Latest Posts

"Stalking, un'emergenza continua. Novanta donne uccise nel 2012", di Francesca Paci

Nel 95% dei casi lo stalker è un conoscente della vittima. Nel 15% dei casi i delitti sono stati preceduti da denunce. Cresce la preoccupazione per i conflitti padre-figlia all’interno delle comunità di migranti. Qual è il paese occidentale in cui dall’inizio del 2012 sono state uccise 90 donne, molte delle quali a causa di possessività, gelosia, problematiche legate alla coppia scoppiata? La risposta, fornita dall’Osservatorio Nazionale Stalking, è l’Italia, dove i dati aggiornati al 10 settembre scorso parlano di 10 vittime al mese, molte delle quali assassinate da uomini che conoscevano, in seguito a una separazione o a un rifiuto.

Sebbene nel 2011 la cifra fosse addirittura superiore – 127 omicidi – il quadro è tutt’altro che rassicurante. Anche perchè nel 15% dei casi i delitti erano stati preceduti da denunce per stalking. Una decina di rei confessi inoltre, si è tolta la vita dopo l’arresto. Secondo l’Osservatorio, che stima il numero di quelle che subiscono in silenzio per paura di ritorsioni assai superiore a quello delle coraggiose tamburine degli abusi maschili, almeno un persecutore su tre è recidivo e dopo la denuncia o condanna torna a molestare la vittima, spesso con ferocia maggiore. Maggiore successo ha la scomessa sul recupero , come il Centro Presunti Autori istituito nel 2007 dall’Osservatorio Nazionale Stalking che ha già risocializzato 200 stalker.

L’Italia, patria di agguerriti movimenti femministi durante gli anni ’60 e ’70, ha abrogato il delitto d’onore solo il 5 agosto 1981, vale a dire che fino a quel giorno un delitto perpetrato al fine di salvaguardare l’onore (per esempio l’omicidio della moglie adultera) era sanzionato con pene attenuate rispetto all’analogo delitto di diverso movente. Oggi che il delitto d’onore cacciato dalla porta principale rientra dalla finestra delle comunità migranti come conflitto generazionale tra padri conservatori e figlie renitenti alla tradizione, le italiane hanno tragicamente imparato a familiarizzare con il termine stalker, un individuo che presenta gravi difficoltà psicologiche ad accettare l’abbandono e perseguita la sua presunta carnefice. I dati dell’Osservatorio rivelano che nel 70% dei casi si tratta di un uomo, nel 95% dei casi è un conoscente della vittima, nell’80% dei casi è un manipolatore affettivo, nel 70% dei casi ha subito un lutto, un abbandono o una separazione significativa mai elaborata.

La Stampa 12.09.12

"Stalking, un'emergenza continua. Novanta donne uccise nel 2012", di Francesca Paci

Nel 95% dei casi lo stalker è un conoscente della vittima. Nel 15% dei casi i delitti sono stati preceduti da denunce. Cresce la preoccupazione per i conflitti padre-figlia all’interno delle comunità di migranti. Qual è il paese occidentale in cui dall’inizio del 2012 sono state uccise 90 donne, molte delle quali a causa di possessività, gelosia, problematiche legate alla coppia scoppiata? La risposta, fornita dall’Osservatorio Nazionale Stalking, è l’Italia, dove i dati aggiornati al 10 settembre scorso parlano di 10 vittime al mese, molte delle quali assassinate da uomini che conoscevano, in seguito a una separazione o a un rifiuto.
Sebbene nel 2011 la cifra fosse addirittura superiore – 127 omicidi – il quadro è tutt’altro che rassicurante. Anche perchè nel 15% dei casi i delitti erano stati preceduti da denunce per stalking. Una decina di rei confessi inoltre, si è tolta la vita dopo l’arresto. Secondo l’Osservatorio, che stima il numero di quelle che subiscono in silenzio per paura di ritorsioni assai superiore a quello delle coraggiose tamburine degli abusi maschili, almeno un persecutore su tre è recidivo e dopo la denuncia o condanna torna a molestare la vittima, spesso con ferocia maggiore. Maggiore successo ha la scomessa sul recupero , come il Centro Presunti Autori istituito nel 2007 dall’Osservatorio Nazionale Stalking che ha già risocializzato 200 stalker.
L’Italia, patria di agguerriti movimenti femministi durante gli anni ’60 e ’70, ha abrogato il delitto d’onore solo il 5 agosto 1981, vale a dire che fino a quel giorno un delitto perpetrato al fine di salvaguardare l’onore (per esempio l’omicidio della moglie adultera) era sanzionato con pene attenuate rispetto all’analogo delitto di diverso movente. Oggi che il delitto d’onore cacciato dalla porta principale rientra dalla finestra delle comunità migranti come conflitto generazionale tra padri conservatori e figlie renitenti alla tradizione, le italiane hanno tragicamente imparato a familiarizzare con il termine stalker, un individuo che presenta gravi difficoltà psicologiche ad accettare l’abbandono e perseguita la sua presunta carnefice. I dati dell’Osservatorio rivelano che nel 70% dei casi si tratta di un uomo, nel 95% dei casi è un conoscente della vittima, nell’80% dei casi è un manipolatore affettivo, nel 70% dei casi ha subito un lutto, un abbandono o una separazione significativa mai elaborata.
La Stampa 12.09.12

«Salviamo la scuola, non si può pensare solo allo spread», intervista al sociologo Aldo Bonomi di Laura Matteucci

«Vivaddio esistono anche rapporti di questo tipo, che ci fanno riflettere e ci costringono ad uscire dalla sbornia collettiva dello spread». Un sano richiamo alla realtà? «Certo. Trovo molto preoccupante questa cappa che da anni ormai avviluppa e schiaccia la società, per cui gli unici parametri presi in considerazione sono quelli finanziari, tra debito sovrano e peso della moneta. Sono decisamente salutari i rapporti di istituzioni e organizzazioni che ci costringono a ragionare sui processi reali, che sono il lavoro, l’impresa, il mondo della scuola, la disoccupazione, quella giovanile soprattutto. Che ci svegliano, e ci suggeriscono di prendere in considerazione altri punti di riferimento, oltre allo spread appunto». Il rapporto cui si riferisce il sociologo Aldo Bonomi è quello dell’Ocse, con la fotografia dell’Italia al penultimo posto tra i Paesi industrializzati considerati per investimenti nella scuola, il 9% del totale della spesa pubblica. Non proprio una sorpresa, ma comunque sconfortante. «Chiariamo subito: se non c’è investimento pubblico massiccio noi da questa crisi non usciamo. Va cambiato il punto di vista, la strategia, l’orizzonte. Il punto è che dobbiamo entrare in una logica diversa: questa che viviamo è una metamorfosi, che non riguarda il debito sovrano ma che ci parla di come cambiano i parametri di riferimento. Prendiamo il meccanismo di investimento formativo-scolastico: non possiamo pensare di puntare solo sulla competitività di un’élite, non è solo una questione di meritocrazia, cui finora si è perlopiù dedicato il ministro Profumo. Sull’argomento mi è piaciuto di più il ministro Barca (Coesione sociale, ndr), quando ha detto che bisogna ridefinire i rapporti tra scuola e impresa. È questo che dobbiamo mettere in conto, di cui sarebbe bene discutere. Da un lato sono le imprese che devono iniziare a ragionare sulla produzione di nuove merci, dall’impatto sostenibile, e dall’altro però bisogna capire che senza una strategia di investimento keynesiano per la scuola non si va da nessuna parte. Alcune architravi sono da difendere assolutamente. Tutti d’accordo sull’attenzione per le eccellenze, ma il problema è la medietà, che tra l’altro è il range su cui puntare anche per abbassare la feroce disoccupazione giovanile. Va messa in piedi una struttura adeguata». Il vicepresidente di Confindustria Lo Bello dice che troppi giovani scelgono percorsi di studio destinati alla disoccupazione, e troppe aziende non trovano i tecnici che cercano . «Ma infatti, bisogna trovare una dimensione intermedia vera. Abbiamo avuto una lunga stagione in cui i ceti medi avevano come aspirazione massima la laurea del figlio. Tempi in cui una laurea, al massimo un master post laurea, garantiva l’occupazione. Ma questa è una stagione finita, esaurita, archiviata. Io sono d’accordissimo con l’acculturazione generale, ci mancherebbe, però resta il problema di legarla ai processi reali, ai bisogni e alle richieste delle aziende e comunque dei processi produttivi. Che, ripeto, devono cambiare anche quelli». Mica facile, come si fa? Tra l’altro, non è che si possa nemmeno imporre alle persone un percorso di studio piuttosto che un altro. «È vero, è complicato. Di sicuro, è fondamentale un massiccio intervento pubblico in questa direzione. Comunque, la movida è finita, le famiglie saranno sempre meno in grado di fare welfare sostitutivo, come è accaduto finora, dobbiamo tutti tornare coi piedi per terra e ragionare con maggiore realismo. Cercando di capire in quale direzione stiamo andando». Lei parla di investimenti pubblici, il governo risponderebbe che mancano i soldi. «Figuriamoci. Come sempre, è una questione di priorità. Certo che se tutte le risorse devono obbligatoriamente servire per tamponare le crisi finanziarie che si susseguono, i soldi per la scuola non si troveranno mai». La nostra già scarsa mobilità sociale rischia di arrestarsi del tutto? «La sensazione è che tutti siano fermi nella difesa corporativa della loro posizione, nonostante questa turbolenza di cambiamento che ci investe e che tendenzialmente imporrebbe invece una maggiore mobilità sociale. È così: ogni volta che si tocca un ordine professionale, per fare un esempio evidente, scatta la difesa corporativa. È necessario un cambiamento: bisogna entrare in una logica di governo che unisca il governare comandando con il governare accompagnando i processi di cambiamento in atto. Finora i tecnici hanno solo governato comandando».

L’Unità 12.09.12

"L’Europa non è solo manutenzione", di Barbara Spinelli

Un vertice di «lotta ai populismi » è l’idea, proposta da Mario Monti a Cernobbio, che da qualche giorno occupa le menti a Bruxelles e dintorni. C’è dietro un’intuizione giusta. Una intuizione sul presente disagio della civiltà europea: sulla sfiducia, sul risentimento che monta contro l’Unione. Quel che non convince è il linguaggio dei proponenti, ed è il vuoto di iniziative che l’annuncio prefigura. Non basta affibbiare agli antieuropei un epiteto –
populista – che svilisce ogni loro argomento ed è quindi inadatto a reintegrare quel che si sta disgregando. Anche la bellicosa parola lotta è incongrua, soprattutto quando la strategia si riduce a quella che Monti chiama «manutenzione psicologica e politica» di tanto diffuso malessere. Manca l’analisi dei motivi per cui si moltiplicano i moti di rigetto, nati da un’austerità che ha sin qui generato recessione e povertà. Manca soprattutto una rifondazione dell’Unione che vada oltre la manutenzione.
«Io penso semplicemente a una riflessione, non al percorso successivo», così Monti a Sarajevo: come se fosse sufficiente un dibattito, nel quale i medici d’Europa si chinano, sicuri delle proprie ricette, sui pazienti che giacciono ai loro piedi sempre più infermi e meno pazienti.
Se così stanno le cose è proprio il percorso successivo che conta, ben più del dibattito. Se quasi tutto un popolo, in Germania, attende il verdetto che domani darà la Corte costituzionale su Fiscal compact e Fondo salva-Stati, e se l’attende nella convinzione che la sovranità del Paese e del suo Parlamento siano stati lesi in nome dell’Europa, vuol dire che siamo in un’epoca di nervosità, di torbidi, nella quale ciascuno Stato e ciascun popolo è in lotta contro il presunto nemico del bene. Chi combatte tali nemici non ha bisogno di mettere se stesso in questione, di inventare farmaci diversi. La colpa è tutta dei populisti, dicono in Italia. È tutta dei debitori, dicono in Germania. Non dimentichiamo che Schuldin tedesco significa due cose, debito e colpa: spostata sul terreno morale, la battaglia si fa cruenta. Non dimentichiamo che Weidmann, governatore della Bundesbank, è sconfitto nella Bce ma vincitore politico in patria.
Occorre dunque che i capi di governo e le comuni istituzioni facciano l’Europa veramente, ne discutano con le società (Parlamenti nazionali, Parlamento europeo), e non si limitino alla gestione psico-politica di popoli minorenni o depressi. Occorre, da parte dei comandanti d’Europa, quella che Albert Hirschmann chiama auto-sovversione, auto-confutazione: non sono fallite solo le misure ma anche le dottrine dominanti, avendo prodotto un’Unione divisa fra creditori e debitori, e aumentato disuguaglianze e povertà. Una lotta d’altro genere s’impone, che conduca all’Europa politica: rifondando ed estendendo i perimetri geografici dell’agire politico, partitico, democratico. Dando all’Unione una costituzione vera, scritta dai popoli rappresentati nel Parlamento europeo e sottratta al “possesso” degli Stati. L’obiettivo non è astratto. Urgono piani di investimento, e una crescita che sarà duratura a patto di cambiare natura (puntando su ricerca, energie alternative, istruzione, comune difesa): solo un governo europeo può farlo – con un bilancio consistente approvato da un comune Parlamento – visto che gli Stati non hanno più soldi. Gli esperti concordano nel dire che i risparmi sarebbero enormi se la crescita fosse fatta in comune, e consentirebbero cali di tasse nei singoli Paesi.
Solo così si dimostrerà che a comandare non sono lontani oligarchi, e che le terapie adottate sono confutabili come è confutabile in democrazia ogni po-litica, ogni leadership. L’ultima mossa di Mario Draghi è ottima, ma finché a muoversi è un organo tecnico, per legge a-politico, non affiancato da un governo, un Tesoro, un fisco europeo, è mossa insufficiente. Se i politici pensano che il grosso è fatto, grazie a Draghi, si sbagliano: perché tocca a loro l’azione decisiva, e il grosso non consiste né nella lotta ai populisti né nella cura di mantenimento. L’una e l’altra mantengono lo status quo e fanno morire la politica, che in democrazia è ricerca di alternative e conquista di consenso popolare, non di consenso dei mercati. Quelli che vengono definiti populismi sono figli di questo status quo, e di questa morte.
Ci s’indigna quando Grillo dice: «I politici sono morti che camminano». Sono parole fatue, essendo rivolte indiscriminatamente a tutti. Ma sono vivi
i politici, e la sinistra, e la destra? Se tutti aspettano i governatori della Bce o i giudici di Karlsruhe come si aspetta Godot, vuol dire che c’è del vero nell’ira gridata da Grillo: sono quattro anni che i governi sono impelagati in politiche sterili, che hanno portato paesi come la Grecia a una contrazione di redditi e servizi pubblici senza eguali nel dopoguerra, che hanno azzerato il controllo democratico sui rimedi dell’Unione, e dilatato l’imperio di oligarchie allergiche alla politica per obbligo o per scelta. Che è la manutenzione dell’esistente, se non perpetuare la tara dell’euro-senza-Stato? L’Europa unita si farà solo con i popoli, e solo se la politica riacquisterà il primato ceduto negli anni ’70 ai mercati. Rinascerà – la politica come professione– se si trasforma alle radici, se le scelte fatte sono riconosciute sterili, come il chicco di grano che solo morendo produce molto frutto. La via non è abolire i partiti, o il contrasto classico destra-sinistra. Il liberalismo si nutre del conflitto fra idee alternative della società, della politica, dell’economia. Il migliore è selezionato nella gara, nella disputa. Dai tempi di Pericle questo è democrazia: «Qui a Atene noi facciamo così. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Benché in pochi siano in grado di dare vita a una politica, tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla». Come giudicarla, se chi confuta è ostracizzato come populista? Resta che la disputa dovrà mutare volto, e rotta. Sinistre, destre, partiti, sindacati dovranno dare una dimensione europea a programmi e delibere, e imparare l’agorà dell’Unione. Non possono nascondere a militanti e cittadini che in Europa gli Stati nazione non hanno più gli strumenti per fronteggiare la crisi, che sono troppo piccoli nell’economia mondo. Mai le sinistre riusciranno a salvaguardare il modello sociale e democratico della Comunità postbellica, se l’ottica resta nazionale.
Sovvertire se stessi non significa abolire destra e sinistra, e sognare
comitati d’affari che curino, al posto di inetti politici, interessi e poteri di industrie obsolete. Anche questo va ricordato: sono i comitati d’affari che, fidando per trent’anni nelle virtù riequilibratrici dei mercati, hanno causato la crisi del 2007-2008. Auto-confutarsi serve a scoprire quali sono le nuove linee divisorie: tra forze che chiedono un’Unione federale, e forze aggrappate a sovranità nazionali fasulle.
Prendere il potere in Europa e non più nella nazione, visto che è lì e non qui che esso si esercita: ecco la missione per sinistre e destre. Un vertice dell’auto-sovversione: questo sì sarebbe benvenuto!
Napolitano ha detto proprio questo, il 6 settembre a Mestre, parlando di
nuove mappe d’Europa: nell’Unione non esistono discorsi simili, lungimiranti e severi sulle cose fatte e da farsi. Il Presidente ha denunciato i limiti delle misure anti-crisi, e indicato la via d’uscita. I partiti (parafrasando Paul Reynaud, fondatore con Monnet della Ceca) devono europeizzarsi o perire. Non cadono infatti dal cielo, «il ripiegamento, l’immeschinimento, la perdita di autorità della politica». O l’«impoverimento ideale (delle forze politiche), gli arroccamenti burocratici, l’infiacchimento della loro vita democratica, il chiudersi in logiche di mera gestione del potere e di uno scivolare verso forme di degenerazione morale».
Di questo degenerare sono artefici i partiti, non il mercato, e a loro spetta sanarlo, cessando di stipare l’Unione negli armadi della politica estera. Le parole di Napolitano sono altamente realistiche, non retoriche. Invocando l’europeizzazione di Stati, partiti, movimenti, egli cita un padre del federalismo, Mario Albertini: «Il “punto di non ritorno” (dell’unità europea) non potrà essere che propriamente politico. È il momento in cui la lotta politica diviene europea, in cui l’oggetto per il quale lottano uomini e partiti sarà il
potere europeo».
Lottare per la conquista del potere in Europa e per il suo controllo democratico: non è missione piccola, per una sinistra che voglia salvare i due pilastri dell’unità europea concepiti nel pieno dell’ultima guerra; il pilastro antinazionalista e quello dello Stato sociale, il Manifesto di Ventotene dell’agosto ‘41 e il rapporto Beveridge sul Welfaredel novembre ’42. Anche le destre hanno contribuito al doppio pilastro (da Adenauer e De Gasperi a Kohl): oggi constatiamo che son divenuti custodi delle vecchie sovranità nazionali. È un buon programma, per una sinistra che non vuol perire, come ha fatto per decenni, dedicandosi alla pura manutenzione.

La Repubblica 12.09.12

"L’Europa non è solo manutenzione", di Barbara Spinelli

Un vertice di «lotta ai populismi » è l’idea, proposta da Mario Monti a Cernobbio, che da qualche giorno occupa le menti a Bruxelles e dintorni. C’è dietro un’intuizione giusta. Una intuizione sul presente disagio della civiltà europea: sulla sfiducia, sul risentimento che monta contro l’Unione. Quel che non convince è il linguaggio dei proponenti, ed è il vuoto di iniziative che l’annuncio prefigura. Non basta affibbiare agli antieuropei un epiteto –
populista – che svilisce ogni loro argomento ed è quindi inadatto a reintegrare quel che si sta disgregando. Anche la bellicosa parola lotta è incongrua, soprattutto quando la strategia si riduce a quella che Monti chiama «manutenzione psicologica e politica» di tanto diffuso malessere. Manca l’analisi dei motivi per cui si moltiplicano i moti di rigetto, nati da un’austerità che ha sin qui generato recessione e povertà. Manca soprattutto una rifondazione dell’Unione che vada oltre la manutenzione.
«Io penso semplicemente a una riflessione, non al percorso successivo», così Monti a Sarajevo: come se fosse sufficiente un dibattito, nel quale i medici d’Europa si chinano, sicuri delle proprie ricette, sui pazienti che giacciono ai loro piedi sempre più infermi e meno pazienti.
Se così stanno le cose è proprio il percorso successivo che conta, ben più del dibattito. Se quasi tutto un popolo, in Germania, attende il verdetto che domani darà la Corte costituzionale su Fiscal compact e Fondo salva-Stati, e se l’attende nella convinzione che la sovranità del Paese e del suo Parlamento siano stati lesi in nome dell’Europa, vuol dire che siamo in un’epoca di nervosità, di torbidi, nella quale ciascuno Stato e ciascun popolo è in lotta contro il presunto nemico del bene. Chi combatte tali nemici non ha bisogno di mettere se stesso in questione, di inventare farmaci diversi. La colpa è tutta dei populisti, dicono in Italia. È tutta dei debitori, dicono in Germania. Non dimentichiamo che Schuldin tedesco significa due cose, debito e colpa: spostata sul terreno morale, la battaglia si fa cruenta. Non dimentichiamo che Weidmann, governatore della Bundesbank, è sconfitto nella Bce ma vincitore politico in patria.
Occorre dunque che i capi di governo e le comuni istituzioni facciano l’Europa veramente, ne discutano con le società (Parlamenti nazionali, Parlamento europeo), e non si limitino alla gestione psico-politica di popoli minorenni o depressi. Occorre, da parte dei comandanti d’Europa, quella che Albert Hirschmann chiama auto-sovversione, auto-confutazione: non sono fallite solo le misure ma anche le dottrine dominanti, avendo prodotto un’Unione divisa fra creditori e debitori, e aumentato disuguaglianze e povertà. Una lotta d’altro genere s’impone, che conduca all’Europa politica: rifondando ed estendendo i perimetri geografici dell’agire politico, partitico, democratico. Dando all’Unione una costituzione vera, scritta dai popoli rappresentati nel Parlamento europeo e sottratta al “possesso” degli Stati. L’obiettivo non è astratto. Urgono piani di investimento, e una crescita che sarà duratura a patto di cambiare natura (puntando su ricerca, energie alternative, istruzione, comune difesa): solo un governo europeo può farlo – con un bilancio consistente approvato da un comune Parlamento – visto che gli Stati non hanno più soldi. Gli esperti concordano nel dire che i risparmi sarebbero enormi se la crescita fosse fatta in comune, e consentirebbero cali di tasse nei singoli Paesi.
Solo così si dimostrerà che a comandare non sono lontani oligarchi, e che le terapie adottate sono confutabili come è confutabile in democrazia ogni po-litica, ogni leadership. L’ultima mossa di Mario Draghi è ottima, ma finché a muoversi è un organo tecnico, per legge a-politico, non affiancato da un governo, un Tesoro, un fisco europeo, è mossa insufficiente. Se i politici pensano che il grosso è fatto, grazie a Draghi, si sbagliano: perché tocca a loro l’azione decisiva, e il grosso non consiste né nella lotta ai populisti né nella cura di mantenimento. L’una e l’altra mantengono lo status quo e fanno morire la politica, che in democrazia è ricerca di alternative e conquista di consenso popolare, non di consenso dei mercati. Quelli che vengono definiti populismi sono figli di questo status quo, e di questa morte.
Ci s’indigna quando Grillo dice: «I politici sono morti che camminano». Sono parole fatue, essendo rivolte indiscriminatamente a tutti. Ma sono vivi
i politici, e la sinistra, e la destra? Se tutti aspettano i governatori della Bce o i giudici di Karlsruhe come si aspetta Godot, vuol dire che c’è del vero nell’ira gridata da Grillo: sono quattro anni che i governi sono impelagati in politiche sterili, che hanno portato paesi come la Grecia a una contrazione di redditi e servizi pubblici senza eguali nel dopoguerra, che hanno azzerato il controllo democratico sui rimedi dell’Unione, e dilatato l’imperio di oligarchie allergiche alla politica per obbligo o per scelta. Che è la manutenzione dell’esistente, se non perpetuare la tara dell’euro-senza-Stato? L’Europa unita si farà solo con i popoli, e solo se la politica riacquisterà il primato ceduto negli anni ’70 ai mercati. Rinascerà – la politica come professione– se si trasforma alle radici, se le scelte fatte sono riconosciute sterili, come il chicco di grano che solo morendo produce molto frutto. La via non è abolire i partiti, o il contrasto classico destra-sinistra. Il liberalismo si nutre del conflitto fra idee alternative della società, della politica, dell’economia. Il migliore è selezionato nella gara, nella disputa. Dai tempi di Pericle questo è democrazia: «Qui a Atene noi facciamo così. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Benché in pochi siano in grado di dare vita a una politica, tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla». Come giudicarla, se chi confuta è ostracizzato come populista? Resta che la disputa dovrà mutare volto, e rotta. Sinistre, destre, partiti, sindacati dovranno dare una dimensione europea a programmi e delibere, e imparare l’agorà dell’Unione. Non possono nascondere a militanti e cittadini che in Europa gli Stati nazione non hanno più gli strumenti per fronteggiare la crisi, che sono troppo piccoli nell’economia mondo. Mai le sinistre riusciranno a salvaguardare il modello sociale e democratico della Comunità postbellica, se l’ottica resta nazionale.
Sovvertire se stessi non significa abolire destra e sinistra, e sognare
comitati d’affari che curino, al posto di inetti politici, interessi e poteri di industrie obsolete. Anche questo va ricordato: sono i comitati d’affari che, fidando per trent’anni nelle virtù riequilibratrici dei mercati, hanno causato la crisi del 2007-2008. Auto-confutarsi serve a scoprire quali sono le nuove linee divisorie: tra forze che chiedono un’Unione federale, e forze aggrappate a sovranità nazionali fasulle.
Prendere il potere in Europa e non più nella nazione, visto che è lì e non qui che esso si esercita: ecco la missione per sinistre e destre. Un vertice dell’auto-sovversione: questo sì sarebbe benvenuto!
Napolitano ha detto proprio questo, il 6 settembre a Mestre, parlando di
nuove mappe d’Europa: nell’Unione non esistono discorsi simili, lungimiranti e severi sulle cose fatte e da farsi. Il Presidente ha denunciato i limiti delle misure anti-crisi, e indicato la via d’uscita. I partiti (parafrasando Paul Reynaud, fondatore con Monnet della Ceca) devono europeizzarsi o perire. Non cadono infatti dal cielo, «il ripiegamento, l’immeschinimento, la perdita di autorità della politica». O l’«impoverimento ideale (delle forze politiche), gli arroccamenti burocratici, l’infiacchimento della loro vita democratica, il chiudersi in logiche di mera gestione del potere e di uno scivolare verso forme di degenerazione morale».
Di questo degenerare sono artefici i partiti, non il mercato, e a loro spetta sanarlo, cessando di stipare l’Unione negli armadi della politica estera. Le parole di Napolitano sono altamente realistiche, non retoriche. Invocando l’europeizzazione di Stati, partiti, movimenti, egli cita un padre del federalismo, Mario Albertini: «Il “punto di non ritorno” (dell’unità europea) non potrà essere che propriamente politico. È il momento in cui la lotta politica diviene europea, in cui l’oggetto per il quale lottano uomini e partiti sarà il
potere europeo».
Lottare per la conquista del potere in Europa e per il suo controllo democratico: non è missione piccola, per una sinistra che voglia salvare i due pilastri dell’unità europea concepiti nel pieno dell’ultima guerra; il pilastro antinazionalista e quello dello Stato sociale, il Manifesto di Ventotene dell’agosto ‘41 e il rapporto Beveridge sul Welfaredel novembre ’42. Anche le destre hanno contribuito al doppio pilastro (da Adenauer e De Gasperi a Kohl): oggi constatiamo che son divenuti custodi delle vecchie sovranità nazionali. È un buon programma, per una sinistra che non vuol perire, come ha fatto per decenni, dedicandosi alla pura manutenzione.
La Repubblica 12.09.12

Interrogazione a Fornero e Profumo sui pensionandi della scuola

Alla luce delle recenti sentenze, ho ritenuto opportuno interrogare nuovamente i ministri coinvolti. Ad una risposta non possono esimersi.

Al Ministro del Lavoro e delle politiche sociali, al Ministro dell’istruzione, dell’università e della Ricerca – Per sapere – premesso che:

il comma 1 dell’articolo 1 del D.P.R. 351/98 vincola la cessazione dal servizio nel comparto Scuola “all’inizio dell’anno scolastico o accademico successivo alla data in cui la domanda è stata presentata”; pertanto in detto comparto, al fine di garantire la continuità didattica, la finestra di uscita è costituita da un solo giorno (il 1°settembre) per ogni anno;

in virtù di tale disposizione – che non ha subito modifiche, nonostante i reiterati interventi in materia previdenziale approvati negli ultimi anni – il personale di detto comparto ha iniziato l’anno scolastico 2011/2012 con il vincolo di concluderlo e, a differenza di tutti gli altri lavoratori, di non poter cessare dal servizio prima del 1 settembre 2012, indipendentemente dalle modifiche intervenute in materia di trattamenti pensionistici;
all’avvio dell’anno scolastico 2011/2012 (1° settembre 2011) era vigente il sistema delle cosiddette quote, risultanti dalla somma dell’età anagrafica e dell’anzianità contributiva, ai sensi della legge 23 agosto 2004, n. 243, così come modificata dalla legge 24 dicembre 2007, n. 247, e l’eventuale pensione anticipata in base al requisito di anzianità contributiva;
in virtù di tale normativa, docenti e personale ausiliario tecnico-amministrativo, già nei mesi di ottobre e novembre 2011, hanno presentato domanda di collocamento a riposo e di dimissioni ai sensi del richiamato regolamento, finalizzata al trattamento di quiescenza ai sensi della legge n. 247 del 2007;
il decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in legge con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, non differenzia in alcun modo la normativa previdenziale relativa al comparto scuola rispetto a quella degli altri settori pubblici e privati, non tenendo in alcun conto il fatto che i lavoratori della scuola possono andare in pensione un solo giorno all’anno, il 1 settembre, indipendentemente dalla data di maturazione dei requisiti, per le giuste esigenze di funzionalità e di continuità didattica;

di tale specificità, invece, si è tenuto sempre conto in tutte le normative in materia pensionistica antecedenti la cosiddetta “riforma Fornero”. Il ‘Comparto Scuola’, in virtù della specificità espressa anche nel richiamato D.P.R. 351/98, ha sempre goduto di apposita normativa in ordine al trattamento pensionistico: in particolare, si ricordano l’articolo 59, comma 9, della legge 449/1997; l’articolo 1 ,comma 2, lettera a) e comma 5 lettera d) della Legge 247/2007; l’articolo 12, comma 1 lettera c) e comma 2 lettera c) della legge 122/2010; nonché l’articolo 1, comma 21, della Legge 148/2011;

rilevato che,

sono circa tremila i dipendenti della scuola che, nonostante abbiano maturato il diritto alla pensione secondo le regole previgenti alla Riforma, inizieranno l’ormai imminente anno scolastico;

un numero rilevante di docenti e personale ATA interessati dal provvedimento ha adito le vie legali, ottenendo pronunciamenti favorevoli da parte di alcuni Giudici del Lavoro italiani, come quelli preposti ai Tribunali di Oristano, di Torino, di Venezia e Siena, che hanno accertato il diritto dei ricorrenti ad essere collocati in quiescenza dal 31 agosto 2012 con trattamento pensionistico dal 1 settembre 2012. Sottolineando tra l’altro, in particolare con all’ordinanza resa dal Tribunale di Venezia, l’evidente discordanza tra le norme speciali della scuola, quali il DPR 351/98 e la circolare della Funzione Pubblica (n. 2 del 8 marzo 2012), e quelle della riforma Fornero;

L’Ordinanza di Venezia nelle proprie argomentazioni mette in rilievo i contenuti della circolare della Funzione Pubblica (n. 2 del 8 marzo 2012) con i quali si afferma espressamente che: (…) rispetto al comparto scuola, rimanga ferma la vigenza degli specifici termini di cessazione dal servizio stabiliti in relazione all’inizio dell’anno scolastico per le esigenze di servizio e per tali motivi, ad avviso del giudicante, la legge di riforma pare occuparsi esclusivamente dei requisiti per la maturazione del diritto al trattamento pensionistico e per questo, a conclusione, tutto il resto, afferente ad altri aspetti come ad es. il termine, rimane regolato dalla vecchia normativa (…);

Lo stesso giudice opera poi una basilare distinzione tra il momento di “maturazione” del diritto dei ricorrenti, momento che coincide con il 1 settembre 2011, ossia con l’inizio dell’anno scolastico 2011-2012, e momento di “decorrenza” dello stesso diritto, che coincide invece con il 31 agosto 2012, fine dell’anno scolastico, e dice che i ricorrenti avevano maturato un “diritto acquisito e non ancora esercitato”;

inoltre, il Giudice del lavoro di Siena ha accolto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 24 del decreto-legge 201/2011 sollevata dalla Segreteria Nazionale della CISL SCUOLA, perché configgente con gli artt. 2 e 38, 3, 97, 11 e 117 della Cost. e con l’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la Salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle Libertà fondamentali, rimettendo gli atti alla Corte Costituzionale;

Considerato che,

nel corso della discussione sul decreto di proroga termini, è stato accolto dal Governo un ordine del giorno a prima firma dell’interrogante (n. 9/4865-AR/79) che impegna il Governo ad adottare al più presto misure volte a differire al 31 agosto 2012 il termine previsto dalla riforma Fornero per la maturazione dei requisiti con la normativa previgente;

in fase di discussione del Dl n. 95 (noto come Spending review) si è avanzata in entrambi i rami del Parlamento l’opportunità di intervenire al fine di differire al 31 agosto 2012 il termine previsto dalla riforma Fornero che si è però risolta, con l’approvazione del comma 20 bis dell’articolo 14, riconoscendo tale requisito esclusivamente ai docenti in esubero;

un intervento volto a garantire il rispetto della specificità della condizione del personale della scuola e conseguentemente l’equità di trattamento tra tutti i lavoratori in relazione ai requisiti per il pensionamento, consentirebbe anche di incrementare le immissioni di docenti giovani all’interno della scuola, riducendo il precariato e contrastando un’anomalia propria dell’Italia, che risulta essere il Paese dell’Unione europea con la percentuale più alta di insegnanti ultra cinquantenni e quella più bassa di insegnanti al di sotto dei 30 anni;

la “finestra speciale” di cui hanno sempre beneficiato i lavoratori della scuola era comunque legata alla salvaguardia della qualità e continuità del servizio scolastico e per questo non un privilegio di pochi ma un esigenza legata ad un bene comune: l’istruzione dei nostri alunni :-

Se i ministri interrogati non ritengano necessario attivarsi con la massima sollecitudine, anche in virtù dei pronunciamenti da parte di alcuni Giudici del Lavoro italiani, al fine di eliminare tale evidente e iniqua disparità di trattamento riservata ingiustamente ai lavoratori della scuola che inoltre penalizza la qualità scolastica e non garantisce una continuità didattica.

"La Fornero davanti alla Consulta", di Nicola Mondelli

Non si ferma la protesta dei docenti e del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario che si sono visti negare l’accesso alla pensione dal 1 settembre 2012 nonostante che entro il 31 agosto 2012 avrebbero potuto fare valere i requisiti anagrafici e contributivi richiesti dalla normativa previgente l’entrata in vigore dell’art. 24 del decreto legge 201/2011. Il diritto alla cessazione dal servizio a decorrere dal 1 settembre 2012 è già stato riconosciuto dai alcuni giudici del lavoro dei tribunali di Oristano, Torino e Venezia. Con il giudice del lavoro del tribunale di Siena la controversia sulla legittimità costituzionale della disposizione dell’art. 24 del decreto legge, 201/2011 nella parte in cui non consente al personale della scuola di cessare dal servizio con i requisiti anagrafici e contributivi richiesti dalla normativa previgente la data di entrata in vigore del decreto legge (65 anni di età per gli uomini , 61 anni per le donne e non meno di 20 anni di contribuzione per la pensione di vecchiaia; quota 96 0 4 anni di contribuzione per la pensione di anzianità) ancorché maturati nel corso dell’anno scolastico 2011/2012, approda ora dinanzi alla Corte Costituzionale La decisione di trasmettere alla Corte Costituzionale gli atti di un procedimento instaurato da una docente che si era visto negare dall’amministrazione scolastica la domanda di cessazione dal servizio del 1/9/2012, perché non possedeva alla data del 31 dicembre 2011 i predetti requisiti ma li avrebbe maturati entro il 31 agosto 2012, è stata assunta appunto dal giudice del lavoro del tribunale di Siena che ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 24 nella parte in cui non differenzia, con particolare riguardo al
personale della scuola, rispetto alla data del 31 dicembre 2011, il dies ad quem della maturazione dei requisiti pensionistici secondo la normativa previgente. Tra le argomentazioni addotte a supporto della «rilevante e non manifestamente infondata questione di legittimità costituzionale dell’art. 24•, il giudice oltre a ribadire le specificità del settore scolastico, come riconosciuto da una serie di leggi e di decreti ministeriali, nel quale, per garantire il rispetto dell’ordinamento didattico e la continuità dell’insegnamento, la decorrenza del trattamento pensionistico è unicamente quello del 1 settembre, sottolinea l’evidente disuguaglianza di trattamento riservato, in particolare, al personale femminile dipendente dal settore privato dal comma 15-bis del predetto art. 24 rispetto a quello riservato al personale femminile scolastico. La decisione dei giudici costituzionali tiene ora con il fiato sospeso gli oltre 6 mila, tra docenti ed Ata, che appunto entro il 31 agosto 2012 hanno maturato i requisiti anagrafici e contributivi che consentirebbe loro, in caso di decisione favorevole, di andare in pensione a decorrere dal 1 settembre 2013.

da ItaliaOggi 11.09.12

***