Latest Posts

Ottobre rosa: voler bene a se stesse e al proprio corpo

ottobre-rosa-2016_convegno-carpi

Alla presenza della vice presidente della Camera dei Deputati, Marina Sereni, domani mattina, a Carpi, si svolgerà un importante convegno: “Il tumore al seno: dalla prevenzione alla terapia”. E’ un’iniziativa nell’ambito dell’“Ottobre rosa” promosso dall’Azienda Sanitaria di Modena, che ringrazio per aver scelto Carpi come sede del convegno: una scelta non casuale, legata all’attenzione da sempre dedicata a questo tema dalla città, dalle sue Amministrazioni, dall’Ospedale con il suo personale medico e sanitario e dalle associazioni femminili e di volontariato. Il convegno affronterà temi cruciali per il territorio e la salute delle donne. La prevenzione è uno strumento fondamentale che abbiamo a disposizione per combattere il tumore, una patologia che, nonostante i tanti successi ottenuti dalla medicina, fa ovviamente ancora paura. Invito le donne a superare i propri comprensibili timori e a partecipare con regolarità agli screening di prevenzione e, una volta individuata la malattia, a sottoporsi alle cure che, davvero, riescono a salvare delle vite. Le donne devono voler bene al proprio corpo, non solo dal punto di vista estetico, ma anche da quello sanitario. Viviamo in una regione, l’Emilia-Romagna, che ha fatto della prevenzione uno dei punti di forza del proprio sistema sanitario: di questo dobbiamo sentirci fieri, ma soprattutto non dobbiamo lasciare cadere gli inviti a partecipare ai controlli periodici previsti. In caso di esito positivo, è naturale, che si scatenino ansie e timori, ma non bisogna avere paura delle terapie. Non facciamoci abbindolare da possibilità di cura miracolistiche, ma affidiamoci a medici seri, che seguono i protocolli sperimentati dalla comunità scientifica internazionale. Al medico, in particolare, spetta una grande responsabilità: saper trasmettere, sin dal primo e importantissimo incontro con la paziente, la consapevolezza che verrà non solo curata in quanto malata, ma “presa in carico” in quanto persona in tutto il suo percorso di risoluzione della malattia. Purtroppo nella formazione del medico, la preparazione alla relazione e alla comunicazione con il paziente ha un rilievo ancora marginale: eppure dal primo approccio medico-paziente tanto dipende del prosieguo e dell’esito della cura, che deve basarsi innanzitutto su un “sano” rapporto di fiducia e di rispetto reciproci. Lo sanno bene al Day Hospital Oncologico di Carpi, dove la persona che si ammala è al centro del lavoro quotidiano dei medici, degli infermieri e del personale non sanitario, oltre che dei volontari dell’AMO. Grazie, a tutti voi!

Referendum, il nuovo Senato (art. 57, 58 e 59 della riforma)

1280px-palazzo_madama_-_roma

Proseguo il nostro viaggio all’interno della riforma costituzionale. Dopo aver affrontato le modifiche all’articolo 55, che supera il bicameralismo paritario e definisce funzioni differenti tra Camera e Senato, oggi ci dedichiamo alle nuove modalità di composizione e di elezione del Senato (articoli 57, 58 e 59).
La riforma – rispetto all’attuale composizione di 315 membri eletti a base regionale, di cui 6 eletti nella Circoscrizione esteri – prevede che esso sia costituito da 5 senatori di nomina presidenziale (che durano in carica 7 anni) e da 95 senatori rappresentativi delle istituzioni territoriali, quindi eletti dai Consigli regionali e delle Province autonome in proporzione alla popolazione della regione; dei 95 senatori, 74 sono eletti tra i membri dei Consigli regionali e 21 tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori. Poiché si tratta quindi di un “doppio ruolo”, i senatori non riceveranno alcuna indennità per la nuova funzione.
La prima novità, quindi, è relativa alla sensibile diminuzione del numero dei senatori: 95 è un numero adeguato per dare rappresentanza alle istituzioni territoriali. A questo proposito, ritengo comunque sbagliata e fuorviante la campagna pubblicitaria per il Sì promossa dai gruppi parlamentari del Pd che annuncia – tra le motivazioni per un voto favorevole – la diminuzione dei politici: sbagliata perché la riforma, in coerenza con un ventennio e oltre di programmi elettorali del centro sinistra, riduce finalmente il numero dei parlamentari (e non dei politici tout court); fuorviante perché vellica e legittima un bieco sentimento di “antipolitica”, sterile nella proposta quanto fecondo nella polemica antisistema: non c’è bisogno di meno politica, c’è necessità di più “buona politica”, come ben sanno tutti coloro che, dal più piccolo Comune d’Italia fino al Parlamento, provano quotidianamente con spirito di servizio ad onorare la responsabilità della rappresentanza popolare.
La seconda novità riguarda la modalità di elezione dei 95 membri: non più con un voto popolare diretto, ma con un’elezione “di secondo grado”. Questo è stato un punto controverso e molto discusso durante l’esame parlamentare, così come lo è tutt’oggi nel mondo politico: basti pensare che è stato tra le questioni anche all’ordine del giorno dell’ultima direzione del Pd.
Perché una elezione “di secondo grado” del Senato? Poiché esso rappresenterà le istituzioni territoriali, tale scelta è stata assunta per evitare il rischio che i senatori si facciano portatori di istanze legate più alle forze politiche che alle istituzioni di appartenenza, o, di converso, che si sentano alfieri di esigenze meramente territoriali e di “campanile”; l’elezione diretta dei senatori, poi, avrebbe potuto legittimarne la volontà ad incidere sulle scelte di indirizzo politico, che spetta alla sola Camera (e dal quale discende il rapporto fiduciario con il Governo).
Durante l’ultima lettura del testo della riforma al Senato, è stata introdotta una modifica secondo la quale l’elezione “di secondo grado” dei senatori deve comunque avvenire “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione delle elezioni dei Consigli regionali o delle province autonome”, secondo modalità che dovranno essere stabilite dalla futura legge elettorale del Senato. A questo proposito, nel corso della già citata direzione del Partito, il segretario Renzi ha annunciato che il PD assumerà la proposta di Vannino Chiti e Federico Fornaro come testo base per la discussione sull’elezione del nuovo Senato.
La proposta, in estrema sintesi, prevede che il giorno delle elezioni regionali l’elettore riceverà 2 schede: una per scegliere i nuovi consiglieri regionali e una per l’individuazione, tra i futuri consiglieri, di coloro che ricopriranno anche il ruolo di senatori, in rappresentanza della egione nel nuovo Senato. A questa espressione degli elettori dovrà attenersi il Consiglio regionale quando dovrà eleggere i senatori-consiglieri. Il meccanismo risolverebbe sia l’obiezione secondo la quale la designazione dei senatori avverrebbe per “pura discrezionalità politica” (De Siervo) e partitica, sia quella (espressa da Pace) secondo la quale se il Senato mantiene alcune funzioni legislative, allora deve essere eletto dai cittadini, ipotesi che si realizzerà, poiché il Consiglio regionale dovrà adeguarsi alle scelte degli elettori.
Sulla composizione del nuovo Senato, molti hanno sostenuto che meglio sarebbe stato disporre, in Costituzione, la presenza dei presidenti di Regione: a questa ipotesi – che avrebbe assegnato un ruolo preminente alle Giunte regionali – si è preferito indicare i consiglieri, per dare rappresentanza anche alle forze di opposizione territoriali. Nulla impedirà, comunque, che i presidenti di Regione possano diventare senatori.
In conseguenza alle modalità di elezione dei suoi componenti, il Senato non è sottoposto a scioglimento (come accade alla Camera, per rinnovarla nella composizione con le elezioni politiche), ma si rinnova parzialmente, poiché la durata dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti.
Secondo molti oppositori – di merito – della riforma, i consiglieri e i sindaci non avranno il tempo materiale per poter svolgere con dedizione e cura anche il ruolo di senatore. Stante le nuove funzioni del Senato rispetto alle attuali, l’impegno “romano” sarà assolutamente compatibile con quello di consigliere (tenuto anche conto che l’Assemblea legislativa regionale non è convocata tutte le settimane), ma credo che la miglior replica sia espressa dai casi concreti di sindaci che – già ora – sono anche deputati o senatori, come il collega Claudio Broglia, che è stato riconfermato alla guida di Crevalcore dai suoi concittadini, che evidentemente hanno apprezzato il doppio ruolo del loro sindaco.
Da ultimo affronto l’obiezione secondo la quale non è appropriato assegnare il nuovo ruolo dei senatori ai consiglieri regionali, che rappresenterebbero i politici più corrotti. A parte il fatto che molte delle indagini avviate sui rimborsi dei consiglieri regionali si stanno concludendo con assoluzioni piene (si veda quanto accaduto in Emilia-Romagna), è bene ricordare che i consiglieri regionali sono eletti secondo le preferenze raccolte dagli elettori, vale a dire con una indicazione espressa e precisa di fiducia da parte dei cittadini. Spetterà quindi alla capacità di discernimento, di valutazione e di controllo da parte degli elettori scegliere candidati consiglieri (e senatori) meritevoli della loro fiducia.

Di Francesco Gasparetti da Senigallia, ItalyFlickr, CC BY 2.0, Collegamento

Telecamere, Baruffi e Ghizzoni “Lavorato per migliorare il testo”

videosorveglianza

Non una legge esclusivamente securitaria, ma orientata alla selezione, alla formazione e alla verifica di idoneità del personale e al sostegno della qualità del servizio: i deputati modenesi del Pd Davide Baruffi, componente della Commissione Lavoro, e Manuela Ghizzoni, componente della Commissione Istruzione, spiegano l’importante lavoro svolto, in queste settimane, per arrivare a un testo di legge equilibrato, ieri approvato dalla Camera, recante misure per prevenire e contrastare condotte di maltrattamento o di abuso, anche di natura psicologica, in danno dei minori negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia e delle persone ospitate nelle strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali per anziani e persone con disabilità. “Il dibattito rischiava di rimanere incagliato nel contrasto frontale tra “telecamere sì-telecamere no” – spiega Davide Baruffi – Si tratta di un tema estremamente delicato che coinvolge aspetti di privacy, diritto del lavoro, ma anche educativi, a partire dal fondamentale patto tra scuola, famiglie e istituzioni su cui si basa l’intero sistema educativo”. In Parlamento, soprattutto dopo i casi di cronaca sui maltrattamenti a bambini o anziani, erano state depositate diverse proposte di legge che sono poi confluite in un testo unificato. “Siamo partiti da dati di realtà – continua Baruffi – In diverse strutture private, già sono installate webcam che permettono ai genitori di seguire, magari in diretta da casa o dal lavoro, cosa stanno facendo i figli all’asilo. Occorreva, quindi, introdurre modalità appropriate di utilizzo di questi strumenti che tutelassero sia chi si trova in condizione di vulnerabilità sia chi lavora in questi ambiti essenziali per il benessere di una comunità. E’ quello che abbiamo cercato di fare”. Secondo il testo che dovrà ora passare il vaglio del Senato, le webcam sono vietate, mentre possono essere solo introdotti sistemi di videosorveglianza interna, con l’accordo delle organizzazioni sindacali o dell’Ispettorato del lavoro, i cui filmati non saranno a disposizione di chiunque, ma solo della magistratura e della polizia giudiziaria, nel caso siano presentate denunce specifiche. “Il testo come è uscito dal voto della Camera – spiega Manuela Ghizzoni – è molto diverso da quello inizialmente previsto sull’onda emozionale della cronaca. Comprendo le preoccupazioni delle famiglie, ma la videosorveglianza è davvero l’ultimo strumento per efficacia per intervenire in casi come questi, molto più importanti sono il controllo sociale e il coinvolgimento costante e attento delle famiglie. Tutti aspetti che abbiamo voluto incrementare nella legge. E’ prevista, tra l’altro, una delega al Governo in materia di valutazione e formazione del personale degli asili nido, delle scuole dell’infanzia e delle strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali per anziani e disabili. In particolare si chiede che questi lavoratori siano in possesso di adeguati requisiti e idoneità professionale non solo al momento dell’assunzione, ma anche nel corso del rapporto di lavoro, in modo da prevenire casi di logoramento tipici di chi ha mansioni così delicate”.

Lo StudentAct visto da me: quattro gambe per il tavolo che sorregge l’art. 34 della Costituzione

lo-studentact_sito

Una misura mai applicata in Italia, la no tax area, e tre provvedimenti complementari in grado di allargare la risposta a diverse sfaccettature dello stesso bisogno, il diritto allo studio universitario. Una sorta di tavolo con quattro gambe: tutte insieme garantiscono l’equilibrio, se ne viene a mancare una, il tavolo si ribalta. Il tavolo, nel mio immaginario, è il dettato dell’articolo 34 della Costituzione, laddove dice che “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Le quattro gambe sono i provvedimenti contenuti nella legge di bilancio appena presentata dal Governo. In quelle quattro gambe c’è molto del mio lavoro, ma anche di quello di tutti i colleghi del Pd e delle altre forze politiche che, in questi anni, si sono interessati al diritto allo studio. Nel luglio scorso, alla Camera è stata approvata una mozione a mia prima firma sull’accesso all’università, promossa anche a fronte degli sconfortanti dati circa le percentuali di immatricolati e di laureati del nostro Paese. Quella mozione impegnava il Governo anche sul tema del diritto allo studio, in particolare a introdurre una no tax area e a stabilizzare i 50 milioni di euro aggiuntivi stanziati nel 2016 per il Fondo statale integrativo per le borse di studio che si aggiunge ai fondi disponibili presso le regioni. E, in effetti, nella Legge di Bilancio questi provvedimenti sono stati recepiti, insieme ad altre misure altrettanto positive. Trovo, quindi, francamente ingenerose alcune delle critiche che, subito, pur con accenti diversi, si sono levate. E’ vero che c’è sempre spazio per auspicare di più e di meglio, ma, per la prima volta in Italia, il tema del diritto allo studio è affrontato in modo sistemico e strutturale, per garantire una progressiva gradazione di interventi capaci di intercettare bisogni anche molto diversi. Perché, come disse Don Milani “Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”: una lezione aggiornata da Ermanno Gorrieri nella sua riflessione su povertà, diseguaglianza e politiche redistributive.

Dobbiamo partire da tre dati di realtà.

Il primo è che mentre la strategia Europa 2020 della Comunità Europea fa perno su istruzione, ricerca/innovazione e società digitale per una “crescita intelligente” (in particolare attraverso il miglioramento dei livelli di istruzione e formazione) come miglior motore di sviluppo sociale ed economico, l’Ocse nell’ultimo rapporto Education at a Glance 2016 certifica che l’Italia è fanalino di coda per numero di laureati sulla popolazione in tutte le fasce d’età, compresi i 25-34enni.

student-act-testo

Il secondo dato di realtà riguarda la regressività che, in generale, contraddistingue le tasse universitarie: vale a dire, concretamente, che il loro impatto percentuale decresce all’aumentare del reddito/patrimonio familiare dello studente, cioè le famiglie meno abbienti versano all’università uno quota dei loro reddito/patrimonio maggiore di quella pagata dalle famiglie più abbienti. Eppure la legge vigente (D.P.R. 25 luglio 1997, n.306, articolo 3) dispone che le università debbano graduare i contributi universitari “secondo criteri di equità e solidarietà, in relazione alle condizioni economiche dell’iscritto”, per “garantire un’effettiva progressività, anche allo scopo di tutelare gli studenti di più disagiata condizione economica”, con l’unico limite (all’articolo 5) di un meccanismo che limita solo l’ammontare complessivo delle contribuzioni degli studenti in corso per ogni ateneo (che non può superare il 20% del finanziamento statale trasferito all’ateneo stesso). Invece, se si analizzano i diversi regolamenti universitari sulla contribuzione studentesca ci si rende facilmente conto di quanto pochi siano gli atenei statali che ottemperano davvero alla legge: poiché si tratta di una ricerca lunga e affatto facile (posso affermarlo avendolo sperimentato personalmente), consiglio almeno la lettura della scheda di sintesi “Equità orizzontale e verticale nelle tasse universitarie dei grandi atenei italiani” di Carlo Fiorio, Vito Peragine e Francesco Scervini, del Rapporto biennale sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2016 (pp 349-352). Nonostante qualche imprecisione sui dati, in particolare per l’Università di Bologna che, contrariamente a quanto riportato, ha, al netto delle esenzioni dovute per legge o di interventi in situazioni molto particolari di alcuni studenti, una tassazione totalmente “piatta”, cioè indipendente dal reddito, con decontribuzioni concesse solo per “merito” (cioè in base al numero di crediti acquisiti), i risultati della ricerca avvalorano quanto stiamo ripetendo da tempo. Scrivono infatti gli autori: “In conclusione, tranne poche eccezioni, l’ammontare delle tasse universitarie degli atenei considerati appare essere prevalentemente regressivo: lo sforzo economico che le famiglie devono sostenere per l’istruzione universitaria dei propri figli è relativamente minore all’aumentare del patrimonio familiare”. Tutta responsabilità degli atenei e della insensibilità sociale dei Consigli di amministrazione? No, la questione è più complessa. Non si può dimenticare, innanzitutto, che dal 2009 al 2014 i finanziamenti statali per il funzionamento ordinario delle università sono calati continuamente, così che gli atenei hanno fatto fronte ai bisogni correnti con finanziamenti “esterni”, incluse le tassazioni studentesche, che per molte famiglie di ceto basso e medio, complice la crisi economica, sono diventate insostenibili. Risultato: dal 2003 al 2015 le università hanno perso, nel complesso, quasi 70 mila matricole, circa il 20% del totale. Di fronte a questa crisi delle immatricolazioni, che ha colpito tutti gli atenei, sia pure in modo differenziato perché alcuni, stante la reputazione didattica e scientifica raggiunta hanno continuativamente un bacino assicurato di studenti, alcuni atenei hanno reagito negli ultimi 2 anni con politiche “sociali” sul fronte dei contributi studenteschi: rammentiamo le esperienze pionieristiche di una sorta di no tax area introdotte dalle università di Firenze, Pisa, Palermo, Bari, Torino e altre ancora. Sono esperienze importanti, ognuna da studiare attentamente per gli esiti sui bilanci e sulle immatricolazioni: ma sono ancora poche per determinare una inversione di tendenza (che, lo so, deve essere sostenuta anche con interventi sulla qualità della didattica, ma questo è argomento che affronteremo in altra sede).
Il terzo dato di realtà riguarda il “tradizionale” sistema di diritto allo studio universitario (DSU), che per studenti in condizioni di basso reddito e di alto merito (almeno 25 crediti universitari il primo anno, 80 nel secondo e 135 nel terzo) prevede una borsa di studio, di importo fino a 5mila euro annui per i fuori sede. Il sistema però soffre di una gracilità strutturale dovuta sia alla cronica carenza di risorse, tale per cui molti ragazzi che soddisfano le condizioni di reddito e di merito richieste non ottengono la borsa (risultano “idonei” non viene garantito loro nient’altro oltre allo sgravio delle tasse), sia alle differenze profonde tra le varie regioni d’Italia, che hanno potestà legislativa in materia. Di fatto, non esiste un sistema nazionale di diritto allo studio, ce ne sono venti. La diversa sensibilità politica delle regioni fa la differenza (ci sono regioni, come l’Emilia-Romagna, ma non solo, che riescono a dare la borsa a tutti gli aventi titoli, grazie anche a risorse proprie, mentre in altre non si raggiunge il 20% degli idonei) ma questo impedisce la medesima esigibilità di uno stesso diritto su tutto il territorio nazionale.

Come interviene la legge di Bilancio su questi duri dati di realtà?
Innanzitutto con l’istituzione, in tutte le università statali, di una vera “no tax area” (cioè zero contributi universitari di  qualunque tipo) per quegli studenti che hanno un reddito/patrimonio familiare (misurato con l’Isee) inferiore ai 13mila euro euro e che sono in ritardo al massimo di un anno sulla durata legale del corso di studio. Ecco la prima gamba del tavolo sopra-citato, una misura che aiuta e incoraggia chi vuole, comunque, cimentarsi con la formazione universitaria, sebbene le condizioni economiche di partenza non glielo consentirebbero. Non sono richiesti brillanti risultati scolastici pregressi, ma la dimostrazione di aver assunto con serietà il percorso formativo conseguendo almeno 10 crediti formativi su 60 entro agosto del primo anno e poi almeno 25 ogni 12 mesi successivi. Tasse calmierate sono poi previste per gli studenti che hanno un Isee familiare che va dai 13mila ai 30mila euro. Agli atenei sono garantite risorse compensative delle minori entrate, affinché possano continuare ad assicurare lo stesso livello dei servizi e della didattica. L’istituzione della “no tax area” è una innovazione sociale e culturale molto importante, che ci proietta in Europa, dove la gratuità o semi-gratuità dell’università è presente in molti Paesi.
Seconda gamba del tavolo: l’attività di tutoraggio. Analisi recenti dimostrano come ostacolo al proseguimento degli studi non è solo l’ambiente economicamente svantaggiato, ma anche un contesto culturale meno favorevole: è più probabile che concluda con successo il percorso universitario il figlio di due genitori laureati o comunque con diploma di scuola secondaria, con a disposizione libreria e computer casalinghi e un percorso di studi liceale alle spalle. Infatti, il Rapporto ANVUR 2016, già citato, conferma la relazione tra la provenienza scolastica e l’esito dei percorsi di studio universitari: il 32% degli immatricolati ex liceali risulta laureato nei tempi previsti a fronte del 19,1% di diplomati tecnici e solo il 16,2% dei diplomati professionali. Preoccupante, poi, è “l’altissima percentuale di studenti provenienti da un istituto tecnico o professionale che dopo 3 anni di corso ha abbandonato l’università (tra il 39% e il 46% contro il 16% dei liceali)” (p. 126 del Rapporto). Che fare, quindi, a fronte delle eventuali difficoltà che possono incontrare i giovani che provengono da un percorso di studi meno proiettato alla tradizionale formazione teorica, tipica dei licei? Oltre che ipotizzare percorsi di formazione superiore, anche universitari, con una curvatura maggiore verso la professionalità e il tirocinio – ma l’ipotesi esula dai contenuti tradizionali tipici di una legge di bilancio – va garantito un supporto adeguato di tutoraggio che, soprattutto nel primo anno, o in momenti di crisi, possa accompagnare lo studente a superare con profitto gli esami e quindi a conseguire la laurea.
Terza gamba, e terzo caso di bisogno, vale a dire i ragazzi che sono idonei al DSU ma, per carenza di risorse, non sono beneficiari di borsa di studio ma solo di esenzione dalle tasse (una sorta di DSU debole). Alla carenza di risorse si risponde rendendo stabile nel tempo l’incremento di 50 milioni già disposto per il 2016, così che il Fondo statale che integra le (poche) risorse regionali sarà definitivamente superiore a 210 milioni di euro. Il superamento del tetto di cristallo (200 milioni) era avvenuto occasionalmente solo nel 2009 e nel 2016: ora si dà certezza alle risorse e alle regioni, che potranno programmare meglio i propri interventi. Per dare poi maggiore equità alle modalità di riparto del Fondo tra le regioni, nella legge di bilancio si fa espresso riferimento ad un criterio di proporzionalità rispetto al fabbisogno finanziario di ciascuna regione.
Infine, la quarta gamba, che prende in considerazione ancora altri casi, quelli di giovani, sempre provenienti dalle classi sociali meno abbienti, che abbiano evidenziato negli ultimi anni delle scuole medie superiori talenti o meriti scolastici eccezionali. In questo caso, per almeno 400 di loro, è prevista una “superborsa di studio”, in grado di garantire allo studente non solo di iscriversi all’università e di acquistare libri e strumenti necessari allo studio, ma anche di affrontare, senza pesare economicamente sulla propria famiglia, una vita universitaria (o presso un Conservatorio o un’Accademia di Belle Arti) “in autonomia”, anche in una città diversa e lontana da quella di residenza. A fronte delle particolari attitudini – che vanno confermate nel corso degli studi universitari con requisiti di merito particolarmente elevati – questi giovani riceveranno dallo Stato una borsa di studio che consentirà loro di portare a termine il loro progetto formativo e di vita.
Con lo StudentAct, quindi, si prevedono risorse e misure mai sperimentate nel nostro Paese. Non ci sono solo soldi in più, è un vero cambiamento di prospettiva, che mantiene però il baricentro sull’equità dell’articolo 34 della Costituzione. A chi dice che sono norme che privilegiano alcuni, a scapito di tanti altri, rispondo che siamo lontani dalla retorica della meritocrazia sbandierata da Gelmini e Berlusconi: sono individuati criteri specifici e selettivi basati su precise condizioni sociali e anche, ma non solo, di merito, in quell’accezione costituzionale che tiene a mente le pari opportunità. E badate che dalla “no tax area” – una volta istituita – non si può tornare indietro. E’ una conquista di carattere sociale mai applicata in Italia, dove, lo abbiamo visto, l’università costa molto per i redditi più bassi. Altre misure, mutuate dall’estero e fino a pochi anni fa molto in voga, hanno avuto scarsissimi risultati: penso, ad esempio, al prestito d’onore sperimentato in Piemonte e sostanzialmente fallito. Se una famiglia non ce la fa a sbarcare il lunario, non si indebita per mandare un figlio all’università. Di queste misure altamente innovative andranno attentamente monitorati, nel corso dei prossimi anni, i risultati operativi e ne dovranno essere corrette le eventuali debolezze. Ciò nulla toglie  al fatto che siamo di fronte a un cambio di paradigma, che non esito a definire “rivoluzionario”.

Salva

Salva

Salva

Cosa cambia con la riforma costituzionale? Il nuovo articolo 55

senato

Mi è stata rivolta quella che voglio definire una battuta: “Voterai Sì perché non l’hai capita”. Il riferimento è, naturalmente, alla riforma costituzionale e al referendum del 4 dicembre prossimo. Non ho replicato con pari battuta: “Al contrario: voterò Sì perché l’ho capita”, ma ho assicurato al mio interlocutore di aver letto ogni norma modificata. Si può dire altrettanto di lui? Il punto è che tanti parlano per sentito dire. E allora, ben venga l’iniziativa di Repubblica che mettendo a confronto i testi della Costituzione vigente e modificata consente a tutti di farsi un’idea sulla materia oggetto di referendum. Nel mio piccolo, sui miei spazi (sito e pagina Fb), cercherò di fare così anch’io. Nei prossimi giorni, e nelle prossime settimane, racconterò le modifiche proposte alla Costituzione, articolo per articolo.

Si comincia con l’articolo 55 che, prevedendo funzioni differenti per i due rami del Parlamento, dispone il superamento del bicameralismo paritario (quello italiano è l’unico modello europeo che lo prevede), cioè uno dei pilastri della riforma. E’ esperienza quotidiana che tanti disegni di legge si sono incagliati nella navetta tra Camera e Senato nell’attesa di un doppio voto conforme che non è mai arrivato. Altra novità importante introdotta dall’articolo 55 è il rafforzamento della parità di rappresentanza politica tra donne e uomini, a cui dovranno ispirarsi le leggi elettorali e le modalità di elezione di deputati e senatori. Sull’argomento era già stato modificato l’articolo 51 per prevede, più genericamente, condizioni di uguaglianza per l’accesso alle cariche elettive. Insomma dal principio, si passa all’attuazione nella pratica elettorale.

La Camera, che resta immutata nella sua composizione di 630 deputati eletti a suffragio universale, è il solo ramo del Parlamento che vota la fiducia al Governo, sottraendolo ai ricatti e al potere di interdizione di maggioranze diverse tra Camera e Senato, come accaduto più volte negli ultimi 20 anni. Inoltre, controlla l’operato del Governo, esercita la funzione di indirizzo politico e fa le leggi.

Il Senato rappresenta invece le istituzioni territoriali (Regioni e Comuni), in sintonia con altri sistemi bicamerali europei. Costituirà il “raccordo” tra lo Stato e gli altri enti della Repubblica e con l’Unione Europea. Concorrerà a fare le leggi nei casi che sono previsti dal successivo articolo 70 e che danno sostanza a questo nuovo ruolo di “raccordo”. Assume, poi, nuove funzioni, trascurate dal dibattito pubblico, ma molto importanti: valuterà le politiche pubbliche, l’attività delle Pubbliche Amministrazioni e l’impatto delle politiche dell’UE, oltre che a verificare l’attuazione delle leggi dello Stato. Questa funzione è inedita e strategica per migliorare la qualità della azione politica e quindi per dare risposte efficaci ai bisogni del Paese: non è sufficiente emanare nuove norme, bisogna emanarne di buone. E che lo siano poi nella pratica, lo si verifica solo facendo la valutazione rispetto agli esiti attesi e agli obiettivi realmente raggiunti. Si tratta, quindi, di una funzione nuova e potenzialmente molto importante: dipenderà dalla volontà dei nuovi senatori se esercitarla con questo spirito o in maniera più banalmente burocratica. Ma questo, naturalmente, non dipende dalla bontà o meno della riforma…

1011_repubblica_la-fine-del-bicameralismo

photo credit: Palazzochigi Senato via photopin (license)

11 ottobre – Giornata mondiale delle bambine e delle ragazze

11-ottobre_giornata-mondiale-bambine-e-ragazze_sito

Bambine coccolate come piccole regine, bambine sfruttate per lavoro e sesso: il modo con cui gli adulti guardano all’infanzia è la misura della crescita di una società. Oggi, in occasione della Giornata internazionale dei diritti delle bambine, le organizzazioni mondiali specializzate pubblicano numeri da incubo. Sono milioni le bambine il cui corpo viene violato (sfruttamento sessuale, mutilazioni genitali, gravidanze precoci) e il cui futuro viene rubato (accesso allo studio limitato, pesanti incombenze di cura domestiche, matrimoni combinati). Non chiudiamoci solo nel nostro piccolo mondo, alziamo lo sguardo. Non possiamo far finta di nulla, quando apprendiamo che i bambini lavoratori nel mondo sono all’incirca 168 milioni. Il nostro stile di vita non può essere mantenuto a dispetto di tutto e di tutti, dei diritti dei bambini in particolare.

 

Il rapporto “Every Last Girl: free to live, free to learn, free from harm” di Save the Children

Il dossier «La condizione delle bambine e delle ragazze nel mondo» di Terres des hommes