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"Nichi, sul referendum sbagli", di Cesare Damiano

Non condivido l’idea di tenere un referendum sui temi del lavoro per motivi di metodo e, in parte, di merito. Vorrei chiarire che, a mio avviso, la scelta compiuta da Nichi Vendola non ha niente a che vedere con il problema delle alleanze che il Partito democratico dovrà costruire con l’obiettivo di governare il paese. Rimango dell’opinione che, per formare un fronte progressista non chiuso in se stesso e capace di dialogare con il centro moderato, si debba passare innanzitutto da un confronto con Sel.
Non voglio neanche demonizzare lo strumento referendario ma, al tempo stesso, chiarire il motivo per il quale ritengo inopportuna questa scelta, soprattutto nel contesto attuale. Non sfugge ai promotori del referendum che il 2013 sarà l’anno delle elezioni politiche e che, di conseguenza, il referendum non si potrà tenere. Capisco la carica simbolica di questa iniziativa e la volontà di avere un contenuto da sbandierare ma, proprio per questo, ritengo che la scelta sia sbagliata perché abbiamo bisogno di dare soluzioni concrete alle questioni sociali che riguardano il paese, piuttosto che alludere a salvifiche e futuribili soluzioni difficili da realizzare.
Inoltre, il Pd si candida con i suoi alleati a governare il paese ed è in questa prospettiva che dobbiamo proporre, attraverso un programma ben radicato nei temi sociali, di correggere le riforme delle pensioni e del lavoro volute dal governo Monti in quelle parti che peggiorano la condizione di vita dei lavoratori. Sarà dunque la via legislativa quella che dobbiamo privilegiare per indirizzare l’azione del futuro governo verso scelte equilibrate di rigore, sviluppo ed equità. Per quanto riguarda il merito, a proposito dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, penso che il compromesso raggiunto con il governo, grazie all’azione incisiva del Partito democratico, che ripristina la tutela reale anche per i licenziamenti di carattere economico consentendo un’alternativa “alla tedesca” tra risarcimento e reintegrazione nel posto di lavoro, vada preservato.
Va piuttosto effettuato un serio monitoraggio relativo all’impatto della riforma sul mercato del lavoro reale, individuando le correzioni che si renderanno necessarie anche a seguito di un approfondito confronto con le parti sociali. Una verifica sul campo si rende necessaria perché è lo strumento più idoneo per trovare la giusta convergenza tra imprese e sindacati che, non dimentichiamolo, hanno già redatto su questa materia un avviso comune trasformato in legge dalla camera.
Per quanto riguarda, infine, la questione dell’articolo 8 del dl 138/2011 voluto da Sacconi e convertito nella legge 148 del 2011, a mio avviso esso va cancellato. Abbiamo avversato a suo tempo questa soluzione e dobbiamo continuare a farlo, non per pregiudizio ideologico, ma nella consapevolezza che la derogabilità delle leggi e dei contratti negli accordi stipulati a livello aziendale e territoriale, va nella direzione di destrutturare il quadro normativo e di regole a livello nazionale. Viceversa, come ha di recente ricordato il presidente del consiglio, dobbiamo enfatizzare il ruolo contrattuale delle parti sociali valorizzando l’accordo interconfederale del 28 giugno dello scorso anno. Un’ultima notazione: quando si decide di promuovere una prova referendaria ci si deve anche preoccupare di vincerla. La mia storia politica e sindacale mi riporta alla memoria il referendum del 1985, anno nel quale si giocò l’enorme partita politica della scala mobile. Pensavamo di vincere, ma così non è stato. Non ci eravamo accorti del grande cambiamento avvenuto in quegli anni nel corpo sociale del paese.
Non dobbiamo commettere nuovi errori e soprattutto ancorare la nostra azione ad una forte politica riformista che guardi ai giovani e che si preoccupi di salvaguardare i diritti dei lavoratori e dei pensionati con riforme che siano caratterizzate finalmente dall’equità sociale e dalla difesa dei più deboli.

da Europa Quotidiano 13.09.12

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Damiano:«Perché riaprire una battaglia già vinta?», di Maria Zegarelli

«Mi auguro che non ci siano altri motivi di divisione nel Pd». Almeno non sui referendum, spera Cesare Damiano che sulla riforma del Lavoro non è mai stato tenero con il governo ma non per questo condivide l’iniziativa. Damiano, lei non era d’accordo con la modifica dell’articolo 18 ma non le piacciono questi referendum. Perché? «Intanto non commettiamo l’errore di confondere i referendum, presentati tra gli altri anche da Sel, con le alleanze del Pd. Noi dobbiamo continuare sulla strada della costruzione di una proposta politica progressista e Sel è un interlocutore fondamentale. Detto questo ritengo la scelta dei referendum inopportuna e sbagliata».

Perché? Non si deve cambiare l’articolo 18?
«Prima di tutto perché i promotori sanno perfettamente che nel 2013 ci saranno le elezioni politiche e quindi non si potrà tenere alcun referendum. Non condivido una posizione di bandiera e propagandistica perché prediligo la soluzione reale dei problemi. Inoltre, trovo questa scelta contraddittoria con la prospettiva di governo. Il Pd vuole governare il Paese ed è la via legislativa quella da privilegiare per correggere le riforme sociali di questo governo, come pensioni e mercato del lavoro, nelle parti che peggiorano la condizione di vita dei lavoratori».
Ma nel merito dei quesiti, lei non condivide nulla?

«Penso, a differenza di Vendola, che il compromesso raggiunto, grazie a un’iniziativa politica forte del Pd e di Bersani, sull’articolo 18 non sia più da modificare. Sulla riforma del mercato del lavoro non ho mancato di far senti- re la mia opinione critica, ma credo sia necessario un vero monitoraggio dell’impatto della riforma sul mercato reale per poi procedere con le correzio- ni, sentendo le parti sociali, sindacati e imprese».

Eppure finora non risulta che la modifica dell’articolo 18 abbia provocato tanti cambiamenti nel mercato del lavoro. «Voglio ricordare che la proposta iniziale del governo era quella di non consentire la reintegrazione nel posto di lavoro in seguito a un licenziamento per motivi economici. Noi abbiamo imposto una profonda correzione che ha reintrodotto, accanto al risarcimento, la possibilità di reintegrare il lavoratore, ossia una soluzione alla tedesca. Mi sembra si sia raggiunto un buon com- promesso e se ci saranno delle correzioni da fare, sulla base dei casi che la magistratura esaminerà e sulla base dei suggerimenti delle parti sociali, allora affronteremo la questione».

Lei dice: “alleanze e referendum non devono essere confusi”. Ma si è creato un problema con Vendola?
«Sarebbe stato meglio non presentarli, ma non possiamo inibire una autonoma iniziativa di partito. Aggiungo che l’articolo 8, voluto da Sacconi, andrebbe cancellato perché affidare la derogabilità di leggi e contratti alla contrattazione di azienda di territorio vuol dire distruggere un quadro di normativa nazionale. Ma non voglio aspettare l’esito di un referendum: vorrei fosse uno dei primi atti legislativi di un governo di centrosinistra».

L’Unita 13.09.12

"Nichi, sul referendum sbagli", di Cesare Damiano

Non condivido l’idea di tenere un referendum sui temi del lavoro per motivi di metodo e, in parte, di merito. Vorrei chiarire che, a mio avviso, la scelta compiuta da Nichi Vendola non ha niente a che vedere con il problema delle alleanze che il Partito democratico dovrà costruire con l’obiettivo di governare il paese. Rimango dell’opinione che, per formare un fronte progressista non chiuso in se stesso e capace di dialogare con il centro moderato, si debba passare innanzitutto da un confronto con Sel.
Non voglio neanche demonizzare lo strumento referendario ma, al tempo stesso, chiarire il motivo per il quale ritengo inopportuna questa scelta, soprattutto nel contesto attuale. Non sfugge ai promotori del referendum che il 2013 sarà l’anno delle elezioni politiche e che, di conseguenza, il referendum non si potrà tenere. Capisco la carica simbolica di questa iniziativa e la volontà di avere un contenuto da sbandierare ma, proprio per questo, ritengo che la scelta sia sbagliata perché abbiamo bisogno di dare soluzioni concrete alle questioni sociali che riguardano il paese, piuttosto che alludere a salvifiche e futuribili soluzioni difficili da realizzare.
Inoltre, il Pd si candida con i suoi alleati a governare il paese ed è in questa prospettiva che dobbiamo proporre, attraverso un programma ben radicato nei temi sociali, di correggere le riforme delle pensioni e del lavoro volute dal governo Monti in quelle parti che peggiorano la condizione di vita dei lavoratori. Sarà dunque la via legislativa quella che dobbiamo privilegiare per indirizzare l’azione del futuro governo verso scelte equilibrate di rigore, sviluppo ed equità. Per quanto riguarda il merito, a proposito dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, penso che il compromesso raggiunto con il governo, grazie all’azione incisiva del Partito democratico, che ripristina la tutela reale anche per i licenziamenti di carattere economico consentendo un’alternativa “alla tedesca” tra risarcimento e reintegrazione nel posto di lavoro, vada preservato.
Va piuttosto effettuato un serio monitoraggio relativo all’impatto della riforma sul mercato del lavoro reale, individuando le correzioni che si renderanno necessarie anche a seguito di un approfondito confronto con le parti sociali. Una verifica sul campo si rende necessaria perché è lo strumento più idoneo per trovare la giusta convergenza tra imprese e sindacati che, non dimentichiamolo, hanno già redatto su questa materia un avviso comune trasformato in legge dalla camera.
Per quanto riguarda, infine, la questione dell’articolo 8 del dl 138/2011 voluto da Sacconi e convertito nella legge 148 del 2011, a mio avviso esso va cancellato. Abbiamo avversato a suo tempo questa soluzione e dobbiamo continuare a farlo, non per pregiudizio ideologico, ma nella consapevolezza che la derogabilità delle leggi e dei contratti negli accordi stipulati a livello aziendale e territoriale, va nella direzione di destrutturare il quadro normativo e di regole a livello nazionale. Viceversa, come ha di recente ricordato il presidente del consiglio, dobbiamo enfatizzare il ruolo contrattuale delle parti sociali valorizzando l’accordo interconfederale del 28 giugno dello scorso anno. Un’ultima notazione: quando si decide di promuovere una prova referendaria ci si deve anche preoccupare di vincerla. La mia storia politica e sindacale mi riporta alla memoria il referendum del 1985, anno nel quale si giocò l’enorme partita politica della scala mobile. Pensavamo di vincere, ma così non è stato. Non ci eravamo accorti del grande cambiamento avvenuto in quegli anni nel corpo sociale del paese.
Non dobbiamo commettere nuovi errori e soprattutto ancorare la nostra azione ad una forte politica riformista che guardi ai giovani e che si preoccupi di salvaguardare i diritti dei lavoratori e dei pensionati con riforme che siano caratterizzate finalmente dall’equità sociale e dalla difesa dei più deboli.
da Europa Quotidiano 13.09.12
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Damiano:«Perché riaprire una battaglia già vinta?», di Maria Zegarelli
«Mi auguro che non ci siano altri motivi di divisione nel Pd». Almeno non sui referendum, spera Cesare Damiano che sulla riforma del Lavoro non è mai stato tenero con il governo ma non per questo condivide l’iniziativa. Damiano, lei non era d’accordo con la modifica dell’articolo 18 ma non le piacciono questi referendum. Perché? «Intanto non commettiamo l’errore di confondere i referendum, presentati tra gli altri anche da Sel, con le alleanze del Pd. Noi dobbiamo continuare sulla strada della costruzione di una proposta politica progressista e Sel è un interlocutore fondamentale. Detto questo ritengo la scelta dei referendum inopportuna e sbagliata».
Perché? Non si deve cambiare l’articolo 18?
«Prima di tutto perché i promotori sanno perfettamente che nel 2013 ci saranno le elezioni politiche e quindi non si potrà tenere alcun referendum. Non condivido una posizione di bandiera e propagandistica perché prediligo la soluzione reale dei problemi. Inoltre, trovo questa scelta contraddittoria con la prospettiva di governo. Il Pd vuole governare il Paese ed è la via legislativa quella da privilegiare per correggere le riforme sociali di questo governo, come pensioni e mercato del lavoro, nelle parti che peggiorano la condizione di vita dei lavoratori».
Ma nel merito dei quesiti, lei non condivide nulla?
«Penso, a differenza di Vendola, che il compromesso raggiunto, grazie a un’iniziativa politica forte del Pd e di Bersani, sull’articolo 18 non sia più da modificare. Sulla riforma del mercato del lavoro non ho mancato di far senti- re la mia opinione critica, ma credo sia necessario un vero monitoraggio dell’impatto della riforma sul mercato reale per poi procedere con le correzio- ni, sentendo le parti sociali, sindacati e imprese».
Eppure finora non risulta che la modifica dell’articolo 18 abbia provocato tanti cambiamenti nel mercato del lavoro. «Voglio ricordare che la proposta iniziale del governo era quella di non consentire la reintegrazione nel posto di lavoro in seguito a un licenziamento per motivi economici. Noi abbiamo imposto una profonda correzione che ha reintrodotto, accanto al risarcimento, la possibilità di reintegrare il lavoratore, ossia una soluzione alla tedesca. Mi sembra si sia raggiunto un buon com- promesso e se ci saranno delle correzioni da fare, sulla base dei casi che la magistratura esaminerà e sulla base dei suggerimenti delle parti sociali, allora affronteremo la questione».
Lei dice: “alleanze e referendum non devono essere confusi”. Ma si è creato un problema con Vendola?
«Sarebbe stato meglio non presentarli, ma non possiamo inibire una autonoma iniziativa di partito. Aggiungo che l’articolo 8, voluto da Sacconi, andrebbe cancellato perché affidare la derogabilità di leggi e contratti alla contrattazione di azienda di territorio vuol dire distruggere un quadro di normativa nazionale. Ma non voglio aspettare l’esito di un referendum: vorrei fosse uno dei primi atti legislativi di un governo di centrosinistra».
L’Unita 13.09.12

"Ora l'Europa non ha più alibi", di Franco Bruni

La Corte costituzionale tedesca ha dato il semaforo verde all’Esm, il Meccanismo Europeo di Stabilità, il cosiddetto fondo salva-stati permanente che sostituirà quelli temporanei con i quali finora sono stati erogati aiuti a Grecia, Irlanda e Portogallo. Le motivazioni della Corte possono essere lette con maggiore o minore ottimismo. Viene qualche fastidio nel vedere l’insistente sottolineatura con cui è richiamata la legislazione esistente, in base alla quale il Parlamento di Berlino mantiene forti poteri di continua interferenza nelle decisioni dell’Esm, che pure è un’istituzione intergovernativa nel cui direttivo la Germania è rappresentata coi voti del «maggior azionista». E’ un richiamo che ricorda che non mancheranno residui poteri di veto nell’esercizio di una solidarietà con cui l’Europa, in fondo, salva tutta se stessa. Ma è anche un richiamo che, in Germania, rafforza la Corte nei confronti dei nemici dell’Esm e riflette i limiti del meccanismo come è stato concepito: cioè scarsamente autonomo dal concerto politico dei Paesi membri nell’affrontare le minacce alla stabilità sistemica dell’euro area; meno rapido e pronto di quanto sarebbe desiderabile per adottare tempestivamente le innovazioni e le iniziative più opportune, nel mare agitato e violento della finanza internazionale. L’Esm finirà per mostrare, quasi inevitabilmente e non solo per colpa dei tedeschi, un po’ di lentezza e pesantezza politica di troppo.

In compenso il testo della Corte riporta sinteticamente le opinioni, circa il ricorso di anticostituzionalità, raccolte sentendo il governo e il Parlamento di Berlino. Sono opinioni favorevoli al semaforo verde e alcune sono limpido e incoraggiante buon senso. Per esempio quella che sottolinea la sopportabilità del rischio massimo che corre il bilancio tedesco: perdere 190 miliardi. E quella che ricorda come questo genere di solidarietà intergovernativa non ha alternative, volendo mantenere la stabilità finanziaria in Europa e come il mancato sostegno dei debitori in difficoltà causerebbe alla stessa Germania costi molto maggiori di quelli che rischia contribuendo all’Esm.

Nel complesso credo che sia giustificato il prevalere dell’ottimismo con cui la pronuncia è stata accolta, sia dai mercati che da un ampio spettro politico, dentro e fuori la Germania. In sostanza la Corte nega l’esistenza, nella Costituzione tedesca, di seri ostacoli alla solidarietà finanziaria necessaria per proseguire l’integrazione europea. E il modo in cui lo nega è tale da sottolineare incisivamente la responsabilità politica del Parlamento. Come dire ai politici di non cercar scuse: se vogliono fare l’Europa più profonda e solidale non saranno bloccati dal testo della Legge Fondamentale che, in sostanza, vuole solo assicurarsi che il Parlamento tedesco abbia sempre il controllo della situazione. Ma è una situazione, quella della moneta e della finanza europee, della quale la Corte stessa sottolinea le inevitabili evoluzioni, compresa quella implicita nel progetto annunciato da Draghi per concertare gli interventi della Bce sul mercato dei titoli di Stato con l’aiuto «condizionato» offerto dall’Esm.

Dopo la Bce, anche la Corte tedesca ha dunque tolto un alibi all’intera politica europea, che a volte pare cercar di frenare, proprio mentre li sta disegnando, i progressi istituzionali dell’Ue, cioè il grande salto di qualità dell’integrazione. Senza il salto, qualunque modo di uscire dalla crisi monetaria, finanziaria ed economica è fragile e precario. Ora l’Esm va istituito davvero e messo rapidamente in grado di funzionare in pieno. Non sarebbe male pensare a non tardar troppo ad aumentarne la capitalizzazione. L’Esm è anche molto importante perché può intervenire nella ricapitalizzazione delle banche, ma solo dopo che un altro punto urgentissimo dell’agenda europea sarà realizzato: la centralizzazione della vigilanza bancaria presso la Bce, anche a supporto di una gestione comunitaria delle crisi bancarie. Su questo fronte i tedeschi devono vincere un’altra battaglia: quella con la lobby delle loro banche piccole e medie, con speciali relazioni politiche, che vorrebbero rimanere sotto il controllo nazionale.

E poi: avanti ancora. I presidenti della Commissione, del Consiglio, dell’Eurogruppo e della Bce hanno in agenda, ufficialmente, passi ulteriori verso l’unione fiscale e verso innovazioni istituzionali nell’unione politica europea che accrescano la legittimazione democratica delle decisioni comunitarie. Il nostro presidente del Consiglio ha chiesto di pensare a un vertice Ue per unire meglio le forze contro i populisti euroscettici: c’è abbastanza materiale in programma per evitare che un’iniziativa così preziosa risulti astratta e retorica. Dobbiamo convincere i cittadini che l’avanzamento dell’Ue non ha alternative e ha grandi vantaggi collettivi: serve buona comunicazione di messaggi e decisioni concrete. Fra le quali non sarebbe male includere, vincendo resistenze ancora soprattutto tedesche, la concessione di qualche tempo di più ai Paesi europei maggiormente in difficoltà per aggiustare il loro deficit pubblico in una fase di acuta recessione; pretendendo in cambio manovre di aggiustamento dei deficit pubblici qualitativamente migliori e più tempestivamente implementate nei dettagli.

D’altra parte il sollievo per il pronunciamento della Corte sarebbe speso male se i Paesi tutti, compresa la Germania, ne traessero ragioni per diminuire gli sforzi di riforme strutturali che devono cambiare il funzionamento microeconomico dei Paesi membri, rilanciare il mercato unico, migliorare l’efficienza delle amministrazioni pubbliche e la competitività delle produzioni private. Auguriamoci che l’aver tolto la spada di Damocle della Corte tedesca serva alla politica tutta, nazionale e internazionale, come stimolo a lavorare di più e meglio per dare ai cittadini europei le regole e le istituzioni per poter essere governati come si meritano.

La Stampa 13.09.12

"Ora l'Europa non ha più alibi", di Franco Bruni

La Corte costituzionale tedesca ha dato il semaforo verde all’Esm, il Meccanismo Europeo di Stabilità, il cosiddetto fondo salva-stati permanente che sostituirà quelli temporanei con i quali finora sono stati erogati aiuti a Grecia, Irlanda e Portogallo. Le motivazioni della Corte possono essere lette con maggiore o minore ottimismo. Viene qualche fastidio nel vedere l’insistente sottolineatura con cui è richiamata la legislazione esistente, in base alla quale il Parlamento di Berlino mantiene forti poteri di continua interferenza nelle decisioni dell’Esm, che pure è un’istituzione intergovernativa nel cui direttivo la Germania è rappresentata coi voti del «maggior azionista». E’ un richiamo che ricorda che non mancheranno residui poteri di veto nell’esercizio di una solidarietà con cui l’Europa, in fondo, salva tutta se stessa. Ma è anche un richiamo che, in Germania, rafforza la Corte nei confronti dei nemici dell’Esm e riflette i limiti del meccanismo come è stato concepito: cioè scarsamente autonomo dal concerto politico dei Paesi membri nell’affrontare le minacce alla stabilità sistemica dell’euro area; meno rapido e pronto di quanto sarebbe desiderabile per adottare tempestivamente le innovazioni e le iniziative più opportune, nel mare agitato e violento della finanza internazionale. L’Esm finirà per mostrare, quasi inevitabilmente e non solo per colpa dei tedeschi, un po’ di lentezza e pesantezza politica di troppo.
In compenso il testo della Corte riporta sinteticamente le opinioni, circa il ricorso di anticostituzionalità, raccolte sentendo il governo e il Parlamento di Berlino. Sono opinioni favorevoli al semaforo verde e alcune sono limpido e incoraggiante buon senso. Per esempio quella che sottolinea la sopportabilità del rischio massimo che corre il bilancio tedesco: perdere 190 miliardi. E quella che ricorda come questo genere di solidarietà intergovernativa non ha alternative, volendo mantenere la stabilità finanziaria in Europa e come il mancato sostegno dei debitori in difficoltà causerebbe alla stessa Germania costi molto maggiori di quelli che rischia contribuendo all’Esm.
Nel complesso credo che sia giustificato il prevalere dell’ottimismo con cui la pronuncia è stata accolta, sia dai mercati che da un ampio spettro politico, dentro e fuori la Germania. In sostanza la Corte nega l’esistenza, nella Costituzione tedesca, di seri ostacoli alla solidarietà finanziaria necessaria per proseguire l’integrazione europea. E il modo in cui lo nega è tale da sottolineare incisivamente la responsabilità politica del Parlamento. Come dire ai politici di non cercar scuse: se vogliono fare l’Europa più profonda e solidale non saranno bloccati dal testo della Legge Fondamentale che, in sostanza, vuole solo assicurarsi che il Parlamento tedesco abbia sempre il controllo della situazione. Ma è una situazione, quella della moneta e della finanza europee, della quale la Corte stessa sottolinea le inevitabili evoluzioni, compresa quella implicita nel progetto annunciato da Draghi per concertare gli interventi della Bce sul mercato dei titoli di Stato con l’aiuto «condizionato» offerto dall’Esm.
Dopo la Bce, anche la Corte tedesca ha dunque tolto un alibi all’intera politica europea, che a volte pare cercar di frenare, proprio mentre li sta disegnando, i progressi istituzionali dell’Ue, cioè il grande salto di qualità dell’integrazione. Senza il salto, qualunque modo di uscire dalla crisi monetaria, finanziaria ed economica è fragile e precario. Ora l’Esm va istituito davvero e messo rapidamente in grado di funzionare in pieno. Non sarebbe male pensare a non tardar troppo ad aumentarne la capitalizzazione. L’Esm è anche molto importante perché può intervenire nella ricapitalizzazione delle banche, ma solo dopo che un altro punto urgentissimo dell’agenda europea sarà realizzato: la centralizzazione della vigilanza bancaria presso la Bce, anche a supporto di una gestione comunitaria delle crisi bancarie. Su questo fronte i tedeschi devono vincere un’altra battaglia: quella con la lobby delle loro banche piccole e medie, con speciali relazioni politiche, che vorrebbero rimanere sotto il controllo nazionale.
E poi: avanti ancora. I presidenti della Commissione, del Consiglio, dell’Eurogruppo e della Bce hanno in agenda, ufficialmente, passi ulteriori verso l’unione fiscale e verso innovazioni istituzionali nell’unione politica europea che accrescano la legittimazione democratica delle decisioni comunitarie. Il nostro presidente del Consiglio ha chiesto di pensare a un vertice Ue per unire meglio le forze contro i populisti euroscettici: c’è abbastanza materiale in programma per evitare che un’iniziativa così preziosa risulti astratta e retorica. Dobbiamo convincere i cittadini che l’avanzamento dell’Ue non ha alternative e ha grandi vantaggi collettivi: serve buona comunicazione di messaggi e decisioni concrete. Fra le quali non sarebbe male includere, vincendo resistenze ancora soprattutto tedesche, la concessione di qualche tempo di più ai Paesi europei maggiormente in difficoltà per aggiustare il loro deficit pubblico in una fase di acuta recessione; pretendendo in cambio manovre di aggiustamento dei deficit pubblici qualitativamente migliori e più tempestivamente implementate nei dettagli.
D’altra parte il sollievo per il pronunciamento della Corte sarebbe speso male se i Paesi tutti, compresa la Germania, ne traessero ragioni per diminuire gli sforzi di riforme strutturali che devono cambiare il funzionamento microeconomico dei Paesi membri, rilanciare il mercato unico, migliorare l’efficienza delle amministrazioni pubbliche e la competitività delle produzioni private. Auguriamoci che l’aver tolto la spada di Damocle della Corte tedesca serva alla politica tutta, nazionale e internazionale, come stimolo a lavorare di più e meglio per dare ai cittadini europei le regole e le istituzioni per poter essere governati come si meritano.
La Stampa 13.09.12

"Il fuoco dell´estremismo sulla primavera araba", di Lucio Caracciolo

L´obiettivo strategico dei jihadisti che hanno assassinato l´ambasciatore americano a Tripoli è la strana ma efficiente alleanza Stati Uniti-Fratelli musulmani emersa dalla «primavera araba». L´identico bersaglio dei salafiti che nelle stesse ore si sono scatenati contro la sede diplomatica Usa al Cairo per protestare contro il provocatorio film su Maometto.
Un film prodotto da un oscuro uomo d´affari israelo–americano, sponsorizzato da donatori ebrei, cristiani copti egiziani e ultrareazionari protestanti americani. La coincidenza con l´anniversario dell´11 settembre e con l´avvio della fase decisiva della campagna per la Casa Bianca accentua l´eco di eventi già traumatici.
Poco importa se la coincidenza fra la diffusione in Internet di alcuni estratti del film antimaomettano, l´assassinio del diplomatico americano e le proteste nella capitale egiziana – destinate a diffondersi nel vasto arcipelago islamico – sia o meno frutto di premeditazione. Contano gli effetti, non solo in Nordafrica ma in tutto il Grande Medio Oriente. È troppo presto per stabilirli, non per ragionare sulla dinamica degli eventi in Libia e in Egitto, come sul modo in cui vorrà reagire l´America.
Partiamo dalla Libia. Il regime di Gheddafi è crollato, ma non ne è nato uno nuovo. Anzi, nelle ultime settimane la violenza si è riaccesa, non solo nel profondo Sud, dove ancora si asserragliano i reduci del colonnello. Il governo legittimato dal voto è tuttora in gestazione, mentre le milizie che hanno vinto la guerra civile non intendono disarmare. E spesso si sparano addosso. Recentemente a Tripoli sono tornate ad esplodere le autobomba. I salafiti – musulmani radicali – hanno dato l´assalto a siti storici di confraternite sufi, vocazionalmente pacifiche e moderate. In Cirenaica si concentrano i jihadisti, alcuni dei quali reduci dall´Iraq o pendolari da e per la Siria, tra i quali i responsabili della strage di Bengasi, probabilmente preparata da tempo. Presso Derna sono installati alcuni campi gestiti da qaidisti, sorvegliati dall´alto dai droni americani. Polizia ed esercito in ricostituzione non sono in grado di affrontarli. Le tribù locali girano al largo.
Alcuni osservatori occidentali preconizzano un nuovo Afghanistan alla nostra frontiera meridionale. Esagerano, probabilmente. Non più di quanto facciano i cantori della Libia democratica, che immaginano uno Stato libero e democratico dove invece regna l´anomia. Intanto i pallidi rappresentanti della “nuova Libia” accusano americani ed europei di averli abbandonati a loro stessi.
Quanto all´Egitto, è il modello dell´intesa Fratelli musulmani-Stati Uniti. Dopo averli bollati per decenni come terroristi, Washington ha deciso di puntare sugli islamisti quali provvisori sostituti dei dittatori amici liquidati dalle rivolte, in assenza di alternative al caos permanente. I rivoluzionari filo-occidentali della prima ora si sono rivelati troppo deboli e divisi, un po´ come i dissidenti dell´Est dopo il crollo del Muro. Quanto ai militari egiziani, infiltrati dagli islamisti, hanno dovuto accettare l´inversione dei ruoli nel flessibile patto di non aggressione da tempo stipulato con i Fratelli: oggi a dettar legge sono questi ultimi, guidati dallo scaltro presidente Mohamed Morsi, mentre le gerarchie dell´esercito mordono il freno.
L´ala estremista dei salafiti mal sopporta però il nuovo regime, così come, sul fronte opposto, la corposa minoranza copta. Il successo ottenuto dal partito salafita alle elezioni (un quarto dei voti) indica che la corrente più radicale dell´islam egiziano è un fattore con cui i Fratelli – e i militari – devono fare i conti. Se il clima dovesse infiammarsi, per causa dell´ennesima provocazione dei crociati antimaomettani, e se la crisi economica dovesse inasprirsi, gli equilibri allestiti in questi mesi potrebbero saltare.
Sempre che non ci pensino gli israeliani, attaccando l´Iran, a riazzerare l´intera partita mediorientale. Una mossa da roulette russa. Con i terroristi islamici che rialzano la testa, Gerusalemme potrebbe invocare una ragione in più per rovesciare il tavolo – e la mal digerita intesa Fratelli musulmani-Stati Uniti.
E l´America? Mentre Romney lo accusa di debolezza verso i terroristi, Obama esibisce il suo leggendario sangue freddo. Salvo stupirsi per il fatto che l´attacco sia avvenuto “in un paese che abbiamo contribuito a liberare, in una città che abbiamo salvato dalla distruzione”. Questo per il pubblico. Senza troppo clamore, è scontato che droni Usa bombarderanno le basi jihadiste in Cirenaica e qualche effettivo o presunto caporione qaidista sarà liquidato in stile israeliano. Di tutto ha bisogno Obama meno che di rimettere in discussione lo strombazzato successo contro al-Qaida, sigillato con lo scalpo di bin Laden – peraltro mai esibito. Ogni mossa del presidente, nelle prossime settimane, sarà unicamente calibrata sulla rielezione. Purtroppo storia e cronaca confermano che raramente i fatti si conformano all´agenda della democrazia americana.

La Repubblica 13.09.12

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“Quella irresponsabile parodia del profeta”, di ADRIANO SOFRI

CHE un film, anche il più grossolano, o un romanzo, o dei disegni satirici, possano scatenare furia di folle e linciaggio (e pretesti di guerre e guerre di pretesti) è solo un segno della durata strenua, e spesso della recrudescenza, dello stato ferino sopra il quale la civiltà è passata come una vernice trasparente. E la smisurata differenza fra i modi di sentire e di sfruttare l´esperienza religiosa non può essere ignorata.
Il cosiddetto reverendo Terry Jones, che si compiace periodicamente di farla grossa bruciando Corani in pubblico e si è precipitato ieri sulla nuova occasione, è un fanatico impostore, e ha una quantità di colleghi e concorrenti nella nostra parte di mondo. Ma nei giorni appena scorsi, quando si giocava il destino della bambina pachistana Rimsha, undicenne cristiana con la sindrome di Down, accusata calunniosamente di aver bruciato alcune pagine del Corano e incarcerata, non ci furono assalti alle ambasciate e nemmeno, salvo che mi siano sfuggiti, più misurate manifestazioni di sdegno di fronte a una simile infamia. Le differenze ci sono, e fanno sì che non si possa cavarsela una volta per tutte, in nome della libertà d´espressione da una parte, o del rispetto per i sentimenti altrui dall´altra.
La reazione che ha improvvisamente incendiato, in un 11 settembre, il Cairo e Bengasi, e contagerà altri paesi, è opera di farabutti professionali e di folle fanatizzate, e nessun pretesto basta a giustificarle. C´è però un cartello all´ingresso del pianeta di oggi, che avvisa del pericolo d´incendio, e avverte di non giocare con le scintille. Dunque guardiamo il film, anzi il trailer del film, che ha fatto da scintilla questa volta. Ha covato a lungo, del resto, poco guardato in un paio di siti YouTube, pochissimo in un cinema di Hollywood. Poi i piromani l´hanno scoperto.
Ad aprire il trailer (quasi 14 minuti sulle due ore del film intero) si ha subito l´impressione di aver sbagliato il filmato, e che qui si tratti di una parodia abborracciata. Invece è proprio lui, costato 5 milioni di dollari e tre mesi di riprese, dice l´autore: soldi e mesi buttati, quanto alla fattura tecnica. Titolo: “L´innocenza dei musulmani”, che vuol dire il contrario. Il proposito è di rivelare «la vera vita di Muhammad». Si apre con l´aggressione di un manipolo di islamisti fanatici a una farmacia gestita da cristiani copti, che assassinano una giovane donna e devastano il locale. La polizia egiziana, arrivata in assetto di guerra su una jeep, non interviene: non fino a che avranno completato l´opera, ordina il loro capo. Un vegliardo musulmano ordina a sua volta ai suoi giovani scherani di dare fuoco a tutto ciò che è cristiano. Il farmacista dice ai suoi di casa che la polizia islamica ha arrestato 14 mila cristiani per costringerli a confessare gli omicidi, e formula un´equazione secondo cui l´uomo più un fattore sconosciuto x è uguale al terrorismo islamico; il terrorismo islamico senza quella x è l´uomo. Che cosa è x, sta allo spettatore scoprirlo.
Dopo la premessa contemporanea, si passa alla nascita di Maometto. Sono spezzoni di racconto, com´è del trailer, e questo accentua l´effetto grossolanamente caricaturale. Un uomo giovane intima al padre di prendere il bambino con sé e di allevarlo, magari come uno schiavo. E di chiamarlo Muhammad, nome che significherebbe di padre ignoto – bastardo.
Scena successiva: le visioni del giovane Muhammad sono curate da una fanciulla. «Lo vedi?» «Sì». «Metti la testa fra le mie cosce. Lo vedi ancora?» «No». Segue una scena di investitura di un asino come primo animale musulmano. Un asino parlante, che risponde alle domande, per esempio se gli piacciano le donne: no, non gli piacciono. Ora viene dichiarato il proposito di Muhammad di fare un libro a metà fra la Torah e il Nuovo testamento, per cui si chiede l´aiuto del cugino, morto il quale Muhammad, disperato, vuole andare a buttarsi giù dalla montagna, o trovare un altro espediente.
Poi addestra a catturare donne bambini e animali, e uccidere tutti gli uomini. Dei bambini, usare e abusare. Quanto alla Costituzione, basta e avanza il Corano. Segue una lezione sull´eccezione per cui le donne, anche sposate, devono darsi a lui che è il maestro. Poi l´interpretazione del passo biblico sulla distruzione di Gerico: dunque ora tocca agli ebrei ritirarsi in Palestina o accettare l´estorsione. Chiunque non segua l´Islam del resto ha solo due scelte: pagare o morire. Adesso i suoi, dopo essere andati a procurargli la sposa bambina, si chiedono se non sia anche omosessuale. Un´anziana donna che ne denuncia le malefatte viene legata per le gambe a due cammelli e oscenamente squartata. Un giovane ebreo viene torturato e trucidato davanti a sua moglie, muore pregando che Dio se ne ricordi. Ora sono le sue donne che lo inseguono a colpi di ciabatta nella tenda, perché ha tradito Aisha.
Ho riassunto così dettagliatamente il trailer non perché pensassi che i miei eventuali lettori non l´abbiano guardato – l´avranno fatto, per lo più – ma perché a rileggere la sceneggiatura in compendio, sia pure accanto a trivialità troppo spinte, si scopre che gran parte delle notizie su cui è costruita appartengono da sempre alla controversia storica e alla polemica anti-islamica. Offensivo degli altrui sentimenti è il modo di trattarle. Il «rispetto» – il proposito di non dare scandalo – è parente stretto dell´ipocrisia, ma una dose di ipocrisia è indispensabile ai rapporti umani, quelli privati come quelli fra i popoli e gli Stati. Gli autori di questo ridicolo film sembrano essersi proposti come ideale la mancanza di rispetto e la cialtroneria. Decidendo di essere irresponsabili, se ne sono presi la responsabilità. «Non pensavamo…», diranno loro. Nemmeno l´allora ministro in maglietta di questa Repubblica, Roberto Calderoli, pensava che avrebbero assaltato il consolato italiano a Bengasi, e che negli scontri sarebbero morte 14 persone. Succedeva sei anni fa. Qualche giorno fa hanno revocato la scorta di otto persone che senza interruzione, anche in sua assenza, presidiava una sua villa nel bergamasco. La situazione del mondo è infatti tragicomica.

La Repubblica 13.09.12

"Il fuoco dell´estremismo sulla primavera araba", di Lucio Caracciolo

L´obiettivo strategico dei jihadisti che hanno assassinato l´ambasciatore americano a Tripoli è la strana ma efficiente alleanza Stati Uniti-Fratelli musulmani emersa dalla «primavera araba». L´identico bersaglio dei salafiti che nelle stesse ore si sono scatenati contro la sede diplomatica Usa al Cairo per protestare contro il provocatorio film su Maometto.
Un film prodotto da un oscuro uomo d´affari israelo–americano, sponsorizzato da donatori ebrei, cristiani copti egiziani e ultrareazionari protestanti americani. La coincidenza con l´anniversario dell´11 settembre e con l´avvio della fase decisiva della campagna per la Casa Bianca accentua l´eco di eventi già traumatici.
Poco importa se la coincidenza fra la diffusione in Internet di alcuni estratti del film antimaomettano, l´assassinio del diplomatico americano e le proteste nella capitale egiziana – destinate a diffondersi nel vasto arcipelago islamico – sia o meno frutto di premeditazione. Contano gli effetti, non solo in Nordafrica ma in tutto il Grande Medio Oriente. È troppo presto per stabilirli, non per ragionare sulla dinamica degli eventi in Libia e in Egitto, come sul modo in cui vorrà reagire l´America.
Partiamo dalla Libia. Il regime di Gheddafi è crollato, ma non ne è nato uno nuovo. Anzi, nelle ultime settimane la violenza si è riaccesa, non solo nel profondo Sud, dove ancora si asserragliano i reduci del colonnello. Il governo legittimato dal voto è tuttora in gestazione, mentre le milizie che hanno vinto la guerra civile non intendono disarmare. E spesso si sparano addosso. Recentemente a Tripoli sono tornate ad esplodere le autobomba. I salafiti – musulmani radicali – hanno dato l´assalto a siti storici di confraternite sufi, vocazionalmente pacifiche e moderate. In Cirenaica si concentrano i jihadisti, alcuni dei quali reduci dall´Iraq o pendolari da e per la Siria, tra i quali i responsabili della strage di Bengasi, probabilmente preparata da tempo. Presso Derna sono installati alcuni campi gestiti da qaidisti, sorvegliati dall´alto dai droni americani. Polizia ed esercito in ricostituzione non sono in grado di affrontarli. Le tribù locali girano al largo.
Alcuni osservatori occidentali preconizzano un nuovo Afghanistan alla nostra frontiera meridionale. Esagerano, probabilmente. Non più di quanto facciano i cantori della Libia democratica, che immaginano uno Stato libero e democratico dove invece regna l´anomia. Intanto i pallidi rappresentanti della “nuova Libia” accusano americani ed europei di averli abbandonati a loro stessi.
Quanto all´Egitto, è il modello dell´intesa Fratelli musulmani-Stati Uniti. Dopo averli bollati per decenni come terroristi, Washington ha deciso di puntare sugli islamisti quali provvisori sostituti dei dittatori amici liquidati dalle rivolte, in assenza di alternative al caos permanente. I rivoluzionari filo-occidentali della prima ora si sono rivelati troppo deboli e divisi, un po´ come i dissidenti dell´Est dopo il crollo del Muro. Quanto ai militari egiziani, infiltrati dagli islamisti, hanno dovuto accettare l´inversione dei ruoli nel flessibile patto di non aggressione da tempo stipulato con i Fratelli: oggi a dettar legge sono questi ultimi, guidati dallo scaltro presidente Mohamed Morsi, mentre le gerarchie dell´esercito mordono il freno.
L´ala estremista dei salafiti mal sopporta però il nuovo regime, così come, sul fronte opposto, la corposa minoranza copta. Il successo ottenuto dal partito salafita alle elezioni (un quarto dei voti) indica che la corrente più radicale dell´islam egiziano è un fattore con cui i Fratelli – e i militari – devono fare i conti. Se il clima dovesse infiammarsi, per causa dell´ennesima provocazione dei crociati antimaomettani, e se la crisi economica dovesse inasprirsi, gli equilibri allestiti in questi mesi potrebbero saltare.
Sempre che non ci pensino gli israeliani, attaccando l´Iran, a riazzerare l´intera partita mediorientale. Una mossa da roulette russa. Con i terroristi islamici che rialzano la testa, Gerusalemme potrebbe invocare una ragione in più per rovesciare il tavolo – e la mal digerita intesa Fratelli musulmani-Stati Uniti.
E l´America? Mentre Romney lo accusa di debolezza verso i terroristi, Obama esibisce il suo leggendario sangue freddo. Salvo stupirsi per il fatto che l´attacco sia avvenuto “in un paese che abbiamo contribuito a liberare, in una città che abbiamo salvato dalla distruzione”. Questo per il pubblico. Senza troppo clamore, è scontato che droni Usa bombarderanno le basi jihadiste in Cirenaica e qualche effettivo o presunto caporione qaidista sarà liquidato in stile israeliano. Di tutto ha bisogno Obama meno che di rimettere in discussione lo strombazzato successo contro al-Qaida, sigillato con lo scalpo di bin Laden – peraltro mai esibito. Ogni mossa del presidente, nelle prossime settimane, sarà unicamente calibrata sulla rielezione. Purtroppo storia e cronaca confermano che raramente i fatti si conformano all´agenda della democrazia americana.
La Repubblica 13.09.12
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“Quella irresponsabile parodia del profeta”, di ADRIANO SOFRI
CHE un film, anche il più grossolano, o un romanzo, o dei disegni satirici, possano scatenare furia di folle e linciaggio (e pretesti di guerre e guerre di pretesti) è solo un segno della durata strenua, e spesso della recrudescenza, dello stato ferino sopra il quale la civiltà è passata come una vernice trasparente. E la smisurata differenza fra i modi di sentire e di sfruttare l´esperienza religiosa non può essere ignorata.
Il cosiddetto reverendo Terry Jones, che si compiace periodicamente di farla grossa bruciando Corani in pubblico e si è precipitato ieri sulla nuova occasione, è un fanatico impostore, e ha una quantità di colleghi e concorrenti nella nostra parte di mondo. Ma nei giorni appena scorsi, quando si giocava il destino della bambina pachistana Rimsha, undicenne cristiana con la sindrome di Down, accusata calunniosamente di aver bruciato alcune pagine del Corano e incarcerata, non ci furono assalti alle ambasciate e nemmeno, salvo che mi siano sfuggiti, più misurate manifestazioni di sdegno di fronte a una simile infamia. Le differenze ci sono, e fanno sì che non si possa cavarsela una volta per tutte, in nome della libertà d´espressione da una parte, o del rispetto per i sentimenti altrui dall´altra.
La reazione che ha improvvisamente incendiato, in un 11 settembre, il Cairo e Bengasi, e contagerà altri paesi, è opera di farabutti professionali e di folle fanatizzate, e nessun pretesto basta a giustificarle. C´è però un cartello all´ingresso del pianeta di oggi, che avvisa del pericolo d´incendio, e avverte di non giocare con le scintille. Dunque guardiamo il film, anzi il trailer del film, che ha fatto da scintilla questa volta. Ha covato a lungo, del resto, poco guardato in un paio di siti YouTube, pochissimo in un cinema di Hollywood. Poi i piromani l´hanno scoperto.
Ad aprire il trailer (quasi 14 minuti sulle due ore del film intero) si ha subito l´impressione di aver sbagliato il filmato, e che qui si tratti di una parodia abborracciata. Invece è proprio lui, costato 5 milioni di dollari e tre mesi di riprese, dice l´autore: soldi e mesi buttati, quanto alla fattura tecnica. Titolo: “L´innocenza dei musulmani”, che vuol dire il contrario. Il proposito è di rivelare «la vera vita di Muhammad». Si apre con l´aggressione di un manipolo di islamisti fanatici a una farmacia gestita da cristiani copti, che assassinano una giovane donna e devastano il locale. La polizia egiziana, arrivata in assetto di guerra su una jeep, non interviene: non fino a che avranno completato l´opera, ordina il loro capo. Un vegliardo musulmano ordina a sua volta ai suoi giovani scherani di dare fuoco a tutto ciò che è cristiano. Il farmacista dice ai suoi di casa che la polizia islamica ha arrestato 14 mila cristiani per costringerli a confessare gli omicidi, e formula un´equazione secondo cui l´uomo più un fattore sconosciuto x è uguale al terrorismo islamico; il terrorismo islamico senza quella x è l´uomo. Che cosa è x, sta allo spettatore scoprirlo.
Dopo la premessa contemporanea, si passa alla nascita di Maometto. Sono spezzoni di racconto, com´è del trailer, e questo accentua l´effetto grossolanamente caricaturale. Un uomo giovane intima al padre di prendere il bambino con sé e di allevarlo, magari come uno schiavo. E di chiamarlo Muhammad, nome che significherebbe di padre ignoto – bastardo.
Scena successiva: le visioni del giovane Muhammad sono curate da una fanciulla. «Lo vedi?» «Sì». «Metti la testa fra le mie cosce. Lo vedi ancora?» «No». Segue una scena di investitura di un asino come primo animale musulmano. Un asino parlante, che risponde alle domande, per esempio se gli piacciano le donne: no, non gli piacciono. Ora viene dichiarato il proposito di Muhammad di fare un libro a metà fra la Torah e il Nuovo testamento, per cui si chiede l´aiuto del cugino, morto il quale Muhammad, disperato, vuole andare a buttarsi giù dalla montagna, o trovare un altro espediente.
Poi addestra a catturare donne bambini e animali, e uccidere tutti gli uomini. Dei bambini, usare e abusare. Quanto alla Costituzione, basta e avanza il Corano. Segue una lezione sull´eccezione per cui le donne, anche sposate, devono darsi a lui che è il maestro. Poi l´interpretazione del passo biblico sulla distruzione di Gerico: dunque ora tocca agli ebrei ritirarsi in Palestina o accettare l´estorsione. Chiunque non segua l´Islam del resto ha solo due scelte: pagare o morire. Adesso i suoi, dopo essere andati a procurargli la sposa bambina, si chiedono se non sia anche omosessuale. Un´anziana donna che ne denuncia le malefatte viene legata per le gambe a due cammelli e oscenamente squartata. Un giovane ebreo viene torturato e trucidato davanti a sua moglie, muore pregando che Dio se ne ricordi. Ora sono le sue donne che lo inseguono a colpi di ciabatta nella tenda, perché ha tradito Aisha.
Ho riassunto così dettagliatamente il trailer non perché pensassi che i miei eventuali lettori non l´abbiano guardato – l´avranno fatto, per lo più – ma perché a rileggere la sceneggiatura in compendio, sia pure accanto a trivialità troppo spinte, si scopre che gran parte delle notizie su cui è costruita appartengono da sempre alla controversia storica e alla polemica anti-islamica. Offensivo degli altrui sentimenti è il modo di trattarle. Il «rispetto» – il proposito di non dare scandalo – è parente stretto dell´ipocrisia, ma una dose di ipocrisia è indispensabile ai rapporti umani, quelli privati come quelli fra i popoli e gli Stati. Gli autori di questo ridicolo film sembrano essersi proposti come ideale la mancanza di rispetto e la cialtroneria. Decidendo di essere irresponsabili, se ne sono presi la responsabilità. «Non pensavamo…», diranno loro. Nemmeno l´allora ministro in maglietta di questa Repubblica, Roberto Calderoli, pensava che avrebbero assaltato il consolato italiano a Bengasi, e che negli scontri sarebbero morte 14 persone. Succedeva sei anni fa. Qualche giorno fa hanno revocato la scorta di otto persone che senza interruzione, anche in sua assenza, presidiava una sua villa nel bergamasco. La situazione del mondo è infatti tragicomica.
La Repubblica 13.09.12

"Il debito italiano nasce a scuola", di Alessandra Ricciardi

La bassa competitività del sistema Paese inizia dal basso, dalla scuola. Che, nonostante i miglioramenti dell’ultimo ventennio, mostra di essere ingessata rispetto alla sfide del sistema globale e soprattutto di aver rinunciato alla mission che l’aveva caratterizzata negli anni del boom economico, quella di fare da ascensore sociale.
L’atto di accusa è dell’Ocse, che nell’ultimo rapporto sull’educazione evidenzia investimenti inferiori alla media dei paesi europei, alti tassi di disoccupazione giovanile combinati ad alti tassi di dispersione scolastica. E poi, insegnanti mal pagati e per giunta in avanti con gli anni. Il premier Mario Monti ieri, in un momento di estrema sincerità nel confronto con le parti sociali sulla crisi, ha ammesso che le politiche di rigore inferte dal suo esecutivo hanno certamente peggiorato la recessione. Ma che è stata una scelta inevitabile per tenere sotto controllo il debito pubblico.

La scuola è stata, da ben prima di Monti, il terreno privilegiato delle politiche restrittive della spesa dello stato. La manovra più consistente è stata quella dell’ultimo governo Berlusconi: con il decreto legge 112/2008 il ministro dell’economia Giulio Tremonti dettò in pratica la riforma della scuola di Mariastella Gelmini, che doveva raggiungere l’obiettivo di ridurre di 8 miliardi la spesa dello stato, eliminando 120 mila posti di lavoro. E così l’Ocse fotografa come l’anno dopo (la ricerca infatti è riferiva ai dati del 2009) l’Italia sia stata penultima per investimenti, con una spesa pubblica pari al 4,7% del Pil, inferiore di quasi un punto percentuale rispetto alla media Ocse (5,8%), ovvero tra i 15 e i 16 miliardi di euro in meno. Il trend? Negativo, tra il 2002 e il 2009 la spesa dello stato è sempre diminuita. É aumentata invece la spesa dei privati. A differenza però di altri paesi, l’Italia investe sull’infanzia: i bambini di tre anni per il 93% vanno a scuola, contro il 66% delle media Ocse. La situazione peggiora con le medie e poi le superiori, che segnano l’inizio del disastro della dispersione scolastica: il 23% dei giovani italiani tra i 15 e i 29 anni appartiene alla generazione dei NEET, ovvero non studia, ma neppure lavora, rispetto a una media Ocse del 16%, e in crescita con la crisi del 2008 dopo il calo che si era registrato all’inizio degli anni Duemila. Il rapporto segnala anche la difficoltà per i laureati (che sono il 15%, contro la media Ocse del 31%) di trovare lavoro: il tasso di occupazione è sceso tra il 2002 e il 2010 dall’82,2% al 78,3%. Tra l’altro i figli di genitori con bassi livelli di istruzione non riescono a migliorare: solo il 9% dei ragazzi con genitori neanche diplomati riesce ad agguantare una laurea. L’ascensore sociale si è bloccato. «Troppi giovani scelgono percorsi destinati alla disoccupazione», commenta il vicepresidente di Confindustria per l’education, Ivan Lo Bello, «e troppe aziende non trovano i tecnici che cercano. Siamo ancora troppo condizionati dagli stereotipi del passato». Il problema è quello di un sistema che resta ingessato nella scelta dei licei e dà ancora poco spazio a tecnici e professionali. L’esperienza degli Its, gli istituti tecnici superiori, voluti dall’ex ministro Beppe Fioroni, stenta a decollare: dovevano essere l’avvio di un sistema di formazione altamente specializzato e indirizzato nei programmi da stato e imprese insieme. Sull’esempio del modello tedesco, che proprio nella formazione tecnica ha trovato una delle leve della crescita economica. A rendere più pesante il percorso di innovazione del sistema scolastico, dice l’Ocse, contribuisce l’età media dei docenti nostrani: gli insegnanti under 30 sono meno dello 0,5% in tutti i gradi di scuola, contro una media Ocse che arriva al 14% nella scuola primaria (nel Regno Unito sono addirittura il 31,7%). E anche gli under 40 scarseggiano: sono il 16,6% alla primaria, l’11,6% alle medie, il 7,9% alle superiori. Da noi la porzione più cospicua di insegnanti si piazza nella fascia 50-59 anni: sono il 39,3% alla primaria, il 50% alle medie, e altrettanti alle superiori. Nella scuola secondaria la quota di over 60 sfiora il 10%. Una situazione che il ministro dell’istruzione, Francesco Profumo, avrebbe voluto momigliorare con l’iniezione di docenti giovani da reclutare con l’emanando concorso. Ma svecchiare la scuola non è operazione semplice: la legge prevede che per partecipare il candidato debba essere abilitato, l’età media dei papabili così sale tra i 30 e i 40 anni, a seconda della classe di concorso. Sotto la media sono anche gli stipendi dei docenti che in Italia arrivano al top del salario dopo 35 anni di carriera, ovvero alle soglie della pensione, spiega l’Ocse. E anche raggiunto l’obiettivo si resta sotto la media dei colleghi esteri: 39.762 dollari in Italia, oltre 45mila mediamente negli altri paesi.

da ItaliaOggi 12.09.12