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"La Fornero davanti alla Consulta", di Nicola Mondelli

Non si ferma la protesta dei docenti e del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario che si sono visti negare l’accesso alla pensione dal 1 settembre 2012 nonostante che entro il 31 agosto 2012 avrebbero potuto fare valere i requisiti anagrafici e contributivi richiesti dalla normativa previgente l’entrata in vigore dell’art. 24 del decreto legge 201/2011. Il diritto alla cessazione dal servizio a decorrere dal 1 settembre 2012 è già stato riconosciuto dai alcuni giudici del lavoro dei tribunali di Oristano, Torino e Venezia. Con il giudice del lavoro del tribunale di Siena la controversia sulla legittimità costituzionale della disposizione dell’art. 24 del decreto legge, 201/2011 nella parte in cui non consente al personale della scuola di cessare dal servizio con i requisiti anagrafici e contributivi richiesti dalla normativa previgente la data di entrata in vigore del decreto legge (65 anni di età per gli uomini , 61 anni per le donne e non meno di 20 anni di contribuzione per la pensione di vecchiaia; quota 96 0 4 anni di contribuzione per la pensione di anzianità) ancorché maturati nel corso dell’anno scolastico 2011/2012, approda ora dinanzi alla Corte Costituzionale La decisione di trasmettere alla Corte Costituzionale gli atti di un procedimento instaurato da una docente che si era visto negare dall’amministrazione scolastica la domanda di cessazione dal servizio del 1/9/2012, perché non possedeva alla data del 31 dicembre 2011 i predetti requisiti ma li avrebbe maturati entro il 31 agosto 2012, è stata assunta appunto dal giudice del lavoro del tribunale di Siena che ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 24 nella parte in cui non differenzia, con particolare riguardo al
personale della scuola, rispetto alla data del 31 dicembre 2011, il dies ad quem della maturazione dei requisiti pensionistici secondo la normativa previgente. Tra le argomentazioni addotte a supporto della «rilevante e non manifestamente infondata questione di legittimità costituzionale dell’art. 24•, il giudice oltre a ribadire le specificità del settore scolastico, come riconosciuto da una serie di leggi e di decreti ministeriali, nel quale, per garantire il rispetto dell’ordinamento didattico e la continuità dell’insegnamento, la decorrenza del trattamento pensionistico è unicamente quello del 1 settembre, sottolinea l’evidente disuguaglianza di trattamento riservato, in particolare, al personale femminile dipendente dal settore privato dal comma 15-bis del predetto art. 24 rispetto a quello riservato al personale femminile scolastico. La decisione dei giudici costituzionali tiene ora con il fiato sospeso gli oltre 6 mila, tra docenti ed Ata, che appunto entro il 31 agosto 2012 hanno maturato i requisiti anagrafici e contributivi che consentirebbe loro, in caso di decisione favorevole, di andare in pensione a decorrere dal 1 settembre 2013.
da ItaliaOggi 11.09.12
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"Biotestamento, Milano parla all’Italia", di Marilisa D'Amico

La delibera comunale sul registro delle “ultime volontà” è un atto importante e prezioso che mi auguro sia presto discusso in Aula. Siamo di fronte a un tema complesso, che in un passato recente ha diviso violentemente gli italiani. È bene dunque che si trovino argomenti di dialogo e mediazione e si evitino strumentalizzazioni. Perché non aiuterebbe nessuno trasformare il registro in una competizione squisitamente politica.
Se è cominciata nel comune di Milano la discussione sulla istituzione di un registro delle ultime volontà lo si deve alle iniziative popolari dei Radicali e del comitato cittadino Io scelgo. Una raccolta firme che chiedeva, di fronte a un vuoto legislativo, la creazione di uno strumento comunale che offrisse ai cittadini residenti la possibilità di rendere esplicite, alla presenza di un pubblico ufficiale, le volontà da seguire sulle cure nel momento della malattia, soprattutto nel caso di perdita di coscienza. Come è ampiamente noto, e come hanno tragicamente dimostrato i casi di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, in Italia la Costituzione (articolo 32) garantisce a tutti il diritto al rifiuto delle cure per il malato che lo chieda. Ma le certezze giuridiche si fermano di fronte a casi di incoscienza del paziente, di volontà non chiara o non espressa in precedenza dallo stesso e di incertezza della scienza e dei medici: il confine fra dovere di cura e accanimento terapeutico è indefinito. E qui si pone un problema di vuoto normativo che il legislatore italiano non ha colmato. Un vulnus che fece precipitare per giorni il nostro paese in una guerra lacerante. Sulla scelta delle ultime volontà infatti l’Italia, politici e società indistintamente, fu investita da un autentico furore ideologico. Ricordo ancora le dicotomie: il partito della vita contro il partito della morte, il diritto all’autodeterminazione e il dovere di vivere come imperativi assoluti. Si scatenò una battaglia violenta, di opposti valori, non conciliabili. Il tutto a scapito di una discussione sui principi e sulle regole laiche. E a fare le spese di questa guerra cieca furono soprattutto i cittadini, incerti sui loro reali diritti, e anche i medici, stretti fra la responsabilità professionale e i rischi di accanimenti ideologici.
Ho voluto ricordare quei momenti perché non vorrei che quel clima avvelenato ripiombasse su Milano, visto che alla sola notizia del deposito delle delibere di iniziativa popolare e dell’inserimento del tema nel Piano di zona si è già sollevato un vespaio. La discussione sul cosiddetto biotestamento va affrontata: ma per evitare fraintendimenti è bene puntualizzare alcune questioni.
Un primo aspetto che va chiarito è che le competenze comunali sono limitate e diverse da quelle del registro delle unioni civili, che invece regola e garantisce diritti sul piano amministrativo. Il Comune, infatti, non può legiferare, non può incidere sul piano civilistico, non può risolvere, neanche parzialmente, il problema posto dal caso Englaro, sul quale il parlamento italiano non è stato ancora in grado di dare una risposta, ovvero stabilire se la volontà del malato incosciente sia vincolante, in quale forma (scritta, orale, ricavata dallo stile di vita, come dice la Cassazione) e chi possa dare voce a questa volontà. Personalmente credo che queste risposte siano già contenute nei principi costituzionali, nel codice di deontologia medica, nella disciplina normativa sul «consenso informato », nella sentenza della Corte di cassazione del 2007. Da questo quadro emerge anche un compito preciso per il legislatore: il rispetto della persona umana, ma anche la responsabilità profonda del medico che in concreto può misurare la necessità di curare o l’accanimento terapeutico.
Quella comunale è dunque una competenza limitata anche se importante, non a caso supportata da migliaia di firme di cittadini. Importante perché l’istituzione di un luogo pubblico dove depositare i propri intendimenti permette un riconoscimento da parte degli amministratori di un gesto privato e al contempo offre la possibilità per chiunque di poter compiere una dichiarazione e di conservarla nelle forme corrette e utili. Ma altrettanto importante è la nascita di un registro sulle ultime volontà perché crea l’occasione per una discussione “laica” nel consiglio comunale di Milano, istituzione che rappresenta tutti i cittadini. Un dibattito che spero potrà essere un confronto rispettoso tra idee diverse, tenendo presente che la nostra Costituzione fa della volontà di autodeterminazione il carattere più profondo del concetto di persona (articolo 2) e che la stessa Carta, su proposta dell’onorevole Aldo Moro, richiede che i trattamenti sanitari, rifiutabili sempre tranne se previsti per legge, siano «rispettosi» della persona umana, quindi della sua dignità. Infine, un’occasione importante, spero, per creare in città un confronto aperto con la politica e la società civili sui confini fra libertà di cura e accanimento, rispetto delle persone e delle loro, differenti, scelte. Problemi nuovi, dove le conquiste scientifiche ci riaffidano per intero domande profonde sulla nostra natura e sul senso delle scelte individuali, nel nostro vivere insieme.

da EuropaQuotidiano 11.09.12

"Biotestamento, Milano parla all’Italia", di Marilisa D'Amico

La delibera comunale sul registro delle “ultime volontà” è un atto importante e prezioso che mi auguro sia presto discusso in Aula. Siamo di fronte a un tema complesso, che in un passato recente ha diviso violentemente gli italiani. È bene dunque che si trovino argomenti di dialogo e mediazione e si evitino strumentalizzazioni. Perché non aiuterebbe nessuno trasformare il registro in una competizione squisitamente politica.
Se è cominciata nel comune di Milano la discussione sulla istituzione di un registro delle ultime volontà lo si deve alle iniziative popolari dei Radicali e del comitato cittadino Io scelgo. Una raccolta firme che chiedeva, di fronte a un vuoto legislativo, la creazione di uno strumento comunale che offrisse ai cittadini residenti la possibilità di rendere esplicite, alla presenza di un pubblico ufficiale, le volontà da seguire sulle cure nel momento della malattia, soprattutto nel caso di perdita di coscienza. Come è ampiamente noto, e come hanno tragicamente dimostrato i casi di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, in Italia la Costituzione (articolo 32) garantisce a tutti il diritto al rifiuto delle cure per il malato che lo chieda. Ma le certezze giuridiche si fermano di fronte a casi di incoscienza del paziente, di volontà non chiara o non espressa in precedenza dallo stesso e di incertezza della scienza e dei medici: il confine fra dovere di cura e accanimento terapeutico è indefinito. E qui si pone un problema di vuoto normativo che il legislatore italiano non ha colmato. Un vulnus che fece precipitare per giorni il nostro paese in una guerra lacerante. Sulla scelta delle ultime volontà infatti l’Italia, politici e società indistintamente, fu investita da un autentico furore ideologico. Ricordo ancora le dicotomie: il partito della vita contro il partito della morte, il diritto all’autodeterminazione e il dovere di vivere come imperativi assoluti. Si scatenò una battaglia violenta, di opposti valori, non conciliabili. Il tutto a scapito di una discussione sui principi e sulle regole laiche. E a fare le spese di questa guerra cieca furono soprattutto i cittadini, incerti sui loro reali diritti, e anche i medici, stretti fra la responsabilità professionale e i rischi di accanimenti ideologici.
Ho voluto ricordare quei momenti perché non vorrei che quel clima avvelenato ripiombasse su Milano, visto che alla sola notizia del deposito delle delibere di iniziativa popolare e dell’inserimento del tema nel Piano di zona si è già sollevato un vespaio. La discussione sul cosiddetto biotestamento va affrontata: ma per evitare fraintendimenti è bene puntualizzare alcune questioni.
Un primo aspetto che va chiarito è che le competenze comunali sono limitate e diverse da quelle del registro delle unioni civili, che invece regola e garantisce diritti sul piano amministrativo. Il Comune, infatti, non può legiferare, non può incidere sul piano civilistico, non può risolvere, neanche parzialmente, il problema posto dal caso Englaro, sul quale il parlamento italiano non è stato ancora in grado di dare una risposta, ovvero stabilire se la volontà del malato incosciente sia vincolante, in quale forma (scritta, orale, ricavata dallo stile di vita, come dice la Cassazione) e chi possa dare voce a questa volontà. Personalmente credo che queste risposte siano già contenute nei principi costituzionali, nel codice di deontologia medica, nella disciplina normativa sul «consenso informato », nella sentenza della Corte di cassazione del 2007. Da questo quadro emerge anche un compito preciso per il legislatore: il rispetto della persona umana, ma anche la responsabilità profonda del medico che in concreto può misurare la necessità di curare o l’accanimento terapeutico.
Quella comunale è dunque una competenza limitata anche se importante, non a caso supportata da migliaia di firme di cittadini. Importante perché l’istituzione di un luogo pubblico dove depositare i propri intendimenti permette un riconoscimento da parte degli amministratori di un gesto privato e al contempo offre la possibilità per chiunque di poter compiere una dichiarazione e di conservarla nelle forme corrette e utili. Ma altrettanto importante è la nascita di un registro sulle ultime volontà perché crea l’occasione per una discussione “laica” nel consiglio comunale di Milano, istituzione che rappresenta tutti i cittadini. Un dibattito che spero potrà essere un confronto rispettoso tra idee diverse, tenendo presente che la nostra Costituzione fa della volontà di autodeterminazione il carattere più profondo del concetto di persona (articolo 2) e che la stessa Carta, su proposta dell’onorevole Aldo Moro, richiede che i trattamenti sanitari, rifiutabili sempre tranne se previsti per legge, siano «rispettosi» della persona umana, quindi della sua dignità. Infine, un’occasione importante, spero, per creare in città un confronto aperto con la politica e la società civili sui confini fra libertà di cura e accanimento, rispetto delle persone e delle loro, differenti, scelte. Problemi nuovi, dove le conquiste scientifiche ci riaffidano per intero domande profonde sulla nostra natura e sul senso delle scelte individuali, nel nostro vivere insieme.
da EuropaQuotidiano 11.09.12

"Il Paese che non ha imparato a prendersi cura della scuola" di Gian Arturo Ferrari

Consiglia, un amico psicoanalista, di guardare le cose «da un ramo più alto». Non dal più alto, dalla vetta, ma insomma provare un po’ a salire. Parla, ovviamente, del suo mestiere e si riferisce dunque ai travagli interiori. Ma il metodo (meno semplice di quel che sembri) si presta a interessanti applicazioni. Per esempio alla scuola, alla politica scolastica, all’istruzione, pubblica e no, alla formazione, a tutto quel malinconico viluppo di problemi che ogni settembre torna di attualità insieme con il rituale allarme sul peso dei libri che ingobbisce i bambini. Ora, arrampicandosi un po’ su questo tronco e mettendo la testa fuori dal fogliame si vede, nudo e crudo, il nodo fondamentale e insieme il bandolo dell’intera matassa. E cioè che istruzione e formazione non sono mai stati e continuano a non essere la priorità della politica nazionale. O, per meglio dire, della politica nazionale nell’Italia repubblicana.
All’indomani dell’Unità infatti, con un Paese di ventidue milioni di abitanti, più di tre quarti dei quali analfabeti, l’istruzione fu la priorità o una delle priorità. Per la semplice ragione che era in gioco appunto l’unità nazionale e l’istruzione era il collante necessario. Da qui l’epopea, tutta italiana, dei maestri e delle maestre, celebrata sia in letteratura sia nel comune sentire. Ma anche per il fascismo, che pensava l’Italia come grande potenza e voleva dotarla di una classe dirigente adeguata, l’istruzione fu una priorità, messa coerentemente in pratica dalla formidabile riforma Gentile e imperniata non più sul maestro (ma Mussolini lo era…), bensì sul professore di liceo.
L’Italia repubblicana, uscita distrutta dalla guerra, ha avuto altre impellenti urgenze: la collocazione internazionale e la ricostruzione, politica estera ed economia; sull’istruzione si poteva rimandare e intanto tirare avanti. Tant’è che la più grande azione formativa del dopoguerra, l’unificazione linguistica del Paese, fu attuata, al di fuori della scuola, dalla televisione. Intorno alla scuola invece, si sono condotte guerre di trincea sorde e parziali, in difesa da parte dei cattolici (che identificano ambiguamente istruzione ed educazione) della scuola privata e da parte della sinistra in difesa del personale, docente e non, ma più non che docente, badando soprattutto alla quantità piuttosto che alla qualità. (Giacché a nessuno sfugge che vi sono qui in ballo alcuni bei milioni di voti). Con il risultato di ottenere oggi per gli insegnanti una posizione economica e sociale insostenibile e umiliante.
Nel frattempo un vorticare di riformine e riformette, di grandi cambiamenti di nome, di belle trovate da parte dei ministri: i crediti, le tre «I», le lavagne luminose, i certami. Tutte egregie persone, i ministri, per carità, ma tutti sconsolatamente ciechi di fronte a quel che stava e sta avvenendo sotto i loro occhi. E cioè in primo luogo una radicale trasformazione dell’idea di ricchezza, dall’essere fatta di cose all’essere fatta di teste e di ciò che queste teste contengono. Sicché, a proposito di cambiar nomi, si potrebbe passare da ministero della Pubblica istruzione a ministero del Capitale nazionale. E in secondo luogo il fatto che istruzione e formazione non sono più una fase, un delimitato periodo, nella vita di un individuo, ma una funzione costante, che trasforma la vita stessa in apprendimento permanente.
Per tradurre tutto questo in pratica non basta biascicare le giaculatorie «società della conoscenza» e «protocollo di Lisbona»: occorre inventiva, fantasia concreta e prima ancora gusto della realtà. Occorrono le virtù specifiche della politica, quella vera. Che oggi mancano non perché il governo è tecnico (è al contrario politicissimo), ma perché, come nel dopoguerra, è un governo di ricostruzione e ha quindi un’altra priorità. Le avranno, queste virtù, i partiti che tra qualche mese si candideranno alla guida del Paese? Sapranno porre istruzione e formazione come vera priorità?

Il Corriere della Sera 11.09.12

"Il Paese che non ha imparato a prendersi cura della scuola" di Gian Arturo Ferrari

Consiglia, un amico psicoanalista, di guardare le cose «da un ramo più alto». Non dal più alto, dalla vetta, ma insomma provare un po’ a salire. Parla, ovviamente, del suo mestiere e si riferisce dunque ai travagli interiori. Ma il metodo (meno semplice di quel che sembri) si presta a interessanti applicazioni. Per esempio alla scuola, alla politica scolastica, all’istruzione, pubblica e no, alla formazione, a tutto quel malinconico viluppo di problemi che ogni settembre torna di attualità insieme con il rituale allarme sul peso dei libri che ingobbisce i bambini. Ora, arrampicandosi un po’ su questo tronco e mettendo la testa fuori dal fogliame si vede, nudo e crudo, il nodo fondamentale e insieme il bandolo dell’intera matassa. E cioè che istruzione e formazione non sono mai stati e continuano a non essere la priorità della politica nazionale. O, per meglio dire, della politica nazionale nell’Italia repubblicana.
All’indomani dell’Unità infatti, con un Paese di ventidue milioni di abitanti, più di tre quarti dei quali analfabeti, l’istruzione fu la priorità o una delle priorità. Per la semplice ragione che era in gioco appunto l’unità nazionale e l’istruzione era il collante necessario. Da qui l’epopea, tutta italiana, dei maestri e delle maestre, celebrata sia in letteratura sia nel comune sentire. Ma anche per il fascismo, che pensava l’Italia come grande potenza e voleva dotarla di una classe dirigente adeguata, l’istruzione fu una priorità, messa coerentemente in pratica dalla formidabile riforma Gentile e imperniata non più sul maestro (ma Mussolini lo era…), bensì sul professore di liceo.
L’Italia repubblicana, uscita distrutta dalla guerra, ha avuto altre impellenti urgenze: la collocazione internazionale e la ricostruzione, politica estera ed economia; sull’istruzione si poteva rimandare e intanto tirare avanti. Tant’è che la più grande azione formativa del dopoguerra, l’unificazione linguistica del Paese, fu attuata, al di fuori della scuola, dalla televisione. Intorno alla scuola invece, si sono condotte guerre di trincea sorde e parziali, in difesa da parte dei cattolici (che identificano ambiguamente istruzione ed educazione) della scuola privata e da parte della sinistra in difesa del personale, docente e non, ma più non che docente, badando soprattutto alla quantità piuttosto che alla qualità. (Giacché a nessuno sfugge che vi sono qui in ballo alcuni bei milioni di voti). Con il risultato di ottenere oggi per gli insegnanti una posizione economica e sociale insostenibile e umiliante.
Nel frattempo un vorticare di riformine e riformette, di grandi cambiamenti di nome, di belle trovate da parte dei ministri: i crediti, le tre «I», le lavagne luminose, i certami. Tutte egregie persone, i ministri, per carità, ma tutti sconsolatamente ciechi di fronte a quel che stava e sta avvenendo sotto i loro occhi. E cioè in primo luogo una radicale trasformazione dell’idea di ricchezza, dall’essere fatta di cose all’essere fatta di teste e di ciò che queste teste contengono. Sicché, a proposito di cambiar nomi, si potrebbe passare da ministero della Pubblica istruzione a ministero del Capitale nazionale. E in secondo luogo il fatto che istruzione e formazione non sono più una fase, un delimitato periodo, nella vita di un individuo, ma una funzione costante, che trasforma la vita stessa in apprendimento permanente.
Per tradurre tutto questo in pratica non basta biascicare le giaculatorie «società della conoscenza» e «protocollo di Lisbona»: occorre inventiva, fantasia concreta e prima ancora gusto della realtà. Occorrono le virtù specifiche della politica, quella vera. Che oggi mancano non perché il governo è tecnico (è al contrario politicissimo), ma perché, come nel dopoguerra, è un governo di ricostruzione e ha quindi un’altra priorità. Le avranno, queste virtù, i partiti che tra qualche mese si candideranno alla guida del Paese? Sapranno porre istruzione e formazione come vera priorità?
Il Corriere della Sera 11.09.12

"Nuovi concorsi universitari, la valutazione è fai-da-te", Luciano Mecacci

C’è scarsa atteenzione sulla stampa e nell’opinione pubblica sui gravi problemi che stanno emergendo dopo la pubblicazione a metà agosto dei nuovi criteri da adottare per valutare nei prossimi concorsi per professore universitario sia chi aspira a essere membro della commissione esaminatrice sia chi si candida al passaggio da ricercatore a professore associato o da associato a professore ordinario. Solo l’Unità nell’articolo di Mario Castagna ha fatto riferimento al possibile accoglimento da parte del Tar Lazio del ricorso subito presentato dall’Associazione Italiana dei Costituzionalisti in merito ai parametri (in particolare, le mediane) che avrebbero dovuto imprimere una svolta al sistema di valutazione della ricerca scientifica nel nostro Paese (anche ai fini della progressione nella carriera dei docenti universitari) e che invece si stanno dimostrando un nuovo pasticcio.

Al di là della fondatezza dei valori statistici introdotti, vanno messi in evidenza tre aspetti generali di questo cosiddetto nuovo sistema che dimostra quanto invece esso conservi vecchie impostazioni. In primo luogo, permane una gerarchia nei tre gradi della carriera universitaria rispetto al valore internazionale della produzione scientifica che è inverosimile: secondo il Dm del 7.6.2012 n. 76 per divenire professore ordinario bisogna avere prodotto «risultati di rilevante qualità e originalità, tali da conferire una posizione riconosciuta nel panorama anche internazionale della ricerca»; invece per divenire professore associato i risultati devono essere tali «da conferire una posizione riconosciuta nel panorama almeno nazionale della ricerca». Quindi scendendo dall’«anche internazionale» all’«almeno nazionale», ci si domanda poi se a un dottore di ricerca che aspiri a diventare ricercatore si chiederanno risultati «almeno regionali o provinciali».

Ci si aspettava che qualsiasi risultato scientifico, al di là del grado burocratico di carriera di chi lo ha prodotto, dovesse avere sempre un valore internazionale. Comunque (secondo punto) lo stile commissione-di-una-volta resta garantito dalla frase finale del documento ministeriale che spiega i criteri di valutazione: «Il superamento del numero richiesto di mediane non è affatto una condizione sufficiente per ottenere l’abilitazione, concorrendo alla valutazione finale il giudizio delle commissioni su una serie di criteri e parametri».

Poiché non risulta che questi «criteri e parametri» (la condizione necessaria, ahimè) siano quantificabili, siamo punto e a capo: a parità o quasi di valori numerici, tra il candidato A e il candidato B chi sarà scelto? Infine, il pezzo più forte è l’autoreferenzialità della valutazione. Si è scritto che sono stati adottati riferimenti internazionali. È vero solo a metà. Per ogni area scientifica è stato calcolato il numero delle pubblicazioni negli ultimi dieci anni, certamente su quali riviste internazionali di prestigio o no, ecc., ma all’interno del gruppo relativo dei docenti italiani (ripeto: italiani).

Quindi un commissario X o un candidato Y sono giudicati non su parametri internazionali in assoluto, ma relativamente a quanto produce il loro gruppo di colleghi italiani. Quindi X e Y possono risultare bravissimi perché la maggior parte dei colleghi di una settantina di atenei italiani è mediocre sul piano della produzione, ma ciò non significa che X e Y potrebbero mantenere il loro primato se fossero confrontati con i colleghi stranieri.

Immaginiamoci cosa succederà (lasciamo per- dere cosa è già successo nella storia dell’università italiana) in quei settori dove oggi la mediana è risultata 0 (non è un refuso). In breve siamo stati di nuovo molto originali, creando un modello di valutazione scientifica unico al mondo: internazionale sì, ma tra di noi.

Già professore ordinario e prorettore dell’Università di Firenze

L’Unità 11.09.12

"Nuovi concorsi universitari, la valutazione è fai-da-te", Luciano Mecacci

C’è scarsa atteenzione sulla stampa e nell’opinione pubblica sui gravi problemi che stanno emergendo dopo la pubblicazione a metà agosto dei nuovi criteri da adottare per valutare nei prossimi concorsi per professore universitario sia chi aspira a essere membro della commissione esaminatrice sia chi si candida al passaggio da ricercatore a professore associato o da associato a professore ordinario. Solo l’Unità nell’articolo di Mario Castagna ha fatto riferimento al possibile accoglimento da parte del Tar Lazio del ricorso subito presentato dall’Associazione Italiana dei Costituzionalisti in merito ai parametri (in particolare, le mediane) che avrebbero dovuto imprimere una svolta al sistema di valutazione della ricerca scientifica nel nostro Paese (anche ai fini della progressione nella carriera dei docenti universitari) e che invece si stanno dimostrando un nuovo pasticcio.
Al di là della fondatezza dei valori statistici introdotti, vanno messi in evidenza tre aspetti generali di questo cosiddetto nuovo sistema che dimostra quanto invece esso conservi vecchie impostazioni. In primo luogo, permane una gerarchia nei tre gradi della carriera universitaria rispetto al valore internazionale della produzione scientifica che è inverosimile: secondo il Dm del 7.6.2012 n. 76 per divenire professore ordinario bisogna avere prodotto «risultati di rilevante qualità e originalità, tali da conferire una posizione riconosciuta nel panorama anche internazionale della ricerca»; invece per divenire professore associato i risultati devono essere tali «da conferire una posizione riconosciuta nel panorama almeno nazionale della ricerca». Quindi scendendo dall’«anche internazionale» all’«almeno nazionale», ci si domanda poi se a un dottore di ricerca che aspiri a diventare ricercatore si chiederanno risultati «almeno regionali o provinciali».
Ci si aspettava che qualsiasi risultato scientifico, al di là del grado burocratico di carriera di chi lo ha prodotto, dovesse avere sempre un valore internazionale. Comunque (secondo punto) lo stile commissione-di-una-volta resta garantito dalla frase finale del documento ministeriale che spiega i criteri di valutazione: «Il superamento del numero richiesto di mediane non è affatto una condizione sufficiente per ottenere l’abilitazione, concorrendo alla valutazione finale il giudizio delle commissioni su una serie di criteri e parametri».
Poiché non risulta che questi «criteri e parametri» (la condizione necessaria, ahimè) siano quantificabili, siamo punto e a capo: a parità o quasi di valori numerici, tra il candidato A e il candidato B chi sarà scelto? Infine, il pezzo più forte è l’autoreferenzialità della valutazione. Si è scritto che sono stati adottati riferimenti internazionali. È vero solo a metà. Per ogni area scientifica è stato calcolato il numero delle pubblicazioni negli ultimi dieci anni, certamente su quali riviste internazionali di prestigio o no, ecc., ma all’interno del gruppo relativo dei docenti italiani (ripeto: italiani).
Quindi un commissario X o un candidato Y sono giudicati non su parametri internazionali in assoluto, ma relativamente a quanto produce il loro gruppo di colleghi italiani. Quindi X e Y possono risultare bravissimi perché la maggior parte dei colleghi di una settantina di atenei italiani è mediocre sul piano della produzione, ma ciò non significa che X e Y potrebbero mantenere il loro primato se fossero confrontati con i colleghi stranieri.
Immaginiamoci cosa succederà (lasciamo per- dere cosa è già successo nella storia dell’università italiana) in quei settori dove oggi la mediana è risultata 0 (non è un refuso). In breve siamo stati di nuovo molto originali, creando un modello di valutazione scientifica unico al mondo: internazionale sì, ma tra di noi.
Già professore ordinario e prorettore dell’Università di Firenze
L’Unità 11.09.12