apparenze Bertolaso è un uomo debole ma con una grande immagine di se stesso. Non ha il cinismo di Verdini e di Balducci, dei grandi corruttori. Adora i suoi volontari e ne è adorato. Pensate che qualcuno adori Verdini (tranne gli amici della cricca)? Qualcuno adori Balducci?
Bertolaso è un mito tra i suoi, lavora con i suoi, si veste come i suoi. Vuole essere amato. In questo è l’anima gemella di Berlusconi: vogliono essere amati. Naturalmente senza condizioni. Le critiche li fanno impazzire di rabbia. Le regole sono un impaccio. “Posso star fermo in attesa che il Parlamento decida?” ha scritto Bertolaso pochi giorni fa rispondendo ad una mia domanda.
Quindi avanti con i grandi eventi, Unità d’Italia, campionati di nuoto, campionati di ciclismo, celebrazioni di Santi e di Beati, restauro del Donatello eccetera. Insomma Bertolaso non ha addomesticato il potere come sperava nella sua lettera del 2001, ma è la brama di potere che si è impossessata di lui.
Quando è franata un’intera montagna sul paese di Maierato in Calabria, Bertolaso era alla Camera e poi a Ballarò per difendersi dalle intercettazioni che lo riguardano. La mattina dopo è volato a Maierato in mezzo ai pompieri che spalavano il fango. Bravo. Meritorio. Lo dico senza alcuna ironia, ma mi pongo una domanda: tra i compiti affidati alla Protezione civile non c’è anche quello importantissimo di prevenire le catastrofi e sanare il disastro idrogeologico del territorio?
Il grande meridionalista Giustino Fortunato cent’anni fa definì la Calabria “uno sfasciume pendulo sul mare”. Allora non esisteva la Protezione civile, ma oggi c’è. Bertolaso sa benissimo che le montagne e le colline delle Serre nella Valle dell’Angitola sono uno sfasciume pendulo. Che cosa ha fatto per prevenire? Io so che cosa ha fatto: ha distribuito alle Regioni di tutta Italia la mappa idrogeologica del territorio segnalando i punti critici ed ha incoraggiato le Regioni a provvedere. Lui aveva altre cose di cui occuparsi.
Le Regioni senza una lira non hanno fatto nulla. La supplenza toccava a lui che i soldi li ha e le forze a disposizione anche. Ma la prevenzione non è un grande evento, le televisioni non se ne occupano, nessuno ne sa nulla. Intanto lo sfasciume crolla sulle case abusive e sulle strade abusive. Così vanno le cose.

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La corruzione è aumentata a ritmi pazzeschi. Non è Tangentopoli? Forse è peggio. Oggi si ruba in proprio ma quelli che rubano sono i protetti del potere e puntellano il potere. Quelli che rubano cadono in tentazione e qui mi sono tornate in mente le pagine dostoevskijane del “Grande Inquisitore”, delle quali ho discusso a lungo un mese fa col cardinale Martini riferendone su queste pagine.
Il Grande Inquisitore contesta a Gesù di avere promesso agli uomini il pane celeste mentre essi volevano il pane terreno. Gesù aveva dato agli uomini il libero arbitrio di cui essi avrebbero volentieri fatto a meno ed essi scelsero infatti di farne a meno pur di avere il pane terreno rinunciando ai miraggi del cielo. Gli uomini si allearono con lo spirito della terra, cioè con il demonio, ed anche i successori di Pietro si allearono con lo spirito della terra. Alla fine il mondo diventò pascolo del demonio e delle autorità che per brama di potere avevano sconfessato il messaggio di Gesù. Il Grande Inquisitore decide addirittura che Gesù sia bruciato e così si chiudono quelle terribili pagine.
Non so se Verdini o Letta o Bertolaso o Balducci o quelli che ridevano nel letto mentre L’Aquila crollava, abbiano mai letto i “Fratelli Karamazov”. E se, avendoli letti, abbiano sentito muoversi qualche cosa nell’anima, un monito, un rimorso. Se l’hanno sentito, questo sarebbe il momento di seguirne l’impulso. Ma da quello che vedo, temo che siano sordi a questi richiami.

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Università: Il ministero non sblocca i finanziamenti. Proteste e caos alla Federico II di Napoli", di Roberto Ciccarelli

A guardare la graduatoria degli atenei stilata dal Ministero dell’Università (Miur) per attribuire i 523,4 milioni di euro di incentivi al merito previsti sul fondo di finanziamento (Ffo) del 2009, la Federico II di Napoli non era malmessa. Nel novembre dell’anno scorso, i valutatori del ministero avevano classificato l’ateneo più grande del meridione al terzo posto della classifica per la qualità della didattica destinandogli il 5,09 per cento di un fondo di 177,9 milioni e al sesto posto nella ricerca (4,50 su una torta di 345,5 milioni).
Apparentemente tanti soldi, una boccata d’ossigeno in un momento in cui il taglio al finanziamento ordinario dell’ateneo (370 milioni quest’anno) stabilito dalla prima finanziaria del governo Berlusconi è di 19,5 milioni di euro (10 milioni solo nel 2010, destinato a crescere l’anno prossimo). Solo che il premio alla produzione non è ancora stato messo in bilancio perché dalle parti del ministero di viale Trastevere sembra che ci sia ancora un gran discutere sui criteri di valutazione in base ai quali attribuire i fondi.
Per Massimo Di Natale, segretario Flc-Cgil di Napoli, la graduatoria ministeriale non è attendibile perché non considera tutti i nove parametri sui quali sarà effettuata la valutazione finale. Considerando tra gli altri il tasso dispersione, il numero dei laureati e la loro occupazione la Federico II non guarda più dall’alto gli altri atenei, ma precipita in fondo alla classifica. «Non occorre essere degli esperti – aggiunge – per capire che la situazione a Napoli non è paragonabile a quella di Milano o di Trento». È quello che succede quando si rompe l’uniformità del sistema universitario nazionale preferendogli quello delle «eccellenze» territoriali.
La distribuzione del fondo premiale stabilito sul 7% del Fondo ordinario annuale sta azionando una spirale che attribuirà risorse crescenti (fino al 30%) alle università più grandi e a quelle che contano un rapporto stabile con le imprese e il territorio. In presenza di tagli crescenti fino al 2013, che incideranno in gran parte sulle università meridionali, la possibilità di ripianare il deficit diminuirà in proporzione. Altrettanto incerta resta al momento la promessa dei 400 milioni di euro fatta dal Miur a parziale risarcimento del taglio di 678 milioni sugli oltre 7 miliardi dell’Ffo del 2010, da stornare dall’importo complessivo dello «scudo fiscale». Soldi di cui nessuno, anche a Napoli, ha ancora visto le tracce in bilancio.
Ciò che più preoccupa è il presente. Come gli altri atenei italiani, anche la Federico II registra un ritardo dell’erogazione del finanziamento ordinario, la voce in bilancio più importante. Il 15 gennaio scorso il consiglio di amministrazione dell’ateneo partenopeo ha deliberato il ricorso alla gestione finanziaria provvisoria. Ciò significa che non è ancora possibile chiudere il bilancio di previsione. I revisori dei conti hanno optato per una scelta tecnica inevitabile. Prima di assegnare i finanziamenti ai dipartimenti e alle facoltà, è infatti necessario accertare la presenza effettiva dei fondi e capire dove è possibile risparmiare. Per il momento è stato rescisso il contratto quinquennale relativo all’acquisto delle licenze d’uso per le riviste scientifiche, mentre i poli museali cittadini verranno chiusi nei fine settimana.
Tutto lascia credere, non ultime le dichiarazioni del presidente della Conferenza dei rettori Enrico De Cleva, che questa drammatica stasi imposta dal governo al finanziamento dell’università realizzerà una drastica riduzione dei costi a scapito dell’offerta formativa. In questa situazione si corre il rischio di prelievi contingenti dal fondo ordinario per obiettivi diversi dalla ricerca, come ha denunciato il Consiglio nazionale delle ricerche in una mozione dello scorso 11 febbraio. Fino ad oggi la Federico II non sembra avere ceduto a questa tentazione. In un momento di blocco generalizzato del turn-over, nel dicembre scorso ha bandito 54 posti da ricercatore usufruendo della seconda tranche dei fondi Mussi. Una goccia nel mare del precariato.
Oltre al caos dei finanziamenti, sull’ateneo napoletano grava l’incognita della riforma del sistema di reclutamento contenuto nel Disegno di legge Gelmini in attesa di essere discusso al Senato. L’11 dicembre scorso i ricercatori della facoltà di Scienze della Federico II hanno annunciato l’astensione dalle commissioni di laurea e la rinuncia a coprire incarichi di insegnamento che non siano quelli di sostegno stabiliti dalla legge 382/80. Una decisione, sottoscritta da 149 ricercatori su 193, che sta ponendo dei problemi sullo svolgimento dell’attuale semestre. Il prossimo anno accademico l’astensione verrà confermata e sarà totale. Il prossimo 26 febbraio i ricercatori di Lettere e Filosofia decideranno in un’assemblea le forme di adesione alla protesta.
Quella napoletana è una situazione inedita. Fino ad oggi sono stati i ricercatori precari (assegnisti, dottorati e borsisti) a protestare contro il Ddl Gelmini. Oggi sono gli «strutturati» a sollecitarne la revisione. «Non siamo contrari a una legge di riforma – afferma Gianluca Imbriani, fisico e membro del Cda – ma la proposta di creare ricercatori a tempo determinato non risolve affatto il precariato esistente e rischia di confinare gli attuali 25 mila ricercatori in un limbo da cui sarà difficile uscire». Senza contare che il Ddl annuncia il blocco degli scatti stipendiali biennali e renderà difficile la ricostruzione della carriera per i prossimi assunti. «Chiediamo al Rettore Trombetti – dichiara Alessandro Arienzo, ricercatore della Federico II e segretario regionale della Flc-Cgil – di promuovere iniziative di contrasto contro le iniziative che minano la sussistenza dell’ateneo e del sistema universitario pubblico italiano».
Il Manifesto 21.02.10

"L'ideologia del fare", di Ilvo Diamanti

Polemiche sollevate dalle inchieste della magistratura sull´opera della Protezione civile, in Abruzzo dopo il terremoto e alla Maddalena, in vista del G8 (in seguito spostato a L´Aquila). E, ancor più, contro le critiche al progetto di trasformare la Protezione civile in Spa per meglio affrontare ogni emergenza. Allargando il campo dell´emergenza fino a comprendere ogni evento speciale e straordinario. Per visibilità e risorse investite. Oltre alle celebrazioni del 150enario dell´Unità d´Italia: i giochi del Mediterraneo e i Mondiali di nuoto; l´Anno giubilare paolino, l´esposizione delle spoglie di San Giuseppe da Cupertino, e i viaggi del Papa in provincia (perché non quelli del presidente della Repubblica e del premier?). Insomma, tutto quanto fa spettacolo e richiede grandi quantità di mezzi. Affidato alla logica della «corsia preferenziale», superando i vincoli imposti dalle regole, dalle procedure. Dagli organismi di controllo istituzionali. Per sottrarsi ai tempi e alle fatiche della democrazia. Che spesso delude i cittadini. E impedisce al governo di produrre risultati da esibire, come misura dell´efficacia della propria azione.
La mitologia del «fare» è alla radice del successo politico di Silvio Berlusconi. Il sogno italiano. L´imprenditore che si è «fatto» da sé. Dal nulla ha costruito un impero. In diversi settori. Da quello immobiliare a quello editoriale. A quello mediatico. Anche nello sport, ovviamente. Ha sempre vinto. Dovunque. E ha imparato che, se vuoi «fare», le regole, le leggi e, peggio ancora, i controlli a volte sono un impedimento. I giudici e i magistrati, per questo, possono rappresentare un ostacolo. Perché non sono interessati ai risultati, ma alle procedure. Alla legittimità e non alla produttività. Anche se nell´era di Tangentopoli i giudici erano celebrati da tutti (o quasi). Tuttavia, allora apparivano non i garanti della giustizia, ma i «giustizieri» di una democrazia malata. Bloccata e soprattutto improduttiva. Ostile ai cittadini e agli imprenditori.
Sul mito del «fare» si basa l´affermazione del politico-imprenditore alla guida di un partito-impresa, che gestisce la politica come marketing e promette di governare il paese come un´azienda. Anzi: di guidare l´azienda-paese. In aperta polemica con il professionista politico e il partito di apparato.
Si delinea, così, un modello neo-presidenziale di fatto. Realizzato su basi pragmatiche ed economiche. Quindi, molto più libero da regole e controlli rispetto ai sistemi presidenziali e semi-presidenziali effettivamente vigenti nelle democrazie occidentali.
L´evoluzione della Protezione civile è coerente con questo modello. Ne è il prodotto di bandiera, ma anche il modello esemplare. In fondo, Bertolaso anticipa e mostra quel che Berlusconi vorrebbe diventare (e costruire). È il suo Avatar. Affronta emergenze «visibili» e produce per questo risultati «visibili». In tempi rapidi. Puntualmente riprodotti dai media. Napoli. Sepolta dall´immondizia. L´Aquila devastata. Poi, arriva Bertolaso. L´immondizia scompare. Le prime case vengono consegnate a tempo di record. Sotto i riflettori dei media. Che narrano il dolore, l´emozione. E i successi conseguiti dal premier-imprenditore attraverso il suo Avatar. Aggirando vincoli e procedure. Perché nelle calamità, come in guerra, vige lo Stato di emergenza, che non rispetta i tempi della democrazia e della politica. Da ciò la tentazione di estendere i confini dell´emergenza fino a comprendere i «grandi eventi». Cioè: tutto quel che mobilita grandi investimenti, grandi emozioni e grande attenzione.
La Protezione civile diventa, così, modello e laboratorio per governare l´Italia come un´azienda. Dove il presidente-imprenditore può agire e decidere «in deroga» alle regole e alle norme. Perché lo richiede questo Stato (di emergenza diffusa e perenne). Dove il consenso popolare è misurato dai sondaggi. Dove, per (di) mostrare i «fatti», invece che al Parlamento ci si rivolge direttamente ai cittadini. O meglio, al «pubblico». Attraverso la tivù. Dove anche la corruzione diventa sopportabile. Meno «scandalosa», quando urge «fare» – e in fretta.
Di fronte a questa prospettiva – o forse: deriva – ci limitiamo a due osservazioni
La prima: la democrazia rappresentativa non si può separare dalle regole. Perché la democrazia, ha sottolineato Bobbio, è un «metodo per prendere decisioni collettive». Dove le procedure e le regole sono importanti quanto i risultati. Perché garantiscono dagli eccessi, dalle distorsioni, dalle degenerazioni. Come rammenta Montesquieu (nel 1748): «ogni uomo di potere è indotto ad abusarne. Per cui bisogna limitarne la virtù». Bilanciandone il potere con altri poteri. Perché, aggiunge un altro padre del pensiero liberale, Benjamin Constant (nel 1829): «ogni buona costituzione è un atto di sfiducia». Nella natura umana e del potere.
La seconda osservazione riguarda il fondamento del «fare», cui si appella il premier. In effetti, coincide con il «dire». Meglio ancora: con l´apparire. Perché i «fatti» – a cui si appella Berlusconi – esistono in quanto «immagini». Proposte oppure nascoste dai media. Secondo necessità. Come i «dati» dell´economia e del lavoro. Come i disoccupati o i cassintegrati e i morti sul lavoro. Che appaiono e – preferibilmente – scompaiono sui media. A tele-comando. Perché il pessimismo e la sfiducia minano la fiducia dei consumatori e dei cittadini. Meglio: del cittadino-consumatore. O viceversa.
È la retorica del «fare». Narrazione e al tempo stesso ideologia di successo. Per costruire e proteggere l´Italia spa.
La Repubblica 21.02.10