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"Generazione tradita: non fa nulla un giovane su 4. l'Italia penultima tra i paesi Ocse: alla scuola solo il 9% della spesa pubblica totale", di Luigina Venturelli

Un Paese avaro nei confronti della scuola è un Paese avaro nei confronti dei propri giovani. Ed è un Paese destinato a pagarne pesantemente le conseguenze, in termini di istruzione, di occupazione e, in fin dei conti, di benessere economico e sociale. La fotografia dell’Italia, penultima tra le nazioni più industrializzate del mondo per spesa pubblica destinata al sistema scolastico – quella scattata dall’ultimo rapporto Ocse «Education at a glance» – è la diretta proiezione di una crisi che affonda le sue radici in anni di continui tagli alle risorse – il colpo di grazia assestato dal recente governo Berlusconi – e che, di questo passo, rischia di condannare al declino la penisola. Ai primi posti, infatti, tra i paesi più sviluppati per tasso d’inattività tra i giovani che né studiano né lavorano, 23% contro una media del 16%.

FANALINO DI CODA Ad oggi l’Italia spende per l’istruzione dei suoi cittadini più giovani solo il 9% del totale della spesa pubblica, piazzandosi al 31esimo posto in una classifica di 32 paesi che vede solo il lontano Giappone in posizione peggiore, contro una media Ocse del 13%. Uno scivolone inevitabile, dopo il calo dal pur modesto 9,8% registrato nel 2000, confermato anche dai ridotti margini di spesa in rapporto al prodotto interno lordo, il 4,9% del Pil contro una media generale del 6,2%. In termini assoluti, la spesa media per studente in Italia non si discosta molto dai livelli Ocse – 9.055 dollari rispetto ai 9.249 dollari medi – ma è distribuita in modo molto diverso tra i vari gradi di istruzione. Si conferma l’eccellenza nelle prime fasce scolastiche, dall’asilo alle elementari, che ci vede addirittura sopra la media Ocse – pari al 93% e al 97% contro rispettivamente il 66% e l’81% – e si confermano le criticità progressive in quelle superiori, tanto che all’università il differenziale con le altre nazioni industrializzate sfiora i 4mila dollari – 9.562 euro a fronte dei 13.179 medi.

UNIVERSITÀ AL PALO Una distanza che si ripercuote immediatamente sui risultati dell’istruzione universitaria, sia in termini di giovani laureati, sia in termini di sbocchi nel mondo del lavoro. La percentuale di persone che hanno conseguito una laurea in Italia resta tra le più basse dell’area Ocse, pur essendo cresciuta nell’arco degli ultimi trenta anni: il 15% delle persone tra i 25 e i 64 anni contro il 31% delle nazioni più industrializzate e il 28% della media Ue (in Francia la quota è del 28%, in Gran Bretagna del 38% e in Germania del 27%). La percentuale di laureati nella fascia d’età 25-34, inoltre, è superiore di soli dieci punti a quella registrata nella fascia 55-64, 21% contro 11%, sintomo della fatica con cui i cambiamenti globali in tema di istruzione collettiva hanno preso piede nel paese. Di più: ormai avere in tasca una laurea non rende più facile trovare un lavoro, visto che il tasso di occupazione è sceso tra il 2002 e il 2010 dall’82,2% al 78,3% per i laureati, mentre è rimasto stabile per i diplomati (72,3% nel 2002 e 72,6% nel 2010). E i dati sulle retribuzioni indicano le notevoli difficoltà dei giovani laureati a trovare un lavoro adeguato alla propria preparazione: i lavoratori italiani con una laurea tra i 25 e i 34 anni guadagnano soltanto il 9% in più dei loro colleghi diplomati (la media Ocse è del 37%), mentre i laureati tra i 55 e i 64 anni guadagnano il 96% in più dei coetanei diplomati (la media Ocse è del 69%).

PERSONALE DOCENTE ANZIANO Non stupisce, dunque, l’estrema difficoltà registrata anche nel ricambio del personale docente: l’Italia infatti ha i professori più anziani dell’area Ocse, il 58% di quelli della scuola secondaria ha più di 50 anni, e solo il 10% ne ha meno di 40. Un dato che il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo – protagonista di una rovente polemica con i precari del mondo della scuola per l’intenzione annunciata dal governo Monti di eliminare le graduatorie per passare ai concorsi come modalità d’ingresso nel sistema pubblico d’istruzione – si è affrettato a commentare come «elemento di stimolo affinchè le azioni che sono state intraprese siano rafforzate». Insomma: «Sul concorso che abbiamo annunciato, ci dice che la strada intrapresa non è così sbagliata». Ma restano «punti deboli» del sistema che necessitano una strategia di medio-lungo periodo per avere risultati convincenti e stabili: «Li stiamo analizzando per poter intervenire e allocare meglio le risorse» ha assicurato Profumo.

L’Unità 12.09.12

"Generazione tradita: non fa nulla un giovane su 4. l'Italia penultima tra i paesi Ocse: alla scuola solo il 9% della spesa pubblica totale", di Luigina Venturelli

Un Paese avaro nei confronti della scuola è un Paese avaro nei confronti dei propri giovani. Ed è un Paese destinato a pagarne pesantemente le conseguenze, in termini di istruzione, di occupazione e, in fin dei conti, di benessere economico e sociale. La fotografia dell’Italia, penultima tra le nazioni più industrializzate del mondo per spesa pubblica destinata al sistema scolastico – quella scattata dall’ultimo rapporto Ocse «Education at a glance» – è la diretta proiezione di una crisi che affonda le sue radici in anni di continui tagli alle risorse – il colpo di grazia assestato dal recente governo Berlusconi – e che, di questo passo, rischia di condannare al declino la penisola. Ai primi posti, infatti, tra i paesi più sviluppati per tasso d’inattività tra i giovani che né studiano né lavorano, 23% contro una media del 16%.
FANALINO DI CODA Ad oggi l’Italia spende per l’istruzione dei suoi cittadini più giovani solo il 9% del totale della spesa pubblica, piazzandosi al 31esimo posto in una classifica di 32 paesi che vede solo il lontano Giappone in posizione peggiore, contro una media Ocse del 13%. Uno scivolone inevitabile, dopo il calo dal pur modesto 9,8% registrato nel 2000, confermato anche dai ridotti margini di spesa in rapporto al prodotto interno lordo, il 4,9% del Pil contro una media generale del 6,2%. In termini assoluti, la spesa media per studente in Italia non si discosta molto dai livelli Ocse – 9.055 dollari rispetto ai 9.249 dollari medi – ma è distribuita in modo molto diverso tra i vari gradi di istruzione. Si conferma l’eccellenza nelle prime fasce scolastiche, dall’asilo alle elementari, che ci vede addirittura sopra la media Ocse – pari al 93% e al 97% contro rispettivamente il 66% e l’81% – e si confermano le criticità progressive in quelle superiori, tanto che all’università il differenziale con le altre nazioni industrializzate sfiora i 4mila dollari – 9.562 euro a fronte dei 13.179 medi.
UNIVERSITÀ AL PALO Una distanza che si ripercuote immediatamente sui risultati dell’istruzione universitaria, sia in termini di giovani laureati, sia in termini di sbocchi nel mondo del lavoro. La percentuale di persone che hanno conseguito una laurea in Italia resta tra le più basse dell’area Ocse, pur essendo cresciuta nell’arco degli ultimi trenta anni: il 15% delle persone tra i 25 e i 64 anni contro il 31% delle nazioni più industrializzate e il 28% della media Ue (in Francia la quota è del 28%, in Gran Bretagna del 38% e in Germania del 27%). La percentuale di laureati nella fascia d’età 25-34, inoltre, è superiore di soli dieci punti a quella registrata nella fascia 55-64, 21% contro 11%, sintomo della fatica con cui i cambiamenti globali in tema di istruzione collettiva hanno preso piede nel paese. Di più: ormai avere in tasca una laurea non rende più facile trovare un lavoro, visto che il tasso di occupazione è sceso tra il 2002 e il 2010 dall’82,2% al 78,3% per i laureati, mentre è rimasto stabile per i diplomati (72,3% nel 2002 e 72,6% nel 2010). E i dati sulle retribuzioni indicano le notevoli difficoltà dei giovani laureati a trovare un lavoro adeguato alla propria preparazione: i lavoratori italiani con una laurea tra i 25 e i 34 anni guadagnano soltanto il 9% in più dei loro colleghi diplomati (la media Ocse è del 37%), mentre i laureati tra i 55 e i 64 anni guadagnano il 96% in più dei coetanei diplomati (la media Ocse è del 69%).
PERSONALE DOCENTE ANZIANO Non stupisce, dunque, l’estrema difficoltà registrata anche nel ricambio del personale docente: l’Italia infatti ha i professori più anziani dell’area Ocse, il 58% di quelli della scuola secondaria ha più di 50 anni, e solo il 10% ne ha meno di 40. Un dato che il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo – protagonista di una rovente polemica con i precari del mondo della scuola per l’intenzione annunciata dal governo Monti di eliminare le graduatorie per passare ai concorsi come modalità d’ingresso nel sistema pubblico d’istruzione – si è affrettato a commentare come «elemento di stimolo affinchè le azioni che sono state intraprese siano rafforzate». Insomma: «Sul concorso che abbiamo annunciato, ci dice che la strada intrapresa non è così sbagliata». Ma restano «punti deboli» del sistema che necessitano una strategia di medio-lungo periodo per avere risultati convincenti e stabili: «Li stiamo analizzando per poter intervenire e allocare meglio le risorse» ha assicurato Profumo.
L’Unità 12.09.12

"Torna la prima dei bambini stranieri", di Michele Brambilla

C’è anche qualche storia che finisce bene: la scuola più multietnica d’Italia, la statale «Lombardo Radice» di Milano, da oggi ha nuovamente la sua prima elementare. L’anno scorso era stata cancellata perché aveva «troppi stranieri». Un provvedimento che condannava di fatto la scuola, considerata un modello ben riuscito di integrazione, alla chiusura fra cinque anni.

Invece questa mattina all’ingresso di via Pier Alessandro Paravia 83 – quartiere San Siro – si presenteranno, per il loro primo giorno di scuola, ventun bambini di sei anni. Diciotto di loro sono stranieri.

Una quota in linea con la tradizione della «Lombardo Radice», che due anni fa aveva 93 alunni stranieri (di ventisette nazionalità diverse) su un totale di 97; e l’anno scorso 80 su 93. Quest’anno, se i conti non sono sbagliati, gli stranieri saranno l’83 per cento.

Ma che cosa vuol dire, poi, stranieri? Dei diciotto bambini «non cittadini italiani» (e tutti non comunitari) della prima elementare, quattordici sono nati in Italia; e tutti hanno comunque fatto le scuole dell’infanzia a Milano.

Per noi sono dei piccoli milanesi», dice il vicesindaco Maria Grazia Guida, che questa mattina sarà in via Paravia con il presidente della commissione scuola del Consiglio comunale, Elisabetta Strada; con il consigliere provinciale del Pd Diana De Marchi e con il presidente del comitato dei genitori Domenico Morfino. Tutte persone che si sono date da fare, in quest’ultimo anno, per mantenere in vita la scuola.

Ma perché era stata chiusa? Perché c’era una norma del ministro Gelmini ora abrogata da Profumo – che fissava un tetto massimo di presenza di bambini stranieri per classe: trenta per cento. «Non era una norma del tutto campata per aria, il trenta per cento è una quota indicata dai maggiori esperti di integrazione», dice Diana De Marchi del Pd: «Ma abbiamo cercato di far capire che bisognava interpretare caso per caso. Quando i bambini sono nati in Italia e in Italia hanno fatto le scuole materne, le difficoltà di integrazione linguistica sono minori».

Insomma si è capito che la legge è fatta per l’uomo e non viceversa, e «si è data più importanza alla biografia dei bambini, cioè al luogo di nascita e alle scuole fatte, mentre l’anno scorso si erano solo guardati i cognomi», dice ancora Diana De Marchi. Per molte famiglie la chiusura era stata un brutto colpo. La scuola è praticamente l’unica presenza dello Stato in questa parte povera del quartiere ricco di San Siro; e frequentarla, per i bambini ma anche per i loro genitori, era la migliore possibilità per integrarsi. Papà e mamme avevano anche provato, invano, a far ricorso in tribunale; i bambini avevano scritto al presidente Napolitano. Alla fine, la battaglia è stata vinta.

Anche se ora va proseguita. «Il Comune», dice il vicesindaco Guida, «sosterrà la didattica per venire incontro a eventuali difficoltà, e avvieremo iniziative per collaborare con la scuola elementare vicina di via Giusti». Che è la scuola dove molti genitori italiani mandano i loro figli per timore della eccessiva «multietnicità» di quella di via Paravia. Così si sono creati due mondi: quasi tutti italiani in via Giusti, quasi tutti stranieri in via Paravia. «Adesso», dice ancora Maria Grazia Guida, «coinvolgeremo i genitori italiani di via Giusti, l’obiettivo è che dall’anno prossimo gli studenti siano distribuiti in modo più equilibrato fra le due scuole. Il mondo sta andando incontro a grandi trasformazioni e come dice il cardinale Scola dobbiamo capire che le diversità arricchiscono».

Mancherà, questa mattina all’apertura, la seconda elementare. Ma è la conseguenza di quello che ormai, in via Paravia, è solo un brutto ricordo.

La Stampa 12.09.12

"Torna la prima dei bambini stranieri", di Michele Brambilla

C’è anche qualche storia che finisce bene: la scuola più multietnica d’Italia, la statale «Lombardo Radice» di Milano, da oggi ha nuovamente la sua prima elementare. L’anno scorso era stata cancellata perché aveva «troppi stranieri». Un provvedimento che condannava di fatto la scuola, considerata un modello ben riuscito di integrazione, alla chiusura fra cinque anni.
Invece questa mattina all’ingresso di via Pier Alessandro Paravia 83 – quartiere San Siro – si presenteranno, per il loro primo giorno di scuola, ventun bambini di sei anni. Diciotto di loro sono stranieri.
Una quota in linea con la tradizione della «Lombardo Radice», che due anni fa aveva 93 alunni stranieri (di ventisette nazionalità diverse) su un totale di 97; e l’anno scorso 80 su 93. Quest’anno, se i conti non sono sbagliati, gli stranieri saranno l’83 per cento.
Ma che cosa vuol dire, poi, stranieri? Dei diciotto bambini «non cittadini italiani» (e tutti non comunitari) della prima elementare, quattordici sono nati in Italia; e tutti hanno comunque fatto le scuole dell’infanzia a Milano.
Per noi sono dei piccoli milanesi», dice il vicesindaco Maria Grazia Guida, che questa mattina sarà in via Paravia con il presidente della commissione scuola del Consiglio comunale, Elisabetta Strada; con il consigliere provinciale del Pd Diana De Marchi e con il presidente del comitato dei genitori Domenico Morfino. Tutte persone che si sono date da fare, in quest’ultimo anno, per mantenere in vita la scuola.
Ma perché era stata chiusa? Perché c’era una norma del ministro Gelmini ora abrogata da Profumo – che fissava un tetto massimo di presenza di bambini stranieri per classe: trenta per cento. «Non era una norma del tutto campata per aria, il trenta per cento è una quota indicata dai maggiori esperti di integrazione», dice Diana De Marchi del Pd: «Ma abbiamo cercato di far capire che bisognava interpretare caso per caso. Quando i bambini sono nati in Italia e in Italia hanno fatto le scuole materne, le difficoltà di integrazione linguistica sono minori».
Insomma si è capito che la legge è fatta per l’uomo e non viceversa, e «si è data più importanza alla biografia dei bambini, cioè al luogo di nascita e alle scuole fatte, mentre l’anno scorso si erano solo guardati i cognomi», dice ancora Diana De Marchi. Per molte famiglie la chiusura era stata un brutto colpo. La scuola è praticamente l’unica presenza dello Stato in questa parte povera del quartiere ricco di San Siro; e frequentarla, per i bambini ma anche per i loro genitori, era la migliore possibilità per integrarsi. Papà e mamme avevano anche provato, invano, a far ricorso in tribunale; i bambini avevano scritto al presidente Napolitano. Alla fine, la battaglia è stata vinta.
Anche se ora va proseguita. «Il Comune», dice il vicesindaco Guida, «sosterrà la didattica per venire incontro a eventuali difficoltà, e avvieremo iniziative per collaborare con la scuola elementare vicina di via Giusti». Che è la scuola dove molti genitori italiani mandano i loro figli per timore della eccessiva «multietnicità» di quella di via Paravia. Così si sono creati due mondi: quasi tutti italiani in via Giusti, quasi tutti stranieri in via Paravia. «Adesso», dice ancora Maria Grazia Guida, «coinvolgeremo i genitori italiani di via Giusti, l’obiettivo è che dall’anno prossimo gli studenti siano distribuiti in modo più equilibrato fra le due scuole. Il mondo sta andando incontro a grandi trasformazioni e come dice il cardinale Scola dobbiamo capire che le diversità arricchiscono».
Mancherà, questa mattina all’apertura, la seconda elementare. Ma è la conseguenza di quello che ormai, in via Paravia, è solo un brutto ricordo.
La Stampa 12.09.12

"I referendum non ci aiutano", di Guglielmo Epifani

La situazione produttiva del Paese tende al peggio e tutte le previsioni confermano quello che sapevamo da tempo. Una caduta del Pil tra i due e i tre punti a consuntivo dell’anno in corso porta a quasi dieci punti il passo indietro del Paese in questi quattro anni di crisi.Il risultato, drammatico, è che il lavoro e l’occupazione sono la prima e fondamentale questione aperta di fronte a noi. Si tocca qui con mano l’irresponsabilità con cui il governo di centrodestra ha lasciato andare le cose, negando e minimizzando la portata della crisi in corso, ma anche il limite di fondo della politica che il governo Monti, stretto tra la crisi degli spreade la necessità di recuperare innanzitutto la credibilità del Paese nel consesso europeo e internazionale. La vertenza dell’Alcoa è l’ennesima tappa di un calvario che è destinato a proseguire, anche quando chiusure e disoccupazione non faranno notizia perché relative a piccole e piccolissime aziende o di settori diversi da quello industriale. E oltre alla responsabilità di anni e anni senza uno straccio di politica industriale e di comportamenti imprenditoriali troppo disinvolti nel giocare col destino delle loro aziende e con l’occupazione dei propri lavoratori il presente e l’immediato futuro tornano e torneranno a chiedere una diversa priorità nelle scelte di politica economica e un necessario riequilibrio tra i vincoli del rigore (che non potranno essere allentati) e quelli della crescita, troppo trascurati in attesa che una riorganizzazione dell’offerta trovi nel tempo una qualche domanda di beni, prodotti e servizi. Crescita, lavoro, occupazione devono costituire il centro della stagione che si apre e che ci porterà ai programmi elettorali e poi alle elezioni. Non ci potrà essere agenda politica vecchia e nuova che potrà prescindere da quello che appare peraltro il tema più difficile e impegnativo, ancor più delle questioni di bilancio. Come affrontare un persistente calo dei consumi, dei redditi e della domanda, come usare la leva pubblica per i processi di innovazione e sostegno alla produzione, come difendere non in chiave assistenziale settori strategici nella competizione internazionale, come non abbandonare la domanda di credito e di semplificazione da parte delle piccole imprese, e come arrestare la progressiva dequalificazione del lavoro, e dei suoi diritti, compresi quelli delle tutele in una crisi che non dà segno di finire: sono questi i temi da cui nessuno può oggi fuggire. Proprio per questo la scelta di aprire un fronte referendario da parte di alcune forze politiche e personalità attente ai problemi del lavoro, in questo tempo e in questa condizione, non convince ed è troppo al di sotto del profilo di cambiamento che bisogna tenere. La critica muove da diversi fattori e si può riassumere in tre domande. La prima: se mentre si prepara la fase che porta alle elezioni e al possibile e auspicabile cambio del quadro politico, con le conseguenze che può avere sulle norme o su una parte di esse oggetto dei referendum, che segno dà alla prospettiva del cambiamento una strada referendaria che divide sia per i temi che affronta che per quelli che non tocca (ad esempio tutto il tema della precarietà) e che sarà sottoposta al voto nel 2014, oltre un anno dopo lo svolgimento delle elezioni? Un segno di fiducia o di sfiducia? In secondo luogo, dove si può cambiare, se non in Parlamento, quella parte della legge del lavoro che, come anche le imprese lamentano, mostra già ora di non reggere la prova dei processi reali dagli ammortizzatori ai lavori stagionali, alla precarietà, come dire il cuore dei problemi delle persone? E a quel punto, come possono essere giustificati i due binari che procedono parallelamente e quali problemi potranno porre a chi vuole cambiare? Infine: la storia dei referendum sul lavoro dovrebbe suggerire prudenza, misura, attenzione. Nel passato abbiamo avuto referendum che si pensava di vincere e che invece sono stati persi, per di più con il voto operaio. Altri referendum ci hanno consegnato un risultato che ancora oggi ci impedisce di formare rappresentanze democratiche solo in ragione del fatto che non si è firmatari di contratti nazionali. In un’altra occasione si è fatta testimonianza dignitosa di coerenza ma il quorum non è stato raggiunto. Questa è la storia e questi sono i fatti. Naturalmente i lavoratori e i cittadini che firmeranno andranno capiti e rispettati nel nome di un istituto e una scelta assolutamente democratici. Ma chi li ha promossi, al di là delle intenzioni, non aiuta certo né le ragioni dell’unità sociale tra lavoratori, giovani, precari e pensionati, né la speranza e il bisogno del cambiamento.

L’Unità 12.09.12

"I referendum non ci aiutano", di Guglielmo Epifani

La situazione produttiva del Paese tende al peggio e tutte le previsioni confermano quello che sapevamo da tempo. Una caduta del Pil tra i due e i tre punti a consuntivo dell’anno in corso porta a quasi dieci punti il passo indietro del Paese in questi quattro anni di crisi.Il risultato, drammatico, è che il lavoro e l’occupazione sono la prima e fondamentale questione aperta di fronte a noi. Si tocca qui con mano l’irresponsabilità con cui il governo di centrodestra ha lasciato andare le cose, negando e minimizzando la portata della crisi in corso, ma anche il limite di fondo della politica che il governo Monti, stretto tra la crisi degli spreade la necessità di recuperare innanzitutto la credibilità del Paese nel consesso europeo e internazionale. La vertenza dell’Alcoa è l’ennesima tappa di un calvario che è destinato a proseguire, anche quando chiusure e disoccupazione non faranno notizia perché relative a piccole e piccolissime aziende o di settori diversi da quello industriale. E oltre alla responsabilità di anni e anni senza uno straccio di politica industriale e di comportamenti imprenditoriali troppo disinvolti nel giocare col destino delle loro aziende e con l’occupazione dei propri lavoratori il presente e l’immediato futuro tornano e torneranno a chiedere una diversa priorità nelle scelte di politica economica e un necessario riequilibrio tra i vincoli del rigore (che non potranno essere allentati) e quelli della crescita, troppo trascurati in attesa che una riorganizzazione dell’offerta trovi nel tempo una qualche domanda di beni, prodotti e servizi. Crescita, lavoro, occupazione devono costituire il centro della stagione che si apre e che ci porterà ai programmi elettorali e poi alle elezioni. Non ci potrà essere agenda politica vecchia e nuova che potrà prescindere da quello che appare peraltro il tema più difficile e impegnativo, ancor più delle questioni di bilancio. Come affrontare un persistente calo dei consumi, dei redditi e della domanda, come usare la leva pubblica per i processi di innovazione e sostegno alla produzione, come difendere non in chiave assistenziale settori strategici nella competizione internazionale, come non abbandonare la domanda di credito e di semplificazione da parte delle piccole imprese, e come arrestare la progressiva dequalificazione del lavoro, e dei suoi diritti, compresi quelli delle tutele in una crisi che non dà segno di finire: sono questi i temi da cui nessuno può oggi fuggire. Proprio per questo la scelta di aprire un fronte referendario da parte di alcune forze politiche e personalità attente ai problemi del lavoro, in questo tempo e in questa condizione, non convince ed è troppo al di sotto del profilo di cambiamento che bisogna tenere. La critica muove da diversi fattori e si può riassumere in tre domande. La prima: se mentre si prepara la fase che porta alle elezioni e al possibile e auspicabile cambio del quadro politico, con le conseguenze che può avere sulle norme o su una parte di esse oggetto dei referendum, che segno dà alla prospettiva del cambiamento una strada referendaria che divide sia per i temi che affronta che per quelli che non tocca (ad esempio tutto il tema della precarietà) e che sarà sottoposta al voto nel 2014, oltre un anno dopo lo svolgimento delle elezioni? Un segno di fiducia o di sfiducia? In secondo luogo, dove si può cambiare, se non in Parlamento, quella parte della legge del lavoro che, come anche le imprese lamentano, mostra già ora di non reggere la prova dei processi reali dagli ammortizzatori ai lavori stagionali, alla precarietà, come dire il cuore dei problemi delle persone? E a quel punto, come possono essere giustificati i due binari che procedono parallelamente e quali problemi potranno porre a chi vuole cambiare? Infine: la storia dei referendum sul lavoro dovrebbe suggerire prudenza, misura, attenzione. Nel passato abbiamo avuto referendum che si pensava di vincere e che invece sono stati persi, per di più con il voto operaio. Altri referendum ci hanno consegnato un risultato che ancora oggi ci impedisce di formare rappresentanze democratiche solo in ragione del fatto che non si è firmatari di contratti nazionali. In un’altra occasione si è fatta testimonianza dignitosa di coerenza ma il quorum non è stato raggiunto. Questa è la storia e questi sono i fatti. Naturalmente i lavoratori e i cittadini che firmeranno andranno capiti e rispettati nel nome di un istituto e una scelta assolutamente democratici. Ma chi li ha promossi, al di là delle intenzioni, non aiuta certo né le ragioni dell’unità sociale tra lavoratori, giovani, precari e pensionati, né la speranza e il bisogno del cambiamento.
L’Unità 12.09.12

Ghizzoni: pensionamento immediato per chi ne ha diritto farà tornare la scuola a livelli europei

Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienza e d’Istruzione della Camera dei Deputati – Il pensionamento immediato per chi ne ha conseguito i diritti è una delle soluzioni per riallineare la scuola italiana con quella degli altri Paesi dell’area Ocse.

“Purtroppo dobbiamo registrare uno scivolamento verso il basso della scuola italiana, e non solo per la spesa pubblica che, se non si considerasse la spesa degli Enti Locali, rappresenterebbe un dato palesemente negativo e destinato a peggiorare. Il rapporto – spiega Ghizzoni – rileva un innalzamento dell’età degli insegnanti della scuola secondaria che porta l’Italia a detenere il record di nazione con i professori più anziani.

Un segnale preoccupante del divario anagrafico tra docente e discente che può avere conseguenze anche sulla mancata capacità di innovazione dei metodi della didattica.

Nella realtà della scuola, però, gli insegnanti giovani ci sono, ma sono precari. È dunque necessario che chi ha responsabilità di governo permetta il pensionamento di tutti quegli insegnanti che hanno maturato i diritti di legge nel corso dell’anno scolastico, e che sono stati penalizzati a causa della Riforma Fornero che non ha tenuto conto della specificità della scuola, e, contemporaneamente, intraprenda una strategia di più ampio respiro per potenziare gli organici e garantire una programmazione certa delle immissioni in ruolo”

da Orizzontescuola.it